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7. La solitudine del maratoneta

Sraffa, Marx, e la critica della teoria economica

p. 253-332


Texte intégral

In economic theory the conclusions are sometimes less interesting than the route by which they are reached.
P. Sraffa

Introduzione

1Il rapporto tra Sraffa e Marx è tema molto controverso. Dopo l’apertura alla consultazione dell’archivio Sraffa presso la Wren Library del Trinity College – che contiene tanto gli Sraffa Papers (SP) quanto la Sraffa Collection (SC) – non è più possibile non tenere conto della circostanza che Sraffa modificò radicalmente il suo giudizio sulla cosiddetta teoria marxiana del valore-lavoro nel corso del suo percorso intellettuale1. Nel 1927-1931 il suo atteggiamento può essere definito critico, anche se con interessanti aperture. Nel corso degli anni Quaranta, e in particolare agli inizi di quel decennio, Sraffa fu invece convinto che il libro che stava scrivendo avrebbe sostanzialmente costituito una ripresa di Marx (e della sua teoria del valore). Nel giro di pochi anni l’economista torinese dovette abbandonare una tesi «continuista» così forte. È però documentabile che anche dopo la pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci Sraffa si riferisca positivamente alla trasformazione dei valori in prezzi di Marx. E, cosa che è evidentemente ancor più rilevante, interpreta i risultati del suo libro in termini di «sfruttamento», all’interno di un discorso marxiano, sia pur emendato.

2Gli inediti di Sraffa possono aiutare a far uscire il dibattito dai monologhi privi di margini di comunicazione che caratterizzano il non-dibattito tra seguaci di Marx e seguaci di Sraffa. Ciò può però rivelarsi possibile soltanto se, «dopo Sraffa», l’approccio del sovrappiù non viene mutilato della teoria del valore-lavoro, com’è nei teorici sraffiani; e soltanto se la connessione tra valore e lavoro (per il tramite del denaro) viene teorizzata in modo alternativo alle vecchie e nuove interpretazioni di Marx. A questo fine, per prima cosa fornirò una sintetica rassegna del dibattito degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. A seguire, presterò attenzione alla lunga «corsa», non priva di sorprese, che caratterizza la costruzione di Produzione di merci a mezzo di merci: una vera e propria maratona, durata trentatré anni. Lo farò tenendo conto, nella misura del possibile, delle diverse e conflittuali posizioni che sono emerse tra gli studiosi di convinzione sraffiana.

3Un punto chiave della mia lettura è la possibilità di interpretare la normalizzazione contenuta nei paragrafi 10 e 12 di Produzione di merci in modo tale da mostrare che implicitamente, per Sraffa, il reddito nazionale (il prodotto netto ai prezzi) non è altro che un’espressione monetaria del lavoro diretto, ovvero della oggettualizzazione del lavoro vivo prestato nel periodo. Grazie a ciò, come grazie a una ridefinizione del saggio di plusvalore in termini di prezzi di produzione invece che in termini di prezzi semplici o diretti (proporzionali ai cosiddetti valori-lavoro) – in termini, dunque, di lavoro comandato nella circolazione e non di lavoro contenuto nella produzione –, è possibile costruire un ponte tra Sraffa e la Nuova Interpretazione di Marx, a cui si è accennato nel capitolo precedente. D’altra parte, in questo capitolo si mette l’accento su alcune differenze: in primo luogo, tra Sraffa e la Nuova Interpretazione; e, in secondo luogo, tra entrambe e Marx. Non può che seguirne una critica di alcuni scritti (soprattutto di economisti italiani) che leggono Sraffa come il vero marxista. Seguono alcune considerazioni conclusive.

4Il valore degli inediti di Sraffa nel suggerire uno sguardo diverso sulla sua opera non può essere sottovalutato. È certo vero che non è possibile far prevalere le carte non pubblicate dall’autore sull’edito da lui curato. Ma è sicuro che la ricostruzione del percorso sraffiano aiuta a comprendere meglio la logica del libro del 1960: tanto più su una questione, in qualche misura volontariamente nascosta, come quella del rapporto con Marx. Quella ricostruzione, come vedremo, è poi essenziale per chi s’interroghi sul valore d’uso del libro di Sraffa in un’ottica marxiana, come nel caso di chi scrive. La lunga maratona di Sraffa è stata solitaria, segnata da un serrato dialogo interno e da una costante revisione (in questo, in analogia con lo stesso Marx nella stesura del Capitale). Insomma: una ripresa dell’economia politica classica, e della stessa critica marxiana, non può che giovarsi di una attenzione particolare agli Sraffa Papers.

Dal dibattito degli anni Sessanta-Settanta ai nuovi approcci a Marx

5Quando Produzione di merci venne pubblicata, l’interpretazione allora canonica in ambito anglosassone risaliva in sostanza agli anni Quaranta, secondo la quale Marx avrebbe inteso determinare i rapporti di scambio tra le merci capitalistiche attraverso una successione di «approssimazioni». I valori-lavoro – secondo i quali vigerebbe una proporzionalità dei prezzi relativi ai lavori contenuti – sarebbero la prima, esposta nel primo volume del Capitale. È però una approssimazione ancora imperfetta rispetto a uno stato di piena e libera concorrenza: con prezzi corrispondenti ai valori-lavoro sarebbe impossibile per i capitali singoli, di eguale grandezza ma diversa composizione interna (tra mezzi di produzione e forza-lavoro), ottenere il medesimo saggio del profitto. È questa imperfezione che giustifica il passaggio a un’approssimazione ulteriore quale quella che Marx delinea nel terzo libro del Capitale, con la teoria dei prezzi di produzione. In questo modo di vedere le cose ciò che giustifica il procedere per una sequenza di approssimazioni è la circostanza che la distribuzione del prodotto sociale tra capitale e lavoro può comunque essere esposta in termini di valore-lavoro, in quanto la trasformazione dei valori in prezzi non avrebbe effetti di ritorno significativi sul rapporto di scambio tra capitale e forza-lavoro.

6L’esponente più significativo di questo marxismo tradizionale è stato Maurice Dobb2. Amico e collaboratore di Sraffa, dagli anni Sessanta Dobb ha sostenuto che le equazioni che formano il centro del libro di Sraffa – dove metodi di produzione e salario (reale) sono assunti come le grandezze date da cui derivare simultaneamente prezzi di produzione e saggio di profitto uniforme – confermano la solidità della struttura logica del Capitale di Marx. È questa un’opinione che può essere contestata proprio in forza delle conclusioni di Produzione di merci. Si può infatti sostenere che non vi sia bisogno di prendere le mosse dai valori-lavoro per procedere alla fissazione dei prezzi di produzione: questi ultimi possono infatti essere calcolati a partire dagli stessi dati da cui si derivano i valori-lavoro.

7Il dibattito degli anni Sessanta e Settanta e oltre, cui già si è accennato nel quarto capitolo, ha messo in evidenza i limiti del marxismo tradizionale. Possiamo far riferimento a due argomenti: il primo ha a che vedere con le categorie gemelle di «lavoro astratto» e «valore»; il secondo con la diatriba su «Marx dopo Sraffa» che si svolse alla fine dei Settanta-primi Ottanta in un’arena internazionale. In questa sede valorizzeremo in particolare la discussione italiana. Gli economisti marxisti, tanto i seguaci quanto i critici di Sraffa, erano qui profondamente influenzati dalla rilettura che Lucio Colletti aveva dato della teoria marxiana del valore di cui abbiamo trattato nei due capitoli precedenti, e a cui abbiamo già fatto abbondante riferimento3. Le varie parti parevano condividere la visione secondo cui il lavoro astratto come sostanza del valore dovesse essere interpretato come il lavoro che nella circolazione mercantile è realmente «separato» o «astratto» dalla soggettività dei lavoratori individuali, e dunque dalla loro prestazione nella produzione diretta. Il lavoro che produce per lo scambio di merci «vale» esclusivamente come quel determinato ammontare quantitativamente determinato di tempo di lavoro «senza proprietà». Il «valore» è quel genere di ricchezza generica, o appunto astratta, che riflette da vicino il lavoro «puro e semplice» che la produce. Insomma, lavoro astratto e valore sono una medesima cosa: il primo è l’attività di cui il secondo è il risultato.

8Alcuni giovani seguaci di Sraffa, in particolare Fernando Vianello, si provarono a estendere questa lettura sino a derivarne una combinazione analitica di Marx e Sraffa4. In questo modo di vedere le cose, le merci non sono altro che lavoro astratto oggettivato prima dello, e indipendentemente dallo, scambio di merci e dalla determinazione dei prezzi individuali. È dunque sempre possibile: (a) ricondurre il prodotto sociale al lavoro diretto totale; (b) definire il lavoro necessario come quella parte del primo che torna ai lavoratori; (c) definire la parte residuale come un «pluslavoro». Rispetto a questa conclusione Claudio Napoleoni si mostrò seccamente critico5. Napoleoni concorda con Vianello che non sia proponibile una comprensione teorica del capitalismo che prescinda dalla categoria di valore «assoluto» (o, potremmo anche dire, «intrinseco»). Tale concetto, però – nel suo versante, più precisamente, di «grandezza di valore» – deve prolungarsi nella categoria di prezzo di produzione, e tale prolungamento non può essere costituito, sostiene Napoleoni, dai prezzi di Sraffa. Il fatto è che argomenti del genere di quelli presentati da Vianello mettono del tutto da parte la categoria del «valore di scambio»: i valori-lavoro relativi delle merci scambiate. Questi valori di scambio sono giudicati da Napoleoni la necessaria forma di manifestazione fenomenica dei valori assoluti, o intrinseci, contenuti nelle merci: la mediazione essenziale per passare dai valori ai prezzi di produzione.

9Colletti si schierò con Napoleoni contro i «giovani» sraffiani, ed entrambi gli autori si mostrarono al tempo stesso fortemente in contrasto rispetto alla visione marxista tradizionale che insisteva su una doppia approssimazione alla determinazione dei prezzi: quella che nella letteratura anglosassone è d’uso definire la dual system view. I valori-lavoro, lungi dall’essere una «prima approssimazione» mercantile ai prezzi (di produzione), sono piuttosto l’autentico e compiuto esito della produzione capitalistica di merci, come non può non presentarsi nella metamorfosi universale contro il denaro. Riflettono dunque accuratamente la realtà capitalistica. Il lavoro astratto non viene semplicemente derivato dialetticamente dallo scambio di merci in quanto tale, ma viene anche identificato come il lavoro vivo erogato dai lavoratori salariati (i portatori viventi di forza-lavoro) nella produzione capitalistica in quanto finalizzata allo scambio universale6. In questo modo di vedere le cose, produzione di valore è sinonimo di produzione di plusvalore.

10I decenni successivi hanno visto la sostanziale scomparsa del dibattito sul rapporto di Sraffa con Marx, in Italia più che altrove. I marxisti (quei pochi che vi erano entrati) si sono isolati nelle università, gli sraffiani sono stati forzati sulla difensiva dalla rinnovata dominanza dell’economia dominante nei suoi vari filoni. Con pochissime eccezioni, una sostanziale reciproca indifferenza e spesso la mutua ignoranza, l’assenza di cognizione di ciò che avveniva nell’altro campo, ha avuto la meglio. Ciò che è rilevante, mi pare, sono due circostanze: in primo luogo, il fatto che vi sono comunque stati sviluppi significativi nell’economia politica marxiana nel corso degli anni Ottanta e Novanta; in secondo luogo che dalla metà degli anni Novanta si è aperta la possibilità di consultare gli Sraffa Papers. Sulla carta ciò avrebbe potuto rendere possibile un dialogo, magari aprire la strada a un confronto, e persino per chi volesse a una critica più approfondita, comunque diversa da quella degli anni Settanta. Sfortunatamente, entrambe le scuole sono rimaste rigidamente nei propri confini. La gran parte degli studiosi del campo sraffiano non si è presa la briga, se non in modo estremamente superficiale, di aggiornarsi sugli sviluppi della teoria marxiana del valore, al fine più che altro di confermare in altra guisa le precedenti conclusioni e ripetere critiche ormai obsolete. La gran parte dei marxisti ha continuato a prendere per buona la lettura degli intenti di Sraffa e dei risultati di Produzione di merci di stampo neoricardiano, che invece poteva finalmente essere messa in discussione.

11Passiamo allora a vedere il contributo portato da nuovi approcci alla teoria marxiana del valore, che finalmente – e ciò ha costituito una significativa novità – hanno preso sul serio il legame interno tra denaro e valore, e che prendendo questa strada hanno provato a riaffermarne una coerenza interna. La più promettente e significativa di queste nuove strade è stata quella della cosiddetta Nuova Interpretazione7. In questa prospettiva, Marx prende le mosse da un «postulato» che stabilisce che a livello aggregato il «nuovo valore» aggiunto nel corso del periodo, una volta scambiato nella circolazione mercantile contro denaro, si presenta come l’espressione monetaria del tempo di lavoro diretto che è stato socialmente necessario prestare. Questi interpreti definiscono ciò che precede la Legge del Valore di Marx, grazie alla quale si stabilisce una stretta corrispondenza tra la forma monetaria presa dal lavoro diretto, che ha dato origine al prodotto sociale, al netto dei costi non-salariali, e il reddito nazionale, ovvero, in una società capitalistica pura a due classi, la somma di salari e profitti lordi.

12Una volta che si assuma che non è possibile rinvenire dietro il valore aggiunto in moneta nient’altro che «lavoro», è sensato chiedersi quanto lavoro astratto venga esposto8 dalla singola unità monetaria. A questo quesito risponde la categoria di «valore della moneta»: si tratta del rapporto tra l’ammontare totale di lavoro prestato nella produzione (il lavoro diretto) e il valore aggiunto esibito monetariamente (reddito nazionale). Il valore della moneta è insomma riducibile a quella quota dell’ammontare del lavoro oggettualizzato nel reddito nazionale che può essere «comandata» (acquistata sul mercato) da una unità monetaria. Il reciproco del «valore della moneta» altro non è che l’«espressione monetaria del tempo di lavoro (socialmente necessario)», il cui acronimo in inglese è MELT: una grandezza data dal rapporto tra il valore aggiunto in moneta (il reddito nazionale) e l’ammontare totale di lavoro che è stato prestato nella produzione (il lavoro diretto). Quest’ultima grandezza può anche essere definita, come fanno vari autori, come la produttività di valore «monetario» (il valore monetario aggiunto per unità di lavoro).

13Il postulato assunto dalla Nuova Interpretazione comporta che, per definizione, l’unica cosa che può mutare in forza della trasformazione dei valori(-lavoro) in prezzi (di produzione) è l’allocazione del dato ammontare di lavoro sociale diretto che è stato richiesto nella produzione del valore aggiunto in moneta. La suddetta Legge del Valore, in altri termini, viene mantenuta ferma quale che sia la Legge dello Scambio che viene adottata: dove, con questa espressione, s’intende la regola di determinazione dei prezzi individuali; e quest’ultima può alternativamente implicare o la proporzionalità tra prezzi relativi e quantità di lavoro contenute nelle merci (com’è nel primo libro del Capitale dove vigono i valori-lavoro, o meglio i prezzi semplici), o la loro sistematica divergenza (com’è nel libro terzo del Capitale, una volta che vengano introdotti i prezzi di produzione). Nel caso di prezzi semplici, la quantità di moneta che è, per così dire, appiccicata a un’unità individuale di merce, cioè che viene «comandata» (ovvero ottenuta nello scambio se realizzata), espone una quantità di lavoro pari a quella «contenuta» (ovvero richiesta per la produzione di quella stessa merce). D’altro canto, se i prezzi di produzione divergono dai prezzi semplici, la quantità di lavoro «comandata» nello scambio non può che divergere dalla quantità «contenuta» nella produzione. Il «postulato» garantisce che lavoro contenuto e lavoro comandato siano identici nell’aggregato: il prodotto netto in moneta, il reddito nazionale, comanda nient’altro che il lavoro contenuto nella sua produzione.

14Il successivo passo – non poco significativo, come vedremo – consiste nella (ri)definizione della categoria di «valore della forza-lavoro». Quest’ultima non viene più intesa come il lavoro contenuto nelle merci che costituiscono il salario di sussistenza (in qualche modo definito), ma come il lavoro comandato dal salario monetario, secondo la definizione data in precedenza: il lavoro che si è in grado di ottenere nello scambio sul mercato grazie al prezzo che si spunta per la propria capacità lavorativa. Può essere calcolato moltiplicando il salario monetario per il valore della moneta: si stabilisce così quanto lavoro sociale (diretto) «torna» ai lavoratori, un ammontare che può ben divergere, e normalmente diverge, dal lavoro congelato nei beni salario acquistati da lavoratori e lavoratrici tenendo conto della loro produzione. Grazie al fatto che il valore della moneta consente di «tradurre» qualsiasi grandezza nominale in un ammontare di lavoro che si può comandare sul mercato, e trascurandosi qui (come si è fatto sinora) la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, il valore della forza-lavoro per l’economia nel suo complesso non diviene altro che un nome diverso per la quota del salario (monetario) sul reddito (monetario).

15Un approccio del genere può agevolmente conseguire risultati quantitativi che sembrano identici a quelli di Marx. Si traduca l’eguaglianza posta da Marx tra prodotto netto ai valori-lavoro (o meglio, prezzi semplici) e prodotto netto ai prezzi di produzione, e si assuma l’invarianza del valore della forza-lavoro nella trasformazione: non può che risultarne automaticamente l’eguaglianza tra la somma dei plusvalori (espressi in moneta) e la somma dei profitti lordi (monetari). Il che non stupisce. Il plusvalore totale altro non è che il neovalore in moneta a cui è stato sottratto il capitale variabile, ovvero il monte salari monetario. La prima grandezza, il minuendo, ovvero il lavoro diretto espresso in moneta, si identifica, grazie al postulato, con il lavoro comandato dalla somma di monte salari e profitti lordi, e dunque col lavoro contenuto nella somma delle due quote di reddito. Il sottraendo, il capitale variabile, grazie alla definizione che la Nuova Interpretazione adotta per il valore della forza-lavoro, altro non è che il lavoro comandato dal monte salari monetario. Non può che risultarne come differenza che il plusvalore totale è il lavoro comandato dai profitti lordi monetari. L’equivalenza tra profitti lordi monetari e «plusvalore» (in termini di lavoro comandato sul mercato) segue strettamente dalle premesse e dalle definizioni adottate, come in effetti viene apertamente dichiarato dagli stessi proponenti dell’approccio9.

16In contrasto con interpretazioni come quella di Dobb, il più recente dibattito di cui abbiamo dato sommario conto segna indubitabilmente progressi significativi, dal momento che i concetti di valore e di moneta sono ritenuti inseparabili. È a questo punto letteralmente impossibile riferirsi al primo senza immediatamente considerare la seconda. Il valore è la categoria intermedia tra il lavoro, che produce quello stesso valore (conformemente alla Legge del Valore), e la moneta che esibisce il valore prodotto da lavoro seguendo una qualche regola del prezzo (aderendo a una Legge dello Scambio). La natura essenzialmente monetaria della circolazione di merci impone, sin dai primi capitoli del Capitale, l’introduzione della categoria del «prezzo», la cui misura è monetaria, distintamente da quella di «valore» (assoluto o intrinseco), la cui misura è il tempo di lavoro socialmente necessario. Ciò è valido sia nel caso che i prezzi siano proporzionali ai valori-lavoro, sia nel caso che non lo siano. L’interpretazione in termini di approssimazioni successive non può essere accolta, e l’approccio definito dualista è rimpiazzato da un sistema unico dove prezzi «semplici» o «diretti» e prezzi «di produzione» sono alcune tra le molte e alternative forme del prezzo.

17I prezzi semplici, che come prezzi relativi sono proporzionali ai valori-lavoro, sono assunti come la forma di prezzo generale quando lo scambio di merci si è universalizzato senza essere capitalistico. I prezzi di produzione sono assunti come la forma di prezzo generale quando lo scambio di merci si è universalizzato ed è compiutamente capitalistico: la concorrenza viene espressa da una distribuzione del profitto tra le industrie secondo la regola di un saggio uniforme. Il lettore ricorderà che un autore sraffiano come Vianello aveva già anticipato l’idea propria della Nuova Interpretazione che valori e prezzi fossero da intendere come leggi alternative e non successive dello scambio. Dal punto di vista di Napoleoni, approcci come quelli delle nuove concettualizzazioni della trasformazione fanno perdere ai «valori di scambio» – se si preferisce, ai prezzi semplici o diretti – il ruolo di mediazione reale nel percorso dalla indagine della produzione (capitalistica del valore) a quella della circolazione (secondo prezzi capitalistici): quel ruolo irrimpiazzabile di mediazione reale che secondo questo autore i valori di scambio avevano in Marx, e che ne giustificava l’adozione nel primo libro.

18Di qui l’emergere di una dubbia dicotomia tra produzione capitalistica di merci tramite lavoro vivo, secondo i termini della legge del valore, e circolazione-distribuzione di lavoro diretto oggettivato, nei termini della legge di scambio vigente nel capitalismo. Le categorie che fanno da ponte tra le due sfere – il valore della moneta e il valore della forza-lavoro – hanno la natura di grandezze ex post, derivate dall’osservazione, e non possono costituire alcuna mediazione autenticamente concettuale del tipo necessario in un’argomentazione come quella marxiana. Nella seconda metà degli anni Settanta un autore che lavorava allora sulle orme del Napoleoni marxiano e dunque dell’approccio in termini di lavoro come astrazione reale mutuato da Colletti, Marcello Messori, presentò una critica di Sraffa e Vianello, il cui fine era ancora una volta la individuazione di una procedura alternativa di trasformazione dei valori in prezzi. Ciò che va qui sottolineato è che, come parte del suo ragionamento, Messori riprese da Marx una procedura di «normalizzazione» che definì la «eguaglianza in termini di sovrappiù»: ovvero la posizione di una eguaglianza tra gli elementi del capitale variabile e del plusvalore espressi in valori di scambio, da un lato, o altrimenti in prezzi di produzione, dall’altro10.

19È insomma del tutto evidente che un elemento centrale della Nuova Interpretazione era anticipato nella discussione italiana: ciò che contava era l’invariabilità dell’espressione monetaria del neovalore originato dal lavoro vivo. Sfortunatamente, Messori legò le sorti del suo approccio alla individuazione di un algoritmo della trasformazione dei valori in prezzi alternativo a quello di Sraffa. Come nel caso del suo maestro, ciò si rivelò una chimera, e fu una delle ragioni che condusse alla interruzione di un discorso altrimenti promettente. Già allora, a fine anni Settanta, mi era chiaro che: (a) i prezzi di Sraffa sono i prezzi di produzione; (b) un mondo dove i metodi di produzione sono dati, e dunque il lavoro vivo è ormai morto nel lavoro diretto oggettualizzato, è un mondo in cui la teoria marxiana del valore non può che risultare del tutto ridondante; (c) che ciò nondimeno i prezzi di produzione sono privi di senso se non sono in qualche modo ricondotti al valore (e al valore di scambio) di Marx11. Qui si apre, e non si chiude, il problema. Ed è qui che le carte inedite di Sraffa possono rivelarci delle sorprese.

Sraffa prima e dopo l’apertura dell’archivio

20È tempo di volgerci all’archivio di Sraffa depositato al Trinity College presso la Wren Library (Cambridge, UK), per vedere quali nuovi prospettive possa aprire12. Quando ho cominciato a frequentare l’archivio, nella seconda metà degli anni Novanta, la lettura più diffusa e influente sul rapporto di Sraffa con Marx era ancora quella proposta da Ian Steedman13: ciò che Sraffa aveva chiarito era che la teoria del valore-lavoro era del tutto inessenziale per un’analisi scientifica del capitalismo. Ciò che bastava era un insieme di dati «oggettivi» – fisici e materiali – relativi ai metodi di produzione. In una prospettiva classico-marxiana ciò andava evidentemente accoppiato a una determinazione dall’esterno del salario reale. Gli stessi «valori-lavoro» non potevano che essere derivati dalle stesse variabili date per note. Come si è già anticipato, le «grandezze di valore» erano da reputarsi ridondanti rispetto allo scopo di determinare simultaneamente i prezzi di produzione e il saggio di profitto eguale. Questo risultato, l’irrilevanza del valore, non comportava di per sé una critica all’intera costruzione teorica di Marx: al contrario, grandi parti di essa potevano essere riprese all’interno dello sraffiano «approccio del sovrappiù».

21È noto che queste secche conclusioni incontrarono il silenzio di Sraffa. Di più, esse sono in contrasto con le testimonianze di amici e colleghi: basti ricordare i nomi di Joan Robinson, Antonio Giolitti, o Paul M. Sweezy, che descrivevano Sraffa come un autore che aveva sempre aderito alla teoria del valore-lavoro14. Ci si sarebbe dunque attesi che l’accesso alle carte di Sraffa avrebbe condotto gli studiosi a indagare anche la relazione di Sraffa con Marx, se putacaso vi si potesse trovare qualche cosa di inatteso. Con rarissime eccezioni, di cui dirò, così non è stato, almeno in una prima fase. Gli studi si sono certo accumulati sul rapporto di Sraffa con Marshall e Keynes, Ricardo e Hayek, e altri ancora. Non però su Marx. Nei primi interventi sull’archivio l’opinione ereditata dagli studi precedenti era spesso presentata come del tutto confermata dalle carte inedite.

22Per mio conto, devo confessare che fui invece molto sorpreso da ciò che mi trovavo a leggere15. Una sorpresa tale che mi indusse a inserire alcuni riferimenti precisi al tema del rapporto Marx-Sraffa in un paio di lavori presentati nel 1998. Il primo, redatto con Jean-Pierre Potier, sulle «novità» portate dall’archivio alla biografia intellettuale di Sraffa, fu pubblicato in quello stesso anno su “Il pensiero economico italiano”16, e fu anche oggetto di un intervento alla Fondazione Einaudi di Torino quello stesso anno, come parte di una discussione che vide partecipare Pierangelo Garegnani e Heinz Kurz. Il secondo fu un commento, in realtà molto esteso, a una relazione di Carlo Panico sull’analisi monetaria di Sraffa, all’interno di un convegno che si tenne negli stessi giorni sempre a Torino, organizzato da Roberto Marchionatti, e che fu poi pubblicato negli atti qualche anno dopo17. Alla Fondazione Einaudi, dopo aver sentito il mio intervento, una economista mi chiese se davvero i materiali di cui parlavo si trovavano tra le carte di Sraffa (qualcosa del genere doveva esserci, le aveva detto in passato Vianello): alla mia risposta positiva, commentò «non potrai mai pubblicarlo». Per fortuna ha avuto torto.

