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6. Karl Marx e il «rapporto di capitale»

La teoria macromonetaria della produzione capitalistica

p. 209-251


Texte intégral

1Dopo aver chiarito gli aspetti centrali della sua fondazione metodologica nel capitolo precedente, guardando al suo lato che altri definirà filosofico, possiamo ora affrontarne la sostanza teorica in questo, con una attenzione particolare alla discussione economico-politica. Il nucleo della «critica dell’economia politica» di Marx, così come la sua differentia specifica dalle altre teorie economiche, possono essere espressi in poche frasi. L’oggetto principale, e pressoché esclusivo, dell’analisi è il capitale. Il capitale viene inteso come un «rapporto sociale di produzione», caratterizzato da due elementi: lo «sfruttamento» in un’economia che produce merci, e una sistematica tendenza alla «crisi». Lo strumento utilizzato da Marx per mostrare sia la connessione tra il denaro e lo sfruttamento sia il carattere endogeno della crisi è la teoria (monetaria) del valore-lavoro (astratto). Si tratta della tesi secondo cui il «lavoro astratto» – più precisamente, il lavoro vivo dei lavoratori salariati come lavoro produttore di (plus)denaro – è la fonte esclusiva del valore. Il lavoro «contenuto», oggettualizzato nella produzione di merci secondo il tempo di lavoro socialmente necessario, deve manifestarsi all’incrocio tra produzione e circolazione nella «forma di valore». Marx – lo abbiamo già visto – insiste sulla natura monetaria del valore (il che lo separa da tutte le altre teorie del valore), ma con un movimento che va dal «contenuto» alla «forma» (il che lo separa da tutte le eterodossie monetarie).

Il capitale come rapporto sociale di produzione

2Per Marx, il rapporto sociale capitalistico può essere descritto come quella condizione storica nella quale le condizioni «oggettive» della produzione (i mezzi di produzione e le risorse originarie diverse dal lavoro) sono in mano a una parte della società, la classe capitalistica, con l’esclusione dell’altra parte della società, la classe dei lavoratori salariati1. Separati dalle condizioni materiali della produzione, e quindi incapaci da soli di produrre i mezzi di sussistenza, i lavoratori devono vendere alle imprese la condizione «soggettiva» della produzione (la propria «forza-lavoro»), di contro a un salario monetario che verrà speso nell’acquisto di beni salario. La forza-lavoro è «capacità di lavoro»: le facoltà fisiche e mentali messe in moto per produrre valori d’uso di un qualsiasi genere. Il lavoro «in potenza» è inseparabile dal «corpo», e dunque dalla materialità vivente, degli esseri umani.

3Il contratto di lavoro stipulato dai lavoratori salariati presuppone che essi siano soggetti giuridicamente liberi (a differenza degli schiavi e dei servi della gleba), e che quindi mettano a disposizione dei capitalisti la forza-lavoro per un periodo di tempo limitato. I proprietari dei mezzi di produzione, i «capitalisti industriali», hanno bisogno di un finanziamento iniziale dai soggetti in grado di anticipare del denaro, i «capitalisti monetari», non soltanto per poter acquistare i mezzi di produzione (il che, dal punto di vista dell’insieme delle imprese, non è altro che una transazione interna alla classe), ma anche e soprattutto per avere accesso alla forza-lavoro dell’insieme dei lavoratori (il che, dallo stesso punto di vista, risulta essere l’unica transazione esterna). Le merci prodotte appartengono ai capitalisti industriali che, attraverso l’intermediazione dei «capitalisti commerciali», le vendono sul mercato, sperando di recuperare il denaro anticipato con l’aggiunta di un plus-denaro.

4Marx suppone all’inizio del Capitale che i capitalisti industriali abbiano a disposizione il denaro per attivare i processi produttivi, e che vendano le merci prodotte sul mercato senz’alcuna intermediazione. In un periodo dato, il processo capitalistico può essere schematizzato in questi termini: all’apertura del circuito monetario, nel mercato del lavoro, si svolge la compravendita di forza-lavoro che permette agli imprenditori di dare il via al processo di produzione; perché il circuito si chiuda le imprese dovranno vendere le merci sul mercato finale delle merci, e le entrate dovranno coprire almeno l’anticipo iniziale di capitale. Sono qui coinvolti due tipi di circolazione monetaria. Chi riceve il monte salari è intrappolato nella «circolazione semplice», M-D-M’. I lavoratori vendono la merce, M (che in questo caso non può essere che la loro forza-lavoro) contro denaro, D, per poter ottenere altre merci, M’ (che non possono che essere le merci necessarie a riprodurre i lavoratori stessi). Le imprese capitalistiche, invece, comprano merci per poter produrre e poi vendere sul mercato. La circolazione si presenta, in questo caso, come una sequenza D-M-D’. Più precisamente: il «capitale monetario» (D) viene anticipato per comprare merci (M), e cioè i mezzi di produzione (MP) e la forza-lavoro (FL). MP e FL sono gli elementi costitutivi del «capitale produttivo»: la loro azione congiunta nella produzione permette che venga alla vita il «capitale-merce» (M’) specifico all’industria, che deve essere venduto e ritrasformato in denaro (D’). Una volta espresso in questa forma, è chiaro che la «circolazione capitalistica» ha senso se, e solo se, l’ammontare del denaro alla fine del circuito è più grande dell’ammontare del denaro anticipato all’inizio – ovvero se D’ > D. Il valore anticipato sotto forma di denaro è stato in grado di generare un «plusvalore», consistente nell’incasso di un profitto lordo monetario (che le imprese divideranno con i capitalisti monetari, i capitalisti commerciali, i proprietari terrieri e i rentier).

5D-M-D’ è la «formula generale del capitale», in quanto il capitale è definito come un valore autovalorizzantesi: è una totalità che, hegelianamente, pare «porre i propri presupposti», accrescendosi a spirale secondo una modalità puramente quantitativa. Il rapporto con Hegel è quanto abbiamo approfondito nel capitolo precedente. Nella logica di «circuito» che è quella del ciclo del capitale-monetario la divisione di classe tra capitalisti e lavoratori può essere reinterpretata come la separazione tra coloro che hanno accesso all’anticipo di denaro come capitale, denaro che genera denaro, e coloro che hanno accesso al denaro come semplice reddito. Tenendo esplicitamente conto del rapporto tra capitalisti monetari e capitalisti industriali, il ciclo del capitale si configura come D-D-M (MP, FL) … P … M’-D’-D’, dove il D-D iniziale è l’anticipo concesso dai primi ai secondi, caricato di un interesse che verrà detratto dal plusvalore al termine del circuito, in D’-D’2.

6Abbiamo visto in precedenza come il fatto che il metodo e la concettualizzazione adottata da Marx siano di origine hegeliana renda alquanto problematico l’uso delle traduzioni esistenti. Si può difficilmente sfuggire a una resa approssimata, con un qualche compromesso – sempre soggetto a contestazione – tra rigore e accessibilità. Ricordo soltanto, in estrema sintesi, i punti principali, mentre per una argomentazione approfondita rimando al quinto capitolo, anche per la bibliografia di riferimento. Darstellung non lo rendo con «rappresentazione» (come ho fatto io stesso in passato), ma come «esporre» o «esibire». Qui, in omaggio a una maggiore leggibilità, impiegherò la seconda traduzione. L’«esposizione» è, in termini monetari, una specificazione che verrà data per scontata nel seguito. L’esposizione è necessaria dal punto di vista della ricostruzione logica dell’«intero», e dunque connette interno ed esterno. Vorstellung è invece proprio la «rappresentazione» mentale, nozionale, «ideale»: è il modo con cui gli agenti si fanno una idea il più possibile coerente delle forme capitalistiche. Schein si riferisce ai fenomeni (ai «fatti») come percepiti alla superficie, scambiando quest’apparenza per l’essenza: in quanto tale, questo equivoco configura una spiegazione illusoria e volgare: qui si userà in generale il verbo «sembrare» o simili, e il sostantivo «parvenza». Erscheinung attiene piuttosto alla «manifestazione fenomenica» di quegli stessi fenomeni, intesi però ora come una presentazione spesso rovesciata e distorta delle leggi essenziali: in questo caso, userò anche il verbo «apparire». Ciò, come già ho ricordato nelle pagine precedenti, è coerente con la più recente letteratura marx-hegeliana. Aggiungo però alcune integrazioni terminologiche. Interpreto Ausdrücken in modo più forte di quanto sia usuale: si tratta di un «esprimere» che si riferisce a un movimento dall’interno (come realtà latente o potenziale) verso l’esterno come forma «oggettualizzata». Si tratta, in altri termini, del processo «genetico» – della formazione o costituzione – dell’oggetto della Darstellung3.

7Il problema principale a cui Marx rivolge la sua attenzione nel primo libro del Capitale è il seguente: come può la classe capitalistica ricevere dal processo economico più di quanto vi abbia immesso? Ciò che i suoi appartenenti immettono all’inizio nel processo, quale classe, è il capitale monetario, che esibisce – «espone» – in termini monetari il valore dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza richiesti per poter svolgere il processo di produzione nel periodo considerato. Ciò che essi ottengono, alla fine, è il valore monetario delle merci prodotte e vendute sul mercato delle merci. Da un punto di vista macroeconomico, è chiaro che la «valorizzazione» del capitale non può avere la propria origine nello scambio interno alla classe capitalistica, poiché qualsiasi profitto ottenuto da un produttore nel comprare a un prezzo più basso e rivendere a un prezzo più alto determinerebbe una perdita dello stesso ammontare per altri produttori. La «sorgente» del plusvalore deve essere rintracciata nel solo scambio che è esterno alla classe capitalistica, ovvero nella compera di forza-lavoro.

8L’argomentazione marxiana può essere messa in questi termini. Nel processo lavorativo capitalistico, la totalità dei lavoratori salariati riproduce i mezzi di produzione e produce un prodotto netto. Il prodotto netto si esibisce sul mercato come un «neovalore» in forma monetaria, un valore aggiunto al valore dei mezzi di produzione, storicamente ereditato dal passato. Il neovalore così aggiunto è nient’altro che l’espressione monetaria del tempo di lavoro oggettualizzato dai lavoratori salariati nel periodo corrente – è cioè, per così dire, la materializzazione in denaro del lavoro vivo da loro prestato. Marx la definisce più precisamente una «materiatura» (Materiatur), quasi che ciò che deve materializzarsi, quale elemento attivo, lo facesse trovando un materiale adatto alla bisogna quale oggetto passivo. Il «valore della forza-lavoro» per la classe dei lavoratori è dato dal lavoro contenuto nel monte salari monetari. Quest’ultimo, a sua volta, è regolato dal tempo di lavoro necessario alla riproduzione dei mezzi di sussistenza comprati sul mercato. Per questo il plusvalore deriva da un «pluslavoro»: è la differenza tra tutto il lavoro vivo speso nella produzione del prodotto (netto) complessivo del capitale, e quella porzione che si è dovuta dedicare alla riproduzione dei beni salario di sussistenza, una porzione che Marx definisce «lavoro necessario». Il lavoro necessario alla riproduzione della classe dei lavoratori non si riduce peraltro a questa grandezza, che è soltanto la sua porzione inclusa nel salario. È richiesto anche un lavoro necessario non pagato, di cui l’espressione principale è il lavoro domestico e di cura, sino a oggi prestato prevalentemente dal genere femminile.

La teoria della costituzione del valore e l’espressione monetaria del lavoro

9Il punto di partenza del ragionamento di Marx è rappresentato dall’idea che il capitalismo sia un’economia di scambio generalizzato di merci4. L’analisi dello scambio «in generale» è per questo prioritaria rispetto all’analisi dello scambio capitalisticamente determinato. Nello scambio in generale, i «produttori» individuali sono separati e in concorrenza l’uno con l’altro. Esiste, è chiaro, un lavoro «sociale» a livello di sistema: è la quantità di lavoro totale effettivamente messa in opera nel corso del periodo. Nulla però garantisce che l’allocazione settoriale di questo lavoro sia adeguata al bisogno sociale pagante, o che il lavoro venga svolto secondo le tecniche e l’intensità medie. Questo lo si potrà verificare solo ex post, al momento della «validazione» monetaria nella circolazione finale delle merci. Diversa la situazione nelle società precapitalistiche, o in quella comunista, dove il lavoro, dice Marx, è «immediatamente socializzato»: parte di una relazione sociale con altri all’interno della stessa produzione, regolata ex ante.

10Così è, a suo modo, nello stesso capitalismo, ma soltanto all’interno della produzione, in quanto nelle fabbriche, rette da una «divisione tecnica del lavoro», il lavoro è «immediatamente socializzato». Ma nel capitalismo questo «lavoratore collettivo», che progressivamente soppianta il lavoratore «individuale» (che, a stretto rigore, a un certo punto non produce alcun valore d’uso), è organizzato da un capitale in lotta di concorrenza con gli altri. È soggetto, quindi, alla sanzione del mercato, che deve stabilirne post factum l’adeguatezza all’interno di una «divisione sociale del lavoro»5. Il lavoro degli individui atomizzati nello scambio generale è immediatamente «privato». Diviene «sociale», di una socialità tutta particolare, soltanto sul mercato finale delle merci. Questo avviene indirettamente: ciascuna merce si dimostra uguale alle altre merci in determinate porzioni, cioè il suo valore di scambio è tanto quanto è il denaro (quale «equivalente universale») che si scambia con essa.

