Hannah Arendt e Ágnes Heller e la dimensione estetica del soggetto morale
p. 221-228
Texte intégral
1La mia riflessione sul soggetto morale e la sua collocazione in un ambito etico-politico che si intreccia con quello estetico si articola a partire dalle modalità con cui Arendt ha affrontato il problema appoggiandosi al pensiero di Kant.
2Se il punto di partenza di buona parte della riflessione etica contemporanea è il fallimento del pensiero di fronte all’urgenza storica, Arendt ne ha aperto la strada con una rilettura della tradizione speculativa dell’Occidente che ha sancito il primato della theoria sulla praxis1, mentre la sua critica radicale della tradizione filosofica si autocostituisce come un’analisi dell’impoliticità costitutiva della filosofia occidentale, cioè di quella distanza tra attività di pensiero e mondo che è sfociata nell’impoliticità del pensiero.
3Arendt ha tentato di affrontare i problemi con cui il soggetto morale si sta oggi confrontando: la biopolitica, la superfluità della vita umana, la spersonalizzazione prodotta dalla società di massa, l’irresponsabilità organizzata e se nella riflessione sul Chi noi siamo tiene sullo sfondo il pensiero di Kant assumendo come centrale la concezione della dignità morale dell’uomo in quanto fine in sé, la convergenza con Kant si intreccia anche con il valore del «pensare da sé», con il «rendere conto», con quel logon didonai che risale a Platone.
4La consapevolezza da cui muove per affrontare l’Etica è che per cogliere l’unicità non possiamo avvalerci del giudizio determinante ma dobbiamo affidarci al pensiero riflessivo, per lasciarla aperta e per innescare il processo inesauribile della ‘comprensione’ che in ambito etico-politico come in quello estetico si affida a una modalità extrametodica. Là dove è dato solo il particolare e devo giudicare questo particolare buono o cattivo, bello o brutto, posso sollecitare il consenso degli altri e fare appello a quel “senso comunitario” che ci colloca nella dimensione delle relazioni plurali dello spazio pubblico e – come nella distinzione aristotelica la sophia trascende il senso comune mentre la phronesis trova le sue radici in esso – l’atto del giudicare con la sua funzione di custodire si presenta come l’attività nella quale si manifesta il nostro condividere il mondo con gli altri.
5L’interpretazione della terza Critica di Kant, letta come un tentativo di fondare una filosofia politica basata sul modello del giudizio estetico, si snoda a partire dal radicarsi della facoltà del giudizio nel senso stesso della dignità umana e, di fronte alla possibilità di sospendere il giudizio, Arendt ribadisce che senza i giudizi che rendono intelligibile il mondo lo spazio delle apparenze collasserebbe mentre è proprio l’incapacità di pensare e giudicare – di cui Eichmann è diventato simbolo – che priva il mondo di senso2. Il giudizio politico viene assimilato al giudizio estetico grazie al risalto dato alla ‘socievolezza’ e alla ‘pluralità umana’ e proprio in quanto il giudizio non è una facoltà cognitiva e non può essere fondato su una concezione tecnica della ragione, Arendt si rivolge all’Estetica come a un modello per il giudizio politico, riflettendo sulle profonde affinità tra arte e politica in quanto sia la Politica che l’Estetica sono modi di giudicare le apparenze: nella dimensione “estetica” e nella qualità “esemplare” del giudizio riflettente va ricercato il nesso tra ‘universalità’ e ‘pluralismo’3. Il giudizio – la facoltà né soggettiva né oggettiva ma intersoggettiva con la quale possiamo dare al mondo un senso – diventa lo strumento caratterizzante il soggetto morale e viene definito da Arendt la più politica delle attività mentali umane, mentre ciò che unisce arte e politica è che entrambe sono fenomeni del mondo pubblico. Rileggendo la contiguità tra oggetti estetici e fatti storico-politici e l’affinità tra Estetica e Morale alla luce del pensiero di Kant, Arendt ci consente di ritornare a quelle radici del pensiero occidentale che ha da sempre sentito e pensato il bello unito al bene.
