Paul Ricœur: dall’azione al sé
p. 171-178
Texte intégral
Im Anfang war die Tat
Goethe, Faust
Preambolo
1Sono diversi gli aspetti della filosofia di Paul Ricœur che si frappongono a ostacolo in una trattazione in chiave psicologica – quale intendo svolgere qui – della ricca e complessa teoria dell’homme capable da lui messa a punto nell’opera del 1990 Soi-même comme un autre e riproposta, dopo il passaggio per La memoire, l’histoire, l’oubli (2000), nel Parcours de la reconnaissance del 2004 – libro edito appena un anno prima della morte. Anzitutto, la dispersione metodologica, disciplinare e tematica della sua indagine, così vasta, aperta e tesa all’innovazione e alla variazione da opporre un’evidente e problematica resistenza a ogni tentativo di sintesi unitaria.
2Ponendo al centro del mio studio Sé come un altro – nato dalle conferenze delle Gifford Lectures di Edimburgo (1986) – credo di poter aggirare questo primo ostacolo. Il libro, infatti, raccoglie in unità sotto una concezione determinata di soggetto [fatto più che favorevole per una ricerca psicologica] non solo i quarant’anni pregressi ma l’intero parcours filosofico del Nostro – se è vero che nell’opera scritta quattordici anni più tardi ritroviamo disposta al centro della trattazione la stessa «phénoménologie de l’homme capable» esposta qui.
3Il secondo ostacolo, connesso al primo, è dato dal carattere plurivoco del procedimento ricœuriano, non solo nel senso del richiamo a più metodi e dell’appartenenza e riferimento a più tradizioni e scuole di pensiero, ma nel senso che il suo lavoro procede sempre su più livelli distinguendo piani e registri – un procedimento che resiste a ogni riduzione unidimensionale, per così dire. Come si possono difendere, dunque, le ragioni di un progetto di ricerca filosofico focalizzato sul solo discorso psicologico, un progetto di ermeneutica psicologica? Rispondo: sottolineando anzitutto in Ricœur la preminenza metodologica e filosofica dell’ermeneutica su ogni altra scuola e su ogni altro procedimento, incluso quello fenomenologico: se originariamente, infatti, il parcours ricœuriano si dà configurato come variante riflessiva della fenomenologia husserliana, progressivamente esso va a definirsi come filosofia ermeneutica [e più come filosofia ermeneutica che come «fenomenologia ermeneutica», cioè fenomenologia interpretante], ovvero come «via lunga» dell’ermeneutica; in secondo luogo è possibile rintracciare una linea teorica di fondo che attraversa trasversalmente, in modo più o meno nascosto ma continuativamente, tutta l’«herméneutique du soi» e che è largamente debitrice alla psicoanalisi, cioè proprio a una disciplina psicologica1.
4Il terzo “ostacolo”, riconducibile all’ostacolo or ora affrontato, è costituito dalla tensione morale che attraversa da parte a parte l’opera del Nostro. La severa disciplina fenomenologico-ermeneutica del procedimento di Ricœur respinge e limita solo in parte l’eco della originaria tradizione religiosa, esistenzialista e spiritualista a cui egli risulta incorporato e da cui origina l’indirizzo morale. Con ciò siamo condotti direttamente al quarto ostacolo – questo generato più dal pregiudizio di chi ha poca frequentazione dei testi del filosofo francese che dal discorso ricœuriano in sé –, l’ostacolo della colleganza tra filosofia e fede. Sbarazziamocene rapidamente. Se nelle prime opere di Ricœur è senza dubbio presente una certa oscillazione tra filosofia e religione, con altrettanta evidenza si impone sin da subito nel Nostro l’esigenza di individuare un procedimento filosofico rigoroso. Nella prefazione a Sé come un altro troviamo quest’idea ribadita a chiare lettere; la ‘cura’ a cui fa riferimento qui Ricœur «nel condurre […] un discorso filosofico autonomo» non è contingente ma costitutiva di tutta la sua opera. Tuttavia, essa nulla può sull’ostacolo della ‘tensione morale’ attraverso cui rifluiscono sul pensiero filosofico convinzioni alimentate da una certa tradizione di fede2.