11Il denaro, per Marx, è una merce (sebbene particolare), con un potere d’acquisto universale. Il denaro come merce è l’esito di un processo storico di selezione ed esclusione sanzionato dallo Stato. Il «porre eguale» il valore dei prodotti, che ha luogo per il tramite del mercato, e che rende quei prodotti propriamente delle «merci», è al tempo stesso un pareggiamento reale dei lavori che hanno dato loro vita. Da un lato, il lavoro non è compiutamente sociale prima, ma lo diviene una volta che il prodotto si è trasformato in denaro: cioè in ricchezza universale o astratta. Dall’altro lato, il lavoro del singolo, che è sempre lavoro «concreto» che produce qualcosa che abbia una qualche utilità per qualcuno, «valori d’uso», per il produttore vale come il proprio opposto, cioè come lavoro «astratto»: cioè, come una quota del lavoro aggregato la cui socializzazione ex post (la validazione monetaria nella circolazione finale di merci) viene esibita in denaro nel valore del prodotto.

12È bene però prestare attenzione al punto su cui Marx insiste, esposto in dettaglio nel precedente capitolo. Sebbene sia soltanto attraverso il denaro che il lavoro «privato» si muta in lavoro «sociale» (socializzato sul mercato), non è tramite il denaro che le merci divengono commensurabili. Al contrario, le merci hanno «valore di scambio» perché, prima dello scambio finale sul mercato delle merci, esse hanno già acquisito la proprietà ideale di essere scambiabili universalmente, sono «valore» che deve esibirsi in una «forma di valore». Il denaro, dunque, non è altro che il valore stesso, resosi autonomo nella circolazione: separatosi dalle merci, ed esistente al loro fianco. Come tale esso è un’esposizione esteriore, una «oggettualizzazione», di lavoro astratto, solo indirettamente sociale.

13Vale la pena prima di proseguire di ricordare rapidamente i termini essenziali di questo snodo, così cruciale per la tesi marxiana che riconduce il valore al lavoro, e però sostanzialmente male inteso sino ai nostri giorni. Esso ha a che vedere con la famigerata dialettica della merce. La merce è unità di «valore d’uso», prodotto che ha utilità, e di «valore di scambio», rapporto quantitativo tra merci. Ma il valore di scambio cela un valore intrinseco alla merce. Tale valore «assoluto», come Marx talora lo chiama, è una «gelatina» (un fluido coagulato) di tempo di lavoro astratto «cristallizzato» nella merce. Cosa sia il lavoro astratto per Marx lo si può dire in breve: è il medesimo lavoro dotato di proprietà concrete che produce il valore d’uso, ma riguardato sotto quell’altro suo lato per cui ci si attende che produca, oltre che qualcosa di utile, anche denaro (e sia speso nella misura socialmente necessaria). Il punto di Marx è che il valore è, in prima battuta, inafferrabile: un vero e proprio «fantasma», che deve prendere possesso di un corpo per «esistere» davvero: il paradosso di un’entità «eterea» che però esiste già, almeno in potenza. Questa la sua sfida teorica.

14Non è poi difficile capire che il lavoro si «incorpora» nella sua dimensione concreta: l’espressione «lavoro incorporato» è in effetti impiegata da Marx sempre, e soltanto, per il lavoro utile che concretamente si «incarna» – altra espressione, abbiamo visto, significativa – nei valori d’uso: mai per il lavoro astratto che, semmai, viene qualificato come lavoro che è «contenuto» nelle merci. Quella espressione, «lavoro incorporato», vale dunque anche (e soprattutto!) per il lavoro concreto che s’incorpora nell’oro, in quanto denaro che è essenzialmente merce: ovvero nel denaro che, come scrive testualmente Marx, è «valore incorporato». Il valore come «fantasma» si è mutato a questo punto nella «crisalide» del denaro. Rubin ha visto bene come il lavoro astratto, in quanto attività, e il valore, suo risultato, esistano già, sia pure solo in forma latente, nella fase della produzione immediata, da cui esce non soltanto il valore d’uso prodotto ma il valore-come-forma, la merce come denaro ideale. La transizione dalla potenza all’atto si compie nella fase della circolazione, nello scambio sul mercato finale delle merci, dove il denaro conferisce realtà effettuale a quelle grandezze fantasmatiche, e denaro ideale diviene denaro reale.

15Il problema teorico che si pone in una prospettiva che vede la costituzione del valore all’intersezione di produzione e circolazione è la possibile dicotomia che si apre tra la fase della produzione (immediata), dove vigerebbe ex ante la disomogeneità e l’incommensurabilità dei lavori, e la sfera della circolazione (monetaria), dove soltanto ex post si instaurerebbe l’omogeneità e la commensurabilità. La soluzione di Marx, che qui si separa nettamente dall’impostazione di Ricardo per come l’abbiamo incontrata nel quarto capitolo, ma in realtà da tutta la teoria economica prima e dopo di lui, è quella di insistere sulla natura essenzialmente monetaria del valore6.

16Ricapitoliamo come Marx pensa di risolvere la questione. Le merci non si scambiano perché rese omogenee dal denaro. All’opposto: si scambiano contro denaro perché esse sono già commensurabili in quanto merci, prima dello scambio finale, come coagulazioni di lavoro astratto. Il denaro è passivo: una «materiatura». L’«esposizione» della merce nel denaro è dunque anche un’«espressione» del valore, secondo un movimento «dall’interno verso l’esterno». È il latente, il fantasma, a governare questa relazione. Com’è possibile? Per Marx, il valore latente è denaro in «potenza»: qualcosa che è già visibile nel «prezzo» da subito attaccato alla merce: e il prezzo è categoria immediatamente monetaria. In quanto denaro in potenza – denaro che è merce, prodotto di lavoro – sappiamo che il valore-come-forma, in cui si duplica il valore-come-contenuto, esprime quantità di lavoro. Per questo è misurabile in unità di tempo secondo una certa «espressione monetaria del tempo di lavoro (socialmente necessario)». Se la merce è già da subito denaro, sia pure solo «idealmente», e se il prezzo è la forma di denaro assunta dal valore delle merci, se dunque è già distinto dalla loro forma corporea e tangibile, il denaro è però anch’esso una merce, la merce «esclusa». Il lavoro astratto immediatamente privato che produce le merci che devono essere oggetto della «vendita» si specchia, in quanto lavoro astratto, in quell’unico lavoro concreto che vale come immediatamente sociale, nel lavoro che produce il denaro che effettua la «compera». In forza di questa metamorfosi con il denaro il lavoro astratto nella merce si convalida, nella circolazione, quale lavoro solo mediatamente sociale.

17Il problema che residua, e che Marx deve risolvere per poter andare avanti, è quello di passare, in questa deduzione, dal «qualitativo» al «quantitativo»: individuare l’ammontare di tempo di lavoro in cui si traduce il denaro ideale «immaginato» nel prezzo della merce. Detto in altro modo: come si determina, appunto quantitativamente, la «grandezza di valore» dell’equivalente universale? La risposta è, a ben vedere, immediata, e però sconcertante. Se il denaro è merce, il lavoro che lo produce deve esso pure essere lavoro privato. La traduzione quantitativa che Marx va cercando la trova nella metamorfosi di merce e denaro, al punto di produzione di quest’ultimo: ma, si badi, il denaro qui è mero «prodotto» non ancora mediato dallo scambio monetario, è l’oro in quanto metallo nobile. Scrive Marx nel secondo capitolo: il valore proprio del denaro è determinato dal tempo di lavoro richiesto per la produzione dell’oro, e si esprime nel quantum, nell’ammontare quantitativo definito, di quelle altre merci nelle quali si è coagulato tempo di lavoro astratto di entità pari al tempo di lavoro concreto coagulato in quel metallo. È per questo che il lavoro concreto e privato che produce l’oro come denaro «vale» come quel lavoro che è anche – ribadiamolo – l’unico immediatamente sociale, e che esibisce ed esprime la totalità dei lavori astrattamente umani che hanno prodotto quelle merci, che dunque sono sociali solo mediatamente.

18Più in dettaglio, Marx ragiona nel modo seguente. Per funzionare come denaro, l’oro deve entrare nel circuito in un punto determinato. Questo punto è alla fonte di produzione, dove l’oro si scambia come prodotto «immediato» di lavoro, contro un altro prodotto di lavoro «equivalente» in termini di lavoro contenuto. È dunque, a ben vedere, e Marx lo conferma, «baratto». È solo da questo punto in poi che l’oro, in quanto denaro, e dunque già forma trasformata della merce, «espone» prezzi di merci: ovvero, prezzi di merci non meramente «immaginati», attesi o nozionali, diremmo oggi – ma prezzi anche già realizzati. Si costituisce così la «circolazione» nel senso di Marx: e per lui non c’è circolazione che non sia essenzialmente monetaria. È solo da questo punto in poi che l’oro diviene denaro «ideale». È grazie alla fissazione della grandezza di valore dell’oro al punto di immissione nel circuito che si può vedere nella forma-prezzo il ponte per una determinazione quantitativa precisa, che traduca le grandezze monetarie ancora solo anticipate, attese, in ammontari già definiti di quantità di lavoro.

19Se l’analisi qualitativa dello scambio ha un contraltare quantitativo, e il prezzo esprime necessariamente lavoro, la «grandezza di valore» di una merce è, a sua volta, determinata dal tempo di lavoro «socialmente necessario» per la sua produzione. In ogni determinata branca di produzione, ogni merce di un dato tipo e di una data qualità è venduta al medesimo prezzo in denaro. La grandezza di valore è regolata non dal tempo di lavoro individuale effettivamente speso dal singolo produttore («valore individuale») ma dal tempo di lavoro che dev’essere speso in condizioni «normali», e con il grado «medio» di destrezza e intensità del lavoro (il suo «valore sociale»). La grandezza di valore è inversamente proporzionale alla produttività del lavoro produttore di merci. Visto che i «cristalli di valore» delle merci si manifestano necessariamente come «prezzi monetari» all’interno dello scambio, la grandezza di valore di una merce (le unità di lavoro in essa contenute) moltiplicata per l’«espressione monetaria del tempo di lavoro» (quanta moneta è prodotta da una unità di lavoro) dà ciò che viene definito da alcuni marxisti contemporanei il prezzo «semplice» o «diretto». Il valore di scambio «relativo» tra due merci è il rapporto tra i loro prezzi semplici. Esso è dunque proporzionale al rapporto tra i loro valori «assoluti» o «intrinseci». È in forza di ciò che è sempre possibile trasformare la misura esterna della grandezza di valore di ogni merce espressa in denaro (idealmente anticipata dai produttori prima dello scambio) nella misura immanente in unità di valore-lavoro.

20Si noti comunque che il valore non è affatto identico al prezzo inteso come proporzione arbitraria tra la merce e il denaro, fissata accidentalmente sul mercato. Il valore esprime invece la relazione necessaria con il tempo di lavoro (astratto) speso nella produzione delle merci. Perché il valore regoli effettivamente i prezzi di mercato è necessario che vi sia una coincidenza tra la domanda e l’offerta individuali. Quali che siano le possibili divergenze tra domanda e offerta individuali, il «prezzo» è il nome in denaro preso dalle merci: il lavoro che esso esibisce può differire rispetto al lavoro «socialmente necessario» che è «contenuto» nella merce. La massa complessiva delle merci nuovamente prodotte è vista da Marx come una quantità omogenea di valore, la cui espressione monetaria è necessariamente uguale al suo prezzo monetario complessivo. Una divergenza tra valori e prezzi non può che redistribuire il lavoro totale che è stato speso dai produttori, e che è il contenuto che si nasconde dietro la forma monetaria del valore assunta dal prodotto.

21L’argomentazione marxiana, che si trova dettagliata nelle pagine di apertura del Capitale, procede dal «valore di scambio» al «valore», quindi dal «valore» al «denaro», e infine dal «denaro» al «lavoro astratto». Può essere attaccata da vari versanti. Böhm-Bawerk non vede il lato monetario del valore di Marx, e il suo attacco si rivolge a quella che non può non apparirgli che come una deduzione banalmente lineare dal valore di scambio al valore, al lavoro astratto. La sua critica non è a questo punto insensata. Astrarre da valori d’uso determinati non significa affatto astrarre dal valore d’uso in generale. Poiché il valore di scambio inerisce anche a merci che non sono prodotti di lavoro, ne segue che le proprietà comuni che permettono lo scambio sul mercato e che sono nascoste dietro lo scambio vanno cercate nell’utilità e nella scarsità. Una critica più simpatetica nei confronti di Marx viene dagli autori appartenenti al filone della «forma di valore», che invece valorizzano il lato monetario del discorso marxiano. Mentre la connessione tra il valore e il denaro appare loro del tutto convincente, meno corretto sarebbe il rimando a un valore «assoluto» che sia fondato sulla spesa di lavoro nella produzione immediata. In quest’ultima, sostengono, si incontrano lavori concreti, in quanto tali eterogenei e non additivi: non il lavoro astratto, che come il valore è categoria attinente alla sola circolazione.

22Altri marxisti ancora, a partire da Engels, hanno sostenuto che i valori regolerebbero i prezzi soltanto nel contesto di una «società mercantile semplice», cioè in quella situazione nella quale i lavoratori si trovino a detenere la proprietà dei mezzi di produzione, e dove dunque il reddito venga distribuito integralmente ai lavoratori. Alcuni di loro si spingono a vedere nella cosiddetta «società mercantile semplice» un precedente storico del capitalismo, altri si accontentano di impiegarlo come un’ipotetica, fittizia, e imperfetta prima approssimazione all’analisi del capitalismo. Poiché nel capitalismo i prezzi concorrenziali che funzionerebbero come centri di gravità dei prezzi di mercato sono i «prezzi di produzione» (caratterizzati da un eguale saggio di profitto), poiché i prezzi di produzione divergono in generale dai «prezzi semplici», e poiché la «trasformazione» dei secondi nei primi viene giudicata problematica dalla maggior parte degli autori interni ed esterni al marxismo, questa interpretazione è divenuta una terza ragione per attaccare la teoria marxiana del valore.