6In sintonia con queste sensibilità, la recente riflessione di Heller ritorna al legame tra Etica ed Estetica a partire dalla tesi indimostrabile di Socrate – del resto ampiamente frequentata da Arendt – secondo la quale «è meglio subire un torto che commetterlo» ripensando al rapporto tra moralità e verità4. La bellezza della persona buona viene accostata da Heller non tanto muovendo dalla concezione classica dell’armonia e del controllo della ragione sulle passioni, ma a partire dall’idea della ricerca di un “accordo” problematico con le componenti contrastanti di noi stessi, con quell’alterità con cui il soggetto vive in sé non meno che con gli altri quando si pone la questione della “scelta” morale, quando cioè decide di “scegliersi” come «persona retta e onesta». L’apertura alla dimensione dell’Altro si modula, con un chiaro riferimento a Lévinas, in una «scelta di se stessi», nell’offerta del proprio volto e nell’accettazione che le alterità in noi e nell’Altro possano trovarsi in un “accordo”. Ciò comporta il pensare a una “visibilità” delle azioni morali che risulta contigua con la relazione contemplativa dell’apprezzamento estetico e che risuona degli echi che la riflessione arendtiana intorno ai modi dell’apparire, dello spettacolo e dello spettatore giudicante hanno prodotto.
7Tenendo sullo sfondo l’itinerario teorico che la conduce a staccarsi dal paradigma interpretativo della “Grande Narrazione” marxista e a ripensare la teoria dei bisogni, assumerò come punto di irradiamento della riflessione di Heller il suo stesso riferimento a Wittgenstein di cui cita: «L’etica deve essere una condizione del mondo, come la logica».
8Nell’accogliere la proposizione, Heller non la riconduce tanto alla posizione kantiana dell’etica come dovere ma la interpreta nella sua dimensione fattuale, «come una semplice affermazione empirica: quella per cui un mondo senza etica non esiste, così come non esiste un mondo senza logica. Questa è l’affermazione che io sottoscrivo. L’etica è la condizione del mondo»5.
9Il concetto di ‘mondo’ viene a connotarsi come il luogo del significato che esso è andato assumendo a partire dalla regolazione sociale di norme e regole che ha sostituito la regolazione istintuale e in esso la ‘distinzione’ tra bene e male risulta fondativa in quanto ne è la condizione.
È impossibile immaginare la vita umana senza la categoria primaria di orientamento rispetto al valore. È impossibile immaginare un mondo senza persone che possano soffermarsi ad immaginare un mondo. Ci si sofferma su un mondo di bene e di male. È impossibile soffermarsi su qualsiasi altro mondo6.
A fianco dell’attenzione alla dimensione della storicità umana, il pensiero etico di Heller risuona di un ideale di filosofia il cui destinatario è l’«uomo che cerca la verità» e «il filosofo e la sua comunità» si configurano come partecipanti a una ‘discussione filosofica’ nella quale ognuno apprezza nell’altro un rappresentante dell’umanità e diventa non solo il concreto tentativo di «dare delle norme al mondo» ma anche di «dare alla norma un mondo» perché secondo Heller «esistono bisogni radicali oggi non esplicitabili senza filosofia»7.
10Significa porsi in ascolto di un invito che è rivolto a ogni essere umano: «Venite, vogliamo pensare insieme, vogliamo cercare insieme la verità» in quanto la filosofia con la morale vuole dare una norma al ‘mondo’ è nostalgia di un ‘mondo’ in cui trovare la sua patria8. Il tema dell’ultima Arendt della politica intesa nel suo porre al centro la ‘cura’ per il mondo e del fare del ‘mondo’ la nostra dimora9 si colora di un radicalismo che anche in Heller assume le sembianze di un “bisogno” di filosofia in grado di rivolgersi alla facoltà della ‘comprensione’ di un’umanità pensata come comunità di esseri che nella «discussione razionale» si comprendono.
11Il tentativo è quello di tematizzare un’antropologia in grado di indagare non l’ideale del genere ma la natura sociale dell’uomo per allestire una nuova antropologia da contrapporre a quella di Hobbes10.
