Genealogia dell’adonato? Prolegomeni a un’analisi fonomenologica del soggetto a partire da Marion
p. 137-145
Texte intégral
1Jean-Luc Marion ha ripreso con forza, dal punto di vista del suo progetto fenomenologico, la «critica del soggetto» che caratterizza buona parte della filosofia contemporanea. Bisogna tuttavia osservare che questa critica non può consistere semplicemente in una rimozione o distruzione del soggetto stesso, sia perché sarebbe filosoficamente insostenibile, sia perché ciò comporterebbe, presto o tardi, un «ritorno del rimosso» in forme forse ancora più inadeguate. Per farla finita con il «soggetto», «non bisogna dunque distruggerlo, ma rovesciarlo – rivoltarlo»1: ripensare e rovesciare i suoi caratteri classici, contestare la sua pretesa di essere un principio, un’origine e un centro, per mostrare che esso invece è un risultato, qualcosa di divenuto e, di conseguenza, un «luogo» inscritto in un sistema più ampio che non può comandare.
2Sospendiamo per ora il riferimento alla posizione di Marion. Se bisogna superare i caratteri “classici” e “moderni” del soggetto, se bisogna non rimuovere il soggetto ma «rovesciarlo» per mostrare che esso è non tanto un principio quanto un risultato, l’ipotesi che possiamo avanzare2 è che quel che si tratta di elaborare è allora forse una “prassi” filosofica del soggetto che si attua essenzialmente come una sua genealogia: prassi filosofica e genealogica che mostra la costituzione e il divenire dell’io nei suoi diversi rapporti al mondo, che si realizza esibendo il «come» dell’esser-divenuto dell’io nelle sue differenti figure, la sua genesi per etero-costituzione a partire da altro da sé. Un’impostazione di questo tipo condurrebbe evidentemente a dislocare ogni immagine sostanzialistica e ogni pretesa definitoria dell’io, a vanificare la pretesa autarchica del soggetto di essere un principio per mostrarlo come un risultato divenuto, in una consapevolezza etica dell’alterità interna che lo costituisce e della finitezza delle sue diverse figure. Una simile analisi avrebbe anche il vantaggio di non limitarsi ad affermare che l’io è un risultato e non un principio, ma di esibire concretamente come e attraverso quali intrecci di esperienze questo risultato si costituisce e diviene.
3Da questo punto di vista, la fenomenologia continua a presentarsi come una via particolarmente feconda, nel suo tentativo di pensare il soggetto a partire dall’idea della correlazione intenzionale universale e quindi in relazione alla questione della manifestatività: l’«io» si presenta come il luogo dell’apparire dei fenomeni e come apertura fuori-di-sé alla manifestatività, si costituisce nella molteplici forme della correlazione con quest’ultima e va a sua volta descritto nel «come» del suo manifestarsi nel mondo. Inoltre, al livello più profondo del suo scavo, Husserl indica come ultimo stadio di un’analisi dell’ego proprio la fenomenologia genetica, l’idea di una genesi trascendentale dell’ego stesso nelle sue diverse stratificazioni e appercezioni del mondo: l’io non è semplicemente «un vuoto polo di identità», perché «esso, in virtù della conformità a regole della genesi trascendentale, per ogni atto che emana da sé, ottiene un nuovo senso oggettivo, una nuova proprietà stabile»3; l’io diviene e si trasforma così come «sostrato di abitualità», in una genesi egologica la cui forma universale è il tempo e il cui strato più profondo è rappresentato dalle sintesi passive; quest’analisi genetica dovrà mostrare che e come «l’ego si costituisce per se stesso, per così dire, nell’unità di una storia»4.
