Appendice 2
«Continental Divide»: centralità del lavoro e questione di genere
p. 365-380
Texte intégral
1. Forse è meglio partire da me. Questa è, credo, la cosa più pericolosa che io abbia mai fatto. E, ahimè, non vedo modo di farla bene. Almeno qui, almeno ora. Almeno io, forse. Non so cosa mi abbia preso quando ho detto di sì alla richiesta di scrivere questa Postfazione. Sono stato, con buona probabilità, narcisisticamente stuzzicato dalla proposta di Alessandra Vincenti, amica che mi onorava nel chiedermelo, ma non sapeva di mettermi nei guai. Il tema, sì, mi sembrava incrociare molti interessi e passioni, ormai di una vita: la questione del «genere» (nel mio caso, intrecciata al problema del lavoro e del rapporto con Marx), il cinema, forse la letteratura. Il punto è che è veramente difficile entrare su questo terreno «dall’esterno», alla fine di un volume ricco come quello curato da Alessandra con Monia Andreani, Coltivare la differenza, senza dire banalità di cui, credo, non si senta il bisogno. Dovrei, molto semplicemente, invitare il lettore (e la lettrice!) ad apprezzare i ricchi, oltre che dotti, saggi introduttivi delle curatrici di quel libro. E ancora di più, a immergersi nei saggi delle studentesse e degli studenti, lavori stimolanti di notevole maturità, veri e propri «saggi». Sta qui forse l’aspetto più interessante del volume, che la dice lunga su un bel modo, finalmente, di «essere università» oggi. Un modo che, per una volta, non semplifica, non fornisce (solo) nozioni o istruzioni per l’uso, non acquieta, ma sfida gli studenti a essere «sorpresi», ad andare «controcorrente».
2. Any resemblance to people living or dead is purely accidental. Especially you, Jenny Beckman. Bitch.
(500) days of Summer
1Credo che un inizio fulminante come questo, di un film recente (commedia?) sia tipicamente maschile. Non riesco a immaginarmi – io – un equivalente femminile. Un amore «romantico», quello del protagonista, rivolto a un ideale di Donna che si è costruito. Peccato che la donna che ha di fronte sia semplicemente collocata in un «disegno» che non sente suo. Ha diritto di parola. Ma una parola che non è ascoltata. Niente di più facile per me che identificarmi – d’altra parte, non è il laureato IL film d’amore esemplare, secondo Tom Hansen? Un film che avrò visto, al cinema, almeno 12 volte (non se ne traggano conclusioni affrettate: lo stesso è successo, che so, con la Merlettaia o Tess, o Adele H., dove l’identificazione era sempre con la figura femminile). La donna era, nella mia educazione, non solo oggetto di romantica idealizzazione: era «altra» che meritava rispetto.
2In fondo, la mia generazione, almeno per come la vedo io, è stata anche costruita da quella grande epica che è stata il western. Non per la «superficie» di scontro machista che lo ammanta. Semmai per scene che sovvertono la tradizione ricevuta. Come in Sentieri selvaggi, dove il protagonista, sudista e razzista, Ethan, nel finale, invece di uccidere Debbie, giovane bianca divenuta Comanche, come era sua intenzione, la solleva, prendendola tra le braccia. Come scrisse Godard: Ulisse riunito con Telemaco. O ancora: in Cavalcarono insieme, Guthrie McCabe che prende parte per Elena de la Madriaga, messicana, anche lei vissuta tra gli indiani, «come moglie» di un capo, e per questo, una volta «liberata», tenuta a distanza dai bianchi perché «degradata».
3. «Senti Boccaccio», dice Goethe, «perché stai sempre a vantarti di essere un misogino?»
3«Perché i misogini sono la parte migliore dell’umanità maschile.»
4A queste parole tutti i poeti reagiscono con urla ostili. Boccaccio è costretto ad alzare la voce:
5«Cercate di capirmi. Il misogino non disprezza le donne. Il misogino non ama la femminilità. Gli uomini si dividono da sempre in due grandi categorie. Gli adoratori di donne, e cioè i poeti, e i misogini o, per meglio dire, i ginofobi. Gli adoratori o i poeti venerano i valori femminili tradizionali come il sentimento, il focolare, la maternità, la fecondità, i sacri bagliori dell’isteria e la voce divina della natura dentro di noi, mentre ai misogini o ginofobi questi valori ispirano un certo terrore. In una donna l’adoratore venera la femminilità, mentre il ginofobo dà sempre la preferenza alle donne, rispetto alla femminilità. Non dimenticare una cosa: una donna può essere felice solo con un misogino»
6Milan Kundera1
7Le donne a un certo punto non sono state più nel disegno, nella femminilità, dove il maschio se le era immaginate o le aveva relegate. A questo punto, per quelli della mia generazione, si poteva reagire come nella prima inquadratura di (500) days of Summer (ma con meno spirito). Ci si poteva porre mimeticamente (in parte, solo in parte, i men’s studies sono stati, credo, anche questo; e indimenticabile è una scena di Ecce Bombo). Si poteva essere incuriositi (all’inizio magari dentro un grande dolore: ma il parto è anche quello). Si poteva cioè scoprire una dualità, una differenza, che non cancellava l’eguaglianza, che non cancellava l’universalità, ma ne faceva una sfida, una conquista, sempre fragile, ma per questo più importante. Una differenza che senza universalità regredisce all’antico regime.