12La ‘comunità’ alla quale si rivolge Heller incarna un ideale di discussione filosofica il cui modello non è quello del consenso totale né quello che rende impossibile la contrapposizione tra valori veri. E là dove ripete: «Non voglio che ci sia solo un’interpretazione di Amleto “vera”, oppure che ci sia solo una forma di vita “buona”», appare come i “valori guida” a cui richiamarsi – quelli della libertà, della comunità e della personalità – esprimono forti istanze di pluralismo antitotalitario che riconducono all’accettazione della ‘comprensione fraintendente’, non solo quindi a Gadamer e al suo intendere la comprensione come «mediazione intellettuale con la vita presente», ma anche a Lukács per cui «ogni comprendere è un malinteso».
13Si tratta nella discussione filosofica di valore di assumersi la responsabilità per una ricerca che ci guidi verso i valori del ‘Vero’, del ‘Bene’ e del ‘Bello’ e per essa non basta la «situazione linguistica ideale» di Habermas, occorre che si attui in una società già fondata su rapporti simmetrici in quanto in società dove valgono rapporti di subordinazione e di dominio, la razionalità non viene mai pensata rispetto al valore ma rispetto al fine e in esse il sapere specialistico ha sempre il peso decisivo11. Il richiamo ai “valori guida” della prassi è ricondotto allo stesso Kant che ha messo in guardia dal guardare «con occhi di talpa fissi nell’esperienza» all’ambito della morale: riducendo il ‘Vero’ ai giudizi di fatto, spezzettando i linguaggi e i discorsi, considerando i fatti come indipendenti dai valori – secondo la modalità di procedere delle scienze della natura – la filosofia contemporanea si è trovata schiacciata da una ideologia che ci propone l’«utopia negativa» di un’umanità atomizzata e estraniata, dominata dalla «quantificabilità» ed eterodiretta da «specialisti». Nel suo richiamo forte alla «verità dei valori» si colloca la distanza da quella filosofia che ha fatto della scienza un ‘mito’ e si apre un percorso di ricerca per un ideale filosofico che riesca a farsi carico dello “scandalo della filosofia”.
14L’interrogazione helleriana intorno al comportamento morale riconosce il suo debito nei confronti di Arendt anche là dove, sancita l’impossibilità di definire la nozione di ‘natura umana’ per il suo carattere polimorfo e carico di stratificazioni culturali, cerca di dipanarne il senso a partire dal concetto di ‘condizione umana’ interpretandola come ‘retroterra ontologico’ per rispondere alla domanda: «Come sono possibili le persone buone?»12.
15Se la riflessione sulla condizione umana, il risultato della regolazione sociale, si radica nell’Etica che è la ‘condizione del mondo’, essa incontra la moralità nelle ‘persone’ concrete che “incarnano”, in quanto le mettono in pratica, le norme di una data comunità e anche se esistono diversi tipi di bontà, noi “riconosciamo” le persone buone intorno a noi e per esse proviamo un’“empatia immediata”. Infatti anche se le norme e le virtù sono cambiate il «criterio della moralità buona è sempre lo stesso» e mentre è così difficile individuare una formula con cui definire l’essenza del ‘male’, la ‘bontà’ può essere definita attraverso una formula generale che ne coglie la forma essenziale, cioè la sua “struttura”.
Dobbiamo questa definizione a Platone, e se spogliamo tutte le idee successive di bontà del loro contenuto normativo sempre mutevole, ci rendiamo immediatamente conto che la forma della bontà (o della moralità) non è cambiata da allora. Una persona è buona se preferisce soffrire un torto, piuttosto che commetterlo. Ogni persona che si attiene a questa definizione formale è buona13.
E anche se di questa tesi non può essere data una dimostrazione razionale – Platone dovette appoggiarsi a un paradosso morale e Kant far ricorso alla fede – Heller ribadisce la verità della sua premessa:
Io credo che questa premessa sia vera; questa è la mia professione di fede […] E ci sono davvero persone che preferiscono soffrire un torto piuttosto che commetterlo. Noi tutti lo sappiamo. L’affermazione si riferisce a un’evidenza empirica14.
La domanda che ricorre è alla base del presupposto che «È il bene, non il male, che richiede una spiegazione» mentre, confrontandosi con la questione della ‘responsabilità’ afferma che coloro che danno inizio a crimini collettivi si assumono una «responsabilità storico-mondiale», una «responsabilità enorme» per il Male.