4«Chi viene dopo il soggetto?»: la risposta ultima di Marion a questa domanda è indicata dal termine “adonato” (adonné), analizzato in Étant donné come figura dell’io ripensata alla luce della fenomenologia della donazione5. Se il “proprio” della fenomenologia è pensare l’io in correlazione con la fenomenalità, bisogna riconoscere che nella figura dell’adonato Marion raggiunge una determinazione rigorosa dello statuto fenomenologico dell’io e del suo scarto rispetto all’immagine moderna del soggetto trascendentale. Marion cerca di non presupporre in alcun modo una qualche istanza soggettiva già determinata e di pensare invece il ruolo dell’io ricavandolo rigorosamente dai caratteri della fenomenalità e dalla dinamica dell’apparire; e, dal momento che l’apparire dei fenomeni è qui pensato come “donazione”, l’io si determina a sua volta come adonato, nel duplice senso di colui che si trova dato/donato a se stesso a partire dalla donazione e la cui «natura» è di dedicarsi/darsi interamente alla donazione dei fenomeni. L’adonato, infatti, non è altro che l’“a chi” della donazione dei fenomeni, il necessario “luogo” della fenomenalità, perché permette la conversione di ciò che si dona in ciò che si mostra, senza essere tuttavia nella posizione di un io trascendentale che costituisca e limiti la donazione imponendole i propri apriori. Esso ha anzi la sua caratteristica essenziale nell’essere colui che «si riceve da ciò che riceve»: l’adonato non è un principio primo e non si autoistituisce, ma, preso in un movimento di cui non ha l’iniziativa, riceve la donazione dei fenomeni nel loro carattere evenemenziale e, nel riceverla, riceve anche se stesso come un “dato” (donné). La donazione mi assegna a me stesso e come me stesso nell’atto stesso in cui essa accade e io la ricevo6. Se si pensa e radicalizza questa dinamica fino alle sue estreme conseguenze, bisogna allora affermare che l’io non preesiste come tale alla donazione dei fenomeni, perché l’adonato si costituisce interamente a partire da ciò che riceve. È quello che Marion espone con le efficaci immagini del prisma e dello schermo. L’io «si propone dunque come un filtro o un prisma, che fa sorgere la prima visibilità precisamente perché non pretende di produrla […] ma si sforza di sottomettervisi senza interferenza». L’io «non precede tuttavia ciò che forma secondo il suo prisma – ne risulta» e quindi «il filtro si dispiega innanzitutto come uno schermo»: «prima che si dia il dato non ancora fenomenalizzato, nessun filtro lo attende. Solo l’impatto di ciò che si dà fa sorgere, in un unico e medesimo choc, il lampo da cui esplode la sua prima visibilità e lo schermo stesso su cui si schianta»7. L’adonato, dunque, non è un io costituente, ma un testimone costituito dei fenomeni e un «interpellato» passivo del loro appello, in una posizione di originaria passività, ricezione e alterazione.
5In corrispondenza con quanto abbiamo cercato di delineare in precedenza, una delle direzioni più proficue in cui potrebbe essere sviluppata l’analisi di Marion è quella di un’analisi genealogica, a partire da una radicalizzazione della definizione dell’adonato come «colui che si riceve da ciò che riceve». Se l’adonato non ha una natura sostanziale e statica e non preesiste anzi come tale all’impatto con il dato, se esso accade in questo stesso impatto e consiste interamente nel riceversi da ciò che riceve, si tratterebbe allora di mostrare la genesi dell’adonato nelle sue diverse figure a partire dal modo in cui, di volta in volta, si riceve a partire dai diversi dati che riceve e che fenomenalizza, ovvero dal modo in cui di volta in volta lo schermo in cui si riflettono i fenomeni si costituisce per contraccolpo o per rispecchiamento a partire da ciò che incontra. Bisognerebbe mostrare sia l’origine dell’io come tale, come rapporto a sé, sia la genesi delle differenti figure e dei vari livelli dell’io che accadono via via ricevendo i diversi fenomeni e rispecchiandosi a partire da questi. La ricezione del dato che caratterizza l’adonato non è, infatti, una proprietà formale data una volta per tutte, ma è una capacità che richiede un lavoro: «lavoro del dato da ricevere, lavoro su se stesso per ricevere. Il lavoro che il dato chiede all’adonato ogni volta che e finché si dona spiega perché l’adonato non si riceva una volta per tutte (alla nascita), ma non cessi di riceversi nuovamente con l’evento di ogni dato»8. Inoltre, il rimando reciproco e lo scarto tra l’appello (sempre eccedente) della donazione e la risposta (sempre finita e in ritardo) aprono una temporalità e una storicità proprie dell’adonato9. In altri termini, a partire da questa impostazione si tratterebbe di tentare una nuova versione e una radicalizzazione al di là del quadro dell’idealismo trascendentale di quella fenomenologia genetica dell’ego e in particolare di quella dinamica correlativa tra l’atto, la sua oggettivazione e le nuove conseguenti proprietà dell’io prospettate da Husserl nella Quarta meditazione cartesiana.