8Qui, sicuramente, gioca(va), almeno per uno come me, il problema Marx2. Marx conta(va) non per una scelta intellettuale, ma per una condizione «materiale». Non si sceglie la lotta di classe, non si è «volontari». Ci sei gettato dentro, che tu lo voglia o no, che tu lo sappia o no. Magari come me, borghese, sei fortunato, perché allora Marx lo imparavi, lo respiravi, con operai in carne e ossa (sì, erano allora, nei primi anni Settanta, quasi tutti maschi). Mentre intanto fai attività di quartiere, o stai insieme, con donne, e donne che diventano femministe. In una sinistra «extraparlamentare» che salta in aria anche per una separazione che diviene scontro, in cui i torti stanno da una parte sola, quella dei «maschi», e non basta fuggirne con l’autocoscienza e l’autocritica troppo facile. Pure, la lotta di classe è lì, non è sparita, tanto meno oggi. Così come non è sparita la «centralità» del lavoro, la «centralità» della produzione.
4. Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale. Così in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo. In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. […] In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità.
9Karl Marx
10Secondo i più, la «centralità del lavoro», se mai si è data, è ormai superata nelle cose. La critica verde e anche femminista ha visto in questa tesi marxiana il cuore «industrialista» e «lavorista» del suo discorso. Incarnerebbe un’antropologia fondata sull’idea della «centralità della produzione» – come se centralità del lavoro e centralità della produzione fossero la stessa cosa. Tutto ciò si sarebbe trasformato politicamente nella presunzione secondo la quale la classe lavoratrice, o il partito che pretende di rappresentarne la coscienza, avrebbe titolo a una posizione di primato nel blocco sociale anticapitalistico, e nella costruzione della nuova società. Il fallimento dell’approccio marxiano sarebbe benvenuto. Se via d’uscita dalle relazioni capitalistiche esiste, essa andrebbe individuata nella ricerca, qui e ora, di un «altrove» di relazioni produttive e interumane non mercantili.
11Non intendo affatto negare che tracce di una logica argomentativa industrialista e lavorista siano rintracciabili in Marx. Ma c’è un altro Marx. È il Marx per cui non c’è separazione tra «tecnica» e «politica», per cui la lotta di classe è costitutiva di un’ontologia relazionale. L’idea di Marx è che il capitalismo, per la prima volta nella storia, renda possibile un essere umano autenticamente sociale. L’individuo «isolato» non è (più) concepibile, al suo posto subentra l’individuo costruito dalla relazione. L’interazione non è vista come un limite ma come una risorsa: risorsa, esattamente, per il perseguimento della «libertà positiva», rispetto alla quale il superamento della divisione in classi e dello sfruttamento nel lavoro sono premesse necessarie, perché, come scrivono Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista, la libertà degli altri è condizione della mia.
12A ben vedere, la «centralità della produzione» nell’autore del Capitale non ha alcun portato normativo. Il lavoro come dimensione essenziale della natura dell’essere umano è un portato dello stesso capitalismo, che però contemporaneamente lo nega, svuotando il lavoro di ogni ricchezza e assolutizzando questa «astrazione» di attività a sostanza fondamentale della ricchezza capitalistica. La lotta nella produzione è «centrale» nel senso che la necessaria messa in crisi dell’universo capitalistico non può non toccare il cuore del meccanismo sociale. A dimostrazione di quanto Marx sia ben lontano da una raffigurazione della nuova società come generalizzazione della condizione di proletario dovrebbe bastare questa limpida frase tratta dalla Sacra Famiglia: «Se vince, il proletariato non diventa il lato assoluto della società; infatti, esso vince soltanto togliendo sé e il suo opposto». Realizzare la potenza del lavoro autenticamente sociale significa, sì, uscire dalla passività del lavoro sfruttato; significa, sì, far divenire il lavoro un bisogno e non una pena; ma significa anche impedire al lavoro di assorbire esaustivamente l’esistenza. Significa dare spazio alla «contemplazione», alla «cura» e al «gioco».