23Un esempio massimamente autorevole dell’iniziale atteggiamento dei seguaci di Sraffa sul punto in questione può essere individuato in uno studioso serio come Heinz D. Kurz, cui (dopo Garegnani) fu assegnato l’incarico di curare una raccolta di scritti tratti dalle carte inedite, che non ha ancora visto la luce18. Kurz presentò e pubblicò tra il 1998 e il 2002, in varie lingue, una serie di articoli che dovevano dar conto delle novità teoriche apportate dall’archivio19. Si ribadiva in quegli articoli che erano diffuse ma andavano contestate come insostenibili una serie di convinzioni sul rapporto di Sraffa con la teoria del valore-lavoro. In realtà, sosteneva Kurz, gli archivi chiarivano che il punto di partenza di Sraffa non era stato Marx ma Marshall. Sraffa contrastava l’idea che il lavoro avesse un qualche ruolo speciale nella determinazione del valore, proposizione che reputava metafisica. Quell’idea non era in realtà altro che una corruzione della più corretta nozione di «costi fisici reali» propria prima di Petty e poi dei fisiocratici. Di qui Kurz proseguiva sottolineando che Sraffa sapeva bene che vi erano casi particolari, circostanze incredibilmente speciali – quando non vi sono profitti, o si assumono eguali proporzioni tra lavoro diretto e mezzi di produzione in tutte le industrie – in cui i prezzi sono conformi ai valori-lavoro, e i rapporti di scambio relativi tra le merci sono proporzionali ai lavori contenuti nelle diverse merci. Il punto era, ribadiva con forza, che non vi era nulla d’interessante in tutto ciò, agli occhi di Sraffa20.

24Se questa era la situazione nel 1998, e ancora per qualche anno, le cose sono poi cambiate. Hanno iniziato a farsi strada alcune storie «congetturali» dell’evoluzione del modo con cui Sraffa si è rapportato a Marx nella lunga preparazione di Produzione di merci. Gli albori di una di queste storie congetturali, come dirò, si ritrovano anch’essi nel convegno di Torino del 1998. Ed è indubbio che alcuni dei lavori più utili – con indubitabili e inevitabili mutamenti di accento, anche se non di conclusioni – sono quelli dello stesso Heinz Kurz, da solo o con altri coautori in anni successivi: in particolare, con Christian Gehrke o Neri Salvadori, e a cui faremo riferimento. È comune a queste storie congetturali, inclusa la mia, il riconoscere, e talora sottolineare, le discontinuità, e talora vere e proprie fratture, che si riscontrano nei periodi che segnano la lunga maratona corsa da Sraffa per dare forma al suo libro.

25Il viaggio di scoperta di Sraffa ha inizio attorno alla fine del 1927. Il primo periodo in cui Sraffa lavora al suo libro dura sino agli inizi degli anni Trenta, in particolare il 1931. Kurz ha ragione nel rilevare come in questa fase l’economista italiano fosse prevalentemente critico riguardo alla teoria del valore-lavoro21. Molto diverso ciò che avviene nel secondo periodo in cui più intensamente Sraffa lavora sul libro, i primi anni Quaranta, e in particolare per quel che riguarda il sottoperiodo che si estende dal 1940 alla metà del 1943. Nel 1940 Sraffa aveva di nuovo riletto il primo libro del Capitale, il che fu determinante nel prosieguo della sua riflessione. L’oggetto dell’indagine intrapresa da Sraffa era tipicamente «ricardiano»: la determinazione dei prezzi relativi in una condizione di libera concorrenza, una volta assunta come data la configurazione produttiva (ovvero, noti tanto i mezzi di produzione quanto il prodotto) e definita la regola di distribuzione del sovrappiù (secondo un saggio del profitto uniforme). La natura ricardiana di quella ricerca è chiara una volta che si tenga presente che la lunghezza della giornata lavorativa è considerata costante22.

26Contrariamente a quanto i lettori dei saggi pubblicati da Kurz tra il 1998 e il 2002 avrebbero potuto legittimamente opinare, l’eroe di Sraffa in questa seconda fase preparatoria del libro era Marx ben più di Ricardo. Gli Sraffa Papers chiariscono quanto meglio non si potrebbe che Sraffa era allora convinto che il suo libro avrebbe rivendicato la sostanziale correttezza della teoria economica marxiana, e rigettava con forza le critiche di Bortkiewicz: assistiamo così a una difesa a tutto tondo del valore-lavoro marxiano, della sua teoria dei prezzi, persino della caduta tendenziale del saggio del profitto. Sraffa – si deve dire, con una qualche riluttanza – ha dovuto mutare opinione su tutti questi punti. Seguirà, tra il 1955 e il 1958, una terza e ultima fase di lavoro preparatorio alla stesura finale del libro. È comunque certo e documentabile che anche dopo aver pubblicato nel 1960 il suo libro l’economista italiano mantenne un giudizio positivo sulla procedura di trasformazione marxiana. Cosa ancor più significativa, impiegò le proprie conclusioni analitiche per proporre una ridefinizione della categoria di sfruttamento, traducendola da una determinazione in termini di lavoro contenuto a una in termini di lavoro comandato, ma ancorandola pur sempre fortemente in un orizzonte reputato marxiano. È qui che rinveniamo alcuni punti di contatto tra Sraffa e la Nuova Interpretazione, passati per lo più inosservati ai seguaci dell’uno come dell’altra.

Gli anni Venti. Dalla «metafisica» del valore alle «equazioni»

27Dalla fine degli anni Venti Sraffa si convince che il risultato ultimo della sua ricerca sarà una riformulazione di Marx, sostituendo alla metafisica e terminologia hegeliana una metafisica e terminologia moderna: «This would be simply a translation of Marx into English, from the forms of Hegelian metaphysics to the forms of Hume’s metaphysics»23.

28Prima della fine del 1927, Sraffa considera Marx in alcune note intitolate Avventure della teoria del valore 24. Il rifiuto di Marx dopo il 1870 fu dovuto a una «confusione»: si pensava che l’approccio marxiano si fondasse sul costo di produzione in lavoro interpretato come causa del valore. D’altronde, la base dell’eguaglianza stabilita tra costo (lavoro) e valore può reggere anche se il lavoro non è l’unico fattore determinante il valore. Se la teoria di Marx può ergersi a partire dalla teoria del valore di Ricardo, può parimenti farlo a partire da Marshall. Un argomento analogo lo si può rinvenire nelle Notes dell’estate del 1927, scritte per fungere da introduzione alle Lectures on Advanced Value Theory che avrebbe dovuto pronunciare l’anno seguente. Lì Sraffa osserva che il più tardo sviluppo di Marshall non è affatto incompatibile con la teoria marxiana del valore25.

29A questo stadio della riflessione dell’economista italiano, l’opposizione instaurata tra le due prospettive, quella classica e quella neoclassica di tipo marshalliano, pare risiedere nella rispettiva «metafisica», ma l’una e l’altra possono essere riconciliate per quel che riguarda la questione tecnica della determinazione dei prezzi. Le due visioni, invece di esser viste come alternative o complementari, hanno come orizzonte problematiche diverse26. I classici muovono da un punto di vista sociale, e il loro tema principale è la determinazione «macro»: la causa, e la natura, del valore di tutte le merci, e di conseguenza la sua distribuzione. I «moderni», come Sraffa chiama i neoclassici, si concentrano piuttosto sulla determinazione «micro» dei prezzi individuali, e identificano la distribuzione tra i fattori con la determinazione dei prezzi27. Secondo il nostro autore, i due punti di vista dovrebbero essere denominati in modo differente: il primo come «teoria del valore», il secondo come «teoria del prezzo». L’uno e l’altro vengono reputati del tutto adeguati all’oggetto di analisi indicato.

30Sraffa prende allora davvero le mosse da Marshall, ma soltanto perché lo reputa come – almeno in parte – compatibile con Marx28. Come che sia, la lettura che Sraffa dà dei classici e di Marx muta dall’autunno del 1927 e poi l’inverno 1927-1928, in cui ha propriamente inizio la preparazione di Produzione di merci. Pierangelo Garegnani individua qui un punto di svolta fondamentale: il punto di vista di metodo e storiografico possono ben sembrare i medesimi, è però in questi mesi che lo sforzo teorico-ricostruttivo prende come punto di riferimento i physical real costs, con un chiaro rimando in ultima battuta alla sussistenza direttamente e indirettamente necessaria a produrre le merci. I costi fisici reali vanno intesi in opposizione ai costi reali «soggettivi» di Marshall, e Sraffa vi s’imbatte andando alla caccia di uno standard ultimo del valore29. La svolta in questione comporta una rottura con la lettura dei classici nei termini dei «rendimenti costanti di scala» e la contemporanea riscoperta dell’approccio del sovrappiù lungo la linea Quesnay-Smith-Ricardo: dove il «sovrappiù» è l’eccesso del prodotto rispetto allo stock iniziale, e dunque rispetto al costo30.

31È in questo primo periodo nel processo di costruzione di Produzione di merci che è possibile rinvenire i tratti di un «fisicalismo» talora estremo, come è evidente nella nota su «degenerazione del concetto di costo e valore»:

It was only Petty + the Physiocrats who had the right notion of cost as «loaf of bread». Then somebody started measuring it in labour, as every day’s labour requires the same amount of food. Then they proceeded to regard cost as actually an amount of labour. Then A. Smith interpreted labour as the «the toil and trouble» which is the «real cost» (Ricardo, p. 10, 15n) and the «hardship». Then this was by Ricardo brought back to labour, but not far back enough, and Marx went only as back as Ricardo. Then Senior invented Abstinence. And Cairnes unified all the costs (work, abstinence + risk) as sacrifice. Now Davenport, Cassel, Henderson, have carried it a step further, the last step in the wrong direction31.

32In questo modo di vedere le cose il salario è dato in termini reali, come scorta di merci, una visione dai tratti quasi biologico-naturalistici. La «degenerazione» di cui parla Sraffa allontana dalla visione corretta – che riduce il costo al cibo, e che dunque guarda alla sussistenza come un’entità dai caratteri fisico-materiali – sostituendola con una visione più sfumata che sostituisce al costo il «lavoro». L’adesione di Sraffa a questa posizione, dove oggettivo diviene indistinguibile da fisico, fu graduale secondo Kurz, subitanea secondo Garegnani.

33Vi è però da dire dell’insistenza con cui Sraffa osserva che la nozione di lavoro in Ricardo e Marx «was still near enough [to Petty and the Physiocrats] to be in many cases equivalent»32. Non vi è unità comune per valutare valori d’uso fisici non omogenei che vanno nel «costo». Possiamo però ridurli a lavoro: questa nozione va al momento intesa in senso qualitativo. D’altra parte il lavoro può a sua volta essere ricondotto alle merci consumate dai lavoratori, e queste merci all’ammontare necessario per sostenere il lavoratore nella giornata. Un ammontare che, secondo Sraffa, può essere considerato approssimativamente costante, al punto che gli pare del tutto legittimo assumere un’ora di lavoro ordinario come standard quantitativo.

34Ciò che evidentemente non poteva non far problema a Sraffa era che la nozione smithiana del lavoro come toil and trouble facilmente poteva scivolare nella visione volgare secondo cui a essere in questione erano costi psicologici e non oggettivi. Il lavoro come «sacrificio» di riposo, libertà e felicità è qui il primo passo che conduce alla disutilità del lavoro, e dunque alla definizione dell’incentivo adeguato a superare questo impedimento alla produzione. In forza invece della vicinanza e sostanziale equivalenza di cui si è detto, nelle Lectures del 1928-1931 Sraffa rinviene il discrimine tra le due teorie del valore nella differente nozione di costo: Petty e i fisiocratici contro Marshall. Per la prima linea, è principalmente lo stock «materiale» richiesto alla produzione di una merce, per esempio il cibo da provvedere ai lavoratori. Per la seconda linea, è la somma degli «sforzi» e dei sacrifici dietro l’astinenza e il lavoro di ogni genere (direttamente e indirettamente) richiesti per produrre una merce33. Nel primo caso, il costo è qualcosa di concreto e tangibile, che può essere osservato e misurato empiricamente, necessario alla produzione allo stesso titolo delle materie prime o dei mezzi di produzione. Nel secondo caso, il costo è qualcosa di eminentemente privato, ovvero soggettivo, misurabile solo attraverso la moneta che va pagata per compensare la disutilità. Insomma: quantità di cose consumate nella produzione contro incentivi e soddisfazioni individuali. Di qui non può che discenderne l’eventuale presenza o assenza del «sovrappiù» o «prodotto netto» negli approcci teorici in competizione.

35Se in questo modo «fisicalista» di ragionare il valore ha a che vedere con nient’altro che con il costo materiale, che ne è del «lavoro»? Sraffa osserva che la «metafisica» di Marx era del tutto ragionevole: sfortunatamente, trascorsi così tanti decenni, non era più compresa. Detto altrimenti: la difficoltà da affrontare era un problema di «traduzione». Ritroviamo tra le carte di Sraffa un attacco esplicito contro la teoria del valore-lavoro nella misura in cui si basa sugli «sforzi» degli esseri umani:

There appears to be no objective difference between the labour of a wage earner and that of a slave; of a slave and of a horse, of a horse and of a machine, of a machine and of an element of nature […]. It is a purely a mystical conception34 that attributes to human labour a special gift of determining value. Does the capitalist entrepreneur, who is the real «subject» of valuation and exchange, make a great difference whether he employs men or animals? Does the slave-owner?35

36Nel 1927 la critica era ancor più radicale:

The fatal error of Smith, Ricardo, Marx has been to regard «labour» as a quantity, to be measured in hours or in kilowatts of human energy, and thus commensurated to value36. […] All trouble seems to have been caused by small initial errors, which have cumulated in deductions (e.g. food of worker = quantity of labour, is nearly true)37.

37Kurz e Garegnani sono insomma nel giusto quando rilevano che lo Sraffa dei tardi anni Venti era lontano dall’idea che i prezzi relativi andassero riportati al lavoro umano38. Ciò che questi due interpreti sembrano accantonare troppo rapidamente è che tutto ciò non conduceva affatto Sraffa a un rifiuto completo della teoria del valore-lavoro, una volta che quest’ultima fosse sganciata da una troppo rozza teoria dei prezzi relativi. Il nostro autore, in quegli anni, procedeva a distinguere due accezioni di «lavoro umano»: in primo luogo, quale causa del valore, che dà vita a tutti i prodotti e ai valori; in secondo luogo, quale uno dei fattori di produzione. È solo in questo secondo significato che ha senso parlare di ore di lavoro o di quantità di lavoro:

It is by confusing the two senses that they [Ricardo and Marx] got mixed up to quantity of labour (in second sense) whereas they ought to have said that it is due to human labour (in the first sense: a non measurable quantity, or rather not a q. at all)39.

38Sraffa critica perciò solo il punto di vista secondo cui il valore della merce individuale può essere ricondotta esclusivamente a quantità del fattore di produzione lavoro, non l’altra prospettiva che, a ben vedere, non è lontana dalla visione macrosociale che è al cuore dei più recenti approcci macromonetari a Marx. Salvo per un problema, assolutamente cruciale, che mette a rischio questo secondo punto di vista: Sraffa suggerisce infatti che questa seconda accezione di «lavoro» a fondamento del valore non possa essere osservata, e non possa dunque essere misurata. Rimaniamo esclusivamente nel dominio del qualitativo.

39Kurz afferma giustamente che in questo primo periodo (1927-1931) Sraffa non era preoccupato dalla risoluzione del cosiddetto problema della trasformazione40. Le ragioni di ciò sono però intriganti. In una lettera del 15 luglio 1928 egli sostiene che l’inconciliabile distanza della teoria dalla realtà ha come ragione una contraddizione interna alla realtà stessa41. Sraffa andava peraltro allora lentamente costruendo una modalità alternativa di costruzione dei prezzi, lungo la linea classico-marxiana dei prezzi «naturali», o prezzi di produzione. In questa preistoria di Produzione di merci Sraffa prende le mosse dalle sue «prime» e «seconde» equazioni. Le prime sono equazioni senza sovrappiù. Le seconde, con sovrappiù, vedono il lavoro ridotto ai mezzi di sussistenza che lo riproducono.

40Su questo snodo si è prodotta una notevole frattura tra i seguaci di Sraffa. Kurz e Garegnani sono convinti che il procedimento di individuazione delle sue equazioni da parte di Sraffa sia indipendente da un riferimento a Marx. La scrittura delle equazioni dovrebbe essere collocata sullo sfondo della problematica che Sraffa aveva aperto nei due articoli del 1925 e 1926, la sua critica a Marshall, le difficoltà che aveva incontrato lungo la strada, la prospettiva di via d’uscita data dall’incontro con Ricardo, e prima ancora dalla riscoperta di Petty e dei fisiocratici. Marx non godrebbe in questo percorso di alcuno status privilegiato nella costruzione analitica del core dello schema teorico sraffiano, benché possa aver avuto un ruolo nel prepararne la strada, o su altre questioni. Giancarlo De Vivo e Giorgio Gilibert sono di opinione nettamente diversa, e propongono una differente ipotesi42. Dai tardi anni Venti non Marshall, non Ricardo non Petty e i fisiocratici, ma Marx sarebbe stato l’ispiratore. Non però, come ci si potrebbe forse attendere, il Marx del primo libro del Capitale, quello del valore-lavoro, o il Marx del terzo libro del Capitale, quello dei prezzi di produzione. Semmai, il Marx del secondo libro del Capitale: quello degli schemi di riproduzione.

41Secondo De Vivo e Gilibert, Sraffa conosceva già il primo libro del Capitale prima della guerra. Per preparare le sue lezioni avanzate di teoria del valore a Cambridge l’economista italiano lesse però anche le Teorie sul plusvalore, integralmente tradotte da poco in francese. Nello stesso 1927 lesse anche, per la prima volta, il secondo libro, anche questo in traduzione francese. Il fatto che Marx fosse il punto di partenza di Sraffa, in contrasto con l’opinione tanto di Kurz quanto di Garegnani, non significa – su questo punto Gilibert è esplicito, meno De Vivo – che l’economista italiano adottasse un punto di vista marxista in qualche modo riferito alla teoria del valore-lavoro, come approccio «successivista» alla determinazione dei prezzi di produzione a partire dai valori di scambio.

42Può valere la pena seguire più in dettaglio l’argomentazione presentata da Gilibert. Nel luglio del 1928 Sraffa scrive, in una nota in italiano:

Marx, Cap. vol. 2°, cap. I-III della Pte 1a.

Considera sempre, prima riproduz. semplice, dove il capitalista consuma tutto il plusvalore; poi riproduz. con accumulaz. di tutto il plusvalore. Io dovrò considerare:

1) riproduz. semplice senza plusvalore

2) riproduz. semplice con plusvalore tutto consumato

2b) uguale a 2 in forma di 1 (senza r)

3) riproduz. con accumulaz. totale (necessità di interesse su cap. fisso: se no, non è possibile accumulaz. proporzionale in tutte le industrie. Chi presterebbe a un’industria che non rende abbastanza per riprodursi? Ma le macchine usate valgon meno delle nuove: però se l’accumulaz. è avvenuta sempre nel passato, la media delle macchine è più nuova del normale e quindi riceve più ammortamento di quel che spenda: è ciò esattamente uguale al richiesto?)

4) riproduz. con accumulaz. accelerata (la percentuale accumulata aumenta ogni anno a causa di invenzioni)43.

43La riproduzione con accumulazione totale proporzionale in ogni industria aveva una chiara ascendenza fisiocratica: e d’altronde, già gli schemi di riproduzione di Marx avevano preso a modello esplicito il Tableau économique di Quesnay. Ancora più stretta era l’aria di famiglia, se non l’identità, con il modello grano-grano di cui Sraffa ipotizzò l’esistenza nella mente del primo Ricardo nella sua Introduzione ai Works and Correspondance di Ricardo. In ogni caso, Sraffa abbandonò presto la versione delle equazioni con un comune tasso di crescita in favore di quella che prometteva di essere una versione più generale, in termini di comune saggio del profitto44.

Gli anni Quaranta. Dalla Hypo alla Standard Commodity

44Tornando a lavorare al suo libro nei primi anni Quaranta, dopo una lunga interruzione dovuta all’impegno per la raccolta delle opere e della corrispondenza di Ricardo, Sraffa si mosse sulla base di una «ipotesi» che reputava vicina al ragionamento di Marx, che talora denomina «My Hypothesis». La Hypo, come scriveva in modo accorciato, costituirà un punto centrale della sua ricerca, anche se verrà abbandonata nel giro di pochi anni, lasciando comunque delle tracce durature. Il surplus rate, o «saggio del sovrappiù» – il rapporto fisico-materiale tra il prodotto netto e i mezzi di produzione impiegati –, è posto eguale al saggio massimo di profitto – ovvero al valore dei profitti sul valore del capitale anticipato, quando i salari siano nulli. È questo un rapporto che può anche essere visto come il saggio che mette in rapporto il reddito netto (il valore del prodotto netto) con il valore dei mezzi di produzione, cioè con il capitale anticipato esclusi i salari. La Hypo afferma che, benché i prezzi possano essere influenzati dalla distribuzione del reddito45, ciò non sarebbe vero per tale rapporto, che resterebbe immutato al variare del saggio del profitto. Assumendo la vigenza della Hypo, Marx appare non tanto come il punto di partenza della ricerca di questo Sraffa, quanto il suo punto di approdo. Vediamo perché.

45Le «terze» equazioni, che contengono un sovrappiù ripartito a un saggio del profitto eguale, furono scritte in questo sottoperiodo dei primi anni Quaranta della seconda fase di elaborazione di Produzione di merci, nel 1942. Il lavoro era ora considerato esplicitamente, e in un primo momento Sraffa ipotizzò che venisse pagato in anticipo, all’inizio del periodo. Sino al 1943 egli cercherà di mantenere il più possibile la Hypo: il che equivale, evidentemente, ad assumere che il prodotto netto e il capitale non-salariale siano costituiti da un’identica merce composita. È come se ci trovassimo di fronte un sistema costituito da un’unica e medesima merce, ovvero un sistema dove input e output hanno la medesima composizione. Retrospettivamente, si tratta di una posizione che si presenta come la meno «sraffiana» di tutte, equivalente al ragionare come se prodotto e capitale avessero la stessa composizione di capitale46. Se davvero fosse legittimo muovere da una ipotesi del genere – così ragiona Sraffa in questo sottoperiodo: e non lo è – la fissazione dei prezzi potrebbe essere effettuata senza difficoltà muovendo dai valori-lavoro, pur scontando alcune «deviazioni».

46Si inizi da una situazione in cui il saggio di profitto è nullo, in modo tale che i prezzi corrispondono ai prezzi proporzionali ai valori-lavoro. Ciò ci consente di procedere a valutare il prodotto netto e il capitale a questi prezzi. Grazie alla Hypo il rapporto tra il valore del prodotto e il valore del capitale può essere posto come una costante, quale che sia il fattore di profitto, una volta che quest’ultimo emerga. Quel rapporto costante non è altro che R, il saggio massimo del profitto, che a sua volta può essere inteso come corrispondente al saggio di profitto «in valore» di Marx una volta che si immagini l’azzeramento del capitale variabile – ovvero, il rapporto tra plusvalore totale e capitale costante totale, in assenza di salari. Introdotto un salario positivo, si determina il saggio del profitto effettivo r, e per questa via i prezzi effettivi. Da un certo punto di vista, abbiamo a che fare con un analogo della procedura marxiana della trasformazione dei valori in prezzi, che è di tipo sequenziale, «successivistico». Assumiamo che il valore del prodotto netto e la quantità di lavoro impiegata siano «normalizzati», ponendo entrambi pari all’unità. Il primo costituisce l’unità di misura dei prezzi, il secondo l’unità di misura del valore. A questo punto non possono che seguire due conclusioni. La prima è che il salario si identifica con il proportional wage di Ricardo (e dunque la quota del salario sul reddito nazionale), vicino al «salario relativo» di Marx (che è l’inverso del saggio di plusvalore). La seconda è che emerge chiaramente una relazione fondamentale, r = R (1 – w), dove il saggio effettivo r e il salario proporzionale w sono in relazione inversa, all’interno appunto di una equazione di tipo lineare. I prezzi di produzione possono essere computati ai differenti livelli del salario.

47Giorgio Gilibert ha avuto il merito di ricostruire analiticamente passo passo l’emergere di questo risultato, a partire dall’ipotesi di salario anticipato47.

L’idea è questa: se il valore del prodotto netto e il valore dei mezzi di produzione sono medie il cui rapporto non è influenzato dai prezzi e quindi da r (per «ipotesi») possiamo procedere nel modo seguente. Possiamo dare a r un valore arbitrario: in particolare, possiamo porre r = 0. Questo rende lineari le equazioni (che diventano strutturalmente identiche alle prime equazioni) e ci consente di calcolare con facilità i prezzi relativi: proporzionali, in questo caso, alle quantità di lavoro contenuto nelle varie merci («Q.d.L.»). Possiamo così calcolare il massimo saggio del profitto R (uguale al saggio di sovrappiù) come il rapporto tra il valore del prodotto netto e il valore dei mezzi di produzione.

Arrivati a questo punto, tutto diventa chiaro e trasparente.

Possiamo infatti scrivere:

(C + Lw) (1 + r) = C (1 + R)

dove C indica il capitale al netto del monte-salari (il capitale costante).

Se assumiamo il valore del prodotto netto e l’ammontare totale di lavoro impiegato come unità per misurare rispettivamente i prezzi e il lavoro, possiamo scrivere:

r/R + wr + w = 1

r = R (1 – w (1 + r))

Nello stesso giorno – 5 maggio 1943 – in cui ottiene questo risultato, Sraffa nota che se i salari sono considerati come parte del prodotto (pagati post factum) questa «equazione fondamentale» diventa ancora più semplice. Possiamo ora scrivere:

C (1 + r) + Lw = C (1 + R)

Effettuate le opportune normalizzazioni, le due variabili distributive ci appaiono legate da una relazione inversa lineare:

r = R (1 – r)

48Non siamo troppo lontani da quanto leggiamo nella prima parte di Produzione di merci. Ed è una linea di pensiero alquanto singolare per uno che, almeno secondo vari degli interpreti che abbiamo citato di ascendenza sraffiana, non riconoscerebbe alcun ruolo di peso al valore-lavoro. È questa, la posizione di Kurz che abbiamo ricordato nelle pagine precedenti. Garegnani avanza una posizione critica più debole, in quanto comunque attribuisce a quella teoria la funzione «of expressing independently of distribution the aggregate on which a theory founded on the notion of social surplus naturally operates»48. De Vivo pare invece immaginare un’influenza indiretta visto che nella Hypo di Sraffa il rapporto «between value of product and value of constant capital must be equal to ratios of labour embodied»49.