6Ma, nonostante queste potenzialità e alcune interessanti aperture, questo sviluppo genetico rimane appunto solo potenziale e non si trova come tale nel testo di Marion. E quel che vorremmo suggerire è da un lato che questa mancanza non è forse casuale, perché la realizzazione effettiva di un simile progetto farebbe emergere delle difficoltà essenziali, dall’altro lato che una radice di queste difficoltà si trova nel concetto di fenomeno saturo, che ha un ruolo capitale nel progetto di Marion. A partire dalla definizione generale del fenomeno come rapporto tra intuizione e concetto/intenzione, e dalle possibili variazioni di questo rapporto, Marion delinea una «topica» dei fenomeni, distinguendo fenomeni poveri, fenomeni comuni e fenomeni saturi: in quest’ultimo caso l’intuizione e quindi la donazione saturano il fenomeno, sono eccedenti e sovrabbondanti rispetto a ogni concetto o intenzione soggettiva; in quanto recano in sé il grado massimo di donazione, i fenomeni saturi sono per Marion il paradigma stesso della fenomenalità10. Questo concetto di fenomeno saturo appare per più versi discutibile e può avere dei contraccolpi sull’analisi dell’io. Indichiamo sinteticamente i punti che ci appaiono problematici in questa direzione:
1) è innanzitutto l’idea stessa di questa gerarchia «valutativa» dei fenomeni, in cui un loro caso particolare viene assunto come paradigmatico mentre gli altri sono pensati a partire da esso come sue «varianti indebolite» e «progressive estenuazioni»11, ad apparire problematica. Questa impostazione gerarchizzante e «classificatoria» entrerebbe del resto in contrasto con un’analisi genealogica per motivi di principio, perché nelle sue interpretazioni rischierebbe di piegare l’intreccio infinitamente complesso, l’ordine e la sequenza genetica dei fenomeni alla volontà di stabilire (o confermare) questa gerarchia nelle sue classificazioni e nelle sue «progressive estenuazioni».
2) A partire dall’assunzione preliminare della definizione del fenomeno come rapporto tra intuizione e intenzione/concetto e da una relazione ambigua tra donazione e intuizione, la gerarchia sfocia con il fenomeno saturo in una sorta di eccesso sovrabbondante e «abbagliante» della donazione intuitiva, che ci sembra configurarsi come un eccesso di presenza e sancire una positività dell’origine. Ma se c’è genesi dell’io per rispecchiamento ed eterocostituzione, e se bisogna rendere conto dell’accadere del sé (del fatto che l’adonato, al di là della metafora precedente, non è semplicemente uno specchio riflettente, ma è un rapporto a sé), questa costituzione ci sembra richiedere, per poter aver luogo, uno scarto originario, una contaminazione differenziale di presenza e assenza, piuttosto che la ricezione di un eccesso di intuizione: con una formula, si potrebbe dire che si tratta di cogliere e affermare nei fenomeni «lo scarto piuttosto che l’eccedente»12. Questa posizione potrebbe del resto essere ricavata a partire dalle interessanti analisi che lo stesso Marion dedica al rapporto tra appello della donazione e risposta dell’adonato: la risposta è sempre in ritardo sull’appello che la «precede» e la eccede, essa tenta di rispondere a esso senza poterlo mai esaurire, ma la risposta è fenomenologicamente prima perché solo in essa l’appello si rende visibile, in uno scambio circolare dell’apriori e dell’aposteriori13. Si apre così un differire originario e interminabile delle risposte, che costituisce come tale l’adonato e di conseguenza tutta la fenomenalità. Questo differire originario è quindi ciò che dà, ma non è esso stesso dato/donato: né nel senso generale del «dato» (donné), né a fortiori nel senso dell’eccesso intuitivo dei fenomeni saturi. All’origine dell’io non c’è la donazione di un eccesso intuitivo, ma la differenza e lo scarto di una non-donazione, il differire nel quale si costituisce l’io come rapporto a sé nella differenza da sé e quindi anche come apertura all’altro da sé.
3) Questa affermazione generale può essere confermata e insieme concretizzata grazie al ruolo di alcuni fenomeni decisivi. L’anello di congiunzione tra la questione del fenomeno saturo e quella dell’adonato ci è fornito dallo stesso Marion, che tra i fenomeni saturi annovera anche la carne (chair, traduzione dell’husserliano Leib). Marion assegna alla carne proprio il privilegio di essere quel fenomeno saturo che non dà soltanto qualcosa a me, ma «che mi dona a me stesso», «che assegna l’ego a se stesso», determinandone così anche la fatticità e l’individuazione: «io non mi dò dunque la mia carne; essa mi dona a me stesso donandosi a me – sono adonato a essa»14. Ma è la caratterizzazione più specifica che viene data della carne, e che ne permette l’inquadramento tra i fenomeni saturi, a suscitare non poche perplessità15. La carne è in effetti fenomeno saturo in cui l’eccesso della sua affettività precede ogni intenzionalità dell’io e supera ogni comprensione concettuale: essa è tale eccesso in quanto è autoaffezione originaria (l’etero-affezione da parte di qualcos’altro è possibile in virtù dell’autoaffezione della carne in se stessa e da se stessa), immanente e immediata (nell’immanenza assoluta della carne essa precede e rende impossibile ogni scarto intenzionale tra l’io e l’oggetto, l’intenzione e il riempimento) e di conseguenza assoluta (precedendo l’eteroaffezione ed essendo immediata, la carne, a differenza dei fenomeni comuni, è ab-soluta perché si sottrae a ogni relazione e a ogni orizzonte, non rinvia che a se stessa, nell’unità indissociabile del sentito e del senziente).