Ma quelle poche persone che si assumono la responsabilità storico mondiale per il Bene, e che nei tempi bui non permettono che la luce della moralità venga spenta, prestano questo servizio immortale al mondo che verrà dopo di loro e grazie a ciò, anche le colpe non gravi, di coloro che hanno assistito senza intervenire, possono essere perdonate e dimenticate15.
La filosofia morale di Kant, afferma Heller, tenta di eliminare il “dilemma della morale” quando esclude l’azione dall’etica e riconduce i doveri concreti all’obbedienza a un ‘Dovere’. Arendt ne è stata ben consapevole quando, nel valorizzare della Critica del Giudizio i temi etico-estetici della ‘comunicabilità’, della ‘pubblicità’, del ‘tener conto degli altri’ e del ‘modo di pensare allargato’, necessari per esercitare il punto di vista generale, sottolinea che essi rappresentano il punto di vista del Weltbetrachter kantiano, un «osservatorio da cui guardare» che non ci fornisce indicazioni su come agire16.
16L’“utopia razionale” a cui guarda Heller si rivolge a una ‘comunità’ che incarna una morale che si colloca «oltre il dovere» definita un’«etica della personalità e della bontà, mentre della vita buona» afferma: «La giustizia rappresenta l’ossatura: la vita buona la carne e il sangue»17.
17Nel sottolineare l’importanza dei sentimenti e delle emozioni in ambito morale, la sua indagine storico-ricostruttiva si rivolge ai passi incerti che la seconda struttura della morale – quella in cui si colloca il soggetto moderno – sta muovendo e scorge come «ciò che costituisce propriamente la ragion pratica emerge accompagnato da un accresciuto livello di attività emotiva concernente le questioni morali» segnalandoci così l’apparire dell’«emozione morale» decisiva nella «coscienza», un’autorità morale interiore che regola l’azione e il giudizio.
18Traspare nel testo helleriano la consapevolezza dell’impossibilità di un ethos forte, un metaethos vincolante per gli uomini e le donne della modernità che hanno assistito all’affermazione della scienza come visione dominante del mondo, che si è rivelata però incapace di fondare un ethos comune e inadeguata a fornire significato “per la vita” ma ha frantumato le sfere dell’esistenza umana in differenti e specifici sistemi normativi. Richiamandosi al potere e alla funzione dell’‘azione’ e del ‘discorso’, così cari a Arendt, Heller vede come nell’Occidente democratico i valori di un ethos “debole” siano comunque presenti e vivi, un ethos pubblico e condiviso che rifiuta il razzismo e si esprime per i diritti umani, un ethos “transfunzionale” che è in grado di applicarsi a tutte le ‘sfere’ senza mettere in discussione le loro specificità.
19E se è vero che la «bontà è oltre la giustizia», «la giustizia ha sempre una componente morale, la bontà di una persona comprende la virtù della giustizia», pur affermando di non poter seguire un sistema morale metafisico che divide homo phaenomenon e homo noumenon, ne assume il punto di partenza:
Il sistema metafisico ha anche connotazioni non metafisiche. Il punto di partenza di Kant è che gli uomini buoni esistono. La loro buona volontà risplende come un gioiello. Ho accettato il punto di partenza che uomini e donne buoni esistono. Ho dovuto accettarlo, poiché nessuna filosofia morale ha senso senza questa ipotesi.18
Il modello morale di Heller, orientato verso quello che chiama «un concetto etico-politico incompleto di giustizia», tenta di stabilire «una fondazione normativa comune per modi di vita diversi» e forse può essere sintetizzata nella formula «Una persona buona ha cura degli altri»19 e ci propone un’‘etica della personalità’ nella quale la moralità e la sua bellezza – ancorate all’inoppugnabile esistenza delle persone buone – sembrano ricondotte al “fatto della ragione” ma modulate, a partire dall’eredità kantiana e dalla riflessione arendtiana, nella prospettiva della ricerca del centro morale dove si gioca – nel tentativo di avvicinarsi ad esso – sia il fondamento della morale che l’autonomia e la dimensione della responsabilità del soggetto morale moderno.