49Insomma: il percorso lungo il quale queste conclusioni vengono raggiunte contrasta con l’idea che Sraffa non riservasse alcun ruolo analitico al valore-lavoro. È sicuramente vero che quando vige la Hypo e dunque una eguale composizione del capitale, non soltanto il valore di Marx ma anche il valore dei marginalisti non incorre in difficoltà logiche. Ed è altrettanto sicuro che Sraffa non poté non rendersi conto abbastanza presto che la sua Hypo non poteva sopportare il peso del progetto teorico che in quegli anni l’economista italiano aveva disegnato, per la semplice ma decisiva ragione che difettava in generalità. Se le composizioni di capitale differiscono nelle varie merci, le proporzioni del plusvalore e del profitto nel «reddito sociale» non sono le medesime. La Hypo, congiunta a un argomento in termini di riproduzione «bilanciata», permetteva però a Sraffa di ragionare in termini di prezzi proporzionali ai valori-lavoro quando il saggio di profitto era zero o era massimo, e perciò di sostenere che le divergenze dei prezzi da quella proporzionalità in tutte le posizioni intermedie non erano altro che «deviazioni».

50Il 21 agosto 1942, scrisse una nota, in italiano, intitolata Crosscap50. Il documento indica, grosso modo, la sequenza di passi che Sraffa aveva allora in mente di articolare nel suo libro: e non lascia dubbi sulla sua convinzione che ciò avrebbe dimostrato che il ragionamento di Marx era inequivocabilmente corretto. La lettura di Crosscap fa però anche capire che Sraffa intendeva tenere tutto ciò nascosto al lettore nel corso dello svolgimento analitico, e andasse rivelato solo alla fine. Si trattava, con tutta evidenza, di un programma di ricerca che mostrava un eccesso di sicurezza, e fu abbandonato. Presto Sraffa realizza che non vi è modo di sfuggire alla non generalità della Hypo, e di difendere la sequenza di passaggi nella forma immaginata. Si trova insomma di fronte a quello che definisce come un «disastro del modello», giudizio la cui drammaticità secondo alcuni interpreti deriva dal fatto che la relazione salario-profitto (che resterebbe comunque inversa) perde la sua linearità51. È possibile che contasse anche il fatto che in forza di ciò lo sfruttamento in senso marxiano perdesse «trasparenza». Di nuovo di grande utilità è Giorgio Gilibert nel mostrare come la procedura non fosse puramente e semplicemente abbandonata ma (radicalmente) riformulata, a partire da un salario pagato ex ante factum. In primo luogo, partire da una data configurazione produttiva, e di lì calcolare R, il massimo saggio del profitto. Costruire quindi lo Standard System. A questo punto assumere il sistema tipo come unità per misurare salari e prezzi. Infine, determinare i prezzi relativi corrispondenti al saggio di profitto eguale calcolabile per ogni possibile saggio di salario. Per raggiungere questo risultato è comunque necessaria una «mediazione», e cioè la Standard Commodity come costruzione ad hoc: quella merce tipo che è implicita nel sistema «reale» di partenza. La Standard Commodity venne per la prima volta identificata nel gennaio-febbraio 1944, e finì con lo spiazzare la Hypo: anche se, come mostrerò, le tracce di quest’ultima in qualche modo sono rintracciabili nel discorso successivo, sino a dopo la pubblicazione di Produzione di merci.

51Gilibert presenta alcune ragioni che danno conto dell’importanza che assume la merce tipo nel ragionamento dell’economista italiano52. L’intento di Sraffa era quello di precisare le condizioni che chiarivano la «necessarietà» dei prezzi al fine di garantire la regolare riproduzione del sistema. Quando il lavoro non è ancora introdotto esplicitamente questa «necessarietà» ha a che vedere con aspetti tecnico-biologici, a cui è da aggiungersi, nel caso di una economia che produce sovrappiù, il ruolo istituzionale di una distribuzione uniforme del profitto tra industrie. Quando invece il lavoro viene introdotto esplicitamente, com’è all’inizio degli anni Quaranta, si crea la parvenza che il sovrappiù che viene distribuito tra profitto (al saggio eguale) e salario («proporzionale») dipenda da quella stessa distribuzione. Se invece il salario viene misurato in termini di merce tipo sembra che ciò che deve essere distribuito sia fissato prima della determinazione dei prezzi.

52È un ragionamento convincente ma parziale, e credo vi sia altro. Il punto problematico è esposto con grande lucidità nella recensione a Produzione di merci che Napoleoni scrisse nello stesso 1960 e pubblicò l’anno successivo su “Il Giornale degli economisti”:

Il problema della misurazione, cioè della riduzione alla omogeneità, era già stato risolto da Sraffa con il suo sistema d’equilibrio, nel quale la scelta dell’unità di misura è, almeno in linea di principio, totalmente indifferente. Con qualunque unità di misura si perverrebbe infatti ovviamente a una relazione funzionale tra il saggio del profitto e il salario, il che è tutto quanto si richiede per la fondazione d’una teoria del sovrappiù. E il fatto che, misurando in termini di prodotto tipo, tale relazione risulti lineare può forse conferire, a questo tipo particolare di unità, un grado di convenienza maggiore che per altri tipi di unità, ma non può certo conferirle alcun particolare significato teorico53.

53L’osservazione di Napoleoni può essere accolta, salvo che in un punto. Come chiarirò nel seguito del mio discorso, la scelta dell’unità di misura che Sraffa opera nei primi due capitoli non soltanto consente un parallelismo con la New Interpretation, ma è anche tutto meno che totalmente indifferente, come afferma Napoleoni. Il fatto è semmai che si dà un doppio discorso sull’unità di misura, l’uno che lo riporta a Marx (che rimane implicito e incompiuto nel libro del 1960) e l’altro che lo riporta a Ricardo (con le contraddizioni rilevate da Napoleoni). Condivido dunque ancor di più l’opinione che il ruolo della merce tipo non vada eccessivamente enfatizzato: il che avviene non soltanto da parte di alcune scuole sraffiane, ma anche da parte di alcuni recenti interpreti marxisti di Sraffa influenzati dai nuovi approcci monetari a Marx (una posizione su cui torneremo criticamente più avanti)54.

Bortkiewicz e la «produzione di merci da merci per il tramite del lavoro»

54Possiamo ora dedicare qualche attenzione ad alcune delle obiezioni che Sraffa rivolge nel 1943 a Bortkiewicz (che negli appunti viene accorciato in B). Sul Notebook che contiene le reazioni critiche di Sraffa possiamo avvalerci di un lungo articolo pubblicato da Gehrke e Kurz nel 2006, che per molti versi in modo ottimo (anche se con qualche distorsione nei giudizi) prende finalmente atto e rende conto delle novità che le carte Sraffa ci presentano. In effetti, l’articolo è di grande interesse proprio perché segnala un necessario, anche se parziale, mutamento da parte di Kurz rispetto agli articoli a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza.

55I due autori si sentono in dovere di ricordare come Sraffa inizialmente pensasse che la ricostruzione di Marx in termini di valore-lavoro comportasse una «corruzione» della tradizione classica e della sua prospettiva di natura oggettivistico(-fisicalistica); come anche di sottolineare che le nuove posizioni di cui diremo vadano insieme alla ripresa di un concetto di ascendenza ricardiana, il salario come quota del sovrappiù, pagato in una qualche unità di misura astratta e in proporzione al tempo di lavoro speso dai lavoratori: il proportional wage. Per dare il contesto in cui si inseriscono gli appunti di Sraffa ora però i due autori non possono non riconoscere come all’inizio degli anni Quaranta Sraffa riconosca a Marx una lunga serie di conquiste analitiche, molte delle quali rispetto a Ricardo55. Gehrke e Kurz aggiungono, è vero, che si tratta di qualcosa di specifico di questa seconda fase di lavoro a Produzione di merci: nella fase precedente, 1927-1931, Sraffa appariva del tutto ignaro di questi contributi, e l’averli individuati, sostengono, deve aver costituito un’enorme sorpresa per lui56. Vista l’interpretazione precedente di Kurz, si può solo immaginare la sorpresa almeno per uno degli autori dell’articolo. Quello che è sicuro è che in questo stesso articolo si afferma che l’ammirazione con cui Sraffa guarda a Marx è malposta, dovrebbe invece, si sostiene, esser rivolta a Ricardo, o al Ricardo che si ritrova in Marx57.

56Vediamo allora alcune delle posizioni di Marx che Sraffa mostra di apprezzare: (a) la tesi che Ricardo avesse erroneamente identificato il saggio di plusvalore e il saggio del profitto, e che dunque il secondo possa cadere anche se il primo resta costante; (b) una prospettiva che, come nei fisiocratici, vede il sistema di produzione come un processo circolare, dove il capitale si compone anche di capitale costante (e dunque di altre merci), e di conseguenza non si risolve integralmente in capitale variabile (salari) in un numero finito di fasi; (c) la conclusione conseguente che il saggio del profitto effettivo incontra un tetto in un saggio massimo (il lavoro diretto totale, cioè il lavoro vivo che era stato speso nell’anno, in rapporto al capitale costante sociale); (d) il saggio massimo del profitto, come abbiamo già osservato, altro non è che l’inverso della composizione di capitale riferita all’intero sistema.

57Gehrke e Kurz individuano anche la Value Hypothesis: essa altro non è che la «ipotesi» (Hypo) di Sraffa. I due autori non possono però non riconoscere anche come negli anni Quaranta la terminologia adottata da Sraffa sia strettamente imparentata con la teoria marxiana del valore. Ma i due autori sostengono che i concetti di Marx vengono piegati da Sraffa per aderire al proprio approccio che non si basa sul valore-lavoro. Ora, se una affermazione del genere può essere presa per valida, senza dar luogo a particolari controversie, per il primo sottoperiodo 1927-1931, nei primi anni Quaranta (e persino dopo) le cose non stanno così e scivolano pericolosamente nella petitio principii. D’altra parte, i giudizi di Gehrke e Kurz discendono da una lettura della teoria del valore-lavoro che la esaurisce in una teoria dei prezzi di tipo «successivista» che, per giunta, sarebbe strutturata come un sistema duale a due approssimazioni: una tesi che ho già contestato, e su cui tornerò criticamente anche in seguito. Su questa base i due autori si sentono giustificati nell’affermare che «the classical theory of value and distribution could be elaborated without any reference to “labour values”»58. Se separiamo Marx (per cui non vale) dai classici, e da Ricardo in particolare, una proposizione del genere potrebbe ritenersi, con alcune qualificazioni (vista la contraddittorietà dell’economista inglese, di cui si è detto nel quarto capitolo), in sé corretta. Che però possa essere attribuita allo Sraffa dei primi anni Quaranta è tutto meno che scontato.

58Nel Notebook Sraffa rigetta le critiche di Bortkiewicz alla trasformazione dei valori in prezzi, come anche alla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. Per quel che riguarda il primo tema, ricorre in Sraffa la considerazione che Bortkiewicz, seguendo in questo Tugan-Baranowski, assuma che i tre settori degli schemi di riproduzione che considera abbiano differenti composizioni di capitale59. In effetti, osserva Sraffa, affermare, come fa Marx, che la massa dei profitti sia eguale alla massa del plusvalore, sicché l’una e l’altra si trovano nella medesima proporzione in rapporto al reddito o prodotto sociale, equivale ad affermare che la composizione di capitale debba essere la medesima nei vari settori60. Marx asserisce che valore e prezzi siano identici per prodotti che abbiano una composizione pari a quella della media sociale. La replica di Sraffa è che Marx prendeva implicitamente il prodotto sociale come standard; e che avesse ragione nel ritenere che, per il capitale sociale, la composizione organica61 fosse l’elemento più istruttivo.

59Contro Bortkiewicz Sraffa porta una obiezione «formale» e una più «fondamentale». Partiamo dalla prima. Come ci ricordano Gehrke e Kurz, Bortkiewicz non distingue chiaramente capitale costante e capitale variabile, riducendo la differenza tra i due alla rotazione del capitale. In realtà, la riduzione a lavoro datato può essere condotta solo per la via di una serie infinita, e non di una serie finita, di stadi. Di più, la «riduzione» non può mai essere condotta sino in fondo visto che in pratica rimane sempre un «residuo» di merce che non può essere trascurato, sino a che vi sia un saggio positivo del profitto. È però, almeno per noi, di grande interesse che Sraffa non si fermi qui, e vada avanti aggiungendo che la vera, fondamentale obiezione a Sraffa è un’altra, in cui addirittura, sostiene, si cela la natura essenziale della questione:

the real objection (though somewhat vaguer) is this: that B’s point of view, for the sake of obtaining absolute exactness in a comparatively trifling matter, sacrifice (by concealing it) the essential nature of the question – that is, that commodities are produced by labour out of commodities62.

60Per questo, conclude Sraffa, la necessaria «correzione» da apportare alla trasformazione di Marx dev’essere vista esattamente come tale: come una modifica rispetto a un altro, diverso, punto di partenza. Se si dimentica ciò, come fa Bortkiewicz, la soluzione, «pur offrendo precisione, oscura un fatto fondamentale». Nello specificare questo commento, Sraffa ci proietta in avanti, sino quasi a squadernarci davanti lo stesso titolo che prenderà il suo libro del 1960, con una aggiunta essenziale: le merci sono prodotte, sì, «a partire da» altre merci, ma ciò si verifica soltanto «per il tramite» del lavoro che viene erogato nel periodo63. Se si oscura ciò, si cancella un fatto sostanziale, vitale e necessario per la teoria.

61Nelle sue note contro Bortkiewicz egli insiste a più riprese sul fatto che la trasformazione di Marx è «approssimativamente» corretta, e che i valori vanno presi come il punto di partenza della correzione. La ragione è che, da un punto di vista «sistematico», non vi è ragione di ritenere che le composizioni di capitale differiscano. Il punto è evidentemente connesso alla «ipotesi del valore», la Value Hypothesis che Sraffa attribuisce a Marx attraverso il prisma della propria Hypo, che può anche essere ridenominata come Statistical Hypothesis, perché si basa su una compensazione per la legge dei grandi numeri64. L’argomento riemergerà in seguito. Lo ritroviamo, per esempio, dopo il «disastro del modello» e il conseguente cambio di prospettiva nel 1945, quando la Standard Commodity è stata ormai individuata: in quel caso, oggetto di critica sarà Böhm-Bawerk. Il saggio di profitto corretto, scrive ora Sraffa, non è definito in termini di valore-lavoro, ma di prezzi di produzione. Ciò nondimeno, l’«ipotesi»:

that the average organic composition of the means of production + that the net product are approximately equal; + that therefore the price ratio of the two aggregates is approximately constant with respect to variations in the rate of profits is equivalent to saying that the price of the net social product, at all values of r, is equal to its value, if both are measured in terms of the Standard Commodity. This is the same as the well-known statement of Marx that «in society, considering all branches of production as a whole, the sum of the prices of production of the commodities produced is equal to their values» (Kap. III, 1, p. 138). And he adds: «It is only in capitalist production as a whole that this general law maintains itself as the governing tendency, always only in a very intricate and approximate manner, as the constantly changing average of perpetual fluctuactions» (ib., p. 140). Böhm takes this for a tautology of which he makes fun at great length […]. However, it is not exactly but approximately that the two coincide. And they coincide because the national produce consists of a larger number of different commodities, which are chosen for their technical properties + these are quite independent of the organic compositions of the capital producing them65.

62Possiamo a questo punto tornare al quaderno su – o meglio, contro – Bortkiewicz del 1943. Sraffa ammette che Bortkiewicz «appears justified in concluding that, given the wages in commodities, + the methods of production of wage-commodities, the rate of profits is ipso facto determined, no matter what happens in luxury-industries». Ma – si chiede Sraffa – qual è il senso di ciò che Marx sta cercando di fare? E perché prende una strada che è almeno parzialmente errata? E si risponde:

What Marx does is, on the one hand (1) to take wages as given (inventory) in commodities, for subsistence, and on the other (2) to take the mass of profits as a given proportion of the product of labour. The two points of view are incongruous, and are bound to lead to contradictions. But B. wants to solve the contradiction by bringing (2) into agreement with (1). On the contrary, the correct solution is to bring (1) into agreement with (2). For the point of view of (1) useful as it is as a starting point considers only the fodder-and-fuel aspect of wages, it is still tarred with commodity-fetishism. It is necessary to bring out the Revenue aspect of wages; + this is done by regarding them as w, or a proportion of the Revenue. This is (1) brought to agree with (2); and the conclusion that all capital must be taken into account for the rate of profits becomes true66.

63Insomma, il punto di vista che ha raggiunto è che ogni visione «meccanicistica» della distribuzione debba essere abbandonata, in favore di una prospettiva in cui la distribuzione dipenda da determinanti «sociali». Sraffa aggiunge anche che trasformare il salario in una grandezza «proporzionale» significa introdurre nella sostanza, sia pure non dichiarandolo, la moneta, prendendo il reddito annuale (il prezzo del prodotto netto) come unità di riferimento67. Siamo a questo punto decisamente lontani dalla posizione «fisicalista» forte dello Sraffa di fine anni Venti, e il suo «oggettivismo»68 è caratterizzato adesso da una forte coloritura «convenzionalista».

64Gehrke e Kurz presentano correttamente tutti questi punti analitici, ma non di meno quando tirano le fila riconfermano l’usuale posizione dello sraffismo neoricardiano: «Marx was only driven to adopting his erroneous transformation algorithm because it did not have the method of simultaneous equations at his disposal»69. Il problema, ancora una volta, stava in una insufficienza tecnica: Marx è condotto alla sua visione centrata su un movimento dal valore-lavoro ai prezzi di produzione dal fatto che non fosse ancora sviluppato il metodo delle equazioni simultanee. Una frase del genere, almeno a parere di chi scrive, è chiaramente in contrasto con le (ripetute) proclamazioni, anche successive, di Sraffa sulla «trasformazione».

65I Notebook contengono anche una dura risposta alle critiche di Bortkiewicz alla marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto. Qui, devo dire, concordo con i giudizi di Gehrke e Kurz. Il saggio di profitto effettivo dipende dal saggio massimo del profitto (che è l’inverso della composizione del capitale) e dal saggio di plusvalore (il salario «proporzionale»). Sraffa legge l’argomento di Marx come se quest’ultimo ragionasse di accumulazione astraendo dall’innovazione, con conoscenze tecnologiche costanti. Una lettura del genere delle tesi di Marx mi pare improponibile. Se è corretto affermare che, vigendo le ipotesi sraffiane, e se la distribuzione non cambia, al cadere del saggio massimo di profitto, anche il saggio di profitto effettivo non può non cadere, reputare che ciò riabiliti la versione tradizionale della caduta del saggio del profitto è invece scorretto70.

Uso della categoria di plusvalore

66La ricostruzione che precede consente di porci la domanda se, criticando Bortkiewicz nel modo che abbiamo visto, Sraffa abbia modificato in modo significativo le proprie opinioni relativamente alla fine degli anni Venti. La risposta non può che essere positiva. Si deve dire che ciò, in un modo o nell’altro, non può non essere ormai ammesso dagli stessi autori di ascendenza sraffiana. Un’altra questione è in realtà di maggiore e più profondo interesse. Vi è qualche indizio che lo Sraffa dei primi anni Quaranta trovi spazio per un significato della teoria del valore-lavoro che sia diverso da quello di legge particolare dello scambio, una teoria il cui scopo sia altro da quello di provvedere una peculiare procedura di determinazione dei prezzi relativi? Più precisamente, un senso che dia un contenuto quantitativo preciso, non soltanto una comprensione qualitativa, alla proposizione secondo cui il lavoro sarebbe l’(unica) origine del valore? Che consenta insomma una risposta diversa da quella, negativa, data alla fine degli anni Venti in merito al secondo significato allora attribuito da Sraffa al lavoro come «causa» del valore, e di cui abbiamo detto quando abbiamo ricordato il primo periodo di formazione di Produzione di merci, rivendicando la possibilità di un rimando anche quantitativo all’ammontare di lavoro speso.

67A differenza della quasi totalità degli autori di fede sraffiana, mi sono convinto – e qui gioca la «sorpresa» che mi è venuta dalla consultazione dell’archivio – che la teoria marxiana del valore abbia finito con il rappresentare per l’economista italiano un ruolo teorico esplicativo, persino da un punto di vista quantitativo, per il tipo di economia da lui studiata: un riferimento che l’autore ha voluto mantenere implicito, ma che pure è riconoscibile per chi consulti l’archivio senza pregiudizi. In una questione del genere è molto improbabile che si trovi mai quella che gli anglosassoni chiamano una «pistola fumante», una qualche conferma inconfutabile della congettura che Sraffa avesse finito con il condividere l’attribuzione di una valenza quantitativa alla prospettiva macro-sociale secondo cui il prodotto sociale va ricondotto a nient’altro che a (erogazione di) lavoro, sicché il lavoro (vivo) va appunto visto come origine di tutto il (neo)valore prodotto71. Possiamo però avanzare una ricostruzione, per così dire, «speculativa», che impiega a suo supporto numerose tracce che si trovano disperse nei materiali inediti, rendendo così la congettura almeno plausibile. Dal punto di vista di chi scrive, il ragionamento che segue si configura come un punto di partenza in grado di collocare Sraffa dentro la prospettiva dell’economia politica critica.

68Una delle «spie» individuabili nell’archivio che spinge in questa direzione è l’allusione dell’economista torinese a ragioni non formali per inserire esplicitamente il lavoro nelle terze equazioni. Sono, lo si è anticipato, gli anni in cui Sraffa abbandona quello che ora qualifica come il punto di vista «feticista» sul salario, che lo riconduce alla sussistenza, preferendogli la prospettiva che lo definisce come una proporzione del nuovo valore aggiunto nel periodo. L’autore di cui parliamo è troppo fine conoscitore di Marx per non comprendere che in questo caso non abbiamo a che vedere con una «interpretazione» ma con una «ricostruzione», che devia in punti significativi dal discorso dell’autore del Capitale. Ora intendo piuttosto mettere l’accento su una altra argomentazione, probabilmente nascosta dietro il successivo scavo analitico, che pare in verità aprire la nuova fase di costruzione di Produzione di merci all’inizio degli anni Quaranta. Mi riferisco alla serie di documenti aperti da una nota del 13 novembre 1940, intitolata Use of the notion of surplus value.

69In seguito alla dichiarazione di guerra dell’Italia, Sraffa venne internato al Metropole Internment Camp della Isle of Man, e vi rimase dal 4 luglio 1940 al 9 ottobre di quell’anno. In quell’occasione egli rilesse attentamente il primo libro del Capitale nella ristampa nel 1938 dell’edizione Engels, con materiali supplementari tradotti da Dona Torr. Da quel documento è possibile arguire come Sraffa avesse ben compreso, leggendo quel Marx, che soltanto il lavoro (come attività) determina il reddito sociale come neovalore.

70Vediamo meglio. La prima pagina di Use of the notion of surplus value è aperta da una citazione dal Capitale, tratta dal capitolo xvi del primo libro nell’edizione inglese, basata sulla terza edizione tedesca (il xiv nell’edizione italiana, basata sulla quarta edizione tedesca). La citazione non fa altro che riprendere un discorso più ampiamente sviluppato nel secondo paragrafo del settimo capitolo (il quinto nell’edizione italiana). Nel capitolo in questione Marx costruisce una comparazione ipotetica tra due situazioni. Nella prima, il lavoro vivo è stato speso in misura eguale al lavoro necessario. Nella seconda, si considera il prolungamento del lavoro vivo erogato oltre il lavoro necessario: si mantengono però i prezzi immutati rispetto a come è stato possibile fissarli nelle condizioni individuate dal primo corno della comparazione. Visto che in quel caso non vi è saggio del profitto positivo, i prezzi non possono che risultare proporzionali ai valori-lavoro. Nei suoi appunti Sraffa deve «rovesciare» il discorso marxiano, parlando di accorciamento della giornata lavorativa sociale: in questo caso, il prodotto si ridurrà, fino a far scomparire il sovrappiù. La scelta che si ha, scrive Sraffa, è quella di partire dai prezzi effettivi che rendono eguale il saggio del profitto sul capitale anticipato, o dai valori che rendono eguale il plusvalore per lavoratore:

Note that if we have adopted straightway values, + made the comparison between the two extreme cases, we should have obtained the same, correct result. But if we have adopted prices, + made the comparison, it would have led us astray72.

71Quel che non può non colpire in questo svolgimento analitico è che Sraffa, con tutta evidenza, ragiona considerando situazioni con prezzi proporzionali ai valori-lavoro reputandole teoricamente significative; di più, considerandole il punto di partenza essenziale del discorso. Un altro esempio significativo del fatto che Sraffa segue il ragionamento di Marx è in quest’altra citazione presa da una nota scritta il 16 novembre, e ora attaccata al volume di Dona Torr:

The greater the degree of exploitation in a society as a whole, the greater is the distortion (i.e. the divergence between values and prices. As the greater the amount of snow fallen, the greater is the distortion of the surface of a piece of broken ground (i.e. the divergence between the surface of the snow + that of the ground underneath; since the snow collects in the cavities)73.