Alcune osservazioni rispetto a questa caratterizzazione della carne ci sembrano imporsi: a) come ha messo in luce Derrida nella sua descrizione dell’autoaffezione in La voce e il fenomeno – dove l’autoaffezione si identifica al movimento della temporalità fenomenologica – non si comprende come possa esserci autoaffezione, affezione di sé, senza uno scarto dell’io rispetto a sé, senza una differenza interna al sé che lo apre all’altro e al «fuori», quella differenza che intacca la presenza contaminandola con l’assenza: l’autoaffezione presuppone che «una differenza pura [venga] a dividere la presenza a sé. È in questa differenza pura che si radica la possibilità di tutto ciò che si crede poter escludere dall’autoaffezione: lo spazio, il fuori, il mondo, il corpo, ecc. […] Questo movimento della dif-ferenza non sopravviene a un soggetto trascendentale. Lo produce»16. L’autoaffezione e la temporalità non sono immediate e ab-solute, ma sono l’ambito stesso della mediazione e della contaminazione, della differenza e della relazionalità; o, in altri termini, se l’«ultimo e vero assoluto» è il tempo, allora non c’è nessun singolo fenomeno che possa darsi come assoluto. b) Questa contaminazione dell’interno e dell’esterno, della presenza a sé e dell’espropriazione, implica anche un intreccio tra Leib e Körper. Contro una certa assolutizzazione della chair (assoluta e assolutamente non-oggettiva, invisibile, immanente, eccedente) bisogna ricordare che il Leib è anche sempre Körper. Non si tratta qui di rinunciare all’imprescindibile distinzione tra i due termini, ma di ricordare che si tratta di una distinzione di senso e non, per dirla in un linguaggio scolastico, di una distinzione «reale», cioè tra due res differenti, e che è proprio questo che fa la complessità dell’io incarnato e della sua esperienza: il mio corpo-soggetto può sempre convertirsi parzialmente in corpo-oggetto e viceversa; io sono al tempo stesso un io con un Leib per il quale si fenomenalizza il mondo e un ente intramondano, in virtù del mio corpo fattuale ed esposto all’esterno, al contatto con le cose e allo sguardo degli altri. c) È qui, infatti, che si inserisce anche la questione dell’intersoggettività. Se pensiamo alla dinamica descritta da Husserl nella Quinta meditazione cartesiana e in particolare poi allo sviluppo che ne ha dato Patočka17, l’elemento peculiare della genesi dell’io nella relazione all’altro sta forse proprio in un incrocio dei corpi, del corpo-soggetto e del corpo-oggetto, del mio corpo e del corpo dell’altro: nel mio campo di esperienza appare un corpo che si rivela essere il Leib di un altro io e, più originariamente, io stesso mi costituisco ricevendomi per rispecchiamento a partire dall’altro e dall’immagine di me che egli mi restituisce, poiché egli può vedermi dall’esterno e quindi può anche oggettivare il mio corpo. Del resto, parlare di un’autoaffezione immediata e assoluta rischia di sancire un solipsismo originario, rispetto al quale diventerebbe poi difficile comprendere come possa accadere un’apertura all’altro.