23La difficoltà sotterranea, che riemerge in tutte queste difficoltà e che è la più profonda, è a mio avviso un’altra, e rimanda proprio all’inizio del Capitale, ai primi tre capitoli dove quella di Marx si configura come una teoria monetaria del valore-lavoro. Come si è visto alla fine del capitolo precedente e si è ripreso agli inizi di questo, al di fuori della riconduzione del denaro all’oro, il ragionamento di Marx diviene aporetico. Se si recide il percorso dal valore al denaro-merce, e se l’unica dimensione dei lavori nella produzione resta quella «privata» e «concreta», è il denaro che mette in relazione sociale i lavori, che li rende commensurabili – contro la tesi di Marx. Se il denaro è senza «valore», perché non è prodotto di lavoro, la teoria del valore-lavoro si dissolve. È appunto la conclusione degli autori dell’approccio della forma-valore. Se invece, come fanno gli autori dell’approccio del sovrappiù, seguaci di Sraffa, si parte da una configurazione produttiva data in termini «fisici», la dimensione monetaria viene aggiunta dall’esterno, in un secondo momento, a un nucleo economico già definito e analizzato in termini puramente reali: è l’interpretazione neoricardiana di Ricardo che abbiamo contestato nel quarto capitolo, ed è una lettura di Sraffa che, come vedremo nel settimo capitolo, si rivela fortemente parziale e limitata una volta che si tenga conto degli inediti.

24Se si esaurisce in questo il nucleo del discorso economico nelle sue determinazioni quantitative si cancella la rilevanza stessa del valore in senso proprio: l’analisi inizia quando il processo di produzione è ormai terminato, e prima dello scambio effettivo. Si produce una scissione tra primato del valore di scambio (l’analisi monetaria) e primato del valore d’uso (l’analisi reale), e si definisce un oggetto d’analisi in cui la problematica del Capitale è sostanzialmente espunta. Se si vuole recuperare una rilevanza di Marx, è altrove che bisogna rivolgersi, recuperando l’integrazione essenziale tra denaro e lavoro.

L’origine del plusvalore

25Una comprensione adeguata del sistema marxiano non può non tornare al punto di partenza, e sottolineare che lo scambio di merci si fa universale soltanto quando il modo di produzione capitalistico è dominante – quando i lavoratori sono costretti a vendere la propria forza-lavoro di contro al denaro come capitale, valore autovalorizzantesi. Per l’autore del Capitale il lavoro è il «contenuto» soggiacente alla forma di valore in base a una concatenazione più essenziale di quella che appare al lettore all’inizio del libro: una sequenza che va dal denaro (in quanto capitale) al lavoro (vivo, in quanto attività, «in movimento») al (plus)valore (in quanto esito di quell’anticipazione e di quella attività). Gli «individui» privati, separati e opposti, sul mercato delle merci, dove diventano sociali attraverso la metamorfosi dei loro prodotti in denaro, devono allora essere reinterpretati come «lavoratori collettivi» organizzati dai capitali particolari, in «concorrenza» reciproca.

26Presupponiamo inizialmente che le imprese capitalistiche producano per soddisfare la domanda effettiva, e assumiamo il punto di vista del capitale complessivo, che si articola in differenti rami di produzione, o industrie. I metodi di produzione (inclusi l’intensità e la forza produttiva del lavoro), l’occupazione e il salario reale sono tutti conosciuti. Marx procede attraverso un approccio che definiremo come il «metodo della comparazione», in omaggio ancora una volta a Rubin (che peraltro lo intende in modo diverso da quanto è qui svolto). La forza-lavoro acquistata dal capitale ha, come ogni altra merce, un valore di scambio e un valore d’uso. Il primo esibisce in moneta il «lavoro necessario», che è assunto come un dato prima della produzione: è determinato altrove, secondo l’esito del conflitto lavoro/capitale, e secondo modalità che Marx inizialmente intendeva indagare in modo più particolareggiato nel «libro sul lavoro salariato». Il secondo è il «lavoro vivo», o il lavoro «in atto» durante il processo di produzione, e la cui variabilità è intrinseca all’oggetto d’analisi del primo libro del Capitale.

27Se il lavoro vivo estratto dai lavoratori fosse uguale al lavoro necessario – se, cioè, il sistema economico permettesse soltanto il consumo riproduttivo da parte dei lavoratori, e la ricostituzione dei mezzi di produzione corrispondenti – non vi sarebbero pluslavoro e plusvalore. Sebbene ipotetica e capitalisticamente impossibile, questa situazione è, si badi, del tutto significativa e «reale», poiché un processo di produzione capitalistica che sia vitale deve essere in grado di riprodurre la popolazione lavoratrice al tenore di vita storicamente ereditato. In questo «flusso circolare» – per impiegare il termine di Schumpeter, corrispondente a una riproduzione semplice a tasso di profitto nullo – i prezzi relativi sono riducibili al rapporto tra prezzi semplici, e sono dunque proporzionali a ciò che viene solitamente definito come i «valori-lavoro».

28Il lavoro «vivo» dei lavoratori salariati, portatori della forza-lavoro, non è per sua natura una grandezza fissa ma essenzialmente variabile. Benché formalmente la sua quantità possa sembrare definita nel momento in cui è stipulato il contratto sul mercato del lavoro, essa viene erogata successivamente, nel luogo di produzione. La durata del tempo di lavoro può essere estesa oltre il limite del lavoro necessario, dando origine a un pluslavoro che prende la forma del plusvalore. Il «comando» del capitale sui lavoratori garantisce che questa potenziale estensione del lavoro vivo oltre il lavoro necessario abbia luogo effettivamente. Marx ipotizza che il prolungamento della giornata lavorativa sia il medesimo per ogni lavoratore, in modo tale che i profitti siano proporzionali all’occupazione, industria per industria. La loro somma nel sistema economico costituisce il plusvalore complessivo. Per non confondere l’indagine sull’«origine» del plusvalore con quella relativa alla sua «distribuzione» tra i vari capitali, Marx mantiene inalterati i rapporti di scambio, e cioè i «prezzi semplici», proporzionali al lavoro contenuto nelle merci. Si può quindi sottrarre, dalla quantità complessiva del lavoro «vivo» che è stato effettivamente estorto ai lavoratori nei processi lavorativi capitalistici, e che si è oggettualizzato nel neovalore aggiunto, la quantità di lavoro che è effettivamente «necessario» che i lavoratori eroghino per poter produrre l’equivalente dei propri beni salario.

29La comparazione che Marx mette in atto non è insomma quella tra la situazione dove piccoli produttori indipendenti di merci ricevono l’equivalente di un salario che è pari al reddito, e la situazione in cui si immagina che i capitalisti facciano profitti grazie a una riduzione equiproporzionale dei salari, industria per industria (è il paragone che, in un modo o nell’altro, immaginano Croce, lo stesso Rubin, Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci: ci torneremo nel prossimo capitolo). La comparazione è piuttosto tra due situazioni capitalistiche del tutto reali ed effettive, dove il fattore determinante della distinzione è la «continuazione» della giornata lavorativa, rimanendo immutato il sistema dei prezzi – se si vuole, la regola della loro determinazione. Un’implicazione della regola del prezzo adottata da Marx nel primo libro è che il tempo di lavoro esibito nel salario monetario (ma sarebbe meglio dire: nel valore della forza-lavoro) sia eguale al tempo di lavoro necessario alla produzione dei mezzi di sussistenza acquistati sul mercato dai lavoratori. Se la contrattazione sul mercato del lavoro rispetta il consumo reale della classe dei lavoratori secondo una sussistenza storicamente e socialmente determinata, e se si suppone che le aspettative delle imprese in merito alle vendite vengano integralmente confermate sul mercato finale delle merci, il processo di autoespansione del capitale è determinato, senza infrangere le regole dello scambio di merci e senza incontrare intoppi nella circolazione, dallo sfruttamento della classe lavoratrice nei laboratori della produzione.

30La possibilità di ottenere un pluslavoro si dà sempre, non appena la produttività del lavoro abbia raggiunto un certo livello. Il punto chiave di Marx, il lettore già lo sa, è che il carattere peculiare della merce forza-lavoro è che essa è inestricabilmente «attaccata» al corpo dei lavoratori, che possono resistere alla costrizione del capitale. Nel capitalismo si dà formazione di valore soltanto se c’è formazione di plusvalore, ovvero «valorizzazione» in senso proprio. La valorizzazione potenziale, che è attesa nella compravendita della forza-lavoro, si realizza soltanto se la classe capitalista porta a termine con successo la lotta di classe nella produzione e fa lavorare i lavoratori. Questa è, a ben vedere, la giustificazione fondamentale dell’idea che il lavoro è l’unica sorgente del valore. Il valore non è nient’altro che lavoro, esibito ed espresso in denaro, perché il plusvalore – la vera ricchezza capitalistica – dipende causalmente dalla oggettualizzazione del lavoro «vivo» dei lavoratori salariati. Ciò avviene nei processi lavorativi capitalistici come luoghi «contesi»: sedi di conflitto e di un possibile antagonismo.

31Questa fondazione del nesso valore-lavoro (come neovalore originato da lavoro vivo), che si trova esposta nel capitolo quinto del primo libro del Capitale, non è legata a filo doppio al denaro come merce, quale è quella dei primi tre capitoli della prima sezione. Può essere riformulata all’interno di un’esposizione del processo capitalistico in termini sequenziali, in una logica «macromonetaria»7. È vero che il credito bancario che consente alle imprese di finanziare l’attivazione della produzione ha natura creditizia ed è moneta-segno, e non ha dunque in sé un corrispettivo in lavoro. Ma il monte salari di sussistenza, che è stabilito dal conflitto sociale, corrisponde a un certo salario reale per la classe dei lavoratori: e a quel monte salari reale, date le tecniche, corrisponde invece una certa quantità di lavoro «contenuto» necessario alla sua produzione. Si potrebbe anche dire così: una volta che sia dato il salario contrattato sul mercato del lavoro, il capitale variabile anticipato in moneta, anche se corrisponde a un finanziamento bancario alla produzione in sé privo di «valore», ha un preciso potere d’acquisto, consistente nel numero dei lavoratori che le imprese, con quella somma di denaro, potranno acquistare. A quella occupazione corrisponde un ben determinato contenuto di valore, ovvero il tempo di lavoro che è richiesto a produrre la sussistenza.

32Nel corso della produzione – beninteso: se i capitalisti riescono a estrarre lavoro vivo, e se riescono a vendere le merci secondo le loro aspettative: le due incertezze caratteristiche del processo capitalistico – da quella forza-lavoro viene erogato lavoro vivo secondo un certo tempo di lavoro socialmente necessario. Ai prezzi attesi, prima dello scambio finale, ciò consente di dare espressione monetaria al neovalore prodotto. Anche se questa massa ideale di denaro, presa di per sé, è costituita da puri segni, il valore corrispondente può essere agevolmente derivato dalla oggettualizzazione di lavoro nelle merci da vendere sul mercato. Un’impostazione del genere ha poi un altro vantaggio. Il capitale monetario anticipato costituisce una vera e propria «ante-validazione» monetaria dei lavori nella produzione, quale produzione capitalistica di merci, e li rende omogenei come lavoro astratto, lavoro vivo dei salariati che vale come produttore di (plus)denaro.

33Il legame tra denaro (come capitale) e lavoro (vivo) è esattamente ciò che ristabilisce la sequenza marxiana dall’interno verso l’esterno: dal processo immediato di produzione (valore come denaro ideale) al processo di circolazione (valore come denaro realizzato). Si dà qui il passaggio dalla teoria monetaria del valore-lavoro alla teoria macromonetaria del processo capitalistico di produzione.

Plusvalore assoluto, plusvalore relativo e doppio significato dello sfruttamento

34Nel capitalismo la capacità tecnica di dar vita a un «sovrappiù», a una eccedenza di merci sui reintegri di mezzi di produzione e mezzi di sussistenza, è un esito endogeno determinato dalla forma sociale assunta dalla produzione. Date le tecniche e il salario reale uniforme, il lavoro necessario lo si può ritenere costante. In queste condizioni il plusvalore può essere estratto per mezzo del prolungamento della giornata lavorativa. Questo metodo di incremento del plusvalore viene definito da Marx «estrazione di plusvalore assoluto». Quando la lunghezza della giornata lavorativa è legalmente e/o conflittualmente determinata, il capitale può incrementare il plusvalore per mezzo dell’«estrazione di plusvalore relativo» attraverso il cambiamento tecnico o per il tramite dell’aumento dell’intensità del lavoro.

35I mutamenti nei mezzi di produzione incrementano la «forza produttiva del lavoro»: il numero di merci prodotte nell’unità di tempo data l’intensità di lavoro, riducendo il loro valore unitario. Lo stesso esito può essere ottenuto tramite maggiore «sforzo» lavorativo, con un condensamento dei pori del tempo di lavoro, e cioè un aumento dell’intensità del lavoro. L’introduzione ovunque di nuovi e migliori metodi di produzione si estende alle imprese che, direttamente o indirettamente, producono beni salario. Si determina così una flessione del lavoro necessario, e quindi una riduzione del valore della forza-lavoro. Questo, a parità di giornata lavorativa, consente l’estrazione di maggior pluslavoro, e genera un maggior plusvalore. Il «progresso» nelle tecniche di produzione, che è alla base del plusvalore relativo, è un modo più potente di controllare la prestazione lavorativa rispetto al semplice «controllo» personale necessario all’ottenimento del plusvalore assoluto.