72Sraffa legge il discorso di Marx nei termini di ciò che, impiegando la terminologia di Isaak I. Rubin nei suoi Saggi sulla teoria marxiana del valore possiamo chiamare un «metodo della comparazione»: Rubin era stato preceduto da Benedetto Croce, che in una logica ben diversa aveva però anche lui parlato di un «paragone ellittico»74. Sraffa vede bene che l’origine del profitto lordo (del plusvalore) non è derivata da Marx a partire da una riduzione del salario a partire da una situazione in cui i «metodi di produzione» siano dati (siano cioè noti i livelli quantitativi degli input impiegati e degli output ottenuti) e, al contempo, si immagini che la remunerazione del lavoro esaurisca il valore del prodotto netto. All’opposto, è costruita attorno a un esperimento concettuale che considera un «allungamento» della giornata lavorativa sociale rispetto a quella situazione in cui il tempo di lavoro vivo si fermi al punto in cui eguaglia il tempo di lavoro necessario75. Sono per mio conto convinto che Sraffa avesse del tutto chiara la cognizione che l’oggetto d’analisi che si era ritagliato fosse tipicamente «ricardiano», e non potesse non sapere che Ricardo (il Ricardo di Marx) era predicato su una giornata lavorativa fissa. L’economista torinese deve quindi riformulare la comparazione di Marx per farla convergere sulla questione della determinazione simultanea di prezzi e distribuzione. Invece che prolungare il tempo di lavoro (vivo), Sraffa «taglia» il prodotto, il che equivale evidentemente ad «accorciare» il lavoro ipoteticamente erogato rispetto alla situazione effettiva.

73Alla fine, Sraffa dovrà adeguarsi alla pratica usuale, che fa muovere l’esposizione dell’origine del sovrappiù/plusvalore da un momento in cui il processo di produzione si sia ormai concluso. Il lavoro vivo, l’attività estratta dalla forza-lavoro di cui le lavoratrici e i lavoratori salariati sono «portatori», quella grandezza che per Marx è intrinsecamente ed essenzialmente variabile, è a quel punto ormai esso stesso un lavoro «morto» nella merce potenziale prodotta, da portare al mercato. È questo, in effetti, ciò che «vediamo» nella «fotografia» (dopo il raccolto76, cioè al termine del periodo di produzione, e prima dello scambio monetario) di cui solo tratta Produzione di merci. A quel punto, naturalmente, la distinzione tra forza-lavoro e lavoro vivo rischia di essere dimenticata – e ancor più la dipendenza della configurazione produttiva da quel «rapporto di capitale» che oppone, conflittualmente e antagonisticamente, classe lavoratrice e classe capitalistica. Non stupisce che sia ormai completamente indicibile la «variabilità» del lavoro vivo su cui si gioca la comparazione di Marx.

74Ciò non toglie la rilevanza estrema del punto che Sraffa individua in Use of the notion of surplus value: tanto più che l’economista torinese è uno dei pochissimi a cogliere il cuore della teoria del valore di Marx, mentre la quasi totalità dei marxisti lo ignora. Abbiamo visto nei capitoli precedenti che il problema principale di Marx, assieme all’«esposizione» (Darstellung) del Capitale come Soggetto che pretende di poter porre integralmente i propri presupposti come astrazione reale in movimento, è quello della «costituzione» (Konstitution), cioè della «formazione delle grandezze economiche». La risposta di Marx alla seconda questione – che riconduce il «capitale come cosa» al «capitale come rapporto» – rimanda la genesi del plusvalore alla estrazione del lavoro vivo come variabile che risulta dalla lotta di classe che ha luogo nella produzione. Di ciò Sraffa ha una percezione tutto meno che compiuta, ma certo molto più limpida di quanto non sia negli altri lettori di Marx.

75Per rendersene conto, può essere utile tornare a Croce e Rubin, e insistere sul modo con cui Sraffa si oppone all’uno e all’altro. Entrambi gli autori colgono la natura «comparativa» della teoria del plusvalore di Marx, e in questo hanno ragione. La riferiscono però a elementi definiti «sociologici»: il primo, a una qualche distorsione capitalistica rispetto a un’economia «naturale» presa come riferimento; il secondo a un’economia di scambio «mercantile» generalizzata. Nel caso di Sraffa, nel lato della comparazione dove non è ancora emerso il sovrappiù, vengono rivelati i costi «autentici» dell’economia effettivamente oggetto d’analisi. Si tratta di un’economia non tanto «ipotetica», se con questo termine ci si riferisce come a qualcosa che non abbia un corrispettivo nella realtà sociale indagata: si tratta, al contrario, di quella situazione che consente di definire il «lavoro necessario» e di determinare quei «valori di scambio» (prezzi semplici proporzionali ai valori-lavoro) che sono nel primo libro del Capitale la mediazione per dar conto della generazione del plusvalore, prima che si possano fissare i prezzi di produzione che considerano una particolare regola di distribuzione di quel sovrappiù in valore.

76Da questa prospettiva il discorso che ho costruito nei due capitoli precedenti di questo volume dovrebbe risultare ormai chiaro. All’interno dei processi capitalistici di lavoro è l’erogazione del lavoro vivo che «costituisce», o genera, la configurazione produttiva che s’incarna nei metodi di produzione di Produzione di merci: lavoro vivo che viene erogato dopo la compra-vendita di forza-lavoro. Il capitale come un tutto è in grado di ottenere (plus)valore se, e soltanto se, nella produzione immediata come terreno «contestato», è in grado di forzare i lavoratori e le lavoratrici (esseri umani portatori viventi di capacità lavorativa) a erogare attività lavorativa nella misura e nella qualità richieste: è in questo senso che Marx parla di lavoro capitalistico come «lavoro forzato» di esseri umani «liberi» ed «eguali». Tutto ciò, naturalmente, può aver luogo soltanto prima che il processo di produzione abbia termine, mentre le merci stanno materializzandosi, in anticipo rispetto allo scambio monetario sul mercato. È in questo snodo che, come sa il lettore di questo libro, è da riconoscere la fondazione ultima della riconduzione del neovalore al lavoro vivo «succhiato» dal capitale alla forza-lavoro vivente.

77Dopo l’apparizione del libro di Sraffa nel 1960, e tenuto conto del dibattito tra marxisti e sraffiani nel corso degli anni Settanta, non possiamo ormai non sapere che un’indagine del processo capitalistico di (ri-)produzione che sia ritagliato esclusivamente ex post factum non può che rendere la teoria del valore-lavoro (come teoria dei prezzi individuali) del tutto ridondante. Più che una critica, è una riconferma della natura stessa del «dominio» concettuale ed empirico di quella teoria stessa. Una conclusione del genere non si applica invece a una teoria che intenda includere nel proprio orizzonte il movimento stesso di costituzione di quelle grandezze che sono assunte come «date» nella determinazione dei prezzi in Produzione di merci.

78Non può non apparire singolare che Sraffa incontri in Marx proprio quell’argomento che nel Capitale sostiene la tesi che il reddito nazionale, come nuovo valore aggiunto nel periodo, ha origine in una produzione di merci a mezzo di merci che viene alla luce attraverso il prolungamento della giornata lavorativa oltre il lavoro necessario: un prolungamento che, giusta la teoria di Marx, non può essere dato per scontato, almeno se si prende sul serio la distinzione tra forza-lavoro, come potenza di lavoro, e lavoro vivo, come lavoro in atto. La capacità lavorativa è un attributo degli esseri umani; e il lavoro come attività è prestato da quegli stessi esseri umani. Se dunque il lavoro vivo è davvero del capitale dopo la compravendita sul mercato del lavoro, esso non può non essere al tempo stesso una prestazione che resta pur sempre dei lavoratori. La produzione capitalistica di merci è essenzialmente, e prima di tutto, consumo dei corpi e delle menti dei lavoratori e delle lavoratrici come portatori viventi di forza-lavoro. La giornata lavorativa sociale totale non può essere considerata data se non come risultato di ciò: questo e non altro è la teoria del valore-lavoro di Marx.

79Siamo, ripeto, nell’ambito delle congetture, e a partire da queste dei possibili usi delle «piste» aperte da Sraffa, tanto alla comprensione del suo libro, quanto alla sua contestualizzazione e sviluppo. Con tutta la cautela del caso, vale però la pena di osservare come, sulla base di quello che precede, sia possibile dare un’interpretazione di un importante appunto del 1931 – alla fine, dunque, della prima fase di lavorazione di Produzione di merci – diversa da quella data da Andrea Ginzburg, che ha avuto il merito di attirarvi l’attenzione. Il documento, che consiste di cinque pagine, è in inglese, e si intitola Surplus product 77.

80Non possiamo, né avrebbe senso, ripercorrerlo qui nella sua interezza. Ci limitiamo dunque a ciò che è utile per il discorso che stiamo svolgendo. Lo studio del plusprodotto, osserva Sraffa, è il vero oggetto degli studi economici: il problema è che è un oggetto che tende o a svanire o a restare non spiegato, e va dunque affrontato «dialetticamente». La nozione di plusprodotto è relativa a qualche cosa che vada reputato necessario: si richiede dunque una definizione esplicita di tale necessità, a cui attenersi con rigore. Ora, osserva l’economista torinese, il punto di vista della società capitalistica è quello della classe dominante, e solo Marx vi aderisce coerentemente ed esplicitamente; a differenza di Ricardo, che vi aderisce esplicitamente solo nelle Notes on Malthus e non coerentemente. Se si assume una prospettiva integralmente «oggettiva», la stessa nozione di sovrappiù si dissolve:

for if we take this natural science point of view, we must start by assuming that for every effect there must be a cause, that the causes are identical with their effects, and that there can be nothing in the effect which was not in the causes: in our case, there can be no product for which there has not been an equivalent cost, and all costs (= expenses) must be necessary to produce it78.

81Il sovrappiù, l’oggetto ignoto dell’indagine, una volta che venga spiegato riconducendolo a una qualche causa, e dunque diventi conosciuto, cessa di essere tale. Sraffa si interroga su un paio di possibili modi di rapportarsi a una difficoltà del genere. Il primo è riconoscere la natura «conservatrice» della scienza economica, come di qualsiasi altra scienza, nel suo cercare ragioni per l’esistenza dei fatti indagati: una scienza economica «rivoluzionaria» può indagare le contraddizioni consistenti in una esistenza contro la ragione, cioè il proprio fallimento come teoria, qualcosa che può soltanto avere risoluzione pratica. Il secondo è criticare il principio della ragione sufficiente, perché se ogni effetto è interamente contenuto nelle proprie cause, queste ultime possono contenere qualcos’altro oltre a quell’effetto:

Any given cause is entirely contained in its effects (But these effects contain more than it, i.e. they have other causes). Thus there must be a leak at one end or the other: the «closed system» is in communication with the world. […] When we have defined our «economic field» there are still outside causes which operate in it; and its effects go beyond the boundary. This must happen in any concrete case79.

82Il sovrappiù può essere la conseguenza di cause esterne al campo teorico prescelto, l’economical field. Gli effetti della distribuzione del sovrappiù possono anch’essi giacere fuori da quel campo. Si tratta, come anticipavo, di un documento di grande interesse, che in qualche modo, mentre chiude nell’agosto del 1931 la prima fase di lavorazione al libro del 1960, ben si integra con il documento del novembre 1940 sull’uso della categoria di plusvalore, e prelude all’inizio della seconda fase.

83Ginzburg fa corrispondere l’economical field di Sraffa al core di Garegnani – e nota come il secondo termine non compaia mai negli scritti di Sraffa, e che l’unica ricorrenza del primo termine sia a sua conoscenza nella nota che qui si commenta. Il «nucleo» di Garegnani sarebbe la parte più astratta della teoria, l’unica suscettibile di un trattamento formalizzato generale. Altri temi «economici» possono essere certo analizzati, ma a un livello più basso di astrazione, in termini di una determinazione concreta dove significativa è l’indeterminazione storica e istituzionale e più forte il ruolo dell’induzione: e dove perciò è possibile sfuggire al determinismo.

84Secondo Ginzburg, tra questi ulteriori luoghi (o strati) dell’indagine dell’economista non vi sarebbe una «gerarchia predeterminata». A me pare che la nota sull’uso della categoria di plusvalore configuri un caso eclatante di causa esterna all’economic field «ricardiano» che caratterizza la ricerca di Sraffa. In quella nota è vero alla lettera quanto Ginzburg osserva: nel caso del processo di valorizzazione «marxiano» si tratta proprio di un momento storico-sociale dove the potential becomes effective, and the actual modifies the potential. E però, al tempo stesso, dovrebbe risultare del tutto evidente, e così sembra proprio che fosse per lo stesso Sraffa nel novembre del 1940, che qui esiste una gerarchia argomentativa precisa, dove la teoria del(la generazione del plus)valore di Marx ha priorità fondazionale rispetto a quella determinazione di prezzi e distribuzione che è derivabile dalla «fotografia» del campo economico classico-ricardiana. Quello di Marx, peraltro, tutto è meno che un meccanismo causale semplificato e determinato, generale e astratto che conduce a un determinismo finalistico: al contrario, riconduce al carattere specifico, socialmente determinato e «aperto» della nozione capitalistica di «lavoro» (nella sua triplice natura di capacità di lavoro, lavoro come attività, e forza-lavoro vivente), il costituirsi stesso dell’oggetto «capitale» (come «cosa» e come «rapporto»), e delle sue possibili «contraddizioni». Una prospettiva che è certo estranea a qualsiasi feticismo, quale che sia la procedura di determinazione del salario. Ma su questo torneremo più avanti.

85Per l’intanto, possiamo affermare che da una prospettiva del genere non si può condividere l’opinione di Kurz e Salvadori80 secondo i quali l’introduzione esplicita del «lavoro» nel discorso di Sraffa servì a un solo e limitato obiettivo, quello di provvedere un fondamento grazie al quale i pagamenti salariali potessero essere effettuati.

Produzione di merci a mezzo di merci e il saggio di «sfruttamento»

86Nel libro del 1960 questi argomenti che connettono sotterraneamente Sraffa a Marx sono nascosti. Non è certo per caso che in Produzione di merci Sraffa dovette tornare alla procedura consueta di prendere le mosse da movimenti del salario e non da variazioni del tempo di lavoro erogato. Si inizia dalla regola «semplice» secondo cui i prezzi sono proporzionali ai valori-lavoro quando il salario, come quota del reddito sociale, è posto uguale all’unità: in questo caso il saggio uniforme del profitto è nullo. Sraffa ipotizza, subito dopo, una riduzione del salario, il che fa emergere un saggio positivo del profitto. Ciò non può non dar luogo a una variazione dei prezzi a causa del divergente rapporto di lavoro e mezzi di produzione nelle varie industrie. Ai cambiamenti nella distribuzione corrispondono mutamenti complessi dei prezzi. Ciò nondimeno, vi è anche da considerare il caso estremo in cui il salario è nullo, e il saggio del profitto effettivo s’identifica con quello massimo: r = R.

87Sappiamo che il rapporto tra il valore del sovrappiù e il valore dei mezzi di produzione è identico alla relazione «tipo» tra diverse quantità della medesima merce composita costituita dalla Standard Commodity: proprio come con la Hypo, si tratta di un rapporto indipendente dai prezzi. Questa «proporzione critica», come la definisce Sraffa nel libro, ha da essere «ricorrente». Se il reddito nazionale e il salario vengono entrambi misurati in termini di merce tipo, la relazione tra saggio del profitto e salario proporzionale è non solo inversa ma anche trasparente. Lo Standard System consente di misurare la «distorsione» dei prezzi dai valori dovuta alla circostanza per cui il prodotto netto e i mezzi di produzione sono costituiti da aggregati di merci in proporzioni che divergono dai pesi che le due grandezze devono avere nel sistema tipo. Resta però vero che il saggio del profitto non corrisponde al rapporto del plusvalore alla somma del capitale costante e del capitale variabile come computato da Marx: il saggio del profitto in prezzi di produzione di Produzione di merci diverge da quello in valori-lavoro del terzo libro del Capitale. Che conclusione derivarne?

88Dalla consultazione delle carte alla Wren Library emerge senza ombra di dubbio che, a dispetto di questa non corrispondenza, Sraffa rimase convinto di un forte parallelismo tra le proprie conclusioni e quelle di Marx, anche dopo il «collasso» della Hypo nel 1943. Ciò, peraltro, continua a rimanere vero anche dopo la pubblicazione del libro nel 1960, e non verrà mai smentito successivamente. La convinzione di Sraffa è comprensibile, una volta considerati i documenti ricordati nel paragrafo precedente. Essa può essere fatta discendere dalla identità «macrosociale» che si può porre tra il neovalore aggiunto nel periodo dai lavoratori e dalle lavoratrici, da un lato, e il lavoro vivo che vi ha dato origine e che viene esibito in moneta, dall’altro.

89Appena pubblicato il volume, a fine 1960 e poi ancora nel corso del 1961, questa difesa la ritroviamo in alcune reazioni dell’economista torinese a un paio di recensioni che avevano messo in dubbio la «continuità» tra Produzione di merci e Marx. È una difesa che si estende, sorprendentemente (per i più), alla procedura di «trasformazione» del terzo libro: un punto che, pur con tutte le differenze dei vari interpreti sraffiani sul lungo percorso di costruzione di Produzione di merci, non viene da loro mai messo in evidenza81. Questa difesa si trova, per esempio, in una nota in italiano datata 31 dicembre 1960 intitolata «Risposta a Napoleoni»82. Vale la pena di riportarla per intero:

In realtà, non c’è più contraddizione fra il 1° e il 3° volume del Capitale di Marx di quanto vi sia fra la 1a e la 3a ed. dei Principi di Ricardo. In entrambi i casi, si comincia con una teoria del valore-lavoro che si applica allo scambio delle singole merci nella società primitiva in cui si suppone che tutto il prodotto vada ai lavoratori (o almeno, che non vi sia differenza nel capitale impiegato nei vari rami). Questi valori vengono poi modificati quando vi sia da tenere conto di un sovrappiù che si suppone distribuito ai capitalisti in base a un saggio uniforme del profitto: i valori di scambio ne risultano modificati secondo la maggiore o minore quantità di capitale impiegata per unità di lavoro, nel produrre le varie merci e i prezzi di alcune di queste salgono e quelli di altre scendono.

90Sraffa prosegue con una lettura più «macro» del problema:

Quando però si considerino, anziché i prezzi delle singole merci, i valori di grandi aggregati di merci (quali il prodotto nazionale, il reddito nazionale, il sovrappiù sociale, il salario complessivo; e cioè le quantità che entrano in gioco quando si tratti di teoria della distribuzione, di determinazione del sovrappiù, e di calcolo del saggio general [sic] del profitto) in questi le fluttuazioni delle singole merci si compensano approssimativamente, e gli aggregati possono di nuovo essere misurati dal valore-lavoro. Questo è quel che Ricardo fa quando, nella sua 3a edizione, sceglie come «misura invariabile dei valori» una merce che formi il «giusto mezzo» fra i due estremi formati dalle merci il cui prezzo si compone quasi esclusivamente di salario e da quelle basate prevalentemente sul profitto. Lo stesso risultato Marx lo raggiunge mediante la trasformazione dei valori in prezzi di produzione, usando il saggio generale del profitto che ottiene dalla media dei saggi particolari dei singoli rami di produzione.

91Sraffa conclude con una nota personale più positiva:

Quella che ho chiamato «merce-tipo» e che ha incontrato così poco favore, è proposta come un metodo per risolvere questo problema con esattezza anziché approssimativamente: essa occupa precisamente la posizione intermedia richiesta da Ricardo e soddisfa la condizione di «invariabilità» che egli richiede per questo problema: inoltre, basta che le equazioni del sistema reale da cui si parte vengano ridotte in modo che esse impieghino uguale quantità di lavoro, i coefficienti del sistema tipo sono i «pesi» che si devono dare ai singoli saggi del profitto perché la loro media ponderata dia esattamente il saggio generale del profitto83.

92Dietro il rimando alla merce tipo sono ben evidenti le tracce della Value Hypothesis interpretata come Statistical Hypothesis. L’argomento lo conosciamo già bene: la trasformazione di Marx, con gli aggregati misurati in valori-lavoro, è «approssimativamente» corretta: e ora, grazie alla Standard Commodity, può essere resa «precisa». La Statistical Hypothesis è presente in ancor maggior evidenza in quanto Sraffa scrive sulla recensione di John Eaton, sempre del 196084.

93Nel suo testo Eaton ha osservazioni seccamente critiche contro la merce tipo, ma ciò non impedisce a Sraffa di averne un’impressione positiva. In una lettera a Maurice Dobb del 9 ottobre 1960, Sraffa scrive di condividere la conclusione che del sistema tipo si possa fare a meno, ma aggiunge che se si vuol seguire Marx nella sua trasformazione e renderla rigorosa, non accontentandosi di conclusioni approssimate e mirando, invece, a risultati esatti, la merce tipo è un necessary adjunct per le ragioni già ricordate nella lettera a Napoleoni85. Si tratta di un filo di ragionamento ripreso poche settimane dopo, il 29 ottobre 1960, in uno scritto che si presenta come un draft di una risposta destinata a esser pubblicata86. Il 2 febbraio 1961 Sraffa invia una lettera a Bodington, dove ribadisce il suo modo di vedere le cose, ma a questo punto conclude: «I doubt that it would be wise at the present stage to direct the discussion on to these lines». Pare insomma che dalla fine del 1960, e agli inizi del 1961, l’economista italiano si sia convinto che fosse più utile percorrere il versante «critica della teoria economica» piuttosto che spingere su quello delle radici non soltanto ricardiane ma anche marxiane del suo schema teorico.

94A Eaton Sraffa ribadisce ancora una volta:

The proportions of M. are based on the assumption that the comp. of any large aggr. of commodities (wages, profits, const. cap.) consists of a random selection, so that the ratio between their aggr. (rate of s.v., rate of p.) is approx. the same whether measured at «values» or at the p. of prod. corresp. to any rate of s.v.

con il solito doppio movimento: da un lato, concorda con Marx («this is obviously true»), ma dall’altro assume il ruolo del fastidioso contestatore («tiresome objector»):

This is obviously true, and one would leave it at that, if it were not for the tiresome objector, who relies on hypothetical deviations: suppose, he says, that the capitalists changed the comp. of their consumption (of the same aggr. price) to commods of a higher org. comp., the rate of s.v. would decrease if calc. at «values», while it would remain unchanged at p. of prod which is correct? – and many similar puzzles can be invented.

(Better: the caps switched part of their consumption from comms of lower to higher org. comp., while the workers switched to the same extent theirs from higher to lower, the aggr. price of each remaining unchanged …)

95È questa una svolta significativa nell’individuazione del problema, su cui dovremo tornare. È comunque ancora una volta un modo per sterilizzare l’attacco contro Marx, via Statistical Hypothesis:

It is clear that M’s pros are not intended to deal with such deviations. They are based on the assumption (justified in general) that the aggregates are of some average composition. This is in general justified in fact, and since it is not intended to be applied to detailed minute differences it is all right.

This should be good enough till the tiresome objector arises. If then one must define which is the average to which the comp. should conform for the result to be exact and not only approximate, it is the St. Comm.

But what does this average «approximate» to? i.e. what would it have to be composed of (what weights shd the average have) to be exactly the St. Com.?

i.e. Marx assumes that wages and profits consist approximately of quantities of st. com.87

96Tra i pochi autori che fanno riferimento a queste citazioni ritroviamo Heinz Kurz, assieme a Neri Salvadori: i due autori però sterilizzano il riferimento all’approccio in termini di valore-lavoro, rileggendolo attraverso le lenti della merce tipo88. Confesso di non capire per quale ragione qualcuno dovrebbe voler ancora difendere la Value Hypothesis (sia pure come Statistical Hypothesis), una volta che abbia conquistato una migliore e «superiore» procedura di determinazione dei prezzi di produzione che, si afferma, avrebbe del tutto «cancellato» quella marxiana rendendola irrilevante. Quella difesa risulta comprensibile prima del «collasso» del modello nell’agosto del 1943. Ma dopo?

97Il punto sostanziale è, a mio parere, che una questione del genere non può essere pienamente apprezzata se si insiste con il rimanere nei confini dell’oggetto di analisi indagato in Produzione di merci – il «campo economico» lì definito, per esprimerci secondo l’appunto del 1931 che abbiamo discusso al termine del paragrafo precedente. Ciò di cui vi è necessità, per dare risposta al quesito, è l’andare «dietro» i metodi dati di produzione: interrogarsi su quella dimensione causale che ragiona della costituzione del «carattere di feticcio» del capitale, come lo abbiamo definito nei capitoli su Marx. La fotografia89 degli input e degli output «dopo il raccolto» e prima dello scambio monetario deve essere riconosciuta come un’istantanea di una descrizione in movimento del processo capitalistico che rivela come la «configurazione produttiva», come i «metodi di produzione» abbiano una storia. A essere in questione è la «costituzione» di quelle che sono le grandezze assunte come note in Produzione di merci.

98Se si è interessati, come chi scrive, a quest’altro, precedente e prioritario (anche dal punto di vista della gerarchia argomentativa)90, livello di indagine, la maratona teorica di Sraffa dalla fine degli anni Venti tutto è meno che ridondante, anche e soprattutto nella sua non linearità. Ciò che è certo è che, da questo punto di vista, tenere a mente la nota del 1940 Use of the Notion of Surplus Value consente una lettura diversa, e «più profonda» – nel senso in cui il livello d’indagine di cui si è detto è più profondo – della doppia normalizzazione contenuta nei paragrafi 10 e 12 del libro del 1960 (e che avevamo già incontrata nei primi anni Quaranta). Nel paragrafo 12 il reddito nazionale, una grandezza monetaria che non è altro che il «valore aggiunto» nel periodo, viene assunto come «misura» dei prezzi. Nel paragrafo 10 il lavoro diretto, una grandezza che non è altro che l’oggettualizzazione del lavoro vivo speso nel periodo, è anch’esso posto pari all’unità. Di fatto, prendendo arbitrariamente per costante l’espressione monetaria del tempo di lavoro (socialmente necessario), abbiamo di fronte un analogo del «postulato» proposto da Foley nella New Interpretation.

99In scritti che risalgono ai primissimi anni Novanta, è stato uno studioso non accademico, Dario Preti, a insistere, del tutto a ragione, che avevamo qui, nell’opera di Sraffa, nient’altro che la marxiana teoria del valore-lavoro sotto mentite spoglie. Un altro studioso italiano, Stefano Perri, denomina questa l’«identità del neovalore-lavoro». Sapendo che Sraffa riscoprì l’argomento di Marx che giustifica come dietro il plusvalore, che è parte del valore aggiunto nel periodo, non vi fosse altro che il prolungamento del lavoro vivo oltre e in eccesso rispetto al lavoro necessario, non possiamo escludere che Sraffa avesse qualcosa del genere in mente come ragione teorica non-formale delle sue normalizzazioni. Se anche così non fosse, è comunque del tutto legittimo attribuire a quelle normalizzazioni un significato del genere da una prospettiva marxiana come la mia.