13L’errore delle critiche femministe e verdi a Marx, che si è poi diffuso in una rappresentazione caricaturale e di maniera negli anni Novanta del Novecento, non sta soltanto nell’avere indebitamente ridotto Marx al (peggio del) marxismo storico. Sta, più di fondo, nel non aver colto che, se l’analisi marxiana ha qualche freccia al suo arco, sta nell’indicare che la centralità della produzione non è un costrutto dell’immaginario. Combatterla presuppone la capacità di riattivare una centralità del(le lotte del) lavoro dentro e contro il capitale. Le cose stanno ancora così, e l’incontro, non la separazione, tra movimento dei lavoratori e movimento femminista è un compito che richiede un dialogo, vero. Che impone di riconoscere l’errore della vecchia come della nuova sinistra: quello di tradurre indebitamente la centralità «sociale» del lavoro in una centralità politica, nella quale la relazione tra i diversi soggetti si configura come gerarchica e non invece su un piano di parità. La costruzione di una diversa morfologia del blocco alternativo è una sfida ancora inevasa, cui si è sostituita sinora, quando va bene, la sommatoria di soggetti irrelati e resi indifferenti.
5. Noi, tutti e due, internamente «viviamo» di continuo, cioè cambiamo, cresciamo, perciò di continuo si crea una sproporzione, uno squilibrio, una disarmonia di alcune parti dell’anima con le altre. Dunque bisogna fare una continua revisione interna, ricostituire l’ordine e l’armonia. C’è sempre qualche cosa da fare con se stessi, ma per non perdere mai la misura delle cose, che consiste a mio avviso nell’utilità della vita esteriore, l’atto positivo, l’attività creativa, in una parola per non affondare nella consumazione e nella digestione spirituale, ci vuole il controllo di un’altra persona, che ci sia vicina, che comprenda tutto, ma che sia fuori da questo «io» che cerca l’armonia.
14Rosa Luxemburg3
15Dove si vede bene la difficoltà di maneggiare nodi come questi è nel destino che è toccato a Rosa Luxemburg. Margarethe von Trotta ha fatto un bel film su di lei. Pure qualcosa non torna. In un articolo su “l’Unità” la regista sintetizzava la sua eredità nell’amore, nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più lontano da «Rosa la sanguinaria», come veniva soprannominata dagli avversari. Già nel film, peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente femminista nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti e aspetti di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria. Peccato che ciò che di lei soprattutto si pubblica in Italia e nel mondo dagli anni Ottanta siano prevalentemente le lettere. Fino a pochissimo tempo fa era impossibile procurarsi in libreria l’Accumulazione del Capitale, o anche una raccolta decente dei suoi scritti politici (finalmente, Verso sta pubblicando proprio quest’anno il primo volume delle Opere Complete).
16Così, si assolutizza il lato «femminile» mettendo tra parentesi la vita spesa nel lavoro teorico marxiano, tra analisi del capitale (e della crisi) e agire politico, così come la lucida coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro di esse. Si finisce, dunque, con il riproporre una divisione delle ragioni dalle passioni. Quello che nel film Rosa L. era utile e provocatorio diviene, nella formula troppo ellittica «l’amore era la sua guida», un appello generico ai sentimenti, e infine una non innocente distorsione di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra pensiero (un pensiero rivoluzionario, con quanto di «sporco» e irrisolto l’aggettivo comporta) e sentire (un sentire caratterizzato da affezioni radicali e intransigenti, come era nella natura della Luxemburg) che si voleva combattere.
17Della persona che ha scritto in uno dei suoi ultimi articoli su “Rote Fahne”, nel dicembre 1918, «Un mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto asciugata, è un atto d’accusa» non si può, non si deve, perdere la tensione tra momento della lotta e momento della com-passione: non lo si può, non lo si deve perdere, perché è appunto nel legame tra «forza» della trasformazione sociale e «debolezza» che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che risiede quanto di più inquietante e innovativo questa rivoluzionaria può dire a noi ancora oggi.
18Forse mi sbaglio, ma vedo un nesso tra quanto scrive il 3 luglio 1900 la donna innamorata al suo compagno e quanto pensa la rivoluzionaria marxista. Mi sembra che la «Rosa inattuale» di cui ha scritto Rossana Rossanda nella sua Introduzione alla ristampa della biografia di Frölich, la Luxemburg che parla al nostro bisogno di «unità della persona nella indolenzita trama del dolore e della speranza, dell’intelligenza e dei sentimenti, dell’io e del mondo, ricomposti», sia la stessa Luxemburg che vuole superare la separazione tra individuo e società. Che la donna che scrive «ho bisogno dopotutto di qualcuno che mi creda quando dico che solo per sbaglio sono presa nel turbine della storia del mondo, ma che in realtà sono nata per stare a custodire le oche» (Lettere ai Kautsky, p. 236) è la stessa persona che preconizza nei suoi scritti scientifici la possibile fine di un mondo costruito sul primato dell’economico. Che, insomma, questa donna che sottopone l’«io» che cerca l’armonia al rischio della relazione con l’altro da sé e alla sfida del cambiamento sia, fuori da ogni vuota retorica, la combattente che le sue opere e la sua lotta ci hanno consegnato.