36Grazie al passaggio dalla «cooperazione» alla «divisione manifatturiera del lavoro», e poi al «sistema di macchine» e alla «grande industria», si costituisce un modo di produzione specificamente capitalistico. In quest’ultimo il lavoro non è più soltanto sussunto «formalmente» al capitale – con l’estrazione del plusvalore che procede all’interno di quella struttura tecnologica che il capitale si trova di fronte storicamente – ma è sussunto anche «realmente», perché le stesse tecniche di produzione sono ora conformi al capitale. I lavoratori diventano meri sorveglianti e «appendici» dei mezzi di produzione, i quali a loro volta fungono da mezzi di assorbimento della forza-lavoro in atto. Le proprietà concrete e le capacità che i lavoratori posseggono provengono da una struttura produttiva rivoluzionata incessantemente dall’interno, progettata per «comandare» il lavoro vivo all’interno del processo di valorizzazione. Il lavoro, nel momento stesso dell’attività, non solo «vale» come ma è puramente astratto, indifferente alla sua particolarità concreta (che viene sempre più determinata dal capitale). Ha perso la natura di elemento attivo ed è diventato l’oggetto passivo della manipolazione capitalistica nella ricerca del plusvalore. Questo svuotamento del lavoro da tutte le determinatezze qualitative e la sua riduzione a mera quantità comprende sia la tendenza storicamente dominante alla dequalificazione, sia le ricorrenti fasi di parziale riqualificazione.

37È necessaria una riflessione per poter apprezzare i caratteri peculiari di questa realtà sociale. Il plusvalore deriva dallo sfruttamento dei lavoratori in un duplice senso. Si dà sfruttamento perché nella divisione della giornata lavorativa sociale i lavoratori scambiano più lavoro (vivo) contro meno lavoro (necessario). Qui la prospettiva è quella della nozione distributiva, tradizionale, dello sfruttamento, che considera la divisione della quantità di lavoro sociale contenuta nel neovalore. La sua misura è il pluslavoro. Questo è però il risultato di uno sfruttamento dei lavoratori in una accezione più fondamentale. La ricchezza capitalistica proviene dall’uso della loro capacità di lavorare. Quest’uso perverte il carattere del lavoro che è reso astratto – cioè «puro e semplice»: eterodiretto nella forma «scandalosa» di un impiego degli esseri umani che li riduce a portatori di forza-lavoro/erogatori di lavoro vivo, predicato del proprio predicato – già nella produzione. La misura quantitativa di questa nozione produttiva di sfruttamento, che si riferisce alla formazione piuttosto che alla distribuzione del nuovo valore aggiunto, è l’intera giornata lavorativa. Da questa seconda prospettiva, lo sfruttamento si identifica con il processo di estrazione del lavoro astratto.

38Sappiamo già che il lavoro astratto riflette una «inversione di soggetto e oggetto» (o, più precisamente, un’ipostasi reale), che si approfondisce nel percorso teoretico che va dal mercato delle merci al mercato del lavoro fino al processo di produzione. Nello scambio sul mercato delle merci, il lavoro «oggettualizzato» è astratto perché, nella misura in cui viene esibito monetariamente nel valore, il prodotto dell’attività lavorativa umana si presenta come una realtà indipendente ed estraniata, separata dalla sua origine nel lavoro vivo. La conseguente «alienazione» degli individui è a un tempo «reificazione» e «feticismo». Reificazione: perché in un’economia capitalistica che produce merci, le relazioni tra esseri umani nella produzione e nell’attività prendono necessariamente la forma materiale di uno scambio tra cose. Feticismo, perché, di conseguenza, i prodotti del lavoro – che realmente, in quanto merci, hanno «carattere di feticcio» in questa configurazione dei rapporti sociali – sembrano dotati di proprietà sociali come se queste ultime fossero una loro proprietà naturale. Queste caratteristiche riappaiono intensificate negli altri due momenti del circuito capitalistico. Sul mercato del lavoro, gli esseri umani diventano «personificazioni» della merce che vendono, la forza-lavoro o lavoro «in potenza». Nella produzione, il lavoro vivo o lavoro «in atto» organizzato dal capitale come «valore in processo» e incorporato in una specifica organizzazione materiale per la creazione di valori d’uso – specificamente progettata per rinforzare l’estrazione di plusvalore – è il vero Soggetto astratto del quale i singoli lavoratori concreti che lo svolgono sono i predicati. Il capitale, quale valore autovalorizzantesi, è omologo all’Idea Assoluta di Hegel, che si compie riproducendo interamente le proprie condizioni di esistenza. Però ora è chiaro che la prospettiva di Marx è diversa, e in qualche modo opposta: il capitale è infatti soggetto al limite «materiale» determinato dal fatto che i lavoratori possono resistere alla incorporazione che vuole ridurli a meri momenti meccanici del meccanismo interno del capitale.

39Ciò comporta che dietro l’«anarchia» della «divisione sociale del lavoro» sia presente una «divisione tecnica del lavoro» nella produzione. In quest’ultima, sotto l’imperativo della valorizzazione, si determina una pianificazione dispotica a priori delle imprese capitalistiche che conduce a un eguagliamento «tecnologico» e a una pre-commensurabilità sociale della spesa di forza-lavoro, che cerca di anticipare la validazione finale sul mercato delle merci. Questo processo impone al lavoro – già all’interno della produzione diretta e prima dello scambio – le proprietà quantitative e qualitative di lavoro astratto speso in misura socialmente necessaria. La pre-commensurazione del lavoro nella produzione, a sua volta, è soggetta a quella ante-validazione monetaria costituita dal finanziamento della produzione, che i capitalisti monetari garantiscono ai capitalisti industriali. Una volta che il capitalismo ha raggiunto la sua piena maturità nell’industria su larga scala, la soggezione del lavoro vivo dei salariati al capitale, e la conseguente astrazione del lavoro nella produzione devono essere visti come il fondamento dell’astrazione del lavoro che si dà nello scambio sul mercato delle merci.

Una nuova prospettiva sulla teoria marxiana del valore come teoria della forma (capitalistica) del lavoro

40Fermiamoci per mettere in evidenza tre aspetti di questo modo di leggere la teoria del valore-lavoro, che illuminano questioni centrali sfuggite alle altre tradizioni interpretative.

41Il primo aspetto è che nel «ciclo del capitale» il valore non si costituisce né nella produzione né nella circolazione considerate isolatamente: i due corni, entrambi falsi, su cui si è arenato il dibattito. Il valore invece, letteralmente, emerge dall’intersezione di produzione e circolazione che scandiscono il flusso del processo capitalistico. Il capitale – valore, denaro, che figliano plusvalore, plus-denaro – si pretende una totalità chiusa in se stessa. Una totalità che, come si è detto, pare porre «automaticamente» i propri presupposti, in un movimento a spirale: il che è certo vero, ma non è tutta la storia. Il plusvalore prodotto, che è la forma di valore di parte del lavoro vivo che è stato speso nel periodo, diviene il tutto che acquista i mezzi di produzione e la forza-lavoro, e in questo modo sarebbe in grado di dar luogo a una crescita su se stesso, puramente quantitativa. È qui che Marx può sembrare nient’altro che l’applicazione del circolo hegeliano, epistemologico e ontologico, alla realtà capitalistica8. Dove però è massimo il punto di contatto con il filosofo di Stoccarda, maggiore è anche la distanza, a mio parere. Il valore e il denaro non si accrescono per partenogenesi ideale, ma solo perché, in quanto lavoro morto, riescono a includere dentro di sé, e a comandare dentro una particolare forma della messa al lavoro, quell’alterità radicale che è la forza-lavoro umana, inseparabile dai lavoratori in carne e ossa. La forza-lavoro vivente, acquistata col salario, diviene «parte» (variabile) del capitale. Messa in movimento, come lavoro vivo, produce il neovalore e dunque il plusvalore, che investito dà origine a tutto il capitale.

42Il secondo aspetto da mettere in rilievo è che la totalità del capitale esiste solo nella misura in cui si costituisce uno specifico «rapporto sociale di produzione». Quest’ultimo non può essere dato per riprodotto, per così dire, macchinalmente dalla totalità stessa. La prospettiva marxiana dal quinto capitolo del primo libro «apre» quella totalità, in una certa misura la «rompe». Quel rapporto è articolato in due momenti, che precedono lo scambio finale di merci sul mercato: la compravendita della forza-lavoro sul mercato del lavoro, prima; l’uso della forza-lavoro nel processo capitalistico di lavoro, cioè il lavoro come attività, il lavoro vivo, poi. Circolazione e produzione, di nuovo. Senza la prima, senza cioè l’acquisto della capacità lavorativa per il tramite del salario monetario, niente produzione: perché nel capitalismo concepito allo stato puro i lavoratori non sono schiavi o servi della gleba, ma soggetti «liberi» ed «eguali», la cui forza-lavoro può essere soltanto affittata per un tempo determinato. La seconda, la produzione, è sede di uno sfruttamento nell’accezione distributiva del termine soltanto se si può argomentare non solo che il neovalore è superiore al valore della forza-lavoro, ma anche che il primo (il neovalore) è riducibile senza residui al lavoro oggettualizzato dal lavoro vivo in questo periodo, e il secondo (il valore della forza-lavoro) alle ore di lavoro necessarie a produrre i beni acquistati dalla classe lavoratrice e corrispondenti alla sussistenza. Non è molto interessante mantenere un riferimento filosofico alla teoria del valore come teoria dell’alienazione, o all’antagonismo profitti/salari nella distribuzione. Di tali genericità l’autore del Capitale non avrebbe saputo che farsene, né si sarebbe accontentato di ripetere Ricardo.

43È la visione «produttiva» dello sfruttamento, come consumo di lavoratori e lavoratrici, e coestensiva all’intero tempo di lavoro, a essere un contributo massimamente originale in Marx. Ed è questo il terzo e ultimo aspetto da comprendere bene: cioè che, con il suo «metodo della comparazione», nel senso che abbiamo indicato, Marx è in grado di fondare la teoria (monetaria) del valore-lavoro come teoria della costituzione del valore attraverso l’uso della forza-lavoro vivente. L’identità tra neovalore e lavoro vivo dei salariati, costitutiva del capitalismo e solo del capitalismo, e dunque la sua tesi dello sfruttamento, tutto è meno che un «postulato» da cui muoverebbe la deduzione analitica, come predica molto marxismo contemporaneo (ci torneremo in questo e nel prossimo capitolo). Il punto chiave del Capitale, contro uno hegelismo male inteso, è allora l’impossibilità del capitale come Soggetto autosufficiente, irenicamente pacificato dal conflitto o dall’antagonismo. Lo si capisce bene se si tiene a mente la metafora insistita, da prendere tremendamente sul serio, del capitale come «vampiro», che abbiamo già incontrato. Il contenuto analitico di quella che Franco Moretti ha felicemente definito la «dialettica della paura» è stringente. Il capitale anticipato, e gli stessi mezzi di produzione in quanto capitale, sono nient’altro che lavoro «morto». Ma si tratta di un «morto vivente». Un morto che torna alla vita succhiando il sangue dei lavoratori, e così riproduce morte. È quanto scrive Marx nella citazione che abbiamo riportato in conclusione del quinto capitolo: il capitale è un mostro meccanico, che può produrre e riprodursi soltanto «incorporando» – in un secondo senso: inglobando, interiorizzando – i portatori viventi della forza-lavoro, per poter estrarre lavoro vivo, fonte del valore. A questo punto soltanto si anima e si muove freneticamente, «come se avesse amore in corpo»: per poi, come chiarisce il rimando al Faust di Goethe, subito tornare allo stato di morte, visto che il vivente perde la sua essenza vitale nel rapporto col morto. Solo grazie alla propria natura di vampiro il capitale trasforma la crisalide – l’«incarnazione», nel corpo del denaro, del fantasma del valore – in farfalla: valore che figlia più valore; lavoro morto che torna alla vita, e ammassa sempre più lavoro morto. In questa dialettica mostruosa di corpi che divorano corpi – il corpo del denaro, il corpo delle macchine e dei mezzi di produzione, il corpo dei lavoratori – sta il cuore di tenebra del Capitale.

44Dire vampiro significa però dire non solo inclusione nel capitale del lavoro ma anche dipendenza del capitale dal lavoro. Che tipo di dipendenza? Il capitale ha bisogno, dentro la produzione immediata, del «fluido» vivificante del lavoro come attività: movimento che toglie il valore/denaro dalla sua fissità e dà vita, appunto mostruosa, al capitale. Per ottenere lavoro nella produzione il capitale deve prima, sul mercato del(la forza-)lavoro, acquistare la capacità lavorativa. Ma, lo abbiamo già ricordato, il capitale non può davvero «staccare» né la forza-lavoro né il lavoro vivo da lavoratori e lavoratrici come portatori viventi di lavoro «in potenza». L’«ipostasi reale», ovvero la sostantificazione dell’astratto e l’inversione di soggetto e predicato, di cui è fatto il capitale, significano che la forza-lavoro, come parte del capitale, e il lavoro vivo, come attività che produce tutto il capitale, sono il Soggetto, di cui i lavoratori sono nient’altro che un predicato, o un’appendice. Il capitale ha acquistato la forza-lavoro. Ha perciò il pieno diritto di usarla: è sua. È il diritto del compratore di una merce: di una mela, come della forza-lavoro. Il valore d’uso è «alienato» con la vendita, non riguarda più il venditore. È però altrettanto vero, in un senso del tutto trasparente, che la forza-lavoro e il suo uso continuano, al tempo stesso, ad appartenere a lavoratrici e lavoratori.