100Seguendo il filo di ragionamento appena disegnato, ne discende una conseguenza immediata. Se, con Sraffa, si assume un grado di libertà nella distribuzione, visto che il reddito nazionale «espone» monetariamente nient’altro che il lavoro totale diretto che è stato erogato nel periodo, lo stesso salario come proporzione del prodotto netto altro non è che una quota di quel tempo di lavoro oggettualizzato in forma monetaria. Non, però, come il lavoro «contenuto» in un dato paniere di valori d’uso (la «sussistenza» o quanto i capitalisti lasciano a disposizione della classe lavoratrice), ma come il lavoro «comandato» che è ottenuto nella circolazione in cambio del salario monetario. Sraffa se ne rese perfettamente conto. Lo testimonia il suo dialogo con Eaton, dove l’economista italiano si spinge addirittura a definire in termini alternativi (rispetto a Marx) il saggio di sfruttamento. Quest’ultimo concetto è giustificato perché, in conseguenza della normalizzazione, abbiamo sempre a che fare con nient’altro che una deduzione dalla giornata lavorativa sociale.

101Nella lettura di Sraffa il saggio di plusvalore, letto nel modo consueto, diviene indeterminato. Se si assume una libertà di scelta nella spesa del monte salari monetario, il lavoro contenuto nella retribuzione monetaria del lavoratore può mutare al mutare delle merci acquistate dai lavoratori e dalle lavoratrici. Non stanno così le cose se il saggio di plusvalore viene ridefinito in termini di prezzi di produzione, come il lavoro «comandato» a quei prezzi dal salario monetario. A conferma ulteriore di questo suggerimento interpretativo, è utile osservare come Sraffa vi agganci una propria rilettura «marxista» della allusione del paragrafo 44 di Produzione di merci secondo la quale la variabile indipendente nella distribuzione non va considerata il salario ma il saggio del profitto. La ragione consisterebbe nella circostanza che il saggio di profitto è governato dal saggio di interesse che è fissato dalla politica monetaria e del sistema bancario. In questo ragionamento, la natura «approssimata» della trasformazione marxiana è ancora una volta al centro del discorso:

It seems to me that the only rational way to calculate is by starting with the interest rate r (which is a matter of observation) and to deduce from it the rate of exploitation (that is, the standard wage w and from that arrive at the surplus value rate

Image

The wage and the aggregate profit in this situation are, at best, rough approximations of the standard wage and profit. But the profit rate in this situation is identical with the standard one91.

Sraffa as the true Marxist?

102Prima di tornare su questa questione è utile una digressione. Alcune delle conclusioni che precedono, avanzate da chi scrive circa una ventina d’anni fa, dopo una prima consultazione dell’archivio, sono state riprese a loro modo da autori come Giorgio Gattei (con Giancarlo Gozzi) o Stefano Perri, in Italia, e Scott Carter, negli Stati Uniti92. Ciò che ci unisce è la constatazione che esista uno Sraffa «altro» rispetto a quello comunemente raccontato. Che, cioè, nell’economista torinese sia nascosto un riferimento implicito alla teoria marxiana del valore, e che ciò abbia un momento chiave nelle due normalizzazioni, che equivalgono a porre un’identità tra il neovalore aggiunto dal lavoro vivo al capitale costante e il prodotto netto valutato ai prezzi. Per questo tutti noi vediamo un punto di contatto tra Produzione di merci e la New Interpretation, e riscopriamo una continuità (sorprendente) tra Marx e Sraffa proprio sul ruolo controverso della teoria del valore, più forte di quanto sia ammesso dagli autori della tradizione sraffiana, che anzi si era distinta dalla fine degli anni Settanta per una critica serrata data ormai per acquisita, e quindi mai rimessa in questione. La visione alternativa considera l’identità tra reddito nazionale ed espressione monetaria del lavoro diretto come una sorta di «legge di conservazione» con riferimento al «netto», con il valore della forza-lavoro ridefinito come quota del neovalore.

103Vi sono però importanti differenze tra la mia lettura e quella proposta da questi altri autori. Tutti questi interpreti (con l’eccezione, forse, di Dario Preti)93 paiono identificare «legge del valore» (che si esaurisce nell’identità appena richiamata) e «teoria del valore». Io penso invece che la legge del valore debba essere fondata, e che in tale fondazione consista appunto la teoria del valore. Ho sostenuto che la teoria del valore-lavoro94 ha come sua dimensione cruciale la «costituzione» delle grandezze monetarie, e in ciò gioca un ruolo chiave il «metodo della comparazione» che comporta, abbiamo visto, un’intrinseca variabilità del lavoro vivo (è stato questo un tema portante del precedente capitolo). In effetti, a mio parere, questi autori non distinguono mai il flusso liquido del lavoro «in divenire», il lavoro vivo, dalla gelatina di lavoro diretto, che è l’«oggettualizzazione» del primo. Questa mossa apparentemente innocente finisce con il cancellare la differentia specifica della teoria del valore marxiana. Facile allora ragionare ponendo il loro Marx sullo stesso piano di una «configurazione produttiva» di tipo (neo)ricardiano, caratterizzata da metodi di produzione dati: il cuore analitico dello schema finisce con l’essere il medesimo per Produzione di merci e per la Nuova Interpretazione. In questo caso, si deve dire, la critica di «ridondanza» dovrebbe essere considerata appropriata.

104Secondo alcuni di questi interpreti marxisti questo «altro» Sraffa andrebbe rivendicato come il vero marxista, qualsiasi cosa egli potesse pensare di sé. Gattei e Gozzi ne concludono che il problema della trasformazione semplicemente scompare. È questa un’affermazione su cui anche io convergo, ma seguendo una linea di ragionamento alquanto diversa. Nel mio modo di vedere le cose, una volta che si sia spiegato, proprio grazie alla teoria del valore-lavoro come teoria della formazione delle grandezze economiche, come e perché il prodotto netto non sia altro che un’esposizione monetaria del tempo di lavoro socialmente necessario, allora qualsiasi regola di prezzo si adotti non potrebbe che redistribuire ammontari di lavoro, senza che vi sia alcuna necessità di mantenere a ogni costo un’eguaglianza tra l’equivalente in lavoro (comandato!) del profitto lordo e il pluslavoro come sostanza del plusvalore, e l’equivalente in lavoro (comandato!) del monte salari e la sostanza del capitale variabile. Qualora si verifichi una divergenza tra questa coppia di variabili (rispetto a una dimensione in termini di lavoro contenuto) la questione è semplicemente di comprenderla, non di annacquarne la portata, o di farla magicamente scomparire. Come dirò, quella divergenza non mette a rischio alcunché: semmai discende direttamente da come la teoria del valore marxiana è presentata nel quinto capitolo.

105Al contrario, per Gattei e Gozzi il punto di partenza è un’economia di «puro lavoro» alla Pasinetti, dove la teoria del valore-lavoro non può che valere: un riferimento del tutto ipotetico, che non ha alcun corrispettivo nel discorso di Marx, e anzi vi confligge. I due autori «generalizzano» questo caso al caso di una produzione che veda la presenza accanto al lavoro di mezzi di produzione prodotti, adottando l’identità tra neovalore e lavoro diretto (cioè, grazie alla normalizzazione dei paragrafi 10 e 12 in Sraffa). Abbiamo visto che seguendo questo suggerimento, e parallelamente alla New Interpretation, le due eguaglianze marxiane in termini del prodotto netto sono mantenute. Di conseguenza, si conclude, la trasformazione replica i risultati di Marx: i profitti lordi sono pluslavoro. A mio modo di vedere le cose, invece, non soltanto si sottovalutano gli aspetti monetari del sistema marxiano, ma anche l’immanenza storica e il significato teorico della nozione marxiana di lavoro astratto. Il netto distacco di questa categoria marxiana dal lavoro comandato di Smith (che abbiamo analizzato nel secondo capitolo) e la difficoltà di produzione di Ricardo (di cui si è detto nel quarto capitolo) sono puramente e semplicemente buttati a mare. Di più, come per la New Interpretation, il ruolo del salario di sussistenza nel discorso marxiano viene cancellato con un tratto di penna.

106Non ci si pone una semplice domanda, se non vi sia qualcosa da imparare dalla tensione tra Sraffa, la New Interpretation, e Marx, semplicemente perché quella tensione o non la si vede o la si vuole esorcizzare. La risposta implicita è forse che si tratta di una questione «filosofica», e non «analitica»: come se i due aspetti potessero mai essere dissociati nell’autore del Capitale.

107Una linea di ragionamento molto simile la incontriamo in Stefano Perri. In una prima fase della sua riflessione, sino al 199795, questo autore ha provato a integrare la nuova interpretazione di Foley assieme alla struttura analitica per settori verticalmente integrati di Pasinetti. In questa fase Perri ha sostenuto, contro Marchionatti96, che fosse possibile definire matematicamente in modo economicamente significativo lo sfruttamento in un modello sraffiano. Per mio conto reputo questa una strategia perdente per recuperare un ruolo essenziale alla teoria marxiana del valore-lavoro, e anche per rispondere in modo appropriato alle critiche di Marchionatti97.

108Anche a seguito della comparsa di alcuni miei contributi su Marx o sugli Sraffa Papers, Perri si è volto a una linea a mio parere molto più promettente, sviluppando in termini analitico-formali una lettura del valore-lavoro marxiano fondata su un argomento «controfattuale»98. In anni più recenti l’autore si è concentrato sulla relazione in Sraffa tra saggio di profitto e salario proporzionale99. Il saggio di salario è descritto in termini di quota e non di sussistenza. Proprio un salario reale dato è però richiesto dal metodo della comparazione di Marx come lo troviamo nel Capitale – ovvero, come discorso sulla «costituzione» dei dati (la «formazione delle grandezze economiche») in conseguenza dello «sfruttamento» (cioè dell’uso o «consumo») di lavoratori e lavoratrici quali forza-lavoro vivente. Non vedo qui – vorrei esser chiaro – una contraddizione, semmai una difficoltà autentica, che invoca uno sviluppo teorico originale per andare oltre Sraffa e la New Interpretation.

109Perri segue le orme di Sraffa nel tentativo di inquadrare il rapporto tra saggio di salario e saggio di profitto in termini oggettivi, persino «materiali», grazie alla merce tipo. Nella sua interpretazione, il progresso tecnico, nella forma della meccanizzazione, spingerebbe verso una composizione di capitale più elevata che condurrebbe a una caduta del saggio di profitto100. Presto o tardi, nel processo dinamico di accumulazione, il saggio effettivo di profitto è destinato a flettere anch’esso. Perri riconosce che Sraffa non pensava che ciò si applicasse a un’analisi di lungo periodo, visto che il progresso tecnico avrebbe una differente qualità, andando oltre la conoscenza tecnica data, incorporando innovazioni: la composizione di capitale potrebbe non crescere, e la controtendenza potrebbe battere la tendenza. È però evidente la tentazione di vedere la «legge» come teoricamente solida, e poi passare alla storia o ai «fatti» alla ricerca di una conferma empirica (una mossa che anche altri autori adottano, ma che a me pare molto discutibile da un punto di vista epistemologico). Letto in questi termini, Sraffa diviene la piattaforma su cui riabilitare tutte le posizioni più controverse di Marx. A me la questione pare molto più semplice: vi è, oppure no, una legge «necessaria»? L’argomento di Perri è a favore di una legge «condizionale»: così soggetta a condizioni che la distanza da critici come Sweezy o Joan Robinson diviene spesso solo verbale. Per mio conto, dubito che sia fedele a Marx un metodo che ragioni su una caduta del saggio (massimo, e poi effettivo) del profitto in termini di esercizi di statica comparata.

110Gli scritti di Scott Carter sugli Sraffa Papers hanno un merito che li rende quasi unici: considerano in modo preminente lo sviluppo del pensiero dell’economista torinese nella terza e ultima fase di stesura di Produzione di merci, dal 1955, a cui non mi pare gli altri interpreti abbiano prestato soverchia attenzione. Anche Carter, come Gattei-Gozzi e Perri, legge le due normalizzazioni di Sraffa in modo analogo al mio. Stabilisce un’identità al livello «macro» tra il lavoro contenuto nelle merci e il lavoro comandato dai loro prezzi, con riferimento al prodotto netto o reddito nazionale. Sfortunatamente, come gli altri marxisti che considero in questo paragrafo, in ciò si esaurisce ai suoi occhi la teoria del valore-lavoro. Di conseguenza finisce con l’essere debole la risposta alle critiche di autori che partono da Sraffa (sia pure in modo anche per me discutibile) come Steedman o Kurz.

111La prima versione dell’intervento al convegno che organizzammo assieme nel 2010 a Bergamo nella ricorrenza dei cinquant’anni dalla pubblicazione del libro di Sraffa era esplicita nel vedere nella merce tipo l’analogo dell’oro come denaro in Marx, assunto come una «misura invariabile del valore»101. Il problema ha qui a che vedere con un punto su cui Kurz ha assolutamente ragione nei suoi vari scritti: la merce tipo non può essere considerata come un surrogato della teoria marxiana del valore. In realtà, è Marx stesso a sottolineare che la sua teoria del valore-lavoro comporta uno standard non invariabile del valore: esattamente in quanto il denaro, come esposizione esteriore del valore, distorce e dissimula l’origine della ricchezza capitalistica, della ricchezza astratta. La merce tipo di Sraffa si limita a rendere trasparenti le proprietà matematiche proprie del sistema e a rendere visibile ciò che è nascosto. È vero che essa fa sì che sia possibile determinare il saggio massimo del profitto, aver cognizione del saggio del profitto come fenomeno non-di-prezzo, rendere lineare la relazione inversa salario-profitto: ma ciò avviene, come sappiamo, solo con riferimento a un insieme dato di metodi di produzione.

112Detto altrimenti, incontriamo qui un problema analogo a quello che abbiamo già riscontrato discutendo l’argomentazione di Stefano Perri, che parimenti si appoggia eccessivamente sulla versione «sincronica» della misura invariabile del valore alla Sraffa. Non è questa una categoria marxiana, e, a ben vedere, neanche del tutto ricardiana, anche se lo è per una sua parte (si torna al Ricardo contraddittorio del quarto capitolo). Lo rivela proprio la circostanza che «diacronicamente», ovvero quando i metodi di produzione mutano, la merce tipo sarà differente: nel caso di Ricardo essa dovrebbe invece restare la medesima in quanto, appunto, «invariabile».

113Che questa entità fittizia, la merce tipo, non abbia molto a che fare con Marx può essere chiarito con un riferimento diretto ai testi. Nelle Teorie sul plusvalore Marx scrive che nella sesta sezione dei Principi di Ricardo non vi è nulla d’importante, quando invece Sraffa ritiene che la merce tipo sia uno strumento essenziale per comprendere meglio la relazione tra prezzi e distribuzione. Marx trova dei meriti nella ricerca di una misura invariabile del valore, ma soltanto come anticipazione della categoria di valore «intrinseco» o «assoluto». Discutendo Samuel Bailey, Marx osserva a questo proposito che il problema di una «misura invariabile del valore» era semplicemente la falsa denominazione della ricerca di ciò che veramente conta, ovvero l’indagine sul concetto o natura del valore, la cui definizione non può risiedere in un altro valore, e di conseguenza non può neppure essere soggetta a variazioni in quanto valore: si tratta del tempo di lavoro come si presenta nella produzione di merci. Possiamo osservare, a latere, che il valore assoluto e intrinseco è proprio ciò che la gran parte degli interpreti sraffiani, ma in buona misura anche i teorici della forma-valore, trovano indigesto e intendono espungere dal terreno della teoria rigorosa.

114La distanza della teoria del valore marxiana da quella ricardiana può essere colta nel fatto che il denaro in Marx deve essere variabile in conseguenza della sua dialettica della forma di valore, mentre la misura invariabile del valore compare in Ricardo come l’ultima difesa della teoria del valore-lavoro. La ragione sta nella considerazione che – qualora il metro invariabile del valore rimanesse il medesimo quando i metodi di produzione cambiano: ovvero, se il lato sincronico e il lato diacronico non entrassero in contraddizione – essa consentirebbe di riconciliare teoricamente prezzi naturali e valori-lavoro. Una volta però che i due lati divergano, e che dunque soltanto la versione sincronica possa essere mantenuta (dal momento che la merce tipo ha da essere diversa al modificarsi della configurazione produttiva), il rimando alla misura invariabile del valore nella sua versione sraffiana non aggiunge nulla alla discussione sull’adesione o meno di Sraffa alla teoria del valore-lavoro, come hanno invece ritenuto Ronald Meek, e sulla sua scorta John Eatwell102.

115Tutto ciò non può che revocare in dubbio la pretesa difesa della «legge» della caduta tendenziale del saggio di profitto. La difficoltà principale consiste in ciò: che non si può analizzare la dinamica dell’accumulazione assumendo che il progresso tecnico incrementi la produttività del lavoro per il tramite di un più alto rapporto capitale/prodotto, che porterebbe con sé una caduta del saggio massimo del profitto. L’argomentazione più forte dell’autore del Capitale si rifaceva all’idea che la spinta del capitale all’autovalorizzazione avrebbe autonomamente condotto a un’espulsione relativa di forza-lavoro vivente dai processi capitalistici di lavoro. Sotto l’ipotesi di salari nulli nella giornata lavorativa sociale di 24 ore vi sarebbe senz’altro un tetto al lavoro vivo, e dunque al plusvalore, che può essere estratto da una popolazione lavorativa data. Non esiste invece alcun limite all’aumento del capitale costante. Per questo, sosteneva Marx, la composizione del capitale103 tende necessariamente a crescere, e la caduta del saggio del profitto è una legge. Sfortunatamente, il progresso tecnico – in una configurazione dinamica che sia caratterizzata da cambiamento strutturale, com’è quella di Marx – tenderà a una svalutazione degli elementi del capitale costante che può (più che) contrastare la caduta del saggio di profitto. In altri termini, all’aumento della composizione organica del capitale corrisponde una minore crescita, se non addirittura una riduzione della composizione in valore del capitale. E se non vi è necessità non vi è legge.

116La tesi marxiana della caduta del saggio di profitto svolge un ruolo centrale nella teoria del Capitale, ma nel modo che abbiamo mostrato nel capitolo precedente. Si deve mostrare come essa attivi controtendenze che, se la battono temporaneamente determinando l’ascesa di forme storiche particolari del capitalismo, finiscono esse stesse con il dar luogo al declino e al crollo di quelle stesse forme di capitalismo. È cioè lo strumento essenziale per articolare una visione per «stadi» dello sviluppo e della crisi come la si è suggerita nel capitolo precedente. Ciò però ci porta a uno sviluppo della teoria di Marx oltre Marx.

Sraffa, la Nuova Interpretazione e Marx

117Quella che si è proposta in questo capitolo è una storia «congetturale» che prova a chiarire il significato di una serie di note su Marx che si ritrovano sparse negli Sraffa Papers. È un esercizio il cui scopo è quello di sollevare domande e aprire una discussione, non certo di chiudere la ricerca in un percorso predefinito. Ciò che ho inteso suggerire è che l’atteggiamento di Sraffa, rispetto alla teoria marxiana del valore di Marx, è stato ben più positivo di quanto sia usualmente ammesso da amici e nemici. Ho anche segnalato come anche dopo Produzione di merci Sraffa abbia provato a costruire «ponti» tra il proprio schema e il valore-lavoro di Marx. Tenendo a mente l’itinerario che l’economista torinese ha esplorato per raggiungere le sue conclusioni, come abbiamo fatto nel corpo centrale di questo capitolo, e avendo perlustrato i dibattiti nella teoria marxiana negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, abbiamo rilevato alcuni limitati ma significativi punti di contatto tra alcuni punti dello schema teorico sraffiano e la Nuova Interpretazione. In questo paragrafo, che precede le conclusioni, in modo certamente ancora solo preliminare, intendo mettere in evidenza le tensioni tra le due prospettive, e proporre quella che secondo me è la via da percorrere per superarle. Sono convinto infatti che dobbiamo approfondire non solo le similitudini ma anche le dissonanze tra Sraffa e la Nuova Interpretazione, e anche tra entrambi e Marx. Un superamento è secondo me possibile soltanto se si va oltre le interpretazioni (illuminanti ma limitate) di Marx proposte da Sraffa e da Foley/Duménil, dentro una più larga «ricostruzione» della teoria marxiana quale quella da me suggerita nei due capitoli precedenti.

118Ciò che conta nel definire lo «sfruttamento» in termini di valore-lavoro, tanto per la Nuova Interpretazione quanto per lo Sraffa che ragiona su Produzione di merci, non è il lavoro necessario a produrre i beni di sussistenza che i lavoratori acquistano – un lavoro che, si sostiene, cambia al mutare della composizione della spesa della classe lavoratrice – ma quanto del lavoro sociale che produce il reddito nazionale monetario venga «comandato», cioè comprato, dal salario monetario. Nella Nuova Interpretazione il «postulato» che vede nel reddito nazionale nient’altro che l’esposizione del lavoro diretto totale si dà attraverso la mediazione dell’«espressione monetaria del tempo di lavoro (socialmente necessario)», quale che sia il sistema dei prezzi. Questa mediazione monetaria è assente in Sraffa. Per questo può sembrare, con qualche ragione, che la moneta sia estranea al libro, e che compaia dall’esterno soltanto nel paragrafo 44104. Tutto ciò è ovviamente incompatibile con Marx, se interpretiamo il modello (termine che Sraffa aveva in antipatia) del 1960 come il «nucleo» da cui deve avere inizio la teoria economica. Non è così se vediamo nel sistema economico «reale» di cui parla Sraffa la «fotografia» che fissa uno specifico momento della sequenza monetaria tipica di un’economia capitalistica: «dopo il raccolto» (la produzione immediata), e «prima del mercato» (prima della circolazione finale di merci). La moneta come capitale (ovvero, il finanziamento della produzione) e il lavoro vivo (lo sfruttamento interpretato come l’«uso» della forza-lavoro vivente, segnato da una possibile resistenza) sono i due momenti precedenti che, a quello stadio del circuito, non possono che essere impliciti. Uno sviluppo dei risultati di Sraffa, e una disamina della sua relazione con Marx, comporta il rendere espliciti il finanziamento della produzione e la lotta di classe nei processi di lavoro, cioè di ricostruire il film dietro il fotogramma.

119Approfondiamo questo punto. Per la Nuova Interpretazione, come per Marx, il lavoro totale diretto speso nel periodo è lavoro sociale, mentre il lavoro speso nei processi individuali è immediatamente privato: deve «divenire» sociale, e ciò può avvenire soltanto per il tramite del denaro. Insomma: la prospettiva della Nuova Interpretazione non è soltanto «dopo il raccolto», è anche «dopo il mercato». È come se Sraffa assumesse come garantita la socialità dei lavori prestati nella produzione immediata: per questo, la metamorfosi che conduce dalla gelatina del valore al denaro come equivalente universale è assunta come non problematica. In Produzione di merci il processo di lavoro capitalistico si è concluso: non si ritiene necessario rendere manifesto il finanziamento monetario che lo precede, dando vita all’acquisto di forza-lavoro, né vi è alcun bisogno di far riferimento al lavoro vivo come attività nella produzione prima che si cristallizzi in lavoro «oggettualizzato». Ciò che «vediamo» nella fotografia sono soltanto i «metodi di produzione», e ciò che possiamo parimenti assumere dall’esterno è il conflitto distributivo.

120In questo snodo teorico la Nuova Interpretazione ci aiuta sino a un certo punto. Innanzitutto, non chiarisce perché soltanto il lavoro (vivo) sia la sorgente del (neo)valore. Qui, come abbiamo visto, «sorprendentemente», è lo Sraffa della nota del 1940 Use of the notion of surplus value a venirci in soccorso. Lo Sraffa degli anni Quaranta comprende che la «costituzione» della configurazione produttiva e l’emergere del plusvalore sono spiegati da Marx ricorrendo a una «comparazione» fondata su un prolungamento del lavoro vivo oltre il lavoro necessario. Ho suggerito in questo capitolo che è con riferimento a questo Sraffa degli anni Quaranta che possiamo comprendere perché lo Sraffa dei primi anni Sessanta insista nel ricondurre il prodotto netto valutato ai prezzi al lavoro diretto che lo ha generato, e possa continuare a esprimersi nel linguaggio dello «sfruttamento».

121Una seconda convergenza tra Sraffa e la Nuova Interpretazione è relativa alla concezione del salario, e conseguentemente del saggio di plusvalore. Viene respinta una visione del salario come paniere di merci, a favore di una definizione del salario come quota del neovalore. Contrariamente alla opinione ora divenuta dominante dentro gli studi marxisti, ritengo che scegliere la seconda opzione non sia d’obbligo in una prospettiva che assume che il salario venga anticipato in moneta. Assumiamo, come fa molto spesso Marx, che il prezzo della forza-lavoro si adegui al suo valore: il fatto che il capitale variabile sia anticipato in forma monetaria significa semplicemente che, nella «trasformazione», il paniere di merci che costituisce il livello assunto dato della sussistenza dovrà essere valutato ai prezzi di produzione, e non ai prezzi semplici. Il punto che qui può risultare problematico, e che ho anticipato all’inizio di questo capitolo, è che una volta che il lavoro necessario venga ridefinito in termini di lavoro comandato, come nella Nuova Interpretazione, la maggior parte delle conclusioni di Marx vengono confermate, ma al prezzo di essere ridotte a verità tautologiche. La teoria del valore-lavoro si riduce, in questa prospettiva, a un postulato + delle tautologie. Non stupisce che in questa logica la stessa successione dei tre volumi del Capitale debba essere revocata in dubbio.