5Questa connotazione morale rappresenta una sorta di insolubilia. Certo meno inficiante del religioso [per una indagine teorica che vuol procedere in piena autonomia critica]; dall’altra parte esso può dissolversi sia traendo vantaggio dal carattere dell’herméneutique du soi ricœuriana – sviluppata nel capolavoro del 1990 in tappe/studi e livelli discorsivi distinti (in cui il momento morale risulta localizzato) – sia prendendo generalmente atto che non vi è indagine psicologica che non abbia un qualche riferimento o riverbero di ordine pratico, e che ciò non immancabilmente costituisce problema teorico (come avremo modo di saggiare in chiusura).
1. L’identità tra azione e racconto
6Una chiave di lettura del capolavoro del 1990 è data dalla tensione dialettica tra l’io egoista, immediato, naturale e il sé prodotto della mediazione sociale, principalmente attraverso le opere della cultura. Questa dialettica, che attraversa tutta l’opera – trasfigurata, sì, e dai registri discorsivi e dall’oggetto dei singoli studi, ma ben ravvisabile –, ha una sua possibile radice ontologica nella concezione aristotelica dell’essere come dinamismo di potenza/atto (esplorata dal filosofo francese nell’ultimo studio). Questa radice non pone solo al centro della concezione antropologica ricœuriana l’idea di potenza espressiva (esattamente nel senso dell’antica idea greca di έρμηενεπχός δύναμιϛ) ma fa in modo che la questione «degli usi che facciamo del verbo modale “io posso”» si costituisca come il «nodo centrale» che raggruppa le molteplici questioni che hanno impegnato Ricœur in tutto il lavoro filosofico. Insomma, l’idea di soggettività come potenza espressiva lega in unità tematica tutta l’opera ricœuriana scandendo le tappe fondamentali di Soi-même comme un autre3.
7All’idea di potenza espressiva si connette l’antica concezione di soggettività come vita simbolica o, meglio, di soggettività come processo dialettico tra ermeneutiche simboliche rivali – processo scoperto e messo a punto negli anni Sessanta con lo studio di Freud. Una concezione, questa, sviluppata all’interno di un orizzonte riflessivo della filosofia (J. Nabert), orizzonte mai abbandonato [che però, certo, subisce un’importante metamorfosi nel passaggio dall’ermeneutica simbolica all’ermeneutica narrativa (anni Settanta-Ottanta)] che si può sintetizzare con il celebre adagio: «la réflexion est l’appropriation de notre effort pour exister et de notre désir d’être, à travers les œuvres qui témoignent de cet effort et de ce désir»4. È in tal modo istituita una forte «equivalenza» tra riflessione e sé, tra cammino della riflessione e costituzione del sé – ripartita nell’opera del 1990 lungo tre direzioni, una prima relativa all’integrazione delle «diverse procedure oggettivanti, concernenti il discorso e l’azione, con l’operazione riflessiva»5, una seconda concernente «la natura dell’identità assegnabile a un siffatto soggetto di discorso e di azione»6, infine una terza concernete la «componente di passività o di alterità che l’identità-ipseità [… as-sume] come contropartita della fiera iniziativa, che [… è] la marca distintiva di un soggetto che parla, che agisce e che si racconta»7. Se con la seconda direttrice ci ritroviamo nel cuore della concezione ricœuriana dell’homme capable, a un livello non più [o non ancora] ontologico, occupato dall’importante concetto di identité narrative, con la terza assistiamo al ritorno di tematiche dell’alterità vissuta quali l’involontario, la passività, il corpo e l’inconscio – tematiche della dialettica soggettiva [della “guerra” con/in sé stessi] articolate in una concezione del soggetto non più sostanzialista. Ricœur scinde il cuore dialettico del sé in una identità-medesimezza – concetto poggiato sul termine latino idem, afferente ai tratti oggettivi/oggettivati del soggetto – e una identità-ipseità – poggiata sul termine latino ipse e relativa all’esperienza della soggettività, non solo in riferimento alle parole e agli atti di responsabilità e imputazione ma anche relativamente al mutamento nel tempo, all’evoluzione storica. Se la prima fa riferimento alla dimensione del «carattere» (caractère) del soggetto – connessa a una dimensione più fisica ed esteriore di permanenza del soggetto nel tempo – la seconda può esprimersi emblematicamente attraverso il concetto di «parola data» (parole tenue) – il quale mette capo a un’idea differente di mantenimento nel tempo, vincolata alla dimensione esperienziale e responsabile del soggetto parlante e agente8.
