Oscillazione e Atopia: il rapporto tra soggetto e mondo nel romanticismo tedesco
p. 154-161
Texte intégral
1Martin Heidegger, nelle lezioni tenute sulla Freiheitsschrift schellinghiana nel 1936 a Friburgo, mette in luce come, nel periodo a cavallo tra il xviii e il xix secolo, l’interrogazione sulla natura tendesse ad arretrare sino a un fondamento più originario, in modo tale da aprire nuove prospettive – poste sotto la comune denominazione di Naturphilosophie romantica – incentrate soprattutto sui fenomeni della gravità e della luce. Pur consapevole che i risultati conseguiti dalla fisica e dalla chimica nei decenni successivi hanno reso desuete e prossime al nonsenso quelle prospettive, Heidegger ritiene tuttavia un grave errore sminuirle, rigettarle come assurde o, più semplicemente, ridurle a un puro compendio poetico delle scienze naturali, soltanto perché inconciliabili con le trasformazioni tecnoscientifiche della contemporaneità. I limiti oggettivi della Naturphilosophie romantica, colti soprattutto in relazione alla Weltanschauung filosofica del xx secolo, priva degli strumenti concettuali ed esistenziali necessari per l’assimilazione di quella concezione mistico-poetico-religiosa che ne stava alla base, non devono, secondo il filosofo tedesco, obnubilarne i meriti intrinseci. E anche nel caso in cui si fosse costretti ad ammettere che l’epoca romantica non abbia fatto altro che partorire immagini poetiche, non bisogna dimenticare che il linguaggio figurato della poesia non ha, nell’odierna scienza naturale, meno importanza che in passato. Sbaglia, in conclusione, la scienza contemporanea a irrigidirsi dinanzi alla presunta impurità gnoseologica che è seguita dalla Romantik1.
2Nonostante Heidegger, resta dominante nel pensiero filosofico contemporaneo l’idea che la Naturphilosophie romantica non sia stata altro che «una lacuna episodica nel progresso della razionalità del moderno»2; essa pare, infatti, incompatibile con una razionalità scientifico-tecnologica intenta, nella sua decisa svolta verso un pensiero non tanto veritativo quanto funzionale e operativo, ad adottare una metodologia matematico-quantitativa che obnubila qualsivoglia concezione olistica della natura e che sottopone, di conseguenza, la spiegazione dei fenomeni naturali a un processo riduzionistico che li risolve in mere connessioni formali. La reviviscenza di teorie meccanicistiche, incentrate sulla matematizzazione dei fenomeni osservati, poggia le proprie basi sulla serrata applicazione del dualismo cartesiano, che separa artificialmente la res cogitans dalla res extensa, quale ‘salvacondotto metodologico’ per fissare la natura come un alcunché di esteriore, privo di tutti i predicati dell’interiorità, che si offre semplicemente alla misurazione secondo precise sequenze di cause ed effetti3. Il pensiero filosofico-scientifico della contemporaneità sembra, in altre parole, ancora fortemente dipendente da quel modello concettuale che da Cartesio arriva sino al positivismo, passando per La Mettrie, il cui elemento di forza è rappresentato dalla concezione del corpo come una macchina, de-eroticizzato alla stregua di uno strumento, e della natura come proiezione causalistica dell’intelletto. La sottrazione di contenuti spirituali all’ambito fisico ci pone, pertanto, dinanzi a un mondo reso passivo, in cui si realizzano soltanto le procedure autoreferenziali della ragione umana, quindi concepito riduttivamente come un insieme di leggi meccaniche, termodinamiche, elettromagnetiche, nucleari, chimiche e biologiche. Punto estremo di questo modo di pensare non può che essere l’impertinenza di chi definisce “schizofrenico” l’atteggiamento alla base del ricorso a cure mediche naturali, equiparate senza indugio alle superstizioni che veicolano la credenza in cartomanti e veggenti4.