122Gli autori più consequenziali ne hanno ultimamente preso coscienza, dichiarando apertamente che è (per loro) alquanto misterioso perché Marx dipinga lo sfruttamento in due passaggi105. Sotto quella che la Nuova Interpretazione definisce la commodity law of exchange (la legge dello scambio «mercantile»), dove i prezzi semplici proporzionali ai valori-lavoro sono la regola dei prezzi, il lavoro contenuto nelle merci che i lavoratori consumano è eguale all’«equivalente» in termini di lavoro del salario, e il rapporto del plusvalore con il capitale variabile è proporzionale al rapporto del tempo di pluslavoro rispetto al tempo di lavoro necessario (definito nei termini del lavoro contenuto nel salario reale). Sotto quella che viene definita la capitalist law of exchange (la legge dello scambio capitalistico) i profitti monetari realizzati provengono dallo sfruttamento, con l’«equivalente» in termini di lavoro del salario misurato nei termini del lavoro comandato dal salario monetario. Ciò, evidentemente, crea una discrepanza tra i due saggi che danno conto dello sfruttamento. Si tratta in effetti della medesima critica a Marx che viene portata dagli autori di tradizione sraffiana, che è dunque a ben vedere condivisa dalla Nuova Interpretazione: la via di uscita, il supposto «superamento», sta semplicemente nel ridefinire la categoria di «lavoro necessario» in modo che la divergenza sparisca, e resti esclusivamente il saggio di sfruttamento in termini di lavoro comandato.

123Che farne però, allora, del primo volume del Capitale? O dell’immagine marxiana della ripartizione della giornata lavorativa sociale che risulta dal prolungamento della giornata lavorativa oltre il lavoro necessario: un’immagine che emerge primariamente dalla lotta di classe nella produzione, e solo secondariamente (in senso logico) dal ruolo dei prezzi nell’allocazione del (plus)valore?

124L’argomentazione pare ridursi a ciò: una volta che si postuli che il nuovo valore prodotto espone nient’altro che lavoro, vi è plusvalore in quanto l’«equivalente-in-lavoro» esibito in moneta ottenuto via salario da lavoratori e lavoratrici è inferiore alla loro produttività in valore/moneta. Come il lettore di questo volume avrà intuito, grazie a questa articolazione indubbiamente sofisticata delle nozioni di lavoro «comandato» e lavoro «contenuto», ritroviamo qui una teoria smithiana del plusvalore come «deduzione» coniugata con l’idea di origine ricardiana del profitto come «minus-salario». Un’articolazione che lascia però privo di soluzione il punto chiave della riconduzione del valore al lavoro, che è risolto da Marx con il «metodo della comparazione» e la ridefinizione dell’«astrazione» del lavoro all’altezza della sussunzione reale del lavoro al capitale, così da costituire l’autentica fondazione della teoria del valore-lavoro.

125Penso che l’evidenza testuale sia schiacciante nel mostrare come Marx, nel primo libro del Capitale, assuma il salario reale come un dato che viene fissato storicamente e conflittualmente. Se si legge quel testo con attenzione, si vede che esso costituisce un’autentica fondazione macrosociale del comportamento microeconomico: che è quanto abbiamo visto nel capitolo precedente106. Viceversa, i nuovi cosiddetti approcci monetari a Marx – penso non solo ai lavori di Foley o Mohun ma anche a quelli di Fred Moseley – sostituiscono alla macro-fondazione la mera aggregazione. Il rapporto di scambio cruciale nel primo libro del Capitale è quello tra il neovalore totale aggiunto nel periodo dalla classe lavoratrice e il valore della forza-lavoro della medesima. Alla fine del primo libro è chiaro che il salario reale dato non dev’essere inteso in termini individuali ma si riferisce alla quantità e qualità dei beni salario acquistati dall’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori. Mantenendo invariata l’occupazione e la giornata lavorativa sociale, il paniere della sussistenza, che nel primo libro viene valutato ai prezzi semplici, dev’essere «rivalutato» nel terzo libro ai prezzi di produzione. Entrambe le nozioni di «lavoro necessario» vanno mantenute se si vuole svelare la dissimulazione inerente al processo di mutamento di una forma del prezzo in un’altra.

126Riprendiamo quella prospettiva «circuitista» e monetaria a cui abbiamo alluso varie volte in queste pagine, in particolare nei capitoli su Marx. Proprio in quanto devono ottenere un finanziamento prima di produrre e vendere le merci, le imprese sono libere di decidere dove allocare e sfruttare i portatori viventi di forza-lavoro su cui hanno acquisito il «diritto» di usare la capacità lavorativa. In funzione della domanda effettiva attesa, i capitalisti, in quanto classe, sono in grado di determinare non soltanto il livello ma anche la composizione della produzione prima che si giunga alla circolazione delle merci. Il plusprodotto in termini di merci e il plusvalore non sono altro che l’esito di un pluslavoro in eccesso al lavoro necessario che è contenuto nell’insieme dei beni salario. Le merci prodotte in questa sequenza, essenzialmente monetaria, possono dunque essere suddivise in due sezioni. Da un lato, abbiamo i «beni-salario», e cioè le merci che l’aggregato dei capitalisti industriali realmente decide di rendere disponibili alla classe lavoratrice sul mercato delle merci. Dall’altro, vi saranno tutte le altre merci prodotte che non vengono rese disponibili alla classe lavoratrice, e che chiameremo per brevità «beni-profitto» (vi sono inclusi i beni capitale ma anche i beni di lusso: il prodotto totale potrebbe, se si preferisce, essere suddiviso in tre sezioni). In una prima astrazione, quale è quella del primo libro, dove non sono esplicitamente considerati lo Stato o altre classi, tali merci sono scambiate internamente tra le imprese. In questo contesto, il consumo reale dell’insieme delle lavoratrici e dei lavoratori è deciso di fatto dal settore delle banche e dal settore delle imprese.

127Marx assume per buona parte della sua indagine che il capitale industriale garantisca ai lavoratori l’erogazione del paniere che costituisce il salario reale di sussistenza «dato» socialmente, benché sappia molto bene che la realtà storica non corrisponda a questa ipotesi logica, e che il salario viene spesso spinto al di sotto di quel livello: il che crea nella sua terminologia una possibile disparità del prezzo dal valore della forza-lavoro107. Benché queste conclusioni in merito alla moneta e al salario risultino molto differenti da ciò che viene generalmente sottolineato dalla Nuova Interpretazione – dove la moneta (sarebbe meglio dire il denaro, ma la distinzione non risulta significativa in quella impostazione) viene introdotta come l’equivalente universale nella circolazione finale, e dove il salario reale risulterà noto solo ex post sul mercato delle merci –, esse non sono incompatibili con le identità contabili ex post che quell’approccio sottolinea, e che vengono semmai inserite e illuminate in una diversa fondazione teorica, a cui vengono apportati emendamenti significativi ma non antagonistici108.

128Il punto essenziale da comprendere è che la definizione del saggio di plusvalore «ai prezzi di produzione» non cancella ma integra la definizione di quel medesimo saggio «ai prezzi semplici», proporzionali ai valori-lavoro. La critica, comune a Sraffa e alla Nuova Interpretazione, secondo la quale il lavoro contenuto nel salario sarebbe indeterminato perché muterebbe in conseguenza delle possibili differenti scelte di consumo di lavoratrici e lavoratori, si applica solo al livello individuale. Non si applica invece alla classe lavoratrice come tale, cioè come un tutto, quale è configurata nella teoria marxiana del valore in quanto teoria monetaria e di classe – dunque: «macrosociale» – della produzione capitalistica di (plus)valore. Grazie all’anticipazione di capitale monetario da parte dell’insieme delle banche, il capitale industriale può acquistare forza-lavoro vivente e «succhiare» lavoro vivo nella produzione, ovvero «comandare» lavoro in divenire nel processo immediato di valorizzazione. Un’accezione di lavoro comandato tutta diversa da quella centrale nella Nuova Interpretazione. Quel lavoro vivo «liquido» si oggettualizza in lavoro diretto, e dà vita al neovalore, a questo punto da assumere come un dato: un punto che condivido. D’altra parte, contro la Nuova Interpretazione, anche il consumo reale della classe lavoratrice è da assumere noto: o perché assumiamo, come in Marx, che il salario sia dato alla sussistenza; o perché è fissato dalla domanda autonoma dei capitalisti, come in Kalecki.

129Una volta terminata la giornata lavorativa sociale, queste due quantità – il lavoro diretto totale che è stato erogato, assorbito dal capitale come un tutto; il salario reale dell’insieme dei lavoratori – non possono variare, indipendentemente dal sistema dei prezzi. Lo sfruttamento, quale lo abbiamo inteso nei precedenti capitoli su Marx, ovvero come uso della forza-lavoro vivente, «consumo» dei lavoratori e delle lavoratrici, ha «aggiunto» al lavoro necessario (che è stato congelato nel paniere salariale) un pluslavoro, che è funzione della lotta di classe nei processi capitalistici di produzione, e che viene esposto monetariamente nel (prima potenziale, poi attuale) plusvalore. Dal punto di vista di questa prospettiva «macro», la misura accurata del rapporto di classe tra il capitale come un tutto e i portatori di forza-lavoro nel loro insieme non può che incarnarsi nel saggio di sfruttamento espresso in termini di prezzi proporzionali ai valori-lavoro. Ciò che viene determinato dal mutamento di forma da prezzi semplici a prezzi di produzione, con la difformità dei secondi dai primi, è semplicemente lo «sdoppiamento» del valore della forza-lavoro: una duplicazione «feticistica» che nasconde la natura storico-sociale della produzione. L’effetto di oscuramento è moltiplicato dalla circostanza inevitabile che la moneta non è una misura invariabile del valore.

130Abbiamo, da un lato, il valore della forza-lavoro come il contenuto in lavoro richiesto a produrre il salario reale della classe, e, dall’altro, il valore della forza-lavoro come l’equivalente in lavoro comandato del salario monetario. Entrambe le nozioni sono relative al contesto effettivo che è oggetto d’analisi. La prima esprime il rapporto di classe tra capitale e lavoro, tanto con riferimento al processo di produzione immediato in cui viene estratto il lavoro vivo, quanto alla compravendita della capacità di lavoro che lo precede. La seconda mostra come questa realtà nascosta ed essenziale venga ad «apparire» in forza della dimensione monetaria e in conseguenza della concorrenza tra industrie (la concorrenza «statica»). Nella circolazione finale, se i produttori del ramo che vende beni salario ottengono dallo scambio una quota più elevata (bassa) di lavoro diretto di quanto ne sia effettivamente occorso alla sua produzione, i produttori del ramo che produce i beni profitto ne otterranno una quota inferiore (superiore). Il rapporto monetario profitti lordi/monte salari, tradotto in lavoro comandato sul mercato per il tramite dell’espressione monetaria del tempo di lavoro sarà dunque più basso (alto) del saggio di plusvalore definito in valore-lavoro. Peraltro, è chiaro che dal punto di vista macrosociale nulla è cambiato. I lavoratori e le lavoratrici continuano a ricevere la medesima quota di lavoro vivo ormai congelato nei beni salario che consumano, mentre il capitale totale continua ad appropriarsi della medesima quota congelata nei beni profitto.

131Riassumiamo. Il saggio del plusvalore «ai prezzi semplici» dipinge in modo del tutto accurato il quadro macrosociale della lotta sul tempo di lavoro tra le classi, e quindi la divisione del tempo totale di lavoro vivo che è stato estratto dal capitale totale versus la parte di quel tempo di lavoro che viene restituita alla classe lavoratrice nei beni-salario. I prezzi di produzione redistribuiscono il neovalore tra i capitali singoli, in modo che i produttori di beni salario possano comandare sul mercato un ammontare di lavoro superiore o inferiore di quanto sia stato individualmente estratto dalla forza-lavoro vivente da loro impiegata. Non altra è la ragione della disparità dal saggio del plusvalore ai prezzi di produzione. Alcuni autori parlano, a tal proposito, di una divergenza del lavoro «pagato» dal lavoro «necessario». Non si riscontra qui nessuna difficoltà. Si tratta semplicemente di una forma al tempo stesso illusoria e necessaria di manifestazione nella circolazione, che oscura la circostanza che l’unica sorgente del neovalore (e dunque del plusvalore) resta il lavoro vivo prestato dagli esseri umani ridotti a portatori viventi di forza-lavoro, che si oggettualizza nel lavoro diretto.

Conclusioni

132È ora di tirare le fila di questo lungo capitolo, richiamando le diverse letture alla luce delle novità portate dagli Sraffa Papers, e sintetizzando quanto per mio conto mi sono sentito di proporre. Chi scrive lo fa a partire dalla convinzione che sia sostanzialmente nel giusto Claudio Napoleoni quando afferma che il progetto culturale di Sraffa, da lui «perseguito con tenacia e coerenza estrema per tutta la sua vita, sia nei comportamenti pratici, sia nella produzione teorica» sia definibile così: «Sraffa era innanzi tutto un comunista, nel senso “negativo” in cui questa parola è adoperata da Marx, nel senso cioè di critica in atto del processo storico dato. Questo lui fu, e volle sempre essere; ma fu un comunista convinto nello stesso tempo che la critica del processo storico in atto andasse rifatta da capo, perché quella che era stata fatta un tempo non era più sufficiente»109.

133Il «significato» delle equazioni nel suo schema teorico è limpidamente anticipato da Sraffa negli anni Quaranta in un appunto intitolato Man from the Moon:

The significance of the equations is simply this: that if a man fell from the moon on the earth, and noted the amount of things consumed in each factory and the amount produced by each factory during a year, he would deduce at which values the commodities must be sold, if the rate of interest must be uniform and the process of production repeated. In short, the equations show that the conditions of exchange are entirely determined by the conditions of production110.

134Il che ovviamente non ha impedito l’emergere di conflitti radicali di interpretazioni, come anche di genealogie teoriche alternative, di cui questo capitolo ha dato testimonianza, e che rimettono in questione l’intera tradizione dell’economia politica e il rapporto con Marx.

135Pier Luigi Porta111 è un autore che, da una prospettiva molto diversa da quella che si è delineata in questo capitolo, ha sostenuto con molta forza che Sraffa fosse un «marxista», che torceva le sue conclusioni analitiche per accomodarle alla propria ideologia, passando per una lettura di Ricardo attraverso le lenti di Marx. La tesi di una distorsione ideologica di questo genere non ha, a mio parere, fondamento, ed è comunque paradossale che Porta condivida la convinzione dei neoricardiani con cui polemizza secondo la quale il dibattito scientifico avrebbe conclusivamente dimostrato la falsità delle proposizioni marxiane, a partire dalla teoria del valore-lavoro. Abbiamo però visto in queste pagine come il riferimento a Marx sia davvero centrale nel percorso di Sraffa che lo conduce a Produzione di merci: e abbiamo pure visto come, da certi punti di vista, Sraffa divenga più e non meno marxiano dopo aver riletto il primo libro del Capitale nel 1940.

136Una circostanza che è particolarmente rilevante, perché abbiamo documentato come molte interpretazioni di Sraffa corrispondano più agli appunti di fine anni Venti che a quelli delle fasi successive. Una posizione sugli inediti, che si è progressivamente articolata e affinata, è quella di Kurz e Salvadori di cui abbiamo riferito, i quali sostengono che Sraffa prenderebbe le mosse da un Marshall che si vorrebbe rendere compatibile con Marx. Alla fine del 1927 interviene la svolta di cui parla Garegnani. Per questi autori, difatti, il gioco è principalmente in questa prima fase della preparazione del libro del 1960. Alla fine degli anni Venti, Sraffa inizierebbe a costruire l’approccio del sovrappiù basato su una visione della produzione come processo circolare che riporta alla impostazione dei classici, il che apre contemporaneamente a una critica del marginalismo e alla proposizione in positivo di una solida teoria economica alternativa. Questi sviluppi implicherebbero però una rottura con la teoria del valore-lavoro, che viene letta dal primo Sraffa come una «corruzione» di Petty e dei fisiocratici che sottolineavano piuttosto i «costi fisici reali» e i true absolute costs of commodities. La teoria del valore è considerata un approccio dualista e non monetario alla fissazione dei prezzi individuali, e non – alla maniera degli approcci marxiani più recenti – come una teoria non dualista (single-system) e immediatamente monetaria.

137Lo schema teorico alternativo di Sraffa vedrebbe nel tentativo di Marx, e prima di lui di Ricardo, un precedente comunque prezioso, perché la teoria del valore-lavoro sarebbe stata all’epoca l’unico strumento analitico a disposizione per la costruzione di una teoria oggettiva dei prezzi: uno strumento però ormai inadeguato, e comunque non corrispondente alla complessità teoricamente sofisticata ed empiricamente ricca dei concetti di Ricardo e Marx. Si è visto che secondo questa ricostruzione i valori-lavoro non avrebbero alcuna rilevanza nell’analisi. La chiave di tutto starebbe nel programma «fisicalista», nell’oggettivismo come un punto di vista «naturalista»: una vera e propria «scienza delle cose». Sraffa è dipinto come un seguace di James Mill, quel Mill che sostiene che gli agenti di produzione sarebbero le stesse merci. In chiave critica, possiamo osservare che un punto di vista del genere – se non corretto, paradossalmente, attraverso le lenti del Marx hegeliano che vede nel Capitale il Soggetto e Feticcio automatico da riconoscere e demistificare – appare, questo sì, marcato con forza da ciò che lo stesso Sraffa (nelle sue note contro Bortkiewicz ricordate in precedenza) qualifica come il feticismo delle merci. Per mantenere la tesi di una continuità forte tra le tre fasi di stesura del libro del 1960, questi autori – abbiamo visto – devono sterilizzare le novità intervenute, e lasciare sotto traccia le spie che conducono a una lettura marxiana di certi passaggi della ricerca sraffiana.

138La sterilizzazione in questione è del tutto palese nella conclusione del saggio dei due autori nel Festschrift in onore di Steedman, che andiamo a citare (i corsivi sono miei). S’inizia proclamando: «Steedman’s interpretation is fully corroborated by Sraffa hitherto unpublished papers», il che però, si è visto, è vero solo parzialmente, per il primo sottoperiodo, che va dal 1927-1931. Cosa che gli autori, che sono studiosi seri, non possono non riconoscere. Devono infatti aggiungere subito dopo: «The evidence laid out especially from the first period of his reconstructive and interpretative works documents on some detail Sraffa’s critical attitude towards LTV and his advocacy of physical real costs», il che è indiscutibile. Ma non toglie che a un certo punto si debba dar conto di un significativo mutamento di atteggiamento: «However, when towards the end of first period Sraffa began to discuss system with a surplus and worker’s participation in the sharing out of surplus, he was willing to include quantities of labour among the objective data». A questo punto deve intervenire la sterilizzazione delle sorprese portate dall’archivio dopo il 1940, con la Value/Statistical Hypo, e la chiave diventa la merce tipo come costruzione ausiliaria112.

139Alquanto diverso il ragionamento di De Vivo, per il quale il rimando fisicalista al loaf of bread di Petty e dei fisiocratici fu un orientamento passeggero in una primissima fase, quasi una sorta di reazione a Marshall. Il merito della ricostruzione di De Vivo e Gilibert, a cui abbiamo dedicato particolare attenzione, sta nel considerare in un qualche dettaglio il secondo periodo, che si svolge grosso modo dal 1942 al 1945, della costruzione sraffiana del suo libro. Contro Garegnani, si sostiene che non vi fu alcun turning point, alcuna svolta radicale nel 1927, e contro Kurz che la base di partenza nella scrittura di Produzione di merci fu Marx. Nel 1927 Sraffa ebbe l’occasione di leggere (in francese) le Teorie sul plusvalore. Le «equazioni» di Sraffa prendono le mosse dagli schemi di riproduzione, questa è la tesi. Nei primi anni Quaranta, e specialmente nel 1942-1943, Sraffa sviluppa la Value Hypothesis, che può anche essere denominata la Statistical Hypothesis. All’epoca l’economista torinese riteneva che la sua ricerca non avrebbe fatto che tornare a Old Moor. È un tentativo che fallisce nel 1943 quando c’è il crollo della Hypo. Abbiamo però visto che questo «fallimento», mentre conduce Sraffa alla costruzione del sistema tipo e della merce tipo, non lo riporta affatto sic et simpliciter alle critiche della fine degli anni Venti alla teoria marxiana del valore, come sembrano credere Kurz e Salvadori (e a prescindere dalla validità della tesi che già alla fine degli anni Venti il riferimento di Sraffa fosse Marx, e il Marx degli schemi di riproduzione, come pensano De Vivo e Gilibert).

140Un’altra critica a Kurz e Salvadori che condividiamo è quella di Ginzburg, che ritiene sbagliato assimilare l’oggettivismo di Sraffa al fisicalismo come forma di naturalismo metafisico quale si ritrova in Otto Neurath, secondo il quale soltanto le cose fisiche «esistono». Sraffa abbandona alla fine della prima fase, in particolare nel 1931, ogni materialismo positivista, ogni «scientismo»: i termini oggettivo e soggettivo sono sempre da lui usati in un senso che li situa «relazionalmente» e culturalmente. Anche Ginzburg, d’altra parte, patisce il limite di concentrarsi prevalentemente, come Garegnani, sul periodo 1927-1931: lo stesso arco di anni che è centrale nel definire l’interpretazione di Kurz e Salvadori.

141Esiste poi la proposta interpretativa di Pasinetti secondo la quale Produzione di merci è una indagine «pre-istituzionale», puramente logica, di un’economia «capitalistica», cioè industriale113. Secondo Pasinetti, le caratteristiche primarie e naturali di un sistema economico debbono essere studiate indipendentemente da un’organizzazione istituzionale di tipo specifico114. Per Pasinetti, Sraffa è un «enigma» che va decifrato come punto di partenza di un più largo tentativo teorico di indagine strutturale e dinamica. Anche in questo caso è di nuovo utile ricordare il giudizio di Ginzburg: mentre Kurz appiattirebbe Sraffa su una concezione riduttiva di «materialismo» (non lontana dalla lettura che Bukharin dette di Marx), quello di Pasinetti sarebbe un «idealismo» delle astrazioni generiche. Sraffa, come Gramsci, costituirebbe il superamento di questa polarità antitetica. Ciò non toglie che Pasinetti non possa dare suggerimenti validi per un diverso uso dei prezzi di produzione in una ricostruzione della teoria marxiana115.

142Un’ultima interpretazione si è rivelata illuminante ai fini della nostra lettura. Pur proveniente da un autore che non ha lavorato sulle carte dell’archivio Sraffa a Cambridge, l’esegesi di Alessandro Roncaglia, sin dal suo libro del 1975, è confermata in alcuni dei suoi punti forti da quanto è successivamente emerso. Secondo Roncaglia, Sraffa non intende affatto proporre una teoria generale. Il suo libro va visto invece come un’analisi puntuale in cui i prezzi di produzione sono relativi a una «fotografia» del sistema in un momento del tempo, nella quale i metodi di produzione e il consumo produttivo così come il prodotto, e dunque gli input e gli output, sono «dati». Una prospettiva del genere non può evidentemente che porsi, come quella di chi scrive (si veda il quarto capitolo), in modo critico rispetto a chi riconduce i prezzi di produzione a posizioni di lungo periodo. A mio parere, si tratta di una impostazione compatibile con una più ampia teorizzazione marxiana della «costituzione» di quei dati, come si dà nella teoria del valore in quanto «determinazione formale» del lavoro, della produzione e dell’accumulazione (si veda il quinto capitolo).

143In questo capitolo, si è seguita tale pista e si è proposta una possibile, diversa, linea di continuità di Sraffa con Marx a partire dagli Sraffa Papers: diversa nel senso che si distanzia dai vecchi argomenti del «marxismo tradizionale» di autori come Dobb e Meek, che pure affermavano una continuità. Dobb, lo si è ricordato, suggeriva un’inaccettabile sequenza di «approssimazioni», dal valore(-lavoro) al prezzo (di produzione): un dualismo che è stato efficacemente contestato dalla tradizione sraffiana. Meek, che è stato ripreso da Eatwell e altri, ha visto nella riflessione sulla merce tipo lo strumento di una possibile ripresa del valore-lavoro116. Più precisamente, Meek ha osservato che il saggio massimo del profitto nel sistema tipo è dato in termini materiali, ed è perciò indipendente dai rapporti di scambio, in quanto le merci composite al numeratore e al denominatore sono state rese eguali per costruzione. La difficoltà qui è, come rilevò tempestivamente Napoleoni, che la merce tipo è appunto un costrutto ad hoc, tale da presentare queste proprietà117. Per impiegare l’espressione dello stesso Sraffa, essa è una costruzione «puramente ausiliaria», disegnata in modo tale che il saggio di profitto risulti indipendente dai prezzi, e dipendente quindi soltanto da quantità fisiche (tra cui il «lavoro»). In Marx, come in Ricardo (pur con le contraddizioni rilevate nel quarto capitolo), le quantità di lavoro devono essere l’ineludibile punto di partenza da cui dedurre, in successione, prima il saggio del profitto e poi i prezzi di produzione. In Sraffa, al contrario, la configurazione produttiva e il salario consentono di determinare nello stesso tempo i prezzi e il saggio del profitto senz’alcun riferimento necessario alle grandezze in lavoro contenuto. Si noti: la merce tipo è costruita a partire dalle medesime grandezze date del sistema originale: in forza di ciò, non vi si può far ricorso per ristabilire una priorità, o un’indipendenza, del saggio del profitto, come rapporto tra quantità di lavoro, rispetto ai prezzi.

144È una critica che a noi pare solidissima e che è possibile aggirare solo a una condizione: quella di poter ricondurre geneticamente la configurazione produttiva – in modo «causale», per così dire – alla teoria marxiana del valore. Un argomento che dopo la consultazione delle carte Sraffa si può avanzare soltanto ora, grazie a una lettura che leghi le normalizzazioni dei paragrafi 10 e 12 di Produzione di merci all’appunto The Use of the Notion of Surplus Value. Compiendo insomma l’operazione di questo capitolo, che non è certo quella di Meek o Eatwell118.

145D’altro canto, altrettanto significativa è la discontinuità: non soltanto di Sraffa rispetto a Marx, ma anche di Marx rispetto a molto del marxismo contemporaneo. La marxiana determinazione macrosociale del salario reale della classe lavoratrice non è adeguatamente concettualizzata né dall’economista torinese né dalle nuove interpretazioni. Quando in queste ultime si parla di approccio macromonetario, «macro» va inteso semplicemente come aggregato, «monetario» si riferisce esclusivamente all’equivalente universale, e il saggio di plusvalore è declinato esclusivamente in termini di lavoro comandato (prezzi di produzione) e non di lavoro contenuto (prezzi semplici proporzionali ai valori-lavoro). La «variabilità» del tempo di lavoro vivo, che abbiamo visto essere così centrale nel discorso di Marx, viene per forza di cose messa da canto in ogni schema che parta da una configurazione produttiva data.