8Ebbene, a mediare e modulare il rapporto tra queste due figure della soggettività interviene il concetto di «identità narrativa». Introdotto per la prima volta nelle conclusioni di Temps et récit, in un contesto di articolazione della teoria narrativa nella costituzione del tempo umano, l’identità narrativa si articola in Sé come un altro con la teoria dell’identità personale. Funzione diversa, ma concezione identica: «la comprensione di sé è una interpretazione; l’interpretazione di sé a sua volta, trova nel racconto, fra gli altri segni e simboli, una mediazione privilegiata; quest’ultima si richiama alla storia come alla finzione, facendo della storia di una vita una storia fittizia o, se si preferisce, una finzione storica che va a intrecciare lo stile storiografico delle biografie con lo stile romanzesco delle autobiografie immaginarie»9.
9Se, da un lato, questa concezione richiama l’apprendistato ricœuriano sui testi relativi all’esperienza clinica in psicoanalisi – in cui si fa letteralmente esperienza e pratica terapeutica della narrazione e riappropriazione narrativa della storia di vita –, dall’altra tale concezione rinvia all’ermeneutica testuale del Nostro, ove troviamo la matrice originaria su cui si innesta lo sviluppo della concezione narrativa nell’intreccio con la teoria dell’azione. Un cammino a ritroso che passando per le conclusioni generali di Tempo e racconto rimonta alle tematiche degli anni Settanta [ovvero ai primi studi di Sé come un altro] rivelando, nelle intelaiature della testualità e lungo la linea di questo ritorno, l’antecedenza e preminenza del tema dell’azione sul tema della narrazione nella costituzione della teoria narrativa e nell’elaborazione dell’ermeneutica del soggetto. Da un lato è vero che in prima istanza Ricœur si imbatte sul tema dell’agire umano a partire dal tema del testo [l’agire «come al di fuori del testo per eccellenza»] – mi riferisco all’idea di fondo sottesa all’opera Du texte à l’action (1986) –, dall’altra il fenomeno della narrazione è da sempre riconosciuto come ritorno dell’azione sul testo: sia per il racconto storico che per il racconto di finzione, nella narrazione si racconta l’azione del protagonista/personaggio; è così che nel tradurre l’azione in racconto l’identità assume una connotazione narrativa… diventando appunto protagonista, personaggio [a sé] di una storia di vita, della sua stessa storia di vita. In Temps et récit Ricœur si rifà alla concezione aristotelica secondo cui il racconto è mimesis dell’azione (nel triplice senso di prefigurazione, configurazione, refigurazione); una concezione che poi traspone all’ermeneutica del sé, dove il racconto dell’azione diviene nucleo dell’identità narrativa. Cosa consegue? Che nella concezione ricœuriana del soggetto il primo fattore costitutivo dell’identità [del sé] è l’agire.
10Questo primato dell’azione definisce la dialettica ontologica di potenza/atto come dialettica di espressione e non dialettica di potenza. Non “io posso” semplicemente, ma “io posso agire”; non “io agisco in quanto posso” ma “io posso in quanto agisco”. ‘Io posso agire’ attraverso atti di parola, atti del fare, attraverso narr-azioni e atti di responsabilità. L’accento sull’agire è dato già nell’idea di potenza espressiva, sebbene dalla dialettica ontologica di potenza e atto consegue in modo del tutto speculare, equipollente direi, e una concezione del soggetto fondata sull’“io posso” e una concezione fondata sull’“io agisco”.
2. Identità narrativa e Pratiques du moi
11Un confronto con le Pratiques du moi10 di Charles Larmore può aiutarci a questo punto a sondare le implicazioni di questa concezione del soggetto. Perché Larmore? Perché entro il quadro di una teorizzazione autonoma schematizza e radicalizza alcune delle più importanti idee ricœuriane, conferendo loro in un certo qual modo maggiore visibilità. Larmore è uno dei pochi filosofi contemporanei, forse l’unico, ad aver sviluppato, entro le coordinate di un dialogo serrato con la tradizione francese, una concezione non sostanzialista del soggetto raccordabile su più punti alla concezione ricœuriana.