6. Nelle ultime settimane non avevo fatto neppure il più utile degli esercizi: la ginnastica facciale. Un tempo, prima di cominciare a fare i miei esercizi, usavo tirar fuori la lingua per sentirmi realmente vivo e presente prima di staccarmi di nuovo da me stesso. Più tardi abbandonai questo esercizio e presi a guardarmi attentamente in viso, senza far uso di nessun trucco e movimento, ogni giorno per almeno mezz’ora, finché alla fine non esistevo più: dal momento che non soffro di narcisismo, spesso mi sentivo prossimo alla pazzia. Dimenticavo semplicemente che ero io quella faccia che vedevo nello specchio, voltavo lo specchio e quando avevo finito gli esercizi, o quando più tardi, nel corso della giornata mi vedevo per caso nello specchio, passando, mi spaventavo: c’era un estraneo nella mia stanza da bagno, al gabinetto; un tizio che non sapevo se fosse serio o buffo, un fantasma pallido con il naso lungo; e allora correvo più in fretta che potevo da Maria, per vedermi nel suo viso. Da quando lei non c’è più non riesco più a fare i miei esercizi: ho paura di diventare pazzo. Quando avevo finito il mio lavoro andavo da lei, il più vicino possibile, fin quando riuscivo a vedermi nelle sue pupille: un’immagine minuscola, confusa ma riconoscibile. Quello ero io, eppure ero quello stesso di cui avevo paura quando ero davanti allo specchio.
19Heinrich Böll4
20Osserva Donald Winnicott che un fatto «scomodo» accomuna donne e uomini: essere stati una volta dipendenti da una donna. Una piena maturità si raggiunge quando l’avversione per questa circostanza si tramuta in un qualche genere di gratitudine. In Beyond Drive Theory: Object Relations and the Limits of Radical Individualism5, Nancy Chodorow ha sviluppato una critica distruttiva delle tesi di Herbert Marcuse e Norman Brown contro il principio di realtà e a favore del principio del piacere. Secondo la Chodorow, Marcuse e Brown assolutizzano il punto di vista del bambino. In tal modo, non si rendono conto che il principio di realtà non è integralmente riducibile a una civilizzazione repressiva basata sul principio di prestazione. Esso è anche, e in primo luogo, la soggettività di altri – per il bambino, la soggettività della madre. I bisogni degli altri divengono un problema solo per l’adulto, e nel corso del processo di crescita. Negando l’altro, si nega in primo luogo la donna.
21Svalutando la relazione sessuale di tipo «genitale», Marcuse e Brown concepiscono il piacere soltanto in quanto non separazione dall’oggetto d’amore: ma è proprio a partire dalla separazione che è possibile l’incontro con i desideri dell’altro, che acquistano quasi la stessa importanza dei propri. Ancora, il rifiuto dell’elemento procreativo nella sessualità (che entrambi gli autori riprendono da Nietzsche) esprime una negazione dell’esperienza della maternità (e, più in generale, della genitorialità), la quale richiede un agire che combina razionalità teleologica, senso della realtà, accoglimento dei bisogni dell’altro. La donna è qui negata, dunque, tanto come soggetto di desiderio, quanto come madre-persona che insieme gratifica e limita l’onnipotenza infantile. Al più compare – sulla scorta di Totem e tabù di Freud – come oggetto sessuale (proprietà comune della donna); o viene, addirittura, annullata in quanto singola e identificata con il mondo (senso oceanico), in una fusione che configura una relazione asimmetrica di asservimento dell’altro a sé.
22Non a caso, rileva la Chodorow, gli eroi di Marcuse e Brown sono Orfeo e Narciso: uomini che incorporano in sé il femminile, ma non hanno relazioni con donne. La liberazione, in questa prospettiva di individualismo radicale, è in primo luogo liberazione dall’altro, dalla donna. Su queste basi, di rifiuto del processo di crescita e del principio di realtà, il recupero del narcisismo primario difficilmente può far da base a una teoria della società non individualistica, e a suo modo repressiva. All’opposto, psicoanalisi e femminismo possono essere visti come l’affermazione di una diversa fondazione psicoanalitica per una teoria sociale alternativa. Si tratta di rifarsi a un «individualismo relazionale», che sottolinei come gli individui siano costituiti dalle relazioni con gli altri, a partire da quella primaria con la madre. La nostra struttura psichica è sin dal principio costruita socialmente. I soggetti possono sfuggire all’alternativa tra solipsismo e fusione se accettano la separazione e una «matura dipendenza» dall’altro come condizione della propria individuazione e del perseguimento del proprio desiderio.