146In una visione del genere, si conferma quanto Graziani ha sostenuto nel 1983: «È quindi erroneo affermare, come peraltro sovente viene fatto, che nella spiegazione dei prezzi, la teoria marxiana del valore fallisca. Si tratta infatti di un fenomeno nel quale, non essendovi un problema di valorizzazione da analizzare, la teoria marxiana del valore non entra in modo diretto»119. L’analisi dei rapporti tra classi, ovvero l’analisi sociale macroeconomica, per un verso, e l’analisi dei rapporti interni a una singola classe, ovvero l’analisi microeconomica concorrenziale, per l’altro verso, sono fenomeni diversi, che rispondono necessariamente a logiche distinte. La determinazione dei prezzi nella circolazione capitalistica di merci ha luogo una volta che l’oggetto d’analisi proprio della teoria del valore (la «valorizzazione» come processo) si è pienamente costituito, e dunque non può mutarne il carattere. Ciò che si osserva sono solo le «cose» che ne risultano, quelle che può constatare l’«uomo dalla luna» (the Man from the Moon) di cui scrive Sraffa. Lo scopo dell’indagine di Marx è altro, e più fondamentale: dar conto della sorgente del neovalore, e dunque del plusvalore; comprendere la generazione dei profitti lordi. La risposta sta nel «consumo» dei portatori viventi di forza-lavoro, nell’estrazione di lavoro vivo del capitale come vampiro: non vi è possibile «ridondanza» nel processo di costituzione del capitale, perché – come a suo modo Sraffa vide bene nel 1940, e come Marx scrive a chiare lettere – la produzione capitalistica non è altro che lavoro. Una volta che si raggiunge, al termine della produzione (e dunque quando si è definita la configurazione produttiva), lo stadio del lavoro ormai morto (il lavoro vivo è divenuto lavoro diretto), siamo sul terreno analitico di Ricardo, di cui abbiamo dissezionato le contraddizioni nel quarto capitolo. È il momento del circuito capitalistico dove non può non collocarsi la fissazione dei prezzi e delle quote distributive, e perciò il cosiddetto problema della trasformazione. L’ammontare assorbito di lavoro diretto è già diviso tra le due classi in conseguenza dell’esito della lotta di classe nella produzione: una parte è il lavoro necessario alla produzione delle merci che vanno ai salariati; l’altra parte è il pluslavoro che ha prodotto le merci che fanno parte del sovrappiù, cioè la differenza tra il lavoro vivo e il lavoro necessario. Tutto ciò che la dimensione dei prezzi individuali può fare è distorcere la necessaria manifestazione fenomenica del plusvalore (come profitti lordi monetari) e del valore della forza-lavoro (come massa salariale monetaria).

147Se la teoria marxiana viene ricostruita come analisi monetaria nel senso di Schumpeter e Keynes, e si prolunga sino a divenire una vera e propria teoria macromonetaria della produzione e della distribuzione capitalistiche, il concetto di «valore-lavoro», come regola di scambio sulla via che dal valore conduce al prezzo di produzione, lungi dallo svanire si riconferma essenziale, pur in un approccio non dualistico. Per due ragioni, su cui abbiamo insistito in questo libro e in questo capitolo. In primo luogo, è la regola dei prezzi da cui si deve muovere nel «metodo della comparazione» che è indispensabile per fondare il postulato di Foley e la normalizzazione di Sraffa come momenti della teoria del (plus)valore di Marx. In secondo luogo, fornisce la contabilità che sola permette di descrivere la relazione fondamentale di classe alla base del rapporto di capitale come l’esito del confronto antagonistico tra capitale e lavoro. Su questa base è possibile integrare Sraffa e la Nuova Interpretazione, ma tornando a Marx: un Marx «ricostruito».

148In un certo senso, Vianello, Dobb e Napoleoni avevano ragione, se letti in modo complementare. Vianello, perché il nuovo valore aggiunto nel periodo viene allocato nella circolazione di merci attraverso dei prezzi, che possono (a questo livello dell’argomento) essere immediatamente identificati con i prezzi di produzione, come fa Sraffa. Una prospettiva non dualista che richiede soltanto di essere modificata con il tenere esplicitamente in considerazione l’identità tra neovalore e lavoro diretto (come oggettualizzazione del lavoro vivo), il che di nuovo riporta a Sraffa. Dobb, perché davvero la macrodistribuzione tra classi è contabilizzata con precisione in termini di valore-lavoro: senza però bisogno di passare da una doppia approssimazione, ed emancipando la teoria del valore-lavoro dal ruolo pressoché esclusivo di teoria dei prezzi. Una posizione la cui verità può essere affermata soltanto se il salario reale dell’intera classe lavoratrice lo si vede fissato dalle decisioni inconsce ma collettive della classe capitalistica, comprensiva di banche e imprese, dunque attraverso il ruolo autonomo della domanda da loro esercitata (in primis quella di investimenti). Del tutto evidente che in questo ragionamento la riluttanza di Napoleoni a recidere il «valore di scambio» come anello intermedio tra valore e prezzo viene rivendicata anch’essa.

149Il capitale produce e riproduce le condizioni sistemiche che forzano i lavoratori ad alienare la propria capacità lavorativa. È questa «circolarità» che viene accuratamente esposta in Produzione di merci, dove le merci vengono prodotte da merci, incluso il lavoro concreto estratto dalla merce forza-lavoro: dal capitale al capitale. Quella circolarità dipende però dalla «linearità» del processo di sfruttamento, dov’è il lavoro vivo come lavoro astratto – l’«uso» dei lavoratori – a originare il capitale, mentre l’inverso non è vero: è per questo che Sraffa può scrivere contro Bortkiewicz che commodities are produced by labour out of commodities, le merci sono prodotte da merci per il tramite del lavoro. Una frase della fine degli anni Venti, che abbiamo già citato, può essere riletta altrimenti (non solo qualitativamente ma anche quantitativamente) attraverso le lenti di questo Sraffa: «It is the whole process of production that must be called “human labour”, and thus causes all product and all values»120.

150È soltanto «incorporando» i portatori viventi di forza-lavoro, e quindi il lavoro vivo, dentro la morta sostanza delle merci, che servono da elementi materiali del nuovo prodotto e come fattori nel processo lavorativo, che i capitalisti sono in grado di convertire valore in nuovo valore, denaro in plus-denaro. Il corpo materiale del capitale «sussume» al suo interno un’alterità vivente e soltanto in questo modo diviene quel mostro animato che inizia a «lavorare» come se fosse posseduto dall’amore. Il punto qui è tanto la capacità del capitale di dare frutti e moltiplicarsi quanto la sua impossibilità di sfuggire completamente da una dipendenza da lavoratori e lavoratrici con riferimento alla genesi di tutto il neovalore, e conseguentemente di se stesso. L’«oggettività spettrale» del libro di Sraffa dev’essere in ultima istanza ricondotta al processo della costituzione del capitale, alla estrazione del lavoro vivo da quella merce molto speciale, la forza-lavoro, che è inseparabile dagli esseri umani.

Notes de bas de page

1  Vorrei ringraziare il personale della Wren Library del Trinity College, e in modo particolare Jonathan Smith, per il loro supporto durante le mie visite a Cambridge al fine di consultare le carte inedite, gli Sraffa Papers, e i libri dell’economista torinese conservati presso la Sraffa Collection. L’archivio è stato aperto al pubblico nel dicembre 1993, mentre la mia prima visita fu il 9 luglio 1996, assieme a Jean-Pierre Potier. Le tesi qui sostenute si sono giovate del dialogo (e dei dissensi), tra gli altri, con Jean-Pierre Potier, Heinz Kurz, Scott Carter, Giorgio Gattei, Stefano Perri, Andrea Salanti. Cito dall’archivio grazie ai permessi concessimi negli anni dagli esecutori letterari di Sraffa, prima Pierangelo Garegnani e poi Lord John Eatwell. Versioni precedenti delle posizioni qui presentate sono comparse come: Sraffa after Marx: an Open Issue, in G. Chiodi, L. Ditta (a cura di), Sraffa or an Alternative Economics, Basingstoke, Palgrave, 2008, pp. 68-92, e The «Tiresome Objector» and Old Moor: A Renewal of the Debate on Marx after Sraffa Based on the Unpublished Material at the Wren Library, “Cambridge Journal of Economics”, XXXVI, 6, numero speciale: New Perspectives on the Work of Piero Sraffa, 2012, pp. 1385-1399. Come si dirà, nella discussione italiana un ruolo importante lo ha avuto la pubblicazione online, nel 1997, della prima versione di «Transformation» and the Monetary Circuit: Marx as a Monetary Theorist of Production, poi incluso in G. Reuten, M. Campbell (a cura di), The Culmination of Capital. Essays on Volume Three of Marx’s Capital, Basingstoke, Palgrave, 2002, pp. 102-127. Nelle citazioni, le sottolineature sono di Sraffa, i corsivi miei.

2  Il volume di riferimento è qui M. Dobb, Political Economy and Capitalism. Essays in Economic Tradition, London, Routledge, 1937 (la cui seconda ed. del 1940 è stata tradotta in italiano da Boringhieri).

3  Il rimando è ai citati Ideologia e società e Il marxismo e Hegel.

4  F. Vianello, Valore, prezzi e distribuzione del reddito. Un riesame critico delle tesi di Ricardo e Marx, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1970; Id., Pluslavoro e profitto nell’analisi di Marx, in P. Sylos Labini (a cura di), Prezzi relativi e distribuzione del reddito, Torino, Boringhieri, 1973, pp. 75-117.

5  Si veda, soprattutto, il doppio intervento di C. Napoleoni negli atti del convegno Il marxismo italiano degli anni Sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni, Roma, Editori Riuniti, pp. 184-193, 433-435.

6  È questa una tesi che si trova esposta con particolare chiarezza nel saggio su Marx contenuto in Smith Ricardo Marx.

7  Il riferimento è qui principalmente a D. Foley, Understanding Capital: Marx’s Economic Theory, Cambridge, Massachussets, Harvard University Press, 1986.

8  Talora impiegheremo «esibito» come sinonimo di «esposto».

9  Tra gli autori più significativi, a cui si è fatto riferimento in altri capitoli, ci limitiamo a ricordare, oltre a Duncan Foley e Gérard Duménil, Simon Mohun (A Re(in)statement of the Labour Theory of Value, “Cambridge Journal of Economics”, 18, 4, pp. 391-412).

10  M. Messori, Sraffa e la critica dell’economia politica, Milano, Franco Angeli, 1978.

11  Si veda R. Bellofiore, Lavoro astratto, valore e prezzi di produzione, “Studi economici”, 12, 1980, pp. 57-87.

12  Citeremo secondo la convenzione adottata alla Wren Library. La prima lettera in maiuscolo indica le macrosezioni, dieci in tutto da A a J. Tra le più rilevanti vi sono: D, Notes, Lectures and Publications; C, Correspondence; E, Diaries; I, Items removed from books. La sezione D contiene il lavoro scientifico di Sraffa e richiede una convenzione archivistica più dettagliata: D1 contiene 92 raccolte di documenti catalogate come Note, D2 contiene 8 raccolte di documenti catalogate come Lectures, D3 contiene 14 raccolte di documenti catalogate come Pubblicazioni. In D3 la sottosezione 12, archiviata come D3/12/, è dedicata a Production of Commodities by Means of Commodities e contiene 115 faldoni, designati da D3/12/1 a D3/12/115. Segue, separato dai due punti, il riferimento alle pagine, talora multiple. Gli Sraffa Papers sono accessibili in forma digitale a seguito di un progetto guidato da Giancarlo De Vivo e Murray Milgate con la collaborazione dello staff della Wren Library. Si veda: https://janus.lib.cam.ac.uk/db/node.xsp?id=ead%2Fgbr%2F0016%2Fsraffa. Si veda anche Digital Sraffa, un sito dedicato alla presenza online di Sraffa curato da Scott Carter, dove è anche possibile seguire lo sviluppo del progetto Trinity 2.0 che propone un ponte tra tre possibili convenzioni archivistiche sull’archivio. Per i dettagli si veda: http://sraffaarchive.org.

13  Cfr. I. Steedman, Marx after Sraffa, London, NLR Books, 1977 (tradotto in italiano da Editori Riuniti).

14  Si vedano: J. Robinson, The Labor Theory of Value, “Monthly Review”, XXIX, 7, 1977, p. 56; A. Giolitti, Lettere a Marta. Ricordi e riflessioni, Bologna, il Mulino, 1992; S. Savran, E.A. Tonak, Interview with Paul M. Sweezy, “Monthly Review”, XXXVIII, 11, 1987, pp. 1-28.

15  Sul senso della «sorpresa» nella ricerca d’archivio si veda il fine intervento di J. Smith, Surprise in the Archive: Reactions to Sraffa’s Papers, in R. Bellofiore, S. Carter (a cura di), Towards a New Understanding of Sraffa. Insights from Archival Research, London, Palgrave Macmillan, 2014, a partire da un convegno tenutosi a Bergamo nel 2010 a cinquant’anni dalla pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci.

16  R. Bellofiore, J.-P. Potier, Piero Sraffa: nuovi elementi sulla biografia e sulla ricezione di «Produzione di merci» in Italia, “Il pensiero economico italiano”, numero monografico: N. Salvadori (a cura di), Omaggio a Piero Sraffa (1898-1983). Storia Teoria Documenti, VI, 1, 1998, pp. 55-103. Una versione accorciata e aggiornata è comparsa in inglese come New Perspectives from Sraffa’s Papers, in R. Ciccone, C. Gehrke, G. Mongiovi (a cura di), Sraffa and Modern Economics, Volume II, New York, Routledge, 2011, pp. 338-353.

17  R. Bellofiore, Monetary Analyses in Sraffa’s Writings: a Comment on Panico, in T. Cozzi, R. Marchionatti (a cura di), Piero Sraffa’s Political Economy. A Centenary Estimate, London, Routledge, 2001, pp. 362-376.

18  Si ricorda al lettore che Sraffa è deceduto nel 1983, e l’archivio è stato aperto alla consultazione circa un decennio dopo. Sono passati poco meno di quarant’anni. Heinz Kurz annunciava la pubblicazione nel corso del 2010 di cinque volumi: «a judicious selection from Sraffa’s papers and correspondence on behalf of Cambridge University Press». Cfr. Preparing the edition of Piero Sraffa’s unpublished papers and correspondence, “Cahiers d’économie politique”, 2, 2009, pp. 261-278. Scrive Kurz all’inizio dell’articolo: «In private conversation Piero Sraffa is said to have called his published work the “tip of an iceberg”, the iceberg being his unpublished manuscripts and notes. When in conversation this metaphor is used, the idea of a ship colliding with an iceberg and then sinking is close at hand. The destiny of the Titanic comes easily to one’s mind. Having been appointed by Sraffa’s literary executor, Professor Pierangelo Garegnani, to the general editorship of Sraffa’s “iceberg”, I am fully aware that the metaphor is not without deeper meaning, actually a plurality of meanings. This will become clear in the sequel. However, I am optimistic that the huge task will eventually be accomplished». Nel frattempo spiace che alcuni degli undici editor siano morti (Garegnani, Gilibert, De Cecco).

19  A conferma di quanto scritto nel testo si veda: Il contributo di Sraffa alla scienza economica. Note sui suoi scritti inediti, “Il Pensiero Economico Italiano”, VI, 1, 1998, pp. 11-38. Articoli simili sono comparsi in “Revue d’économie politique” (1998), in “European Journal of the History of Economic Thought” (1998) e in vari volumi.

20  Sollevai questa questione nel dibattito a un convegno a Cambridge su Produzione di merci nel 2010, che fu concluso da un lungo intervento di Heinz Kurz. Nella sua replica alle mie osservazioni, che si ritrova nel saggio conclusivo del già citato numero speciale New Perspectives on the Work of Piero Sraffa (Don’t Treat too Ill my Piero! Interpreting Sraffa’s Papers, “Cambridge Journal of Economics”, XXXVI, 6, 2012, pp. 1535-1569), Kurz lamentò una «lack of evidence» nelle mie affermazioni. Il punto, come rilevo ancora una volta nel testo, è che la «prova» non sta in qualcosa che c’è nei suoi articoli ma in ciò che «manca»: insomma, sta proprio negli stessi scritti di Kurz dal 2005. E sta nel confronto con le poche voci che in precedenza avevano messo in questione la vulgata proprio a partire dagli archivi: tempestivo fu l’intervento di Giancarlo De Vivo al convegno all’Università di Torino del 1998. Si veda, negli atti del convegno, G. De Vivo, Some Notes on the Sraffa Papers, in T. Cozzi, R. Marchionatti (a cura di), Piero Sraffa’s Political Economy. A Centenary Estimate, London, Routledge, 2001, pp. 157-164, ma anche Produzione di merci a mezzo di merci: Note sul percorso intellettuale di Sraffa, in M. Pivetti (a cura di), Piero Sraffa. Contributi per una biografia intellettuale, Roma, Carocci, 2000, pp. 265-295. Alla lettura di De Vivo dedicherò molta attenzione nel seguito. Nella replica Kurz mi definisce come un fundamentalist Marxist: una caratterizzazione alquanto fantasiosa, che ho ragione di ritenere sia semplicemente uno scivolone.

21  C 185.

22  Il punto era già chiaro a R. Rowthorn, Neo-Classicism, Neo-Ricardianism and Marxism, “New Left Review”, 86, 1974, pp. 63-87. Rowthorn ne fa la base di una critica ai «neoricardiani» più che allo stesso Sraffa. Un’argomentazione convergente è quella di D. Preti in On the Neoricardian Criticism of Irrelevance, nel volume che ho curato con S. Carter, Towards a New Understanding of Sraffa cit.

23  D3/12/4: 15. È un faldone su cui sono scritti «end of November 1927» e «preparation for 28-31 lectures?».

24  D1/3: 3-4.

25  D3/12/3: 10-11.

26  Cfr. D3/12/3: 16.

27  Cfr. D3/12/3: 4-5.

28  P. Garegnani, On a Turning Point in Sraffa’s Theoretical and Interpretative Position in the Late 1920s, “European Journal of the History of Economic Thought”, XII, 3, 2005, pp. 453-492, sviluppa una critica dell’idea che Marx starebbe in qualche misura dietro la ricerca di Sraffa prima del 1927 (pp. 485 e 490). Questo autore dissente anche dall’idea che la teoria della distribuzione possa essere separata dalla (e venire prima della) teoria dei prezzi, e la mette in contrasto con la successiva separazione tra una determinazione congiunta di prezzi e distribuzione, e una determinazione del livello del prodotto (p. 473).

29  Ivi, p. 474.

30  Ivi, p. 475.

31  D3/12/4: 4.

32  D3/12/4: 5.

33  D2/4: 18.

34  I lettori dei due capitoli precedenti già sanno che una proposizione del genere, lungi dall’andar letta come contrastante con la teoria marxiana del valore, vi è del tutto conforme. Nel Capitale la merce viene appunto definita come qualcosa di «mistico»: essa, scrive Marx all’inizio del quarto paragrafo del primo capitolo del primo libro, è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di ubbie teologiche. Il carattere esoterico della merce non discende dal valore d’uso o dal contenuto dello stesso valore, ma dalla sua forma: proprio ciò che Ricardo non era stato in grado di analizzare. Dalla Sraffa Collection, la collezione di volumi posseduta da Sraffa, sappiamo quanto l’economista italiano fosse un lettore attento di queste pagine.

35  D3/12/9: 89.

36  Di nuovo, il mio lettore è a conoscenza del fatto che nella più recente letteratura marxiana una considerazione del genere non è oggetto di contestazione, ed è anzi attribuita allo stesso Marx: il lavoro «conta» nella dimensione del valore solo in forza della astrazione reale e dunque della sua espressione in denaro, mai direttamente in termini di ore di lavoro.

37  D3/12/11: 36.

38  Si vedano anche D3/12/9: 89 e D3/12/11: 36.

39  D3/12/11: 64.

40  H. Kurz, Sraffa’s Contribution to Economics. Some Notes on his Unpublished Papers, in S. Nisticò, D. Tosato (a cura di), Competing Economic Theories. Essays in Memory of Giovanni Caravale, London, Routledge, 2002, pp. 177-196, in particolare p. 185.

41  D3/12/7: 103.

42  Si vedano G. De Vivo, Sraffa’s Path to Production of «Commodities by Means of Commodities». An Interpretation, “Contributions to Political Economy”, XXII, 2003, pp. 1-25; G. Gilibert, The Equations Unveiled: Sraffa’s Price Equations in the Making, “Contributions to Political Economy”, XXII, 2003, pp. 27-40.

43  D3/12/9: 11.

44  G. Gilibert, The Equations Unveiled cit., p. 36.

45  Nella sua recensione al volume curato da chi scrive con Carter, già citato, G. De Vivo (Review of «Towards a New Understanding of Sraffa. Insights from archival research», “Contributions to Political Economy”, XXXIV, 1, 2015, pp. 125-129) segnala giustamente che nei miei precedenti scritti sull’archivio ho sempre invertito la frase, parlando di prezzi che influenzerebbero la distribuzione. Ha evidentemente ragione a lamentarlo. Trattandosi di un punto che sta nell’abbiccì della teoria sraffiana, si tratta evidentemente di un lapsus.

46  G. De Vivo, Sraffa’s Path cit., pp. 16 sgg.

47  Cito da G. Gilibert, Le equazioni svelate. Breve storia delle equazioni di Produzione di merci a mezzo di merci, in Atti dei Convegni Lincei: Piero Sraffa, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 2004, pp. 237-253.

48  P. Garegnani, On a Turning Point cit., p. 485.

49  G. De Vivo, Sraffa’s Path cit., p. 18, nota 1. Il lettore attento del presente libro avrà notato che non uso mai il termine lavoro «incorporato», e impiego piuttosto quello di lavoro «contenuto». Le ragioni sono state già esposte in un capitolo precedente. Benché l’espressione labour embodied, lavoro incorporato, sia di uso comune tanto tra gli sraffiani quanto tra i marxisti, essa è estranea all’autore di Das Kapital, se riferita al lavoro astratto. È infatti soltanto il lavoro concreto – che in quanto tale è, si ricorderà, incommensurabile – che viene «incorporato» (nel valore d’uso della merce). È viceversa il valore «intrinseco», o «assoluto», ovvero il fantasma immateriale che risulta dalla erogazione di lavoro astratto, che conduce alla vita la merce singola, ad aver bisogno di «prendere possesso di un corpo» nello scambio monetario, a necessitare di una «incorporazione», il che avviene quando il valore si esteriorizza nell’oro in quanto denaro. Se dunque non vi è in Marx un lavoro incorporato, vi è invece, e con un ruolo centrale, un «valore incorporato» (sta qui uno dei lapsus di traduzione di Delio Cantimori più significativi). Il valore non viene all’esistenza in senso compiuto e finale sino a che il fantasma non si «attualizza» nel denaro, benché tale esistenza venga anticipata nei prezzi attesi delle merci. Solo successivamente, il denaro come denaro, che Marx chiama la «crisalide», deve mutarsi in «farfalla», e dunque il denaro come equivalente universale divenire denaro come capitale: valore che produce più valore, denaro che figlia più denaro. Tutto ciò ha possibilità di avvenire, secondo Marx, soltanto quando il fantasma si trasforma in «vampiro», succhiando il fluido del lavoro vivo dai corpi e dalle menti dei lavoratori e delle lavoratrici, una volta inclusi in quel mostro meccanico che è la fabbrica capitalistica. Va da sé che, se tutto ciò è misterioso per gli autori di ascendenza sraffiana, le cose non vanno molto meglio con i marxisti, che vedono qui all’opera metafore e non la «cosa stessa». Di tutto ciò Sraffa poteva avere soltanto una pallida intuizione: ma, come si dirà, la comprensione di questo punto è essenziale per comprendere la «produzione capitalistica di merci a mezzo di merci per il tramite (dell’uso) del lavoro».

50  Cfr. D3/12/16. La nota è parzialmente resa disponibile nei due saggi citati di Gilibert del 2003. È riprodotta integralmente, tanto in italiano quanto in inglese, in R. Bellofiore, Sraffa after Marx cit., pp. 89-90, a cui si rimanda. Si presti attenzione a queste frasi: «Con questo metodo passare di nuovo tutte le equazioni, e risolverle ma finora (se possibile) non aver parlato della Q.d.L. Finalmente dire che il risultato è identico ad avere usato la Q.[uantità] d.[i] L.[avoro]; tracciare la genealogia di ogni merce (rispondendo alla domanda: perché L[avoro]? perché non cavalli o carbone? risposta formale, unica quantità costante) e poi mostrare che il più semplice metodo è di sostituire, nelle equazioni, r con S [il saggio di sovrappiù]. A questo punto soltanto dire che è Old Moor. (Nell’usare termini volgari cercare di farlo in modo, cioè per quanto possibile, senza contraddire le definizioni fondamentali (così, nelle 1° equazioni valore, nelle altre prezzi in termini di B[ortkiewicz], e profitti – mai plusvalore. In caso di assoluta contraddizione, il linguaggio volgare deve prevalere: alla fine, in un Errata, indicare le pagg. e linee dove si son fatti questi errori)» (D3/12/16: 17 (1-2)).

51  Su tutto ciò, G. De Vivo, Sraffa’s Path cit., pp. 17-18; G. Gilibert, The Man from the Moon: Sraffa’s upside-down Approach to the Theory of Value, “Contributions to Political Economy”, XXV, pp. 35-48 (particolarmente p. 46).

52  Ivi, pp. 47-48.

53  C. Napoleoni, Sulla teoria della produzione come processo circolare, “Il Giornale degli economisti e Annali di economia”, 1-2, gennaio-febbraio 1961, pp. 101-117. Cito dalla ripubblicazione in Id., Dalla scienza all’utopia. Saggi scelti 1991-1998, a cura di G.L. Vaccarino, Torino, Boringhieri, 1992. Il brano riportato è a p. 21.

54  Negli anni successivi, la polemica di Kurz (talora avendo come coautori Gehrke e/o Salvadori) contro le posizioni di De Vivo e Gilibert è stata molto forte. Mi pare si concentri essenzialmente sulla accuratezza della interpretazione degli ultimi due economisti relativamente al primo sottoperiodo della riflessione che sfocerà in Produzione di merci. Per quel che mi riguarda, a essere di grande interesse è piuttosto la loro riflessione sui primi anni Quaranta.