3Il disconoscimento della prossimità originaria tra uomo e natura emerso da una visione filosofico-scientifica che, sulla base di una rigida unilateralità concettuale e di un dualismo radicale di matrice cartesiana, separa meccanicamente la legge astratta della riflessione dalla sensibilità, è un atteggiamento che, secondo Wilhelm G. Jacobs, ha delle serie ripercussioni nel campo ecologico. Pensiero funzionalistico, reificazione della natura e suo conseguente sfruttamento in quanto strumentale oggetto di conoscenza: Jacobs ritiene che la crisi ecologica non sia tanto una crisi dell’ambiente, quanto una crisi dell’uomo, «poiché nella natura non vediamo l’altro di noi stessi, o forse, più esattamente, ciò che ci è proprio. Ed essa non è soltanto una crisi del vedere, ma ancor più del nostro agire […] Considerare la natura come materia da trattare in modo casuale significa strappare non soltanto l’ambiente, ma con esso anche noi stessi, dal nesso organico»5. Il nesso organico, a cui fa riferimento Jacobs, rimanda esplicitamente a quella corrispondenza di natura e spirito, intesa tanto come compenetrazione armonica quanto come progressiva trasfigurazione spirituale del naturale, che rappresenta – al di là dell’estrema variegatezza e pluralità delle sue espressioni concettuali – il novum del romanticismo tedesco, nonché la risposta antitetica al dominante meccanicismo illuministico e all’autoreferenziale soggettivismo idealistico. A coloro i quali ritengono che sia la scienza matematica della natura a dover forgiare l’umanesimo, imponendo un ideale umano definito rigorosamente in senso scientifico-naturalistico quale oggetto razionale esterno che si conforma a un’esterna normatività intellettiva (illuminismo), così come a chi predica un solipsismo tautologico decretante la morte di tutto ciò che vi è nel mondo, eccetto la parvenza di vita del soggetto (idealismo), la Romantik contrappone, infatti, una concezione speculativa che salvaguarda il sacro accordo tra scienza, religione e poesia in virtù della rivelazione della divinità del Tutto, da cui segue l’esplicitazione in termini non contrappositivi del rapporto tra uomo e mondo. Senza questa rivelazione, la pretesa di conoscere se stessi e le altre cose come particolarità avulse dall’insieme non fa che ridurre la scienza – secondo Schelling – a «un deserto di vaste dimensioni», i cui scarsi progressi conoscitivi sono direttamente proporzionali alla sottrazione della bellezza alla vita6; al tempo stesso, spinge chi vede la natura come un congegno scomponibile nei suoi singoli elementi – secondo Novalis – a visitarne soltanto gli ossari e gli ospedali7. Ora, il sacro accordo tra scienza, religione e poesia che, alimentato da una peculiare integrazione tra gli esiti dello Sturm und Drang e le Nachtseiten della mistica teosofica, contraddistingue il pensiero tedesco del xix secolo, estraneo all’idea dualistica della morte della natura e dell’esclusiva vitalità nell’uomo del principio spirituale, poggia, secondo i romantici, sulla preservazione dell’‘intermedietà’ concettuale, quale (in)tangibile “non-luogo” sprovvisto di rigide delimitazioni tra natura e spirito. Intermedio è, infatti, un concetto che permette di considerare il naturale e lo spirituale come due elementi che, in virtù di un terzo – l’‘anima’ – quale principio conduttore o veicolante, scorrono continuamente l’uno nell’altro, secondo una relazione propriamente simbolica, che trascende qualsivoglia limite logico-razionale8. L’anima, che pone la natura e lo spirito in un rapporto di reciproca scambievolezza, non va pensata né nei termini di una ‘connessione’ tra elementi estranei l’uno con l’altro, da cui non può che seguire il bellum internicinum in cui sta lo spirito con la natura nella filosofia fichtiana, né nei termini di un’‘identità’ intesa come statica medesimezza ontologica, tale da far venir meno l’intrinseca organicità del rapporto; essa è, piuttosto, come l’“Anima del mondo” tratteggiata dal Timeo platonico, un ‘legame divino’ analogico-produttivo di spirito e natura, la cui vitalità e la cui dinamicità danno misura e forza a entrambi. Come un ‘tra’ (zwischen) che fa romanticamente percepire l’io e il mondo in senso “relazionale”, il legame non si attiene alla legge della necessità, né è determinato in maniera casuale: esso, piuttosto, esplicita drammaticamente se stesso, rimandando a un’identità che salvaguarda e preserva la differenza, un’identità – come Copula – che non sopprime il conflitto ma lo fa emergere, giacché l’unità è affermata nella pluralità in un eterno contrapporre sé a se stessa. Natura e spirito vivono entrambi di