23Ecco che in altro modo i temi di cui parlavo a proposito di Marx ricompaiono: una essenziale socialità dell’individuo (per Marx, nel lavoro), una intrinseca relazionalità, che rende ormai improponibile il paradigma dell’«uomo solo», che era proprio il paradigma di Smith, dove uomo è proprio il maschio. Non ho mai capito sino in fondo il politically correct del duplicare il maschile nel femminile quando si parla di soggetti nel mondo dell’economia capitalistica. Il capitale, e le maschere che vi si aggirano, sono inevitabilmente maschili. Combattere patriarcato e capitale, oggi, dovrebbe andare di pari passo (pur senza confondere l’uno con l’altro, come un certo femminismo sta iniziando a fare). Di nuovo, genere e classe dovrebbero essere poli, diversi, di un discorso, dialogo, unico.
7. This leads me to make the following formulation: to fully appreciate being a woman one has to be a man, and to fully appreciate being a man, one has to be a woman.
24Donald Winnicott6
25E così anche una piccola pretesa di uscire da questa difficile situazione almeno con una frase originale all’inizio di questa Postfazione è «andata». Questa è, credo, la cosa più pericolosa che io abbia mai fatto. Così ho cominciato. Peccato che Winnicott apra il suo This feminism (20 novembre 1964) proprio con: This is the most dangerous thing I have done in recent years. E mi ritrovo ora di fronte questa sua frase mentre ne cerco un’altra… La raccolta in cui è inserito questo «appunto per una conferenza» l’ho acquistata nel 1986. Se ricordo bene, lo scritto è stato tradotto in italiano da Rossanda pochi anni dopo, in una rivista femminista legata al Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, ma potrei sbagliarmi. Certo, oggi esisterà una edizione italiana del volume.
26In Harold e Maude, altro film visto e rivisto, c’è una scena molto bella, con un dialogo tra i due protagonisti, il giovane Harold ossessionato dai funerali e dagli sfasciacarrozze, e la settantanovenne Maude. Maude cerca di convincere Harold che non è abbastanza: c’è qualcosa «di più», di meglio. I ask you though, Harold, is it enough? In campagna, alla domanda di Maude che fiore voglia essere, Harold non sa che rispondere. Sono tutti «uguali» – alike. Maude nega. E aggiunge: You see, Harold, I feel that much of the world’s sorrow comes from people who are this… yet, allow themselves to be treated as that. Nel doppiaggio italiano c’è uno scarto, a suo modo, geniale: perché Maude dice Secondo me gran parte delle brutture di questo mondo viene dal fatto che della gente che è diversa permette che altra gente la consideri uguale. Uno scarto di traduzione che esprime già il mutamento di atmosfera: dall’«eguaglianza» alla «differenza» come opposti, polarmente antitetici. Il film è del 1971, e come pochi respira l’aria di quegli anni.
27Eppure Maude ha del tutto ragione. Perché l’eguaglianza di cui parla è l’in-differenza, l’indistinzione, la massificazione. Peccato che ciò che è seguito ha fatto della differenza non il polo di un rapporto o di una relazione, da costruire, semmai la differenza è divenuta la separazione, la distinzione, in cui ogni cosa ha però finito, pluralisticamente, con il «valere» quanto ogni altra. La sfida rimane inevasa.
8. Ain’t it amazing all the people I meet
Got a revolution Got to revolution
One generation got old
One generation got soul
This generation got no destination to hold
Pick up the cry
Hey now it’s time for you and me
Got a revolution Got to devolution
Jefferson Airplane, Volunteers (1969)
While they’re standing in the welfare lines
Crying at the doorsteps of those armies of salvation
Wasting time in the unemployment lines
Sitting around waiting for a promotion
Don’t you know
They’re talkin’ ’bout a revolution
It sounds like a whisper
[...]
Don’t you know
They’re talkin’ ’bout a revolution
It sounds like a whisper
Tracy Chapman, Talkin’ bout a revolution (1988)
28Nel Sessantotto si era affermata una nozione di eguaglianza diversa tanto dalla eguaglianza formale, l’eguaglianza dei diritti, e dunque dei punti di partenza e delle opportunità, tipica del pensiero liberaldemocratico, quanto dalla eguaglianza sostanziale, livellatrice, uniformante del modello vetero-comunista, e dunque dei punti di arrivo. Si trattava del riconoscimento della pari dignità dei soggetti, pari dignità che è invece negata realmente da un processo sociale che è profondamente disegualitario. È una eguaglianza tutta da costruire, rompendo le diseguaglianze di potere e di sapere che realmente instaurano e riproducono gerarchie ed eteronomia.