55  C. Gehrke, H. Kurz, Sraffa on von Bortkiewicz. Reconstructing the Classical Theory of Value and Distribution, “History of Political Economy”, XVIII, 1, pp. 91-149. Per questa tesi, in particolare p. 109.

56  «His findings must have come as a formidable surprise to him and apparently must have greatly contributed to his growing admiration for Marx, the economic theorist, as distinct from Marx, the materialist philosopher and social critic» (ibid.).

57  Bastino gli esempi che seguono: a p. 111, la scoperta dell’esistenza di un saggio massimo del profitto in sistemi circolari di produzione, che Sraffa attribuisce a Marx, si sostiene che si ritrovi già nello stesso Ricardo (sia pure, si ammette, in modo imperfetto, visto che quest’ultimo in genere riduce tutto il capitale ai salari); a p. 119, il saggio di plusvalore dato, assunto da Marx, non sarebbe altro che la ripetizione della posizione di Ricardo, che prende come nota la proporzione del lavoro annuale della società che viene devoluta al sostentamento dei lavoratori. E così via.

58  Ivi, p. 118.

59  Cfr. D1/91: 10-11.

60  Cfr. D1/91: 19-20.

61  Nei capitoli precedenti dedicati a Marx si è accennato al fatto che la categoria marxiana di «composizione del capitale» – tecnica, in valore, organica – è complessa, e normalmente mal compresa. Certo, essa non corrisponde all’uso che ne viene fatto nella letteratura tanto sraffiana quanto marxista.

62  D1/91: 16.

63  Incontriamo un’espressione analoga anche in un volume presente nella Sraffa Collection. Si veda T.A. Jackson, Dialectics. The Logic of Marxism, New York, International Publishers, 1936, capitolo sesto: «The Dialectic of Capitalist Production»: «Marx begins with the most central fact in capitalist economy in its most general aspect: the Commodity. A commodity is something produced. But not all things produced at all times are commodities. They are commodities only so far as they are exchanged; and in their developed form exchanged for money. They are capitalistically produced when the labour of production is that of wage-labourers, hired, (i.e.: bought) in a relatively “open” or “free” market. Capitalist production is therefore a system of producing commodities from commodities (raw materials, machinery etc.) by means of commodities (the labour power of wage labourers). This universalisation of the commodity and all that it implies is the distinguishing fact of the capitalist economy» (corsivi miei).

Sraffa era di norma alquanto parco nelle sottolineature ai suoi volumi. Il libro di Jackson, di notevole mole, ne contiene soltanto due: una delle due, costituita da una riga continua a margine (a indicare interesse, se non addirittura approvazione), è proprio quella appena riportata. Come nella frase che Sraffa scrisse nelle sue note critiche contro Bortkiewicz, non sfuggirà, rispetto a Production of commodities by means of commodities, l’inserzione esplicita del «lavoro» nel discorso sulla produzione (capitalistica) di merci: e non principalmente per quel che riguarda la distribuzione, ma la produzione stessa, dove la forza-lavoro appartenente agli esseri umani come suoi portatori viventi viene «consumata» nella forma del lavoro vivo.

Anche le altre frasi che Sraffa evidenzia nel volume, con una linea continua a margine, sono di un qualche interesse per il nostro ragionamento: «As to this: it is hard to say who are in the deepest theoretical bog-hole, the “modern” economists, who reject the classic “Labour” theory of value out of hand, or the “explainers” of Marx, who try to save it while accommodating themselves to the criticism of those moderns, before whom they stay, secretely, in awe» (p. 301).

64  Cfr. D3/12/35: 28. Sulla Statistical Hypothesis si vedano, nel saggio di Gehrke e Kurz, le pp. 111 e 143.

65  D1/91: 40-41.

66  D1/91: 20.

67  Cfr. D3/12/35: 9 (1).

68  Su cui si veda H. Kurz, N. Salvadori, «Man from the Moon». On Sraffa’s Objectivism, “Économies et sociétés”, XXXV, pp. 1545-1557.

69  C. Gehrke, H. Kurz, Sraffa on von Bortkiewicz cit., p.124.

70  Il giudizio muta drasticamente se si dà della caduta tendenziale del saggio del profitto un’altra interpretazione, che non si trova in Marx, ma che è derivabile da Marx, quale quella che ho presentato in La crisi capitalistica e la barbarie che avanza, Trieste, Asterios, 2011, dove la caduta tendenziale del saggio di profitto si configura come una unitaria metateoria delle crisi, che consente una rilettura della evoluzione storica del capitalismo. Si è accennato alla questione nel sesto capitolo.

71  Nella parte finale di questo capitolo mostrerò che è possibile individuare alcune sintonie e alcuni contrasti con la Nuova Interpretazione a partire da questo «altro Sraffa» che cerco di mettere in luce in quel che segue. Vedremo però anche, in contrasto con altri interpreti marxisti, che non è possibile stabilire una linea di continuità non problematica tra Sraffa e Marx sulla base degli Sraffa Papers. Tanto più che non è possibile accettare la Nuova Interpretazione, o gli stessi emendamenti di Sraffa a Marx, senza qualificazioni. Si vedano gli ultimi paragrafi di questo capitolo.

72  D3/12/46: 59.

73  Un’altra nota molto interessante è quella che si trova attaccata allo stesso volume SC 3731. Sraffa considera argomenti a favore della posizione di Marx secondo la quale tra le merci scambiate deve esservi qualche «sostanza comune» che giustifichi l’equivalenza e la «causa» del «valore di scambio». Sraffa sostiene che una critica del tipo di quella di Cassel potrebbe rivelarsi sbagliata se quella sostanza potesse essere misurata indipendentemente.

74  È questo un aspetto che abbiamo messo in rilievo nel capitolo precedente.

75  Per una mia iniziale interpretazione lungo queste linee, si veda R. Bellofiore, Lavoro astratto, valore e prezzi di produzione, “Studi economici”, 12, pp. 57-87.

76  È questa l’espressione con cui si apre Produzione di merci. Si vedano più avanti le ragioni per l’uso del termine fotografia.

77  Cfr. D3/12/7/161. Per l’interpretazione di A. Ginzburg, Two Translators: Gramsci and Sraffa, “Contributions to Political Economy”, XXXIV, pp. 31-76.

78  D3/12/7/161: 3.

79  D3/12/7/161: 5.

80  In H. Kurz, N. Salvadori, Representing the Production and Circulation of Commodities in Material Terms: on Sraffa’s Objectivism, “Review of Political Economy”, XVII, 3, 2005, pp. 69-97.

81  Fa eccezione un bel saggio di C. Gehrke, Sraffa’s correspondence relating to the publication of Production of Commodities by Means of Commodities: Some selected material, manoscritto, 2007. Vi fa riferimento anche E. Bellino, Banfi, Dobb, Eaton and Johnson Review Sraffa’s «Production of Commodities», “Storia del pensiero economico”, 2, 2006, pp. 167-203. Sono stato però il primo ad accennarvi nel saggio con Potier Piero Sraffa: nuovi elementi cit.

82  Il testo è stato pubblicato in italiano, con qualche errore minore di trascrizione, in F. Ranchetti, Sul significato di «Produzione di merci a mezzo di merci». Un carteggio inedito del 1960 tra Napoleoni, Mattioli e Sraffa, “Economia politica”, XXI, 1, 2004, pp. 3-10. Napoleoni aveva ultimato nella seconda metà del 1960 una recensione che fu pubblicata l’anno seguente nel “Giornale degli economisti”, e di cui abbiamo già detto. Sraffa l’aveva letto in anticipo in quanto (all’insaputa di Napoleoni) aveva già potuto vedere alcune precedenti versioni per il tramite del comune amico Raffaele Mattioli. In particolare, Mattioli aveva fatto avere a Sraffa copia della lettera in cui Napoleoni aveva buttato giù le sue prime reazioni alle bozze del libro (D3/12/111: 237-241). Nell’archivio Sraffa è conservata la copia carbone di una replica di Mattioli a Napoleoni, datata 11 settembre 1960 (D3/12/111: 246-248). Di quella risposta Sraffa fu, se non l’autentico estensore, certamente ben a conoscenza. Nel suo Pocket Diary Sraffa segnalò che in quella giornata era a casa di Mattioli tanto nella mattinata quanto nel pomeriggio, e fece anche riferimento alla lettera di Mattioli a Napoleoni (E33, Sept. Sat. 12). Per queste ragioni, i commenti di Mattioli rivestono un particolare interesse e testimoniano di un triangolo intellettuale che meriterebbe di essere indagato più in dettaglio.

83  L’originale italiano presso la Wren Library ha la seguente catalogazione: D3/12/111: 249-251.

84  John Eaton era lo pseudonimo di Stephen Bodington. Aveva pubblicato da Lawrence & Wishart un manuale di economia politica marxista, in una prima edizione nel 1949, e in una seconda riveduta e aggiornata nel 1963. Le due edizioni furono entrambe rese disponibili in italiano da Einaudi (la prima fu tradotta da Claudio Napoleoni; le integrazioni alla seconda sono dovute a Francesco Ciafaloni): si veda J. Eaton, Economia politica, Torino, Einaudi, 1950 e 1967. Inoltre apparve a sua firma, Marx against Keynes. A Reply to Mr. Morrison’s Socialism, London, Lawrence & Wishart, 1951. Bodington fu legato a Oskar Lange, e coinvolto nella traduzione inglese di Gramsci (per notizie su Bodington si veda anche S. Carter, A. Lazzarini, Sraffa, the General Rate of Profit and the Theory of the Firm, in J.K. Moudud, C. Bina, P.L. Mason, a cura di, Alternative Theories of Competition: Challenges to the Orthodoxy, London, Routledge, 2014, pp. 174-200). La recensione, scritta in inglese, fu pubblicata in traduzione italiana con il titolo Il modello di Sraffa e la teoria del valore-lavoro, “Società”, XVI, 5, 1969, pp. 711-734. “Società” era una rivista teorica vicina al Partito Comunista Italiano. La recensione è stata ritradotta in inglese a cura di Bellino insieme ad altre, e preceduta dal saggio già ricordato. Il testo originale inglese è stato poi reperito da Nerio Naldi, che conta di pubblicarlo in futuro: è conservato a Manchester, nel Labour History Archive and Study Centre (People History Museum), nel fondo donato dagli eredi. Naldi ha scritto alcune note di commento alla discussione, che si segnalano, purtroppo, per una ingiustificata adesione alla lettura tradizionale del rapporto di Sraffa con Marx: si veda Incidenze di Piero Sraffa: Produzione di merci a mezzo di merci e la teoria del valore-lavoro, in G. Vacca (a cura di), La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia in Italia negli anni Settanta e Ottanta, Roma, Carocci, 2015, pp. 339-356.

85  D3/12/111: 118.

86  D3/12/111: 127-130.

87  D3/12/111: 140. Sottolineature di Sraffa.

88  Cfr. H. Kurz, N. Salvadori, Sraffa and the Labour Theory of Value: a Few Observations, in J. Vint et al. (a cura di), Economic Theory and Economic Thought: Festschrift in Honour of Ian Steedman, London, Routledge, 2013, pp. 187-213.

89  Uno studente dell’Università di Saarbrücken, Rüdiger Soltwedel, che stava preparando una dissertazione per il suo dottorato avente per tema Production of Commodities by Means of Commodities, scrisse a Sraffa il 28 febbraio del 1968 chiedendogli consiglio su alcuni punti (C294/1-2). Sraffa gli risponde il 1° marzo (C294/2) nei termini che seguono:

As regards your own interpretation, I must say frankly that you have gone astray the moment you speak of ‘equilibrium’ or of ‘elasticity of factor supply’: all the quantities considered are what can be observed by taking a photograph, there are no rates of change, etc. This point of view was that of the classical economists (e.g. Ricardo) whereas supply and demand curves were introduced in the middle of the 19th century. Economists are now obsessed with them and cannot think without them. My chapter V, which gives you such a headache, could be understood as an attempt to solve a problem set by Ricardo, and which I described in my Introduction (sections IV and V) of vol. I of the Works of Ricardo, 1951.

90  Si veda su questo la differenza metodologica da Ginzburg chiarita al termine del paragrafo precedente.

91  D3/12/111: 139.

92  G. Gattei, G. Gozzi, Sraffa come economista classico: una congettura possibile?, “Il Pensiero Economico Italiano”, XVII, 2, 2010, pp. 75-88; S. Perri in una nutrita serie di lavori a cui farò riferimento nel seguito; S. Carter, From “pool of profits” to surplus and deficit industries: Archival evidence on the evolution of Piero Sraffa’s thought (New York, URPE@EEA paper, febbraio 2007); Id., The Sraffa-New Interpretation nexus and the value of labor power (URPE@ASSA paper, 2009); Id., Mr. Sraffa’s “snow” and the exploitation theory of profits (Philadelphia, URPE@EEA paper, febbraio 2010). Per Dario Preti il riferimento è a un lungo manoscritto inedito (di fatto un vero e proprio libro) che lessi nel 2000 e feci circolare tra gli studiosi che reputavo interessati. Ne seguì anche la pubblicazione di un saggio che sintetizza le tesi del manoscritto: D. Preti, Sraffa e il valore-lavoro in Produzione di merci a mezzo di merci, in G. Gattei (a cura di), Karl Marx e la trasformazione del pluslavoro in profitto, Roma, Mediaprint, 2002.

93  Si veda On the Neoricardian Criticism cit.

94  È certo che «teoria del valore-lavoro» è locuzione che si presta a equivoci, anche se non condivido la pulsione di certo marxismo contemporaneo ad abbandonarla. Più appropriata l’espressione value theory of labour impiegata da Diane Elson nel 1979, da rendersi in italiano come «teoria del valore in termini della forma socialmente specifica del lavoro». Monetary value theory of labour sarebbe ancora più preciso, visto che quella forma è inseparabile da un’analisi monetaria in cui il denaro è da subito componente essenziale della categoria processuale del valore. Ciò che però si guadagna in precisione si perde in efficacia. Si veda D. Elson, Value. The Representation of Labour in Capitalism, London, CSE, 1979.

95  Si vedano: S. Perri, La significatività del saggio di plusvalore dopo Sraffa, “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali”, XXXVIII, 6-7, 1991, pp. 573-584; Id., Sovrappiù, plusvalore e valore della forza lavoro, “Trimestre”, XXIX, 1-2, 1996, pp. 87-117; Id., Neovalore e plusvalore, “Economia politica”, XIV, 2, 1997, pp. 209-233.

96  R. Marchionatti, Sulla significatività del saggio di plusvalore dopo Sraffa, “Economia Politica”, X, 2, 1993, pp. 203-221.

97  Andrea Salanti (in La teoria del valore dopo Sraffa: una nota, “Rivista Internazionale di Scienze Economiche e Commerciali”, XXXVII, 8, 1990, pp. 685-692) è l’economista che ha inaugurato questa discussione. Ha però sempre giustamente insistito sul fatto che la tesi marxiana dello sfruttamento non può essere confermata o rigettata con argomenti meramente formali. Dissento però da Salanti quando afferma che in fondo si tratta di nient’altro che di credenze metafisiche.

98  Per quanto riguarda i miei contributi su Marx, R. Bellofiore, Marx rivisitato: capitale, lavoro, sfruttamento, “Trimestre”, numero monografico: M.E.L. Guidi (a cura di), Il terzo libro del Capitale di Marx, XXIX, 1-2, pp. 29-86. È contenuto nello stesso numero il contributo citato di Perri allo stesso convegno, e il lettore può misurare da sé la distanza tra le due letture, e quello che reputo uno scarto significativo dalla successiva interpretazione di Perri. Per quanto riguarda i miei contributi sulle carte inedite di Sraffa, si vedano gli interventi ai due convegni torinesi del 1998 di cui ho detto in precedenza (l’articolo con Potier e il commento a Panico). I due scritti di S. Perri a cui faccio riferimento sono: Sraffa, Marx, i «true absolute costs of commodities» e il plusvalore. Alcune riflessioni in margine a «Il contributo di Sraffa alla scienza economica», “Il pensiero economico italiano”, VII, 2, 1999, pp. 177-188; The Counterfactual Method of Marx’s Theory of Surplus Value, “Review of Political Economy”, XV, 1, 2003, pp. 107-124. Il ruolo del mio articolo del 1996 è correttamente riconosciuto da Perri con queste parole: «L’importanza del metodo controfattuale o comparativo nell’analisi di Marx della genesi del profitto, nel senso sopra riportato, è stata posta al centro dell’attenzione da Bellofiore» (Rileggendo Guida a Produzione di merci a mezzo di merci di Massimo Finoia. Riflessioni su alcuni esiti del dibattito dopo Sraffa, in C.E. Gentilucci, a cura di, Contributo alla storia del pensiero economico italiano del Novecento. Studi in memoria di Massimo Finoia, Napoli, Jovene, 2006, pp. 53-85: la citazione si trova a p. 76).

99  S. Perri, From «the Loaf of Bread» to «Commodity Fetishism»: A «New Interpretation» of the Marx-Sraffa Connection, “History of Economic Ideas”, XVIII, 1, pp. 55-81.

100  Per quel che segue si vedano, sempre di Perri: The Standard System and the Tendency of the (Maximum) Rate of Profit to Fall – Marx and Sraffa: There and Back, nel volume da me curato con Carter già citato, alle pp. 94-120 (e su cui è utile il commento di Salanti che segue); Back to the Future? The Tendency of the (Maximum) Rate of Profit to Fall: Empirical Evidence and Theory, in E. Brancaccio, G. Fontana (a cura di), The Global Economic Crisis. New Perspectives on the Critique of Economic Theory and Policy, London, Routledge, 2011, pp. 164-183.

101  S. Carter, Sraffa and the Standard Commodity, paper presentato all’International Conference The Other Sraffa: Surprises in the Archive, Università di Bergamo, 21-22 dicembre 2010.

102  Torneremo sul punto nelle conclusioni di questo capitolo.

103  I commentatori, come lo stesso Perri, fanno in genere riferimento soltanto alla composizione tecnica o alla composizione organica, identificando quest’ultima con la composizione in valore. In questo caso è chiaro che un aumento dei mezzi di produzione, rispetto alla forza-lavoro vivente, deve determinare una caduta del saggio di profitto, in quanto la composizione organica (che riflette i movimenti della composizione materiale del capitale) sale per definizione. È altrettanto chiaro, però, che ciò non dice nulla su quella che è la tendenza del saggio di profitto nella realtà, che dipende dalle deviazioni della composizione in valore dalla composizione organica, conseguenti in particolare al progresso tecnico.

104  È quanto abbiamo sostenuto nel quarto capitolo. Si veda, sulla questione, G. Deleplace, The Essentiality of Money in the Sraffa Papers, in Towards a New Understanding of Sraffa cit.

105  D. Foley, The Long-Period Method and Marx’s Theory of Value, in V. Caspari (a cura di), The Evolution of Economic Theory: Essays in Honour of Bertram Schefold, London, Routledge, 2011, pp. 35-36.

106  Chi ha letto questo, e i due capitoli precedenti, comprenderà al volo che la prospettiva marxiana sul salario di tutto può essere accusata meno che di essere compromessa con il fodder-and-fuel commodity fetishism, come lo è invece la ripresa che ne è stata fatta nella gran parte del marxismo e nello sraffismo quando assumono il salario reale dato. Si tratta, in fondo, di tornare alla prospettiva sul salario di Rosa Luxemburg nella Introduzione all’economia politica, una delle poche che abbia compreso la riflessione di Marx su questo punto.

107  Si tratta di una divergenza che non ha nulla a che vedere con la divergenza dei prezzi semplici dai prezzi di produzione, e che infatti è esposta in dettaglio nei capitoli sul salario del primo libro, a cui gli studiosi non prestano la dovuta attenzione. Su questo si veda R. Bellofiore, La questione del salario, “Alternative per il socialismo”, 5, 2008, pp. 112-125.

108  Il lettore informato riconoscerà che la ricostruzione di Marx qui proposta lo avvicina molto al Treatise on Money di Keynes, in particolare in quei punti in cui contrasta con Hayek. Sraffa fu coinvolto nella discussione, prendendo le parti di Keynes. Come ha osservato giustamente A. Graziani, La visione del processo capitalistico secondo Piero Sraffa, in Tra teoria economica e grande cultura europea: Piero Sraffa, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 189-196, Sraffa attacca Hayek sostenendo che nel produrre un insieme dato di merci le imprese emettono un ordine irrevocabile. In un’economia autenticamente monetaria i produttori capitalisti «comandano» flussi monetari grazie ai quali possono avere accesso a risorse produttive. Hanno quindi il potere di determinare le quantità prodotte delle merci al di là di ogni presunta sovranità del consumatore. Graziani avanza la congettura che sia questa la ragione per la quale in Produzione di merci Sraffa considera date le quantità di input e output. Tutto ciò non può essere interpretato lungo la linea proposta da Frank Hahn, come se Sraffa fosse una sorta di Marshall dimezzato: costituisce anzi, per Graziani, un solido argomento per individuare una forte linea di continuità tra il libro del 1960 e le precedenti critiche a Marshall (del 1925-1926) e Sraffa (1932), all’interno di un più ampio progetto di ricerca teso a costruire una visione alternativa dell’intero processo economico. È possibile che tutto ciò sia discutibile nei dettagli come interpretazione filologicamente accurata: assieme però alla congettura che ho proposto sull’evoluzione del percorso di Sraffa nella stesura di Produzione di merci, credo che costituisca una buona base di partenza per mettere mano a una lettura di Sraffa compatibile con un Marx ricostruito, andando oltre la lettera di entrambi. Per una lettura di Sraffa compatibile con il suggerimento di Graziani, R. Bellofiore, Sraffa in Context, “Research in Political Economy”, sezione speciale: The Sraffa Tradition, XV, 1986, pp. 305-314.

109  Si veda a p. 34 di C. Napoleoni, Circolarità del capitale e leggi della distribuzione, in R. Bellofiore (a cura di), La teoria economica dopo Sraffa. Scritti di Claudio Napoleoni, “Economia Politica”, 8, 1, 1991, pp. 34-44. Si tratta della ripubblicazione di un intervento alla giornata di studio su Piero Sraffa e l’Economia Politica degli anni ’80, organizzata dall’Istituto di Economia politica dell’Università Bocconi il 22 gennaio 1988.

110  D3/12/7: 85.

111  P.L. Porta, The Formative Stages of Piero Sraffa’s Research Program, paper presentato alla Allied Social Science Association (ASSA) Annual Conference, San Francisco, 2015.

112  Si veda H. Kurz, N. Salvadori, Sraffa and the Labour Theory of Value cit., p. 210.

113  Cfr. L.L. Pasinetti, Structural Change and Economic Growth, Cambridge, Cambridge University Press, 1981; Id., The Sraffa Enigma, “European Journal of the History of Economic Thought”, XII, 3, 2005, pp. 373-378; Id., Piero Sraffa and the Future of Economics, “Cambridge Journal of Economics”, XXXVI, 6, 2012, pp. 1303-1314.

114  N. Garbellini, A.L. Wirkierman, Pasinetti’s Structural Change and Economic Growth: A Conceptual Excursus, Università Cattolica del Sacro Cuore, Gruppo PRIN, 2007.

115  Ci riferiamo alla possibilità, che abbiamo esplorato in altri lavori, di leggere i prezzi di produzione marxiani non, alla Garegnani, come «centri di gravità» ma come una sorta di «idea platonica». Un utile riferimento per questa lettura è l’articolo di A. Salanti, The Notion of Long Period Positions: A Useful Abstraction or a Platonic Idea?, “Political Economy – Studies in the Surplus Approach”, VI, 1-2, 1990, pp. 95-102. Non possiamo sviluppare qui il discorso.

116  Si veda R.L. Meek, Sraffa’s Rehabilitation of Classical Economics, “Scottish Journal of Political Economy”, VIII, 2, 1961, pp. 119-136, poi in Id., Economics and Ideology and Other Essay: Studies in the Development of Economic Thought, London, Chapman and Hall, 1967 (il volume è stato tradotto in italiano da Laterza nel 1969, con il titolo Scienza economica e ideologia). E si vedano anche J. Eatwell, Theories of Surplus Value: Old and New, “Science and Society”, XXXVIII, 3, 1974, pp. 281-303; Id., Mr. Sraffa’s Standard Commodity and the Rate of Exploitation, “Quarterly Journal of Economics”, LXXXIX, 4, 1975, pp. 543-555.

117  C. Napoleoni, Smith Ricardo Marx, prima ed., Torino, Boringhieri, 1970. Napoleoni mantenne questa critica presente in un saggio della prima edizione che non fu ripreso nella seconda.

118  È interessante qui un lapsus di De Vivo. Nella sua recensione al libro su Sraffa curato da me e da Carter, a p. 126, dove scrive: «Some of their points on the labour theory of value must however be rejected outright, for example, the claim that the normalisation in §10 and §12 of Sraffa’s book can be interpreted as an explicit endorsement of the labour theory of value» (il corsivo è mio). Un’affermazione del genere non si trova da nessuna parte nel libro, certo non nel mio saggio e neanche nell’Introduzione scritta da entrambi. Scriviamo invece che la doppia normalizzazione può essere interpretata come un «implicit endorsement of the labour theory of value»: che è, evidentemente, tutta un’altra cosa.

Chi ha letto questo capitolo sa già che non dissento però affatto da De Vivo quando scrive: «It [the normalisation] certainly cannot (provide in itself an endorsement of the labour theory of value). A choice of units cannot represent an endorsement of any theory». Non è infatti la normalizzazione in sé che conta, semmai il possibile rapporto con la nota del 1940, i commenti dopo l’uscita del libro, e in generale il percorso intellettuale che ho ripercorso in questo capitolo. Un’altra incomprensione di De Vivo è quella di ritenere che gli autori del volume che recensisce condividano sul rapporto Sraffa-Marx le medesime conclusioni: di nuovo, mi basta rimandare alle mie critiche a Gattei-Gozzi, Perri, Carter, contenute in quel libro come in questo capitolo. Questi malintesi di De Vivo giustificano la sua troppo facile riconduzione della mia posizione a quella di Dobb e Meek, quasi fosse una folgorazione sulla via di Damasco e una abiura di precedenti critiche che avevo rivolto alla loro lettura marxista tradizionale di Sraffa. Non è così.

119  A. Graziani, Riabilitiamo la teoria del valore, “l’Unità”, 10 giugno1983.

120  D3/12/11: 64.

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