12Lo spazio consente qui solo un confronto rapido. Partiamo dai necessari distinguo preliminari per raggiungere in poche battute il nodo che ci pare di maggior rilievo. Anzitutto, le Pratiques du moi è, a differenza del poliedrico volume ricœuriano, un testo “a una sola dimensione”, ricco e complesso – certo – ma sviluppato su un solo registro di discorso [di genere analitico] e lungo la linea tematica definita di una teoria normativista del soggetto; ben più definita rispetto a una herméneutique du soi, la quale solo da un lato, solo parzialmente, si può riassumere come teoria narrativista del soggetto – quello che si perde è proprio il lato pratico, ovvero proprio l’ordine di discorso che si dovrebbe privilegiare nel confronto con Larmore. Eppure anche per chi non tratta questioni di filosofia pratica il confronto tra Ricœur e Larmore risulta fruttuoso, a partire proprio da questa messa tra parentesi del pratico. Infatti la contrapposizione tra teoria normativista e teoria narrativista del soggetto porta subito sul punto del corrispondente non sostanzialismo delle due concezioni. Si tratta – va detto – di una messa tra parentesi parziale, poiché il carattere pratico compone la teoria di Larmore. Osservando tale teoria dal lato del soggetto (e non della concezione normativa, ovvero del platonismo delle regole), rileviamo che essa nega che il rapporto costitutivo di sé a se stesso sia di conoscenza. Il soggetto intrattiene con sé un rapporto di natura pratico-normativa. Un punto di distacco netto, questo, dalla prospettiva ricœuriana, la quale si mantiene sulla tradizionale idea spiritualista ed ermeneutica, ma anche esistenzialista e riflessiva, dell’interiorità come ‘terra del senso’. Una dissonanza che può sulle prime sorprendere se si considera che Larmore si rifà alla tradizione dell’esistenzialismo (Sartre) ed alla filosofia riflessiva (J. Nabert). La prima, però, funge solo da guida nell’investigazione del soggetto, mentre della seconda Larmore ne abbraccia una versione “depurata”. Ciò che rende unico e insostituibile il soggetto che noi siamo è questo rapporto pratico mediato dalla riflessione. Credenze e desideri – che da un lato riflettono la nostra appartenenza sociale e storica, dall’altro riassumono ed esprimono in termini disposizionali ciò che noi siamo – costituiscono quel “materiale” dell’orientamento di impegno nel mondo che la riflessione disciplina e affina normativamente [in vista dell’azione]. Tale lavoro riflessivo costituisce la soggettività poiché credenze e desideri tendono a emergere con ragioni; la nostra soggettività sorge all’interno di uno spazio di ragioni, in altre parole la riflessione connette il sé alla dimensione sociale, il soggettivo all’intersoggettivo.
13A doppio livello qui si può integrare la prospettiva ricœuriana: anzitutto, sul piano pratico-riflessivo, poiché dietro l’idea della natura pratica della conoscenza che il soggetto ha di sé si cela l’idea di una preminenza della dimensione dell’agire nella costituzione della persona; in secondo luogo, l’idea di spazio condiviso delle ragioni integra la dimensione comunicativa e narrativa del soggetto ricœuriano; una dimensione di soggettività che si costituisce socialmente – come è rivelato già nell’adagio dedicato da Ricœur alla riflessione… cammino attraverso i segni e le opere dell’umanità che sono testimonianza dello sforzo di esistere e del desiderio d’essere dell’intera civiltà umana. Se questo sforzo riflessivo è in Larmore fondamentalmente pratico, in Ricœur mantiene ancora tutta la tradizionale componente comprensiva. Un’altra importante differenza: se profondamente connesso al concetto di riflessione vi è in Ricœur il concetto di ‘responsabilità’, connesso alla riflessione in Larmore troviamo l’‘impegno’11. Due termini, responsabilità e impegno, che non sono in opposizione, ma risultano implicati reciprocamente: se, infatti, la responsabilità dell’impegno in Larmore è palesata dalla componente pratico-morale, l’impegno della responsabilità è reso in Ricœur dal concetto di “parole tenue”, grazie a cui il soggetto permane nel tempo e si afferma come tale, come soggetto.