45Per questo, la teoria non può e non deve dare per scontato che il lavoro ottenuto nella produzione corrisponda a ciò che il capitale si attende al momento della contrattazione nel mercato del lavoro. Il capitale deve tenere a bada un possibile conflitto o persino antagonismo. Deve conquistare l’egemonia, la cooperazione, addirittura il consenso. Lo fa, si è visto, controllando direttamente i lavoratori e grazie a una tecnologia fatta a sua immagine e somiglianza. Impossibile in questa dinamica separare estrazione di plusvalore assoluto e relativo, non vedere la simultaneità dei tempi dello sfruttamento9.

Capitale e concorrenza

46Il risultato del processo complessivo di valorizzazione può essere riassunto con l’aiuto di alcune definizioni. Marx chiama la parte del capitale monetario investito dalle imprese nell’acquisto di mezzi di produzione «capitale costante». La ragione è che, attraverso la mediazione del lavoro concreto, il valore delle materie prime e degli strumenti di produzione è trasferito al valore del prodotto. Chiama la restante parte del capitale monetario investito dalle imprese per comprare la capacità lavorativa e così incorporare la forza-lavoro vivente nel processo capitalistico di lavoro «capitale variabile». La ragione è che quando il lavoro vivo è estratto dalla capacità di lavoro, nella forma del lavoro astratto, esso non si limita a reintegrare il valore investito dai capitalisti, ma produce anche un valore eccedente, un plusvalore. Il capitale costante e il capitale variabile non devono essere confusi con il capitale «fisso» e con il capitale «circolante». Il capitale fisso è il capitale investito in macchinari, impianti e mezzi di produzione che durano più del periodo considerato, e che viene recuperato solo pro rata nel valore del prodotto annuale. Il capitale circolante è il capitale speso per salari, beni intermedi e materie prime, che viene invece integralmente recuperato nel valore del prodotto annuale. Il rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile è ciò che Marx chiama «saggio del plusvalore». Esso esprime esattamente il grado dello sfruttamento, inteso come l’appropriazione da parte del capitale del plusvalore come quota della giornata lavorativa sociale espressa in moneta. Maggiore (minore) è questo saggio, di più (di meno) sono le ore spese dalla classe dei salariati a lavorare per la classe capitalistica in rapporto alle ore che essi spendono a produrre i beni che consumano. Una ripartizione analoga tra capitale costante, capitale variabile e plusvalore può essere individuata nel valore del prodotto dei singoli capitali quali parti aliquote del capitale complessivo.

47È del tutto naturale che i capitalisti mettano in relazione il plusvalore con il capitale complessivo anticipato. Il plusvalore rapportato alla somma del capitale costante e del capitale variabile prende il nome di «profitto», e questo nuovo rapporto è dunque il «saggio del profitto». Anche solo per questo cambio di denominazione, pur nella identità quantitativa (a questo stadio dell’argomentazione) il saggio del profitto oscura la necessaria relazione interna di causa-effetto tra lavoro vivo e neovalore e dunque tra pluslavoro e plusvalore: proprio perché mette in rapporto il plusvalore non soltanto con il capitale variabile, ma anche con il capitale costante. Il profitto appare – si manifesta necessariamente alla superficie – come prodotto di tutto il capitale, inteso come «cosa» (che sia concepita come somma monetaria o insieme dei mezzi di produzione qui poco importa), compresi i lavoratori quali cose tra cose, e non invece come una «relazione sociale» tra classi. Tuttavia, questa mistificazione «feticistica» non è riducibile a mera illusione. Essa discende necessariamente dalla circostanza che, per sfruttare il «lavoro», gli esseri umani portatori viventi di forza-lavoro, il capitale deve essere investito non soltanto come capitale variabile ma anche, simultaneamente, come capitale costante. Da questo punto di vista il monte salari è una parte del capitale allo stesso titolo della somma monetaria che acquista i mezzi di produzione e le materie prime. In questo senso il saggio di profitto esprime esattamente il grado di valorizzazione di tutto il valore investito come capitale.

48Prima di procedere, è necessario comprendere il ruolo cruciale, e il significato peculiare, che ha la categoria ancipite di «concorrenza» in Marx.

49A dispetto di una lunga tradizione interpretativa, e del metodo originariamente disegnato da Marx, la concorrenza è, nel Capitale, un carattere essenziale della realtà capitalistica. Ciò che i capitali hanno in comune, la tendenza immanente del «capitale in generale», è produrre denaro a mezzo di denaro. Questo risultato si afferma sistematicamente solo come esito dello sfruttamento della classe lavoratrice. Marx dovette convincersi che questa natura «profonda» del capitale si realizza soltanto grazie alla lotta dei «molti capitali», che si oppongono l’un l’altro. Ciò doveva essergli in verità già chiaro dalla definizione di base dei concetti di lavoro astratto e valore. Il lavoro socialmente necessario, infatti, si definisce come tale grazie alla validazione monetaria ex post che nella circolazione finale deve sanzionare, appunto, come sociale la produzione delle imprese capitalistiche. La cosiddetta «legge del valore» – la determinazione dei «valori sociali» quali regolatori della produzione capitalistica, ovvero quali rapporti di scambio che individuano una qualche allocazione di equilibrio del lavoro sociale – si afferma sui capitali individuali soltanto attraverso il loro mutuo contrapporsi sul mercato.

50Esistono però due tipi di concorrenza in Marx10. La prima è la concorrenza infra-settoriale, o «dinamica»: il lato di Marx che fu di grande ispirazione per Schumpeter. All’interno di ogni industria si dà una stratificazione di metodi di produzione, grazie alla quale le singole imprese possono essere classificate in relazione alla loro alta, media o bassa produttività. Il valore sociale di una merce tende al valore individuale delle imprese che producono la massa maggiore delle merci vendute in quel settore. Ciò implica che un cambiamento significativo nella domanda può avere ricadute sulla grandezza del valore sociale. Quelle imprese il cui valore individuale è più basso (alto) del valore sociale ottengono un plusvalore che è più alto (basso) del normale. Si determina così per i capitali singoli un incentivo permanente all’innovazione allo scopo di guadagnare un «plusvalore extra», quale che sia il ramo di produzione che si considera.

51Questo processo di natura «micro-economica» descrive i comportamenti individuali che spingono all’estrazione sistematica di plusvalore relativo, indipendentemente dalle motivazioni coscienti dei singoli capitalisti. Per Marx, i nuovi e più avanzati metodi di produzione che incrementano la forza produttiva del lavoro s’incarnano in processi lavorativi più meccanizzati. In questo modo la «composizione tecnica del capitale» cresce, ovvero cresce il rapporto «fisico» o materiale tra mezzi di produzione e forza-lavoro vivente impiegata. Tutto ciò si esprime in un aumento nel rapporto tra capitale costante e capitale variabile se misurati ai valori (o prezzi) dominanti prima dell’introduzione dell’innovazione – è questa la grandezza che Marx definisce «composizione organica del capitale». Ma la «svalorizzazione» – la diminuzione del valore – delle merci come risultato della stessa innovazione, se coronata dal successo, non può non investire anche il settore che produce mezzi di produzione. In totale coerenza con la propria teoria del valore, e a dispetto del fatto che Marx pare escludere una occorrenza del genere, è perfettamente possibile registrare, invece che un aumento, una caduta della «composizione in valore del capitale», ovvero dell’indice in valore della composizione del capitale una volta che quest’ultimo sia misurato ai valori (o prezzi) dominanti dopo il generalizzarsi dell’innovazione. Il punto, come vedremo, è di non poco rilievo per la teoria della crisi11.

Il «problema della trasformazione»

52La lotta per assicurarsi il plusvalore extra, anche se solo temporaneamente, esprime la tendenza a uno sventagliamento del saggio di profitto all’interno di una data industria. Esiste però una seconda nozione di concorrenza, inter-settoriale, o «statica», che rappresenta teoricamente la tendenza alla perequazione dei saggi di profitto tra diverse industrie. In questo secondo caso pare profilarsi una contraddizione analitica. Il saggio di profitto, abbiamo visto, è il rapporto tra il plusvalore (nella forma del profitto) e l’intero capitale investito. Assumiamo, per semplicità, che tutto il capitale sia capitale circolante. Se il numeratore e il denominatore vengono entrambi divisi per il capitale variabile, il saggio di profitto si rivela funzione diretta del saggio di plusvalore e funzione inversa della composizione (in valore) del capitale. Se assumiamo inoltre che la concorrenza renda uniformi sia la lunghezza della giornata lavorativa che il salario medio unitario, allora il saggio di plusvalore sarà il medesimo nelle varie industrie. Non vi è però alcuna ragione di assumere una analoga uniformità per quel che riguarda la composizione del capitale. Se i prezzi «normali» fossero i prezzi «semplici», il saggio di profitto sarebbe difforme nei diversi rami di produzione, tranne che in casi del tutto particolari, in contrasto con l’ipotesi «classico-ricardiana» di libera concorrenza dovuta alla mobilità dei capitali. I «prezzi di produzione» – quei prezzi che includono un profitto eguale nei vari settori, proporzionale al capitale anticipato e non al lavoro occupato – non possono che divergere dai prezzi «semplici».

53Marx offre l’abbozzo di una soluzione al problema nel terzo libro del Capitale. I prezzi di produzione devono essere compresi teoricamente come i prezzi semplici «trasformati» secondo una riallocazione del plusvalore tra le imprese. Possono essere fissati applicando un saggio «medio» del profitto al capitale investito in ogni industria, calcolato a partire dai prezzi semplici. Il saggio medio di profitto, a sua volta, è computato come il rapporto tra il plusvalore complessivo e la somma del capitale costante e del capitale variabile investiti in tutta l’economia. Il saggio di profitto aggregato è, insomma, un rapporto dove tanto il numeratore quanto il denominatore sono espressi in grandezze proporzionali ai «valori-lavoro», o se si preferisce valutate ai prezzi «semplici»: il numeratore riflette il lavoro astratto complessivo coagulato nel plusvalore; il denominatore, il lavoro astratto complessivo coagulato nel capitale anticipato. Come tale, il saggio medio di profitto è il ponte necessario per effettuare una «mediazione» tra i prezzi «diretti», che rendono trasparente la genesi del valore e plusvalore, e i prezzi «di produzione», che rappresentano il pieno operare della libera concorrenza tra le varie industrie. Il plusvalore complessivo viene ripartito tra i capitali individuali secondo la loro grandezza relativa. Il profitto ottenuto da un dato capitale può essere più alto o più basso rispetto al plusvalore prodotto dalla forza-lavoro comperata dalla sua parte variabile, se la sua composizione (in valore) è più alta o più bassa della media. Nel procedimento della «trasformazione» Marx intende rispettare due eguaglianze aggregate: la somma dei prezzi semplici deve essere uguale alla somma dei prezzi di produzione, e la somma dei plusvalori alla somma dei profitti. Inoltre, il saggio di profitto espresso in prezzi (di produzione) è uguale a quello espresso in valori (in prezzi semplici). Una volta che la concorrenza intersettoriale viene introdotta nel quadro teorico, i prezzi di produzione sostituiscono i valori sociali come centro di gravità dei prezzi di mercato.

54Dalla fine dell’Ottocento si è sviluppato un lungo dibattito per porre rimedio a quello che molti hanno reputato un «errore» del procedimento della trasformazione, riconosciuto dallo stesso Marx. Pare esservi una determinazione duplice e incoerente del prezzo delle stesse merci, se considerate come input (mezzi di produzione e merci costitutive della sussistenza) o come output. Quando sono considerate come input, le merci vengono valutate ai prezzi semplici. Quando vengono considerate come output, le merci vengono valutate ai prezzi di produzione12. La tradizione che inizia con Dmitriev, Bortkiewicz e Tugan-Baranowski, e che raggiunge la maturità con Seton, abbandona il metodo «successivista» proprio di Marx, e opera la trasformazione per il tramite di un sistema di equazioni simultanee. Prendendo come data la configurazione produttiva (gli input e gli output) e il salario reale, è possibile determinare i prezzi di produzione, ma le due eguaglianze marxiane non possono essere entrambe rispettate (se l’una è assunta come condizione di normalizzazione, l’altra è infranta, e viceversa); inoltre, il saggio di profitto in prezzi di produzione devia dal saggio di profitto espresso in prezzi semplici. Ad aggravare le cose, come ha chiarito l’interpretazione di Steedman del modello di determinazione dei prezzi di Sraffa, la teoria del valore-lavoro sembra essere del tutto ridondante in un quadro analitico del genere. I valori-lavoro sono definiti essi stessi a partire dal dato «fisico» dei metodi di produzione e delle condizioni di sussistenza dei lavoratori: ma una volta noti quei metodi e quelle condizioni, cioè una volta nota la configurazione produttiva, i prezzi di produzione possono essere determinati direttamente. Non c’è bisogno alcuno di un sistema «duale» di valutazione delle merci, ai «valori-lavoro» (i prezzi semplici o diretti) e ai «prezzi di produzione». Piuttosto che essere un punto di forza della sua teoria, come pensava Marx, la derivazione dei prezzi di produzione dai valori-lavoro sembra concludersi con la dissoluzione del fondamento di tutta la costruzione teorica.