29Questa nozione di eguaglianza, lungi dall’essere negatrice delle differenze, dà loro spazio affinché si manifestino. È critica e negazione tanto dell’eguaglianza intesa come massificazione e conformismo quanto della differenza intesa come gerarchia e come destino imposto e non scelto. Nei momenti più alti dell’autocoscienza teorica del Sessantotto (si pensi, per fare un nome soltanto, a Hans Jürgen Krahl) la lotta all’eteronomia, il partire da sé, l’essere dentro e contro sono inseriti in una analisi della «totalità» capitalistica. Contro cui si lotta, ma cui non si può non riconoscere sul piano conoscitivo e reale (di una realtà che si vuole rovesciare) un primato. Affermare la propria autonomia è mettere in crisi il sistema presente, non separarsene. Quando i movimenti prenderanno invece questa seconda via, negando l’universalismo del momento iniziale – quando cioè ognuno andrà per conto proprio – ciò sarà effetto (e in parte causa) della sconfitta dei movimenti.
30È diffusa l’opinione secondo cui il Sessantotto, antiautoritario e movimentista, sarebbe poi stato sopraffatto e soffocato da un Sessantanove operaista e dallo sciagurato politicismo degli anni Settanta, dei gruppi prima e del terrorismo poi. Eppure il legame tra Sessantotto e Sessantanove è forte e interno. Nelle lotte operaie del ciclo 1969-1973 al centro è ancora il tema dell’eguaglianza, ed è comune al movimento degli studenti e all’autunno caldo la rivendicazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione. Il conflitto nei luoghi di lavoro non si limitava alle classiche lotte distributive ma diveniva in primo luogo lotta allo sfruttamento: le lotte sul salario vengono affiancate da lotte sulla produttività, le lotte sull’orario dalle lotte sulla gerarchia nel processo di lavoro. Se le lotte di quegli anni non possono essere semplicisticamente viste come lotte per l’ottenimento di più valori d’uso, di più merci, di maggiore consumo reale, ciò non significa che in esse la dimensione del valore d’uso sia irrilevante. Le lotte di quegli anni sono, anzi, lotte sul valore d’uso della forza-lavoro.
31Il valore d’uso della forza-lavoro non è separabile da lavoratrici e lavoratori come individui concreti. Il capitale per ottenere lavoro e pluslavoro deve «comandare» l’operaio in quanto essere umano, deve sfruttarlo in quanto corpo, in quanto essere naturale [se ne è parlato nella prima Appendice, in questo volume]. Riemerge qui un tema che abbiamo visto essere tipico del Sessantotto, e si anticipa in un certo senso una tematica ecologista: basti pensare alle lotte per la salute, e dentro la fabbrica alla parola d’ordine – tutt’altro che scontata, come mostra la storia prima e dopo di allora – «la salute non si vende». È presente anche, del Sessantotto, la tensione tra eguaglianza e differenze: l’egualitarismo di quegli anni si accompagna difatti non alla negazione delle diverse culture presenti con diverso peso nella composizione della classe lavoratrice di allora – dall’operaio di mestiere all’operaio-massa, dall’etica del lavoro al rifiuto del lavoro – ma al loro comunicare e riconoscersi pari dignità ed efficacia, nel rifiuto di un meccanismo omologante.
32Se questi sono alcuni dei caratteri di quel ciclo di lotte, si può dire a ragione che esse erano anche lotte contro il primato della produzione. Ma, dall’altro lato, le forme che assumevano tali lotte (nesso eguaglianza-differenze, autonomia dei movimenti della composizione di classe, primato dei bisogni concreti di lavoratrici e lavoratori contro il meccanismo astratto della valorizzazione) costituivano una critica pratica di straordinaria forza alla tesi del primato delle ragioni dell’economia su quella delle altre sfere della connessione sociale.
33L’accusa di buona parte del pensiero femminista, ma anche verde, è quella secondo cui la centralità del lavoro comporterebbe una ideologia dell’«uomo produttore». In quanto predicata su una generica, non sessuata, nozione di «uomo», tale ideologia altro non sarebbe che una falsa universalizzazione, che attribuisce un indebito primato nell’agire umano alla dimensione del lavoro e della produzione di beni, cioè a una dimensione che storicamente è stata solo, o prevalentemente, maschile. Di conseguenza, si sostiene, si finirebbe con l’attribuire a entrambi i sessi ciò che è proprio solo di uno di essi, e con il negare valore ad altre sfere dell’attività umana come quella della riproduzione, storicamente delegata al genere femminile. In quanto ideologia dell’uomo produttore, tale posizione sarebbe solidale rispetto a un atteggiamento di dominio illimitato dell’uomo sulla natura, con tutte le conseguenze distruttive dell’equilibrio ambientale che abbiamo tragicamente sotto gli occhi.