vita propria nel loro essere tenuti assieme da questo legame divino che, nel suo oscillare tra presenza e assenza, li anima, sostanzializzandoli e preservandoli dalla minaccia di tralignare in esistenze astratte, cioè in esistenze prive di vita nella misura in cui non viene mantenuta in essere la loro unità dal legame stesso. L’oscillazione tra presenza e assenza, in cui consiste l’anima come elemento che integra ciò che è visibile con ciò che è invisibile – lo Schweben tra essere e non essere, quell’inesprimibile che Novalis, nelle Fichte-Studien, identifica con il concetto stesso di vita – assume nel romanticismo tedesco i tratti dell’eros. L’essenza propria dell’amore eterno, nonché il suo mistero ultimo, consiste nel fatto che esso instaura liberamente una relazione tra due principi opposti, di cui ciascuno, essendo un tutto, potrebbe essere assolutamente per sé, tuttavia non lo è e non può essere senza l’altro; i principi opposti trovano accordo e armonia, sottomettendosi all’eros come unico comune superiore, ma in modo tale che l’unisono sia realmente effettivo soltanto come “attuosità”, per cui sullo sfondo vi è costantemente la possibilità tragica della differenza e della rottura del legame9. Spirito e natura sono fra loro opposti, non identici, giacché identico è il legame, la Copula, l’Ist che li mette in relazione: per la Romantik, l’amore, quindi il nesso organico tra natura e spirito quale forza che traspare e che riempie dimorando all’interno, quale lampo di calore che, sorto dalla notte oscura e prodotto con vigoria intrinseca, sgorga continuo e calmo dalla pienezza infinita per trasfigurare il mondo con la sua ossimorica invisibilità visibile, non è altro che «il sommamente reale»10. Consequenziale è, allora, un radicale depotenziamento del soggetto cartesiano-fichtiano e una connotazione atopica del suo rapporto conoscitivo e morale con il mondo.
4L’oscillazione tra rivelazione e nascondimento del nesso, nel senso di un sottrarsi-rivelarsi che in quanto tale dona presenza, struttura e sostanzializza, radica il soggetto e il mondo nella sradicatezza dell’“assenza di luogo”, nell’extraterritorialità tout court. La trasparenza dell’anima, che nello Schweben trasfigura il reale, pone l’esplicitarsi del rapporto tra uomo e mondo nell’atopico, quale regione di mezzo in cui il visibile e l’empiricamente tangibile perdono significato e valenza reale senza il fondamento dell’invisibile e, in linea generale, di ciò che trascese le potenzialità empirico-razionali della comune conoscenza umana, li fa autenticamente essere. «L’esterno – sostiene Novalis nell’Allgemeines Brouillon – è un interno elevato allo stato di mistero», «un interno suddiviso, transposto»11: atopia, quindi, significa per l’uomo apertura poetica al mondo, apertura che disconosce un’interiorità soggettiva gnoseologicamente e moralmente contrapposta all’oggetto-natura. Atopia come assenza di protezione speculativa, ovvero come mancanza di un confine che, delimitando rigorosamente un territorio conoscitivo, rammemori la ferrea interdizione di qualsivoglia travalicamento, tale da poter mettere a repentaglio il rifugio gnoseologico richiesto – illusoriamente – dalla filosofia sistematica.
5Oscillazione e atopia spingono, così, la Romantik a violare il nihil ulterius teoretico imposto dal kantismo come limite ultimo tra l’intuizione sensibile e il desiderio metafisico; in altre parole, riempiono quello spazio ontologico tra la percezione sensibile e le categorie dell’intelletto, lasciato solitamente vuoto dal pensiero razionalistico. Il tentativo di realizzare, all’interno di questo spazio, un sapere genealogico e narrativo, non volto alla “produzione” di una conoscenza sistematica ex novo ma piuttosto alla “ricostruzione” maieutica di ciò che all’uomo preesiste, accomuna le ricerche – di per sé eterogenee – dell’ultimo Schelling e di Fechner. Nonostante le palesi differenze di fondo, Schelling e Fechner condividono la volontà di un’interrogazione sulla natura priva di preconcetti e diretta all’apertura dell’essere umano verso l’altro, all’interno di una dimensione universale onnicomprensiva. Ambedue pervengono a una visione – per così dire – tragica del nesso organico, la quale spinge, da una parte, Schelling a stabilire una peculiare coincidenza tra morfologia e malinconia, per cui la morfologia non è altro che una delle modalità attraverso cui si manifesta l’originario sentire malinconico dell’esistente; porta, dall’altra, Fechner a sperimentare, anche in relazione ad alcune sue sofferenze personali, il dolore della materia, attribuendo una sensibilità profonda alla vita vegetale.