55Tra i vari tentativi di controbattere a questo esito negativo ci limitiamo a segnalare tre posizioni13. La prima è rappresentata dalla cosiddetta New Interpretation di Duménil e Foley, seguita anche da Lipietz14. Nella versione di Foley, il punto chiave è una rilettura del «valore della moneta» e del «valore della forza-lavoro», assunti come costanti della trasformazione. Il valore della moneta – l’ammontare di tempo di lavoro astratto che una unità di moneta esibisce – è definito come il rapporto tra il tempo di lavoro totale prestato complessivamente nel periodo, cioè il lavoro diretto, e il reddito nazionale monetario, che esprime le merci componenti il prodotto netto ai prezzi (come che siano regolati). Il valore della moneta è evidentemente il reciproco dell’«espressione monetaria del lavoro», ovvero il rapporto tra reddito monetario e tempo di lavoro vivo che è stato erogato nel periodo: una sorta di «produttività monetaria del lavoro». Il valore della forza-lavoro, a sua volta, non è più definito come il lavoro «contenuto» in un determinato paniere di sussistenza, bensì come il lavoro «esibito» nella quota del reddito monetario che va ai lavoratori: le due grandezze di norma non possono che divergere. Il salario monetario, grazie al valore della moneta, può essere tradotto in un «comando» sul tempo di lavoro sociale, quanto di quel lavoro le merci possono appropriarsi sul mercato. Nei termini smithiani studiati nel secondo capitolo, ciò corrisponde alla definizione di lavoro comandato come lavoro oggettivato che si ottiene nello scambio. È naturale che a prezzi di produzione che divergono dai valori-lavoro, a differenza che nelle soluzioni tradizionali, il potere d’acquisto del salario monetario – e dunque anche il lavoro contenuto nel salario reale – può cambiare. La ragione di questa ridefinizione teorica sta nel fatto che secondo questi autori le scelte di consumo dei lavoratori mutano. Il «lavoro necessario» in termini di lavoro «contenuto» diviene una grandezza indeterminata.

56Il «postulato» – così lo qualifica Foley – che il reddito nazionale in moneta esponga, quale che sia la regola dei prezzi adottata (prezzi semplici o prezzi di produzione), nient’altro che il neovalore aggiunto dai lavoratori salariati al valore del capitale costante, presuppone che il «lavoro contenuto» nelle merci che costituiscono il prodotto netto sia identico al «lavoro comandato» da quella stessa grandezza, cioè al reddito nazionale. Considerato che il valore della forza-lavoro è stato definito in modo tale da esprimere la distribuzione del neovalore tra capitale e lavoro, il capitale variabile viene interpretato come il lavoro «comandato» sul mercato dal monte salari monetario e il plusvalore come il lavoro «comandato» sul mercato dalla massa dei profitti lordi monetari. Ribadiamo, è un lavoro oggettualizzato che viene comandato sul mercato delle merci dai prezzi individuali. È facile comprendere come ora le due uguaglianze marxiane risultino entrambe confermate: a condizione, beninteso, di assumere il punto di vista del netto. L’uguaglianza tra la somma dei prezzi semplici e la somma dei prezzi di produzione viene applicata al complesso del neovalore aggiunto: il lavoro contenuto, espresso monetariamente nella somma di capitale variabile e plusvalore, è posto per definizione pari al lavoro comandato dalla somma di salari e profitti. Tale uguaglianza tra la somma dei prezzi semplici e la somma dei prezzi di produzione non è cioè applicata al valore totale lordo contenuto nelle merci prodotte: e per questo, diversamente che nella lettera di Marx, il capitale costante valutato ai prezzi semplici diverge dal capitale costante valutato ai prezzi di produzione.

57Rimane comunque vero anche nella New Interpretation che il saggio di profitto calcolato in prezzi di produzione diverge dal medesimo rapporto calcolato ai prezzi semplici. Una seconda posizione, sviluppata da Fred Moseley, interviene su questo punto. Moseley generalizza il modo di vedere della New Interpretation. I «dati» nella trasformazione non sono le grandezze fisiche ma le componenti «in valore» – il capitale, sia costante sia variabile, più il plusvalore – intesi però come grandezze monetarie, quale che sia la regola dei prezzi adottata. Per dirla in altri termini, lo stesso «valore» del capitale costante deve essere letto come il lavoro esposto nella moneta che acquista i mezzi di produzione: che è come dire che il valore degli elementi del capitale costante è valutato ai prezzi di produzione. Siamo ancora una volta a una definizione del valore in termini di lavoro «comandato» (sul mercato tramite i prezzi) e non di lavoro «contenuto» (richiesto nella produzione di quei beni). Una volta fatta questa operazione, le due uguaglianze marxiane vengono ristabilite nella versione originale: di più, il saggio medio del profitto calcolato a prezzi semplici e a prezzi di produzione è identico. Il risultato non sorprende. Di fatto, il valore della moneta è determinato ex post, rispetto allo scambio, e non è assunto come un dato ex ante, com’è in Marx (grazie alla sua teoria della moneta merce)15.

58La terza posizione è quella proposta da chi scrive16. Abbiamo qui a che fare non con una «interpretazione», che vuole restare tutta integralmente dentro il discorso marxiano di cui si negano contraddizioni fatali, ma a una «ricostruzione», che riconosce la portata potenzialmente devastante di aporie nella teorizzazione di Marx, e ritiene di dovervi porre rimedio mettendo mano anche a contributi teorici diversi ed esterni, ma che possono essere resi compatibili. Si riconosce che il denaro non ha più essenzialmente natura di merce, ma quella di finanziamento bancario della produzione, creato ex nihilo dall’insieme delle banche, come negli approcci «circuitista» e postkeynesiano. Il capitale monetario viene dunque identificato con il sistema bancario e il capitale industriale viene identificato con la totalità delle imprese. Tale approccio condivide con la New Interpretation l’idea che la teoria marxiana del valore-lavoro implichi l’identità tra il prodotto netto che proviene dal lavoro vivo dei lavoratori salariati calcolato in prezzi semplici (capitale costante e capitale variabile), e la medesima grandezza calcolata in prezzi di produzione (monte salari e monte profitti lordi, in termini monetari). La natura tautologica di questa identità viene però superata mostrando, come si è fatto nel capitolo precedente e in questo, che la teoria marxiana del valore è in realtà l’indagine sulla costituzione, ovvero sulla formazione, del neovalore che è stato aggiunto nel periodo per il tramite dello sfruttamento, cioè dell’uso di lavoratrici e lavoratori, portatori viventi della forza-lavoro: una realtà sociale del tutto specifica e originale, per cui la classe capitalistica come un tutto non può che vedere nella produzione nient’altro che «consumo» della classe lavoratrice. È evidente che una volta giustificato che l’intero reddito nazionale17 non è altro che espressione monetaria del lavoro, il cosiddetto «problema della trasformazione» si dissolve come neve al sole. Quale che sia la regola di determinazione dei prezzi adottata, alle due quote distributive non può che corrispondere una quantità di lavoro.

59Dovrebbe risultare evidente che questa terza posizione sviluppa un’analisi della distribuzione fondata su un’analisi del conflitto di classe nella produzione immediata, e riconosce un ruolo più forte alle grandezze in valore (e come vedremo subito al valore-come-contenuto) di quanto non faccia in genere il marxismo contemporaneo. Le imprese godono di un accesso privilegiato e pressoché esclusivo al denaro come capitale, mentre i salariati, vendendo forza-lavoro o indebitandosi, possono soltanto ottenere moneta da spendere come reddito. In forza di ciò, l’insieme delle imprese, per il tramite delle sue scelte di investimento, è di fatto in grado di stabilire quale sia l’insieme dei beni che vengono resi disponibili al lavoro salariato. È il capitale a fissare il consumo reale della classe lavoratrice, quale che sia la libertà di scelta in quanto individui. Un’idea del genere la si ritrova in Keynes, nel suo Trattato sulla moneta; e il suo antecedente più significativo è nel Wicksell di Interesse monetario e prezzi dei beni (con la differenza, in qualche modo paradossale, che nei due economisti «borghesi» quel consumo reale della classe non è ancorato ad alcuna sussistenza, ed è fissato a piacimento della classe imprenditoriale). A mio parere l’ammontare reale dei beni di consumo ottenuto dalla classe lavoratrice – si potrebbe addirittura aggiungere: che corrisponda o meno alla sussistenza – è da assumersi come un dato nella trasformazione. Il passaggio dai prezzi semplici ai prezzi di produzione non fa che determinare uno «sdoppiamento» del valore della forza-lavoro.

60Il «lavoro pagato» nel salario (ovvero, il tempo di lavoro comandato dai prezzi monetari dei beni salario che i lavoratori acquistano) si separa dal «lavoro necessario» (ovvero, il tempo di lavoro astratto realmente messo in atto per produrre quelle merci). Il saggio di plusvalore in termini di valori-lavoro, tanto prima quanto dopo la trasformazione, continua a esprimere in modo del tutto adeguato le grandezze significative nella lotta di classe tra capitale e lavoro, per come risultano dall’analisi del processo di produzione. Da un lato, abbiamo il lavoro vivo complessivo estorto ai lavoratori salariati, sulla base di un rapporto antagonistico in termini di estrazione del valore. Dall’altro lato, abbiamo la quota di quel lavoro che è stato necessario dedicare alla produzione delle merci e che, conflittualmente, quei lavoratori sono riusciti a conquistare come parte della propria riproduzione.

61È sicuramente vero che il rapporto profitti lordi/monte salari ai prezzi di produzione, cioè in lavoro comandato (che definisce il saggio di sfruttamento secondo i nuovi approcci) non può che divergere dal saggio di plusvalore nel senso di questa terza interpretazione, che su questo punto resta probabilmente più fedele a Marx, e si tiene in prima battuta a una definizione del saggio di sfruttamento in termini di lavoro contenuto nelle merci che costituiscono il sovrappiù e nelle merci che costituiscono il salario reale. Si tratta di due diverse misure del medesimo sfruttamento, dove la misura a prezzi di produzione distorce e dissimula la misura a prezzi semplici18, recidendone l’origine nell’antagonismo sul tempo di lavoro «succhiato» dal capitale nel processo capitalistico di lavoro come «luogo conteso». La misura in termini di lavoro comandato rappresenta il punto di vista delle imprese capitalistiche nella circolazione e nella distribuzione: il punto di vista «micro». La misura in termini di lavoro contenuto esprime il punto di vista del capitale totale e della classe dei lavoratori nella produzione, cioè la genesi di ciò che circola e si distribuisce. È questo l’unico punto di vista autenticamente macrosociale, monetario e di classe, riguardo al lascito teorico di Marx. E in questo senso la teoria marxiana del valore, da teoria monetaria del valore-lavoro, muta in teoria macromonetaria della produzione capitalistica del (plus)valore, in nulla vulnerabile per un qualche problema della trasformazione.

62La discussione a noi più vicina, dagli anni Sessanta in poi, soprattutto in Italia, è stata segnata da una lettura del contributo di Piero Sraffa come omogeneo a una critica della teoria del valore-lavoro marxiana. Come vedremo nel prossimo capitolo, tornando sulle questioni accennate da ultimo, le cose stanno molto diversamente.

Teorie della crisi

63Un luogo dell’economia politica marxiana altrettanto controverso della teoria del valore è la teoria della crisi19: ed è in verità difficile distinguere, in Marx, la prima dalla seconda. Per Marx, l’«accumulazione» – cioè la conversione di alcune quote di plusvalore in capitale addizionale (costante e variabile) al fine di produrre più plusvalore – è un processo contraddittorio. Le crisi sono a un tempo catastrofe (necessaria) e soluzione (temporanea). Il capitalismo è per sua natura instabile. Ciò è già evidente nel suo essere un’economia di scambio monetario. La separazione delle imprese e l’autonomia delle loro scelte – in altre parole, l’«anarchia» del mercato – può dar luogo, nella circolazione, a un’incompleta attualizzazione del valore prodotto, in potenza, nella produzione immediata. Già la semplice presenza del denaro come intermediario degli scambi scinde la vendita dalla compera, e la tesaurizzazione può far sì che l’offerta non trovi sbocco sul mercato. La maggior parte delle indagini di Marx nei tre libri del Capitale sono peraltro sviluppate a partire dall’assunzione che le merci vengano vendute ai loro «valori sociali» o ai loro «prezzi di produzione» – qualcosa di simile alla realizzazione delle aspettative di breve periodo per le imprese, assunta nella Teoria generale da Keynes.