34Una parte significativa del femminismo si è sentita estranea rispetto al conflitto di classe: indifferente, quando non ostile, all’idea di eguaglianza. Vi sono, certamente, delle posizioni femministe che accentuano la fondazione biologica della differenza sessuale: il passo verso l’affermazione della differenza come diseguaglianza naturale e originaria è qui breve, e pericoloso. Si tratta però di posizioni poco interessanti. Più interessanti sono le posizioni che riconducono il femminismo alla differenza di «genere», cioè a una differenza tra maschile e femminile che trova origine in un impasto di natura e cultura, in cui il secondo termine ha la prevalenza sul primo, gli dà forma. All’interno di questo modo di impostare la questione, tanto la ricerca quanto il movimento delle donne hanno avuto certamente il merito di dare peso, scientifico e politico, a temi non a caso a lungo disattesi dalla ricerca «maschile»: dalla maternità al lavoro domestico; dalla finta neutralità asessuata del linguaggio alla tutt’altro che «naturale» formazione psicologica delle personalità maschile e femminile; dalla critica del prometeismo della scienza e della tecnica attuali alla accettazione della logica del rischio come costo del progresso tecnico. E si potrebbe continuare.
35Quando il femminismo si è posto sulla scia del postmodernismo e del pensiero debole il problema è stato il non rendersi conto che la pluralità irrelata dei soggetti sociali non è che l’altra faccia del medesimo processo di ristrutturazione sociale ed economica che ha segnato in permanenza l’ultimo capitalismo. La «debolezza» delle pretese, conoscitive e trasformative, dei nuovi soggetti, è il risultato di un potere sistemico capillarmente diffuso e invisibile, ma proprio per questo «fortissimo», e in questo senso del tutto «maschile». L’atteggiamento che, almeno da noi, ha egemonizzato la discussione femminista è stato però un altro, il pensiero forte della differenza sessuale, che non annega la differenza di genere nelle altre differenze. Qui, d’altronde, il richiamo all’identità rischia di scivolare nell’essenzialismo: è l’essere donna, esperito come un fatto, a dover trovare una significazione, nella costruzione separata di un linguaggio, di un pensiero, di una cultura, di un immaginario. L’affermazione – che condivido – secondo cui la duplicità di genere dà luogo a punti di vista differenti si prolunga nella tesi, che mi pare invece inaccettabile, secondo cui non avrebbe senso l’universalismo (l’affermazione della presenza di caratteri comuni ai generi: caratteri certo sempre da costruire, e sempre transitori, ma nondimeno tali da poter parlare, appunto, di «un» genere umano); e trascolora quindi da differenza di genere a differenza di specie.
36Più intriganti altre posizioni, sinora minoritarie. Ne ricorderò un paio. La prima è la critica femminista all’economia: la critica al primato della produzione sulle altre sfere dell’agire sociale. Il problema della critica femminista all’economia è che non sempre pare cosciente fino in fondo della necessità di legare un superamento della centralità ossessiva (nella misura in cui totalizzante) della produzione alle lotte del lavoro, qui e ora; di vedere, cioè, in una più equa ripartizione del compito della riproduzione e in un diverso modo di produrre (dunque, in una diversa forma dell’attività) due facce di una unica medaglia. Certo, sarebbe interessante interrogarsi sul perché il lavoro riproduttivo, tanto in senso biologico che sociale, sia nel capitalismo un lavoro fondamentale ma invisibile. Lavoro svolto gratuitamente per lo più dentro le pareti domestiche, e cionondimeno essenziale alla riproduzione della forza-lavoro, esso compare raramente nella riflessione economica. La sua assenza nella teoria di Marx – dove il lavoro domestico non produce valore né ha la qualifica di lavoro «produttivo» – ha però tutt’altre ragioni, e non mi sentirei di negarne la verità.
37Il lavoro domestico non è (direttamente) produttivo di valore per almeno due considerazioni. Innanzitutto, la forza-lavoro dell’operaio non è l’esito di un processo produttivo in senso proprio (come discende, in effetti, dalla stessa distinzione femminista di produzione e riproduzione). Poi, il lavoro domestico, pur essendo produttivo di valori d’uso, non è produzione per il mercato, non è produzione di merci, e dunque non compare nella «contabilità» capitalistica (il che esprime proprio quel primato della produzione sulla riproduzione oggetto della critica femminista). In questa prospettiva è possibile, contemporaneamente, affermare la realtà del primato della produzione (che non è solo una finta apparenza dovuta al prevalere di valori maschilisti) e proporne criticamente il superamento (che non va perciò visto soltanto come l’emergere della sfera della riproduzione e la riduzione del peso della produzione, ma anche come il cambiamento del modo di essere nella produzione).