3. Le sfide dell’irrappresentabile
14Questo confronto rapido, forse sbrigativo, mi pare concorra a portare alla luce quei tratti emergenti della concezione di Ricœur che sembrano rivestire un certo interesse in un contesto di analisi psicologica. Il modello ricœuriano offre elementi per una nuova prospettiva ermeneutica della pratica terapeutica, non più di scavo interpretativo (alla ricerca di responsabilità familiari, di verità perdute, di cause traumatiche e via discorrendo) ma di recupero e ri-costruzione narrativa, con tutto ciò che la narrazione comporta – in primis, la dimensione intersoggettiva (ovvero lo spazio sociale delle ragioni, ma anche lo spazio condiviso della comunicazione, linguistica ed emozionale, dell’impegno responsabile). L’idea di homme capable veicola la prospettiva di una soggettività in divenire, un’idea di soggetto non imbrigliato nel passato e non condannato dalla sua stessa storia. Un soggetto d’azione capace di ri-configurare il proprio vissuto; un soggetto che si evolve emancipandosi più per la sua capacità di fare e di assumersi il carico della responsabilità che per la capacità di scavarsi dentro, di ripercorrere in una cammino solipsistico, intimistico, confessionale le vie dei propri dolori. Certo, fase necessaria; ma è l’agire a fare in modo ‘che le porte del mio futuro non restino chiuse a causa del mio passato’ – per così dire.
15La sfida della terapia psicoanalitica – spiega Ricœur nella sua ultima Conversazione sulla psicoanalisi – è l’irrappresentabile del desiderio bloccato dalla sofferenza. «La struttura profonda del desiderio umano» ha «una vocazione linguistica» ed «è da subito, prima di essere una struttura dialogica, una struttura di indirizzo di richiesta: una richiesta oscura che dà allo sconforto stesso una struttura potenzialmente linguistica»12.
16Ecco perché, per il filosofo, non si deve mai separare la sofferenza dalla parola: esiste sempre la possibilità di liberarla – e non solo in sede clinica –, di trasformarla, comprenderla e sopportarla attraverso i mezzi della narrazione, e più in generale della rappresentazione. Quando questo accade si è già ritornati alla condivisione comunitaria, e già si è aperta la possibilità di una nuova azione responsabile, di una prospettiva nuova di esistenza che muta il senso, il significato, di ciò che si è vissuto.
17L’obiezione che questo non è sempre possibile, che non è sempre vero, poiché, come dimostra il lavoro clinico, vi sono situazioni/condizioni di sofferenza in cui non-si prende / non-si-riesce-a-prender-più la via della parola e del racconto – quest’obiezione riattiva la linea morale sottesa al discorso ricœuriano. Dietro il concetto di ‘sfida’, tanto caro al filosofo, si concentra tutta la carica etica di un’idea di lotta come chiave di volta nella dialettica interiore (contro l’alterità/passività vissuta) e nella dialettica intersoggettiva. Al di là della situazione e della condizione particolare del paziente, l’analista in quanto soggetto responsabile è chiamato ad accogliere come sfida etica qualunque sofferenza irrappresentabile… e ad accoglierla per vincerla.
Notes de bas de page
1 Cfr., V. Busacchi, Pulsione e significato. La psicoanalisi di Freud nella filosofia di Paul Ricœur, prefaz. di P.L. Lecis, postfaz. di G. Martini, Milano, Unicopli, 2010.
2 P. Ricœur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Milano, Jaca Book, 1993, p. 100.
3 Cfr. P. Ricœur, Il mio cammino filosofico, in D. Jervolino, Introduzione a Ricœur, Brescia, Morcelliana, 2003, p. 132.
4 P. Ricœur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Paris, Seuil, 2006, p. 56. In corsivo nel testo.
5 P. Ricœur, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, trad. it. D. Iannotta, Milano, Jaca Book, 1998, p. 91.
6 Ivi, p. 92.
7 Ib.
8 Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, cit., pp. 201 ss.
9 Ivi, p. 202 n.
10 C. Larmore, Les pratiques du moi, Paris, PUF, 2004; trad. it. M. Piras, Pratiche dell’io, Roma, Meltemi, 2006.
11 Cfr. C. Larmore, Dare ragioni. Il soggetto, l’etica, la politica, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2008, p. 93.
12 P. Ricœur, Conversazione sulla psicoanalisi, in D. Jervolino e G. Martini (a cura di), Paul Ricœur e la psicoanalisi. Testi scelti, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 158.
Auteur
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