4) Una genealogia dell’io sarebbe inevitabilmente condotta a esaminare anche il ruolo decisivo del linguaggio. Lo schema delineato da Marion (l’adonato come colui che accade ricevendosi dalla donazione che riceve) potrebbe confermare anche qui la sua fecondità, ma la sostanziale (e significativa) assenza della questione del linguaggio nella sua fenomenologia non può che sollevare una serie di interrogativi. Che ne è del linguaggio nella «topica» dei fenomeni di Étant donné? Se l’adonato è colui che si riceve da ciò che riceve, che ne è di esso nel momento in cui (si) riceve il (dal) linguaggio? Si potrebbe cercare di mostrare che è nell’autoaffezione linguistica, ricevendosi/rispecchiandosi a partire dal linguaggio, che l’io diviene pienamente tale, un sé e un’autocoscienza stabile che accede anche alle sue funzioni «superiori» e razionali. Ma che cosa «dona» il linguaggio all’io? «Solo dov’è linguaggio vi è mondo»18, scrive Heidegger: il linguaggio apre e dona un mondo, il mondo come totalità originaria dei fenomeni presenti e assenti. L’io compreso fenomenologicamente è tale in quanto è aperto alla manifestatività del mondo in totalità e si riceve a partire da questa.
A partire dalla donazione (evenemenziale e presoggettiva) dei fenomeni, l’io accade in un differire originario ricevendosi per rispecchiamento dal corpo e dall’altro, dal tempo e dal linguaggio, è dato a se stesso e come se stesso dall’intreccio di questi fenomeni che costituisce l’orizzonte universale dell’esperienza: il mondo. La questione della genesi dell’io si rivelerebbe così inseparabile da una cosmologia fenomenologica, ovvero da quello che Fink, con l’approvazione di Husserl, indicava come il problema fondamentale della fenomenologia: la questione dell’origine trascendentale del mondo19.
Notes de bas de page
1 J.-L. Marion, Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Paris, PUF, 1997, p. 441; trad. it. R. Caldarone, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, Torino, SEI, 2001, p. 393 (in seguito indicato con la sigla ED, seguita dal numero di paragrafo o dal numero di pagina dell’edizione francese e della traduzione italiana, dalla quale ci discostiamo peraltro in più punti).
2 Ipotesi che qui non possiamo che enunciare in termini generali: per alcune prime analisi in questa direzione, e per alcuni dei riferimenti che seguiranno nel testo, ci permettiamo di rimandare a R. Terzi, Il tempo del mondo. Husserl, Heidegger, Patočka, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 23 ss., 65 ss., 169 ss., 210 ss.
3 E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Husserliana Band 1, a cura di S. Strasser, Den Haag, M. Nijhoff, 1950, p. 100; trad. it. F. Costa, Meditazioni cartesiane, Milano, Bompiani, 2002, p. 92.
4 Ivi, p. 109; it. p. 100.
5 La questione del rapporto tra la fenomenalità e l’io ritorna costantemente in Étant donné, che vi dedica tematicamente l’intero Libro quinto, intitolato L’adonné. Più precisamente, Marion parla di un attributaire che si determina poi in adonné in relazione ai fenomeni saturi; per comodità espositiva utilizzeremo sempre il termine «adonato», dal momento che lo stesso Marion tende a generalizzarlo come denominazione dell’io correlativo alla donazione.
6 Cfr. ED, §26.
7 ED, pp. 364-365; it. pp. 323-324.
8 J.-L. Marion, De surcroît. Études sur les phénomènes saturés, Paris, PUF, 2001, pp. 57-58.
9 Cfr. ED, §28 e pp. 417-418; it. pp. 371-372.
10 Cfr. ED, §§ 19-24.
11 ED, p. 316; it. p. 279.
12 Riprendiamo, in un senso un po’ diverso, la formula di J. Benoist, L’écart plutôt que l’excédent, “Philosophie”, 78 (2003), pp. 77-93, di cui condividiamo in buona parte le osservazioni critiche.
13 Cfr. ED, §28.
14 J.-L. Marion, De surcroît, cit., rispettivamente pp. 121 e 119.
15 Per ciò che segue cfr. ED, pp. 321-323; it. pp. 284-285, e J.-L. Marion, De surcroît, cit., pp. 116-121. Nella descrizione della carne Marion si richiama esplicitamente alle analisi di M. Henry.
16 J. Derrida, La voix et le phénomène, Paris, PUF, 1967, p. 92; trad. it. G. Dalmasso, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Milano, Jaca Book, 1997, p. 120.
17 Tra i diversi testi possibili, cfr. in particolare J. Patočka, Leçons sur la corporéité, in Id., Papiers phénoménologiques, trad. fr. E. Abrams, Grenoble, Millon, 1995, pp. 53-116.
18 M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Gesamtausgabe Band 4, a cura di F.W. von Herrmann, Frankfurt a.M., Klostermann, 1981, p. 38; trad. it. L. Amoroso, La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi, 1988, p. 46.
19 Cfr. E. Fink, Studien zur Phänomenologie: 1930-1939, Den Haag, Nijhoff, 1966, p. 101.
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