9. Un singolo essere umano, puro e semplice, non mescolato con altri esseri umani, non esiste. Ogni personalità è un mondo in sé, una società di molti […] Noi facciamo parte gli uni degli altri.
38Joan Riviere7
39La seconda posizione femminista che mi pare di grande interesse è quella che individua nell’esperienza e nel punto di vista delle donne i germi possibili di una riflessione che superi le coppie dicotomiche soggetto-oggetto sul terreno epistemologico e individualismo-organicismo sul terreno della filosofia politica, a favore di un approccio che sottolinei l’intersoggettività e l’interdipendenza. Uno dei contributi maggiori che può venire dal femminismo sta proprio nel sottolineare come l’identità si definisca nella relazione e nel mutuo legame. Non solo, o tanto, come valori etici, ma anche e soprattutto come il presupposto necessario di un superamento critico, epistemologico e pratico a un tempo, della razionalità cartesiana e individualista. Come il presupposto, insomma, per una uscita in avanti da quella che, riprendendo un termine utilizzato da Jürgen Habermas nel dibattito sul postmoderno, possiamo chiamare filosofia del Soggetto: senza cadere, d’altro canto, in paradigmi interpretativi organicisti. In questo modo di vedere il «partire da sé» è il partire da un essere già da subito inteso come sociale. Non si propone la costruzione di un mondo separato ma piuttosto un percorso verso la comunicazione. In qualche modo, l’altro come primo bisogno.
40Alla domanda se in questo modo si individui una caratteristica solo femminile, e non anche maschile, risponderei negativamente: certo, l’accento sulla intersoggettività e sull’interdipendenza mi pare qualcosa che può essere (è stato, può divenire) genericamente umano. Ma si tratta forse proprio di quel qualcosa di comune, di neutro, che è in buona misura costantemente da costruire, e che è sempre fragile eppure essenziale.
41Nel 1981, è uscito, con sceneggiatura di Lawrence Kasdan, Continental Divide – un film il cui titolo è stato tradotto idiotamente in italiano con Chiamami Aquila. «Continental Divide» è lo spartiacque montuoso da cui i fiumi scorrono in direzioni opposte, nel caso degli Stati Uniti le Montagne Rocciose, dove per buona parte si svolge la storia del film. Ma è palese che un altrettanto potente divide separa le vite del giornalista Ernie Souchak e della ornitologa Nell Porter. Che si innamorano, ma non possono vivere insieme.
42In uno dei momenti più significativi del film, Nell fa una conferenza sulle aquile calve a Chicago, dove Ernie vive. Inatteso spettatore, Ernie interviene un po’ prepotentemente nel dibattito con una domanda: Ho capito che le aquile calve hanno un modo «drammatico» di fare l’amore. Nell: Sì, di accoppiarsi. Per prima cosa si «cercano». È un vero rito al termine del quale si avvicinano, e si accoppiano. Inseparabili? Chiede Ernie. Sì, per un breve tempo, molto felice, risponde Nell. Possono volare?, chiede ancora Ernie. No, non insieme. Iniziano a precipitare, allacciate. Sembra molto pericoloso, osserva Ernie, ma è molto eccitante, per Nell. Sino a che, molto vicine al terreno dispiegano le ali e volano via. Sole?, chiede Ernie. Certo, ciascuna da sola. È l’unico modo che hanno per poter volare. Ernie: And that’s all there is. Nell: Unless they do it again.
Notes de bas de page
1 Il libro del riso e dell’oblio, Milano, Bompiani, 1980, pp. 142-143.
2 Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1968, pp. 109-110.
3 Lettere a Leo Jogiches, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 217.
4 Opinioni di un clown, Milano, Mondadori, 1981, pp. 169-170.
5 “Theory and Society”, 13, 1985, ora in Feminism and Psychoanalytic Theory, Oxford, Polity Press, 1989. L’articolo è stato già richiamato nei capitoli terzo e ottavo.
6 This feminism, in D.W. Winnicott, Home is Where We Start From, London, Penguin, 1986, p. 189. Sottolineature mie.
7 La fantasia inconscia di un mondo interno riflessa in esempi tratti dalla letteratura, in M. Klein, P. Heimann, R. Money-Kyrle (a cura di), Nuove vie della psicoanalisi, Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 460-461.
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