Notes de bas de page
1 H. Arendt, Vita activa, trad. it. S. Finzi, Milano, Bompiani, 1964.
2 Id., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 1964.
3 Id., Responsabilità e giudizio, a cura di J. Kohn, trad. it D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2004; Id., Teoria del giudizio politico, trad. it P.P. Portinaro, Genova, il Melangolo, 1990. Mi permetto di segnalare O. Crotti, Hannah Arendt. La passione del pensare, Mantova, Tre Lune Edizioni, 2004 e Id., La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant, Milano, Mimesis, 2010.
4 Á. Heller, La bellezza della persona buona, trad. it. a cura di B. Biagiotti, Reggio Emilia, Diabasis, 2009.
5 Id., Etica generale, trad. it. M. Geuna, Bologna, il Mulino, 1994, p. 81.
6 Ivi, p. 82.
7 Id., La filosofia radicale, trad. it. L. Boella, Milano, il Saggiatore, 1979, p. 111.
8 Ivi, p. 112.
9 H. Arendt, Che cos’è la politica?, trad. it. M. Bistolfi, Milano, Edizioni di Comunità, 1995.
10 Á. Heller, La filosofia radicale, cit., pp. 52, 83.
11 Ivi, pp. 84-85, dove Heller specifica che, pur aderendo alla concezione di Apel e Habermas delle “comunità ideali della comunicazione”, non può trovarsi d’accordo con un modello che basa la verità dei valori su un “consenso vero” identificato con un consenso completo anche perché il consenso di per sé non può essere il criterio della verità dei valori ed è necessario postulare i valori guida sui quali esiste consenso prima della discussione.
12 Cfr. Á. Heller, Per un’antropologia della modernità, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009, p. 32, dove l’autrice afferma che del concetto heideggeriano di Dasein «intraducibile in altre lingue – la migliore traduzione è forse quella proposta da Hannah Arendt: condizione umana».
13 Id., Etica generale, cit., p. 291. Confrontandosi con il tema arendtiano della “banalità del male” afferma che la forza del ‘male’ ha sempre avuto una relazione col ‘potere’ della conoscenza o della carica politica e che il malvagio, esercitando «un piacere sadico, quasi estetico», è colui per il quale l’orrore di distruggere le norme diventa attraente; Heller sostiene che Eichmann “divenne” banale di fronte alla Corte di Gerusalemme perché aveva perso il ‘potere’ che costituisce il ‘male’: «La maggior parte delle persone malvagie diventano banali, una volta venuto meno il loro potere»: in ciò consisterebbe la soluzione dell’«enigma della “banalità del male”».
14 Ivi, p. 292. Cfr. H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, trad. it D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2006, p. 28, dove leggiamo: «È un problema che troviamo già in Socrate. Quando questi dice che è meglio patire il male piuttosto che farlo, compie un’affermazione che a suo avviso è dettata dalla ragione, e il problema è stato sin da allora che questa affermazione non può essere provata».
15 Á. Heller, Etica generale, cit., p. 155. Questa posizione risulta affine a quella di Arendt, quando essa afferma: «quella gente comune che, di fronte all’orrore dei crimini legalizzati della Germania nazista, disse semplicemente “non posso”, non seguì l’obbligazione del “Tu devi”, ma un’altra autoevidenza o verità». Vedi H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 36.
16 H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 35. La consapevolezza dei rischi che comporta per il ‘mondo’ la facoltà dell’azione, l’incontrollabilità e la “smodatezza” dei suoi esiti si modula nel pensiero della Arendt nel ‘miracolo’ dell’azione che si radica nel principio della natalità mentre la «redenzione possibile dall’aporia della irreversibilità» è trovata nel potere della promessa e nella facoltà del perdonare. Id., Vita activa, cit., pp. 175-182.
17 Á. Heller, Oltre la giustizia, trad. it. S. Zani, Bologna, il Mulino, 1990.
18 Id., La bellezza della persona buona, cit., p. 123.
19 Id., Filosofia morale, trad. it. R. Scognamiglio, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 71-80. Nell’esporre i caratteri della persona buona, Heller, non senza ironia, afferma: «Heidegger ha inventato la bella metafora del “pastore dell’Essere”. Essa ha secondo me questo significato: chiunque sia nato in questo mondo ha il compito di prendersene cura. Il mondo è lasciato alla cura degli esseri umani».
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