6A partire dalla Freiheitsschrift (1809), Schelling coglie nella malinconia (Schwermut) la condizione originaria del mondo, dunque l’attestazione ultima del fatto che la produttività della natura e la creatività dello spirito siano rette dalla stessa struttura intrinseca; in altre parole, il filosofo tedesco trova nel concetto di Schwermut quell’elemento esistenziale in grado di garantire un’apertura privilegiata alle profondità non sondabili dell’anima quale nesso organico tra natura e spirito. «Manifestazione più profonda» della nostalgia (Senhsucht), a cui viene ricondotto il fondamento dell’esistenza di Dio quale principio abissale della coscienza da cui vengono tratte alla luce le creature, la malinconia – come «forza di gravità interiore dell’animo» – non è altro che la località ontologica in cui l’uomo, con la sua particolare conformazione organico-spirituale che unisce volontà, intelletto e spirito, si riversa nella natura e mantiene in sé vivo il nesso con Dio12. Leggiamo nelle Stuttgarter Privatvorlesungen (1810): «Anche ciò che vi è di più profondo nella natura è malinconia (Schwermut): anch’essa s’attrista per un bene perduto, e ogni vita è accompagnata da un’indistruttibile malinconia (Melancholie) perché ha sotto di sé qualcosa di indipendente da sé (ciò che sta sopra innalza, ciò che sta sotto attira in basso)»13. Questo elemento “indipendente” da ogni vita creata, che sta sotto e che trascina verso il fondo, è propriamente quel Grund che, nel rimarcare la differenza ontologica tra il Creatore e le creature, va interpretato come un volere contrattivo che può, ambiguamente, spingere ogni essere alla chiusura ipsistica in sé o fornirlo della forza necessaria per l’espansione vitale. Il significato ambivalente del Grund permette, dunque, a Schelling di evidenziare la corrispondenza, tutt’altro che metaforica, tra la forza di gravità (Schwerkraft) come peso fisico e la malinconia (Schwermut) come peso dell’animo, sulla base della convinzione che l’introversione, la chiusura all’altro-da-sé, il negativo tout court quale mancanza, desiderio e bisogno, rappresentino – se rettamente orientati – la pressione, la trazione e la spinta che conferiscono vigore all’estroversione, all’apertura all’altro e al positivo tout court. La forza di gravità, infatti, quale peso fisico che precede la luce come suo eterno e oscuro fondamento, oppone resistenza alla produttività libera e senza freno della natura, limitando il suo desiderio di produrre all’interno di un processo metamorfico che plasma una forma naturale, nella quale le forze oppositive di attrazione ed espansione vengono sottratte alla loro congenita caoticità autopotenziante e, perciò, conciliate dalla forza di gravità all’interno di una precisa struttura morfologica, in cui sia possibile l’esistenza effettiva. Qui emerge, per Schelling, il significato malinconico della gravità. Sino a che la forza di gravità non interviene a impedire che la produzione della natura si disperda nella caoticità informe del suo irrefrenabile dinamismo, pende, infatti, sul destino del processo morfologico la tragica minaccia di un esito sterile o amorfo. Scansato il pericolo dell’infecondità e della deriva nell’informe, la natura non smette comunque di soffrire, dal momento che la gravità rimane un elemento negativo di resistenza, che ogni singola creatura sente “sotto di sé” come un alcunché di indipendente da sé; tirandola “verso il basso”, la gravità impedisce alla creatura di dissociare il superiore dall’inferiore, rinfacciandole costantemente l’origine “terrena” e palesandole la possibilità di un esito improduttivo, nel caso in cui non si integri armonicamente con la luce. In definitiva, Schelling, attraverso l’accostamento tra malinconia e forza di gravità, può rischiarare il senso ultimo del legame divino tra natura e spirito, nel suo perenne oscillare tra rivelazione e nascondimento, rimarcando l’empatia che intercorre tra l’uomo e la natura; entrambi condividono uno spazio esistenziale in cui il visibile sottende l’invisibile e, al tempo stesso, ne è sotteso, in conformità a una visione conflittuale del vivente. In tal modo, Schelling decodifica il linguaggio della natura quale pars divinae mentis e quindi lo reinterpreta alla luce di un nesso organico con lo spirito, che lo rende reale trasfigurandolo istante per istante.