64Sviluppando un’intuizione geniale di Quesnay, nel secondo libro del Capitale Marx costruisce gli «schemi di riproduzione», che dimostrano come un sentiero di «crescita bilanciata», indipendente dal livello della domanda di consumi, sia una possibilità teoricamente significativa. Marx distingue nella produzione sociale due settori, il primo che produce beni capitali, il secondo beni di consumo (i quali possono a loro volta essere scissi in beni salario e beni di lusso). Il valore della produzione di entrambi i settori è nient’altro che la somma delle loro parti componenti, cioè di capitale costante, capitale variabile e plusvalore. Nella riproduzione cosiddetta «semplice» i capitalisti consumano improduttivamente l’intero plusvalore, e il sistema si riproduce sulla stessa scala, mentre nella riproduzione «allargata» il plusvalore viene investito, più o meno integralmente. Ciò che gli schemi permettono di chiarire è che ogni componente di valore della produzione è anche una componente della domanda, che si rivolge all’interno o all’esterno del settore. L’equilibrio, che Marx in queste pagine definisce un «caso», dipende dal bilanciarsi degli scambi tra settori secondo ben determinate proporzioni. Contro Malthus e Sismondi, la tesi è che il capitale può espandersi nel tempo senza incontrare una barriera insormontabile nella domanda di consumi: gli schemi dimostrano che la domanda al capitale proviene dal capitale medesimo. Non di meno, contro Ricardo e Say, la tesi è anche che, visto che l’equilibrio necessita di uno scambio sul mercato secondo rapporti relativi definiti – e, si badi, non soltanto in termini di valore, ma anche in termini sia monetari (valore di scambio, o denaro) che fisici (valore d’uso) –, una crescita bilanciata nel lungo periodo non è affatto un esito garantito (un punto, questo, che è stato recuperato più di mezzo secolo dopo dai modelli di crescita keynesiana alla Harrod-Domar).

65Un risultato del genere non può bastare a Marx. Gli scostamenti dall’equilibrio a causa dell’assenza di pianificazione, o della presenza del denaro come riserva di valore, determinano soltanto la «possibilità» della crisi. Il discorso del Capitale è predicato piuttosto sulla sua «necessità»: la crisi deve scaturire dalla relazione capitalistica come rapporto di classe nella produzione. Quelli che la teoria economica odierna definirebbe «fallimenti nella domanda effettiva» sono dovuti (nel caso puro di economia chiusa senza Stato) alla caduta degli investimenti, a sua volta causata da una caduta del saggio di profitto, quando diviene erosione della massa del profitto. Si tratta di comprendere le cause sistemiche e ricorrenti che portano alla compressione del profitto.

66Una prima argomentazione viene proposta da Marx nel capitolo sulla «legge generale dell’accumulazione capitalistica». Con una composizione costante del capitale, una crescita sufficientemente rapida del valore investito esaurisce l’offerta di forza-lavoro, irrigidendo il mercato del lavoro. Gli incrementi di salario superano la crescita della forza produttiva del lavoro, il margine di profitto comincia a cadere e, come conseguenza, l’accumulazione e la domanda di lavoro flettono, ricostituendo l’«esercito industriale di riserva». La crisi capitalistica, che si presenta come crisi ciclica, viene qui individuata come dovuta a lotte sulla distribuzione del neovalore. Nello stesso capitolo una soluzione più di lungo termine alla difficoltà è l’introduzione di metodi di produzione a più alta intensità di capitale volti al risparmio di lavoro come risposta alla compressione del profitto dovuta a lotte sul salario. In tal caso, per ogni aumento unitario del capitale, si riduce la quota del capitale variabile, e quindi la domanda di lavoro. I lavoratori vengono espulsi (almeno in potenza) e rimpiazzati con macchinari, mantenendo immutato il livello del prodotto. A seconda della velocità dell’accumulazione l’occupazione potrà accrescersi o contrarsi, a seconda del peso relativo che hanno l’incremento della grandezza del capitale e il cambiamento nella sua composizione. Nel ciclo, il ritmo e la struttura dell’accumulazione del capitale, che è la variabile indipendente, variano costantemente, svuotando e ricostituendo l’esercito industriale di riserva. Si determina così una compressione dei salari, che sono la variabile dipendente.

67Una compressione permanente del salario reale, cioè un impoverimento «assoluto» dei lavoratori, è uno dei possibili esiti di questa dinamica. Tuttavia, Marx considera una situazione molto diversa come tipica del capitalismo. L’accumulazione è trainata dall’estrazione di plusvalore relativo, che implica una tendenza all’aumento della forza produttiva del lavoro. Il salario reale trova spazio per un aumento inferiore a quello della forza produttiva, il che non va a intaccare la quota del plusvalore, che anzi ha una contemporanea tendenza a espandersi. Un più alto consumo reale dei lavoratori è reso compatibile con un più basso valore della forza-lavoro: si individua la possibilità di una conciliazione riformistica degli interessi sul terreno del valore d’uso assieme a un radicale antagonismo sul terreno del valore. Questo è ciò che Rosa Luxemburg ha definito la «legge della caduta tendenziale del salario relativo», equivalente a una necessaria contrazione dei salari in proporzione al reddito nazionale. Un impoverimento «relativo», insomma. Dall’altro lato, con sindacati e una classe lavoratrice sempre più militante, le lotte per il salario potrebbero rendersi almeno parzialmente indipendenti dal mercato del lavoro, interrompendo o addirittura invertendo la caduta del salario «relativo». Ciò può essere individuato come un’altra causa autonoma di crisi, che ha avuto effettualità negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando l’antagonismo capitale/lavoro nella produzione, e non solo il conflitto salario/profitto nella distribuzione, è stato fattore cruciale, se non addirittura determinante, della Grande Stagflazione e della crisi del cosiddetto fordismo – un diverso tipo di crisi da bassa profittabilità.

68L’argomento sulla crisi derivante dal conflitto salario/profitto ha un limite: quello di non vedere che in Marx il progresso tecnico, nel suo caso nella forma della meccanizzazione, non è semplicemente «reattivo» allo stato del mercato del lavoro. Il fattore determinante è piuttosto la necessità «autonoma» del capitale di controllare la classe lavoratrice nei processi di produzione per assicurarsi un’estrazione quantitativamente e qualitativamente adeguata di lavoro vivo. La conseguente crescita della composizione tecnica del capitale dà luogo a un’espulsione della forza-lavoro vivente dal processo produttivo, e perciò può intaccare l’erogazione di lavoro vivo, che è la fonte esclusiva del valore e del plusvalore. L’aumento della composizione del capitale mette così in moto la controversa «caduta tendenziale del saggio di profitto». Quest’ultima è stata interpretata da alcuni autori non soltanto all’interno del discorso sulle crisi cicliche, ma anche come parte essenziale di una spiegazione in termini di «onde lunghe» della dinamica del capitalismo. Da altri, ancora, come affermazione di una caduta secolare della profittabilità, o come indice della presenza di una teoria del «crollo» nell’autore del Capitale.

69L’applicazione di quantità più grandi di capitale costante, in particolare nella forma dell’incremento del capitale fisso per unità di prodotto, è lo strumento più efficace per spingere in avanti l’estrazione di plusvalore. Marx riteneva però che l’incremento del saggio di plusvalore non potesse compensare, nel lungo periodo, l’influenza negativa della più alta composizione del capitale sul saggio di profitto. Lo retrocesse così allo statuto di mera controtendenza: un punto contestato con forza da interpreti come Paul M. Sweezy o Joan Robinson. Visto che il saggio del profitto è funzione diretta del saggio di plusvalore e inversa della composizione in valore del capitale, questi autori sostengono (a ragione) che l’aumento del saggio del plusvalore può in astratto controbilanciare l’eventuale crescita della composizione del capitale. La caduta del saggio del profitto si riduce a fatto empirico, e non ha lo statuto di evento necessario.

70L’argomentazione più forte di Marx è però un’altra, e cioè l’appello all’esistenza di un limite assoluto alla massa del pluslavoro che può essere estratto da una data popolazione. Per comprendere di che si tratta è bene rivolgere lo sguardo alla composizione del capitale intesa come indice del rapporto tra il lavoro morto contenuto nei mezzi di produzione e il lavoro vivo che è stato erogato nel periodo. Interpretata in questo modo, la composizione di capitale è rappresentata dal capitale costante (espressione monetaria del lavoro morto) diviso per la somma di capitale variabile e plusvalore (espressione monetaria del neovalore). Se il capitale variabile si azzerasse, e l’intera giornata lavorativa sociale si oggettivasse in pluslavoro nella forma del plusvalore, la composizione del capitale non sarebbe nient’altro che l’inverso del saggio di profitto massimo, che a sua volta costituisce il tetto insuperabile del saggio di profitto effettivo. Marx suggerisce che il numeratore del saggio del profitto massimo incontra un limite «naturale» nell’ammontare del lavoro vivo che può essere estratto dai lavoratori; il denominatore, invece, continuerà a crescere con l’approfondirsi del progresso tecnico capitalistico. Ecco dunque la tendenza del saggio del profitto massimo a cadere necessariamente, portando a un certo punto con sé il saggio del profitto effettivo.

71Ora, è senz’altro vero che, dati i valori sociali (o prezzi di produzione) dominanti, i capitalisti individuali sono spinti da quella che abbiamo chiamato la concorrenza «dinamica» a introdurre metodi di produzione a maggiore intensità di capitale, in modo tale da abbassare il costo unitario delle merci, e quindi ottenere un plusvalore extra (plusprofitti temporanei), anche se gli effetti di lungo periodo del loro comportamento provocano una «svalorizzazione» delle merci e comprimono il saggio medio di profitto. Ciò non significa però affatto che si possa dedurre la caduta del saggio del profitto nella forma di una «legge». L’incremento della forza produttiva del lavoro, conseguente alla stessa forma di progresso tecnico ipotizzata da Marx, dà luogo alla riduzione dei valori sociali (o dei prezzi di produzione) di qualunque genere di merce: quindi anche di quelle che sono esibite in moneta come elementi del capitale costante. Non si può escludere perciò che la svalorizzazione degli elementi del capitale costante possa essere così significativa da innalzare lo stesso saggio massimo del profitto, e quindi da spostare progressivamente in alto la barriera che quest’ultimo pone al saggio del profitto effettivo. In altri termini, va tenuto conto che troppo spesso le argomentazioni degli stessi marxisti fautori della «legge» non tengono in adeguato conto che Marx enuncia le sue proposizioni riferendole alla composizione organica del capitale, non alla composizione in valore. Ed è chiaramente la composizione in valore la categoria significativa al fine di dare un giudizio sulla tendenza o meno a una caduta necessaria del saggio del profitto. Quest’ultima, abbiamo ricordato, riflette pienamente il cambiamento nei valori del capitale costante e del capitale variabile prodotti dalla meccanizzazione, mentre la composizione organica misura gli input ai loro valori prima dell’innovazione, rispecchiando per così dire automaticamente l’incremento della composizione tecnica.

72Se la crisi da caduta tendenziale del saggio del profitto non può essere ritenuta una legge, ciò non toglie che essa si configuri come una buona interpretazione della Grande Depressione di fine Ottocento: una crisi che venne superata anche in forza di innovazioni tecniche (esemplare la catena di montaggio di Henry Ford) e organizzative (tra cui, ma non fu certo l’unica, l’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Taylor), cui si aggiunse già allora l’integrazione tra standardizzazione dei componenti e differenziazione del prodotto (il riferimento primo è qui alla General Motors di Alfred Sloan).

73Si può osservare che più s’innalza il saggio di plusvalore, più la tendenza alla caduta del saggio di profitto viene contrastata: ma anche, più si eleva la probabilità che il sistema cada in un terzo tipo di crisi, la «crisi da realizzazione». In questo caso il saggio di profitto cade perché la domanda effettiva, corrente o attesa, è troppo bassa per consentire di vendere le merci recuperando i costi e il saggio medio di profitto. Due posizioni alternative si sono contese il campo.

74Un primo approccio al problema può essere ricondotto a Hilferding. Le «sproporzioni», cioè gli squilibri settoriali tra l’offerta e la domanda, sarebbero qualcosa di inevitabile in una economia di mercato. Se l’eccesso di offerta colpisce rami importanti della produzione, ciò prima o poi si estenderà a tutti gli altri settori, senza che in ciò abbia alcun ruolo la caduta relativa del consumo della classe lavoratrice. Questo tipo di difficoltà dipende in modo essenziale dalla velocità di aggiustamento del sistema dei prezzi e delle quantità agli squilibri. Tende quindi a scomparire, sostiene Hilferding, nella forma più «organizzata» di capitalismo che si è costituita tra fine Ottocento e inizio Novecento. Alcuni dei sostenitori della crisi da sproporzioni (per esempio Tugan-Baranowski, in qualche misura anche il giovane Lenin nella sua polemica con il «romanticismo economico») hanno finito per appoggiare l’idea che, essendo il fine del capitale la «produzione per la produzione», esso potrebbe emanciparsi del tutto dalla domanda di consumi. Un sistema di macchine che produce macchine esprimerebbe in fondo, alla perfezione, la natura alienata del meccanismo capitalistico.

75Il secondo approccio alla crisi da realizzo ha come sua esponente più significativa Rosa Luxemburg. Questa autrice, a volte bollata erroneamente come «sottoconsumista», sostiene che l’investimento netto non è in grado di compensare la caduta relativa del consumo dei lavoratori. Il senso della sua tesi è stato meglio compreso fuori che dentro il marxismo ortodosso. Come rileva Joan Robinson, per la Luxemburg la profittabilità di lungo termine dei nuovi beni capitali dipende dagli sbocchi futuri; e, come osserva Claudio Napoleoni, questi ultimi sono sempre meno prevedibili se la quota del consumo all’interno della domanda complessiva è decrescente. Indipendentemente dagli errori analitici che sicuramente furono commessi dalla rivoluzionaria polacca, un’argomentazione del genere può essere articolata in modo logicamente coerente e storicamente convincente. Non vi è contraddizione alcuna con gli schemi di riproduzione o con la teoria marxiana del valore. Gli schemi di riproduzione mostrano come il verificarsi di uno scambio tra i settori secondo proporzioni che garantiscono che la riproduzione allargata proceda in equilibrio sia un evento incerto e precario. Di più, mostrano anche come l’aumento continuo del saggio del plusvalore – cioè proprio quanto, per un verso, è necessario per controbattere alla caduta del saggio di profitto da aumento della composizione di capitale e, per l’altro, accentua la caduta del salario relativo – non faccia che modificare quei rapporti di scambio di equilibrio, rendendo sempre più improbabile che l’accumulazione proceda su un sentiero che mantiene, periodo dopo periodo, l’eguaglianza tra domanda e offerta.