7Fechner, in Nanna oder über das Seelenleben der Pflanzen (1848), anticipa il contenuto dei suoi Elemente der Psychophysik (1860), e in particolare la scoperta di un’equazione che permetta di quantificare esattamente la relazione tra la portata fisica di uno stimolo e l’intensità della sensazione percepita, attribuendo una dimensione psichica alla vita vegetale e disconoscendo, di conseguenza, lo schema razionalistico che organizza il creato secondo un processo logicamente ordinato di Potenzierung evolutiva, al cui vertice è posto l’uomo – dotato di coscienza – come colui che racchiude in sé tutte le note dei livelli inferiori. Lungi dall’essere un mero ‘gioco concettuale’, il panpsichismo di Fechner si fonda sull’assunto che «ogni cosa dev’essere considerata nelle circostanze in cui si trova»14, non dal punto di vista arbitrario dell’uomo. Attraverso osservazioni scientifiche, a volte non esenti da atteggiamenti provocatori, Fechner riconosce alle piante e al loro “doloroso” radicamento al suolo un sentire assoluto e puro, senza oggetto, in cui il nesso organico tra materia e spirito traspare come autotelismo, di contro alla concezione della natura come regno organico finalisticamente ordinato al servizio dell’uomo autocosciente, e come movimento impercettibile ma infinito. Il volgersi verso la luce, l’attorcigliarsi e il piegarsi, esiti di un radicale Trieb interno che tuttavia non esige violenti moti esterni, evidenziano, per Fechner, una libertà altra della vita vegetale, in cui l’anima è segnata da un complesso di movimenti che si esprime – come nel caso dei processi cerebrali umani – secondo modalità che si sottraggono al comune sguardo. Nella sensibilità radicale della pianta si palesa, pertanto, il programma ultimo del romanticismo tedesco, il quale tenta con la descrizione del nesso organico tra materia e spirito di liberare il filosofo meccanicista, che non vuole «aprire l’occhio dello spirito alle interiori fiamme» del cosmo, dall’oscura e fredda natura che lo circonda. «Ma – conclude Fechner – se qualcuno preferisce rimanere nell’oscurità, io non posso impedirlo»15.
Notes de bas de page
1 M. Heidegger, Schelling: Vom Wesen der menschlichen Freiheit (1809), in Gesamtausgabe, Band 42 a cura di I. Schüssler, Frankfurt a.M., Klostermann, 1988, p. 175; trad. it. C. Tatasciore, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Napoli, Guida, 1994, p. 198.
2 H. Timm, Die heilige Revolution. Schleiermacher, Schlegel, Novalis, Frankfurt a.M., Syndicat, 1978, p. 14.
3 Cfr. H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, trad. it. a cura di P. Becchi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 22-23.
4 Cfr. P. Odifreddi, Il matematico impertinente, Milano, Longanesi, 2005, p. 78.
5 W.G. Jacobs, Leggere Schelling, trad. it. C. Tatasciore, Milano, Guerini e associati, 2008, p. 91.
6 Cfr. F.W.J. Schelling, Aphorismen zur Einleitung in die Naturphilosophie, in Sämmtliche Werke, a cura di K.F.A. Schelling, Band VII, Stuttgart-Augusta, Cotta, 1856-1861, p. 140; trad. it. L. Rustichelli, Aforismi sulla filosofia della natura, Milano, Egea, 1992, p. 23.
7 Cfr. Novalis, Die Lehrlinge zu Sais, in Schriften, a cura di P. Kluckhohn e R. Samuel, Band I, Stuttgart, Kohlhammer, 1960, p. 84; trad. it. A. Reale, I Discepoli di Sais, Milano, Rusconi, 1998, p. 129.
8 Cfr. G. Moretti, La filosofia e il sentimento. Il Romanticismo tedesco fra Hölderlin e Novalis, in Id., La segnatura romantica. Filosofia e sentimento da Novalis a Heidegger, Cernusco, Hestia, 1992, pp. 13-27.
9 Cfr. F. von Baader, Sätze aus der erotischen Philosophie, in Sämtliche Werke, Band IV, Leipzig, Bethmann, 1850-1860, pp. 163-164; trad. it. L. Procesi, Tesi di filosofia erotica, in F. von Baader, Filosofia erotica, Milano, Rusconi, pp. 231-232.
10 Cfr. Novalis, Allgemeines Brouillon, in Schriften, cit., Band III, p. 254; trad. it. F. Desideri, Opera filosofica. II, Torino, Einaudi, 1993, p. 279.
11 Ivi, p. 293 e p. 403; it. p. 320 e p. 434.
12 Riguardo al tema della malinconia in Schelling, ci sia concesso di rimandare al nostro Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura, pref. di G. Moretti, Milano, AlboVersorio, 2009.
13 F.W.J. Schelling, Stuttgarter Privatvorlesungen, in Sämmtliche Werke, cit., Band VII, p. 466; trad. it. L. Pareyson, Lezioni di Stoccarda, in F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Milano, Mursia, 1974, p. 178.
14 T.G. Fechner, Nanna o l’anima delle piante, trad. it. a cura di G. Moretti, Milano, Adelphi, 2008, p. 29.
15 Ivi, p. 52.
Auteur
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