76Per alcuni dei sostenitori della crisi da realizzazione, come la stessa Luxemburg, l’insufficienza generale della domanda diviene sempre più acuta. Quando si esauriscono i fattori «esterni» che la mitigano, come le esportazioni nette verso le aree non capitalistiche, si assisterebbe al «crollo finale»: un caso teorico che dovrebbe essere anticipato dal rovesciamento rivoluzionario, di tipo socialista, pena la ricaduta nella «barbarie». Altri, come Michał Kalecki, hanno ritenuto invece che l’insufficienza di domanda effettiva potrebbe essere superata grazie a una sorta di «esportazioni interne». L’economista polacco rimanda qui ai disavanzi nel bilancio pubblico finanziati con nuova moneta: qualcosa che si muoveva in questa direzione era, del resto, presente nell’argomentazione originale della stessa Luxemburg con riferimento alle spese militari per armamenti. Un ruolo simile può essere svolto dal consumo improduttivo proveniente dalle «terze persone» che ottengono i loro redditi come deduzione dal plusvalore complessivo. Tali detrazioni dal saggio di profitto potenziale, che incontrerebbe difficoltà a realizzarsi sul mercato, rendono possibile l’effettiva realizzazione di un saggio del profitto minore. Si tratta proprio di quei fattori che – dalle spese belliche per il Secondo conflitto mondiale, alle politiche economiche keynesiane (con la prosecuzione del keynesismo militare), allo spreco del «capitalismo monopolistico» alla Baran e Sweezy – danno conto dell’uscita da quel Grande Crollo degli anni Trenta in cui proprio le controtendenze alla caduta del saggio del profitto avevano precipitato le economie capitalistiche: una crisi in questo caso non da insufficiente ma da eccessiva profittabilità.

77Per essere compatibili con una accumulazione di capitale senza scosse, queste «soluzioni» alla crisi da realizzo richiedono l’approfondimento continuo della pressione sulla forza-lavoro vivente al fine di un’estrazione maggiore e più accelerata di lavoro vivo. Ciò conferma, ancora una volta, la tesi marxiana del ruolo cruciale del saggio di plusvalore, e della lotta di classe nella produzione, nella dinamica capitalistica. Come ancora Kalecki aveva visto con largo anticipo, una situazione di «piena occupazione» – sia pure limitata, come fu quella della cosiddetta Golden Age dei primi decenni del secondo dopoguerra – erode le condizioni di base del suo stesso successo, a partire dalla «disciplina delle fabbriche». Nella controrivoluzione neoliberista che ha segnato il «dopo-fordismo» dagli anni Ottanta del Novecento il capitalismo ha vissuto novità radicali rispetto alle tendenze ipotizzate da Marx. Tra queste, una «centralizzazione senza concentrazione»: l’unità tecnica di produzione si è spesso ridotta, il mondo del lavoro si è frantumato. Anche senza «concentrazione», il comando tecnico, finanziario e produttivo ha continuato però a «centralizzarsi», con fusioni e acquisizioni. Le imprese si sono connesse «in rete», lungo filiere transnazionali stratificate secondo una gerarchia interna. La governance delle grandi imprese è dipesa sempre più strettamente dalla «creazione di valore» per i mercati finanziari: e quest’ultima, a sua volta, è legata a filo doppio alla gestione del risparmio delle «famiglie» da parte dei gestori di fondi istituzionali (tra cui hanno assunto un ruolo sempre più significativo i fondi pensione).

78Hyman P. Minsky ha definito la fase attuale del capitalismo come un money manager capitalism. L’inflazione delle attività-capitale, cioè il rialzo dei prezzi di azioni o immobili, ha aperto la strada a un indebitamento sempre più elevato delle famiglie, che ha colonizzato anche le famiglie dei lavoratori, sino ai ceti più poveri, nell’universo capitalistico. Tutto ciò mentre la cosiddetta globalizzazione, e in essa il nuovo volto assunto dall’Asia con l’ascesa di Cina e India, da un lato, e l’affermarsi negli Stati Uniti di una inedita politica economica, dall’altro, contribuivano a produrre un infernale mulinello legato alla terna lavoratore «traumatizzato»/risparmiatore «maniacale-depressivo»/consumatore «indebitato». Alla «sussunzione reale del lavoro al capitale» (Marx pensava principalmente al capitale industriale), si è aggiunta una «sussunzione reale del lavoro alla finanza» (cioè al capitale finanziario), sia con riferimento ai mercati di borsa, che alle banche e agli intermediari finanziari. Il finanziamento delle imprese dalle banche si è mantenuto, ma con un diverso percorso che ha ora come punto di partenza l’indebitamento delle famiglie.

79Nell’ultimo trentennio si sono accoppiate, in una simbiosi sempre più pericolosa, tanto una spinta strutturale all’eccesso di offerta (esito di una concorrenza sempre più aggressiva su scala planetaria) quanto una tendenza stagnazionistica dal lato della domanda (frutto avvelenato delle politiche inaugurate da Thatcher e Reagan, con i loro effetti sulla spesa pubblica soprattutto sociale, sugli investimenti privati e sui consumi salariali). La crisi che ne sarebbe dovuta seguire è stata a lungo posposta. Prima, grazie alle spese militari e ai disavanzi di Reagan, che hanno dovuto salvare dall’abisso in cui precipitava il rigido controllo dell’offerta di moneta da parte di Volcker. Poi, nell’era di Greenspan, grazie a politiche monetarie di grande attivismo, che hanno innescato a ripetizione la spinta al rialzo dei valori nei mercati finanziari o immobiliari. La crescita del prezzo delle «attività» ha così sostenuto potentemente la domanda interna dei paesi del capitalismo anglosassone (in primis gli Stati Uniti), consentendo ad altri (asiatici ed europei) di praticare politiche «neomercantiliste», e perciò di crescere trainati dalle esportazioni nette. Così, paradossalmente, il neoliberismo è passato da una (breve) prima fase monetarista a una (seconda) fase di keynesismo «privatizzato»: le bolle speculative sono divenute parte integrale di una politica monetaria che ha sostenuto la domanda di consumi privati a dispetto della compressione dei salari.

80L’inclusione nella finanza e l’indebitamento hanno aggravato, invece di attenuare, la deriva del mondo del lavoro nell’insicurezza e nella frammentazione: un processo non solo instabile, ma alla fine insostenibile. È infatti dentro questa connessione interna tra finanziarizzazione e precarietà del lavoro – le due armi gemelle con cui il capitale è uscito dalla crisi «sociale» degli anni Settanta – che si può comprendere la nuova crisi sistemica del capitale.

Notes de bas de page

1  Per una disamina ormai classica della teoria marxiana, cfr. P.M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico [1942], a cura di C. Napoleoni, Torino, Boringhieri, 1970; M. Dobb, Economia politica e capitalismo [1940], seconda ed., Torino, Boringhieri, 1972. Per una prospettiva più aggiornata si vedano D. Harvey, The Limits to Capital, Oxford, Blackwell, 1982, e i lavori di Duncan Foley che cito più avanti. Particolarmente accessibili, A. Bihr, La Logique méconnue du Capital, Lausanne, Éditions Page Deux, 2010, e M. Heinrich, Kritik der politischen Ökonomie. Eine Einführung, settima ed., Stuttgart, Schmetterling, 2009. Sul libro primo del Capitale, si veda R. Bellofiore, N. Taylor (a cura di), The Constitution of Capital: Essays on Volume One of Marx’s Capital, Basingstoke, Macmillan, 2004; mentre sul libro terzo, R. Bellofiore (a cura di), Marxian Economics: A Reappraisal, Basingstoke, Macmillan, 1998, 2 voll.

2  Dove evidentemente P sta per Produzione.

3  Il riferimento, a questo proposito, è Aristotele insieme con Hegel. Un Aristotele che potrebbe persino essere produttivamente letto (giusta la lezione di Guido Calogero) attraverso Tommaso d’Aquino: cfr. R. Bellofiore, Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento, in M.E.L. Guidi (a cura di), Il terzo libro del Capitale di Marx, “Trimestre”, 29, 1-2, 1996, pp. 29-86. Si veda anche il capitolo finale del mio Le avventure della socializzazione, Milano, Mimesis, 2018.

4  Si vedano in proposito i seguenti autori, di cui si è discusso nel capitolo precedente: C. Napoleoni, Smith Ricardo Marx, Torino, Boringhieri, 1973; L. Colletti, Ideologia e società, Bari, Laterza, 1969; Id., Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, 1969; I.I. Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx [1928], Milano, Feltrinelli, 1976.

5  È il tema del mio Le avventure della socializzazione cit., dove la validazione monetaria ex post nella circolazione di merci e la manipolazione capitalistica ex ante del lavoro capitalistico nel processo di produzione vengono precedute dall’ante-validazione monetaria sul mercato monetario e sul mercato del lavoro.

6  È il punto su cui hanno giustamente insistito gli studi di Backhaus e Reichelt, ricordati nel capitolo precedente, e con loro la Neue Marx-Lektüre. Si vedano anche i saggi raccolti in R. Bellofiore, R. Fineschi (a cura di), Marx in questione. Il dibattito «aperto» dell’International Symposium on Marxian Theory, Napoli, La città del sole, 2009. Il problema ricompare in forma acuta in quello che è forse il lettore più accurato oggi di Marx, Michael Heinrich. Si vedano i lavori citati più avanti.

7  R. Bellofiore, The Monetary Aspects of the Capitalist Process in the Marxian System: An Investigation from the Point of View of the Theory of the Monetary Circuit, in F. Moseley (a cura di), Marx’s Theory of Money, London, Palgrave Macmillan, 2005, pp. 124-139.

8  È questa la posizione di Roberto Finelli nei due libri ricordati nel capitolo precedente sul Parricidio mancato (Torino, Boringhieri, 2004) e sul Parricidio compiuto (Milano, Jaca Book, 2014).

9  È il punto su cui giustamente insiste Massimiliano Tomba in Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Milano, Jaca Book, 2013.

10  Questo era già chiaro a H. Grossmann, Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica [1941], Bari, Laterza, 1971.

11  Un passo avanti decisivo nella comprensione dell’articolazione complessa della categoria di «composizione del capitale» come si dà in Marx è stato compiuto dagli studi degli anni Settanta di Ben Fine e Laurence Harris (si veda, per esempio, Re-reading Capital, London-Basingstoke, Macmillan, 1979), ripresi più recentemente da A. Saad Filho, The Value of Marx. Political Economy for Contemporary Capitalism, London, Routledge, 2002.

12  Duncan Foley (Recent Developments in the Labor Theory of Value, “Review of Radical Political Economics”, 32, 2000, pp. 1-39) fornisce una panoramica della discussione. Andrew Kliman (Reclaiming Marx’s Capital: A Refutation of the Myth of Inconsistency, Lanham, Lexington Books, 2007) nega alla radice l’erroneità della «trasformazione» di Marx, sulla base di un’interpretazione sequenziale e temporalista della teoria del valore.

13  Su tutte queste questioni torneremo nel prossimo capitolo, visto il rilievo che assumono nella riflessione su Marx che si è svolta a partire da Sraffa.

14  Si vedano: D. Foley, Understanding Capital: Marx’s Economic Theory, Cambridge, Massachussets, Harvard University Press, 1986; G. Duménil, De la valeur aux prix de réduction, Paris, Economica, 1980; A. Lipietz, The So-Called «Transformation Problem Revisited», “Journal of Economic Theory”, 26, 1, 1982, pp. 59-88. Autori che in Italia riprendono questa posizione sono S. Perri, Prodotto netto e sovrappiù. Da Smith al marxismo analitico e alla New Interpretation, Torino, Utet, 1998, e G. Gattei, Karl Marx e la trasformazione del pluslavoro in profitto, Roma, Media Print, 2002.

15  Si veda da ultimo F. Moseley, Money and Totality: A Macro-Monetary Interpretation of Marx’s Logic in Capital and the End of the «Transformation Problem», Leiden, Brill, 2015. L’autore ha provato a superare questa difficoltà in scritti più recenti, in modo non particolarmente convincente.

16  Per esempio, in R. Bellofiore, «Transformation» and the Monetary Circuit: Marx as a Monetary Theorist of Production, in M. Campbell, G. Reuten (a cura di), The Culmination of Capital: Essays on Volume Three of Marx’s Capital, London-New York, Macmillan-St. Martin’s Press, 2002.

17  Si ipotizza ovviamente che tutto il lavoro sia «produttivo».

18  Nella comprensione dei risultati analitico-formali torna utile la discussione apparentemente solo filosofica delle categorie marxiane che ha guidato la lettura di Marx nel capitolo precedente.

19  La migliore introduzione resta a tutt’oggi quella di L. Colletti, C. Napoleoni (a cura di), Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Bari, Laterza, 1970. Uno sviluppo del discorso sulla crisi, svolto nelle pagine che seguono, è in R. Bellofiore, La crisi capitalistica e la barbarie che avanza, Trieste, Asterios, 2011; Id., La crisi globale. L’Europa, l’euro, la Sinistra, Trieste, Asterios, 2011.

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