3. Cambiare la natura umana
Variazioni su un tema smithiano, da John Stuart Mill a Keynes e oltre
p. 65-100
Texte intégral
Nel contemplare ogni movimento di progresso, non illimitato nella sua natura, la mente non è soddisfatta soltanto dal fatto di tracciare le leggi del suo movimento; non può infatti fare a meno di porsi l’altra domanda: a quale fine? Verso quale punto tende in definitiva la società con il suo progresso produttivo? Quando il progresso giunge al termine, in quali condizioni ci si deve attendere che lasci il genere umano?
J.S. Mill, Principi di economia politica, Torino, Utet, 1983, p. 997
Smith smembrato: ricardiani e neoclassici
1Si è visto nel capitolo precedente che la conciliazione che Smith opera tra le due visioni dell’accumulazione che attraversano la sua opera – quella di un processo autoreferenziale per cui la produzione è fine a se stessa, e quella di una produzione che ha per risultato il consumo sempre più ricco di un numero crescente di lavoratori – è una conciliazione possibile solo sulla base della sua filosofia etica e della sua filosofia della storia. Il suo schema teorico si regge tutto sull’ipotesi che l’egoismo che spinge i capitalisti alla massimizzazione del profitto sia un benefico «inganno» che la Natura ha ordito per realizzare il suo ordine: quell’inganno che, mettendo in moto il meccanismo della divisione del lavoro, e dispiegando al massimo grado il principio sociale dello scambio, fa della produzione per la produzione il mezzo della massimizzazione del benessere. È la medesima ipotesi che fa sì che non appaia immediatamente contraddittorio il fatto che il fine storico, il consumo dei «poveri che lavorano», sia nel processo accumulativo nient’altro che un mezzo del suo mezzo. Un consumo «produttivo», necessario al fine dell’accrescimento del valore.
2Il pensiero economico successivo, abbandonando i presupposti filosofici di Smith, si scinderà in due tronconi. Da un lato, abbiamo il filone classico-ricardiano che, radicalizzando la riduzione del lavoratore a mezzo di produzione, vedrà nel processo capitalistico un processo circolare, di «produzione di merci a mezzo di merci»1. Dall’altro lato, il filone neoclassico, che ricomporrà le due massimizzazioni smithiane – quella «individualistica» del profitto, e quella «sistemica» del consumo dei «poveri che lavorano» – sotto il cappello di una universale massimizzazione dell’utilità di un generico agente economico; ma quest’ultima a sua volta, in quanto massimizzazione del consumo mediante l’impiego efficiente di risorse scarse disponibili per usi alternativi, verrà intesa come nient’altro che l’espressione particolare di un più generale e astorico aspetto della condotta umana, in quanto condotta razionale, cioè della massimizzazione di una funzione obiettivo sotto vincolo.
3In entrambi i casi, perde di senso l’argomentazione smithiana sulla giustificazione storica del capitale. Nel caso di Ricardo (su cui torneremo nel capitolo successivo), per l’insensatezza stessa di un’interrogazione sulla qualità di un processo che ha la sua essenza nella riduzione di tutto a quantità. Nel caso dei neoclassici, per la naturalizzazione e universalizzazione della razionalità calcolante tipica del capitalismo. L’economia politica – ridotta a «economica», e dunque a teoria della scelta – può ormai descrivere qualsiasi contesto istituzionale e qualsiasi forma di agire, sicché finisce con il dissolversi l’oggetto stesso del giudizio storico di Smith, la «società commerciale».
4Sarebbe interessante invertire la prospettiva, e chiedersi quale giudizio dare di questi sviluppi teorici prendendo come punto di partenza il discorso smithiano sulla missione civilizzatrice del capitale. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, quale conclusione trarre quando con Ricardo si dimostra che l’accumulazione può procedere indisturbata pur in presenza di una riduzione tanto dei consumi che dell’occupazione dei lavoratori: se, insomma, un’autonomizzazione dell’accumulazione dai «poveri che lavorano» non segnali un esaurirsi della funzione storica svolta dal modo di produzione capitalistico. Ci si potrebbe chiedere, ancora, che contributo alla conoscenza dia una teoria come quella neoclassica incapace di distinguere, come invece Smith era in grado di fare, tra realtà moderna e realtà premoderne, attribuendo solo alla prima l’attributo di «società» in senso proprio.
5Ci si potrebbe chiedere, insomma, se l’impostazione ricardiana e quella neoclassica non escano dalla filosofia della storia smithiana soltanto perché – in modi certamente opposti – fanno del capitale un pezzo di natura. Solo perché, dunque, si reggono implicitamente su filosofie della storia altrettanto arbitrarie di quella: che semplicemente negano che possano esistere storie diverse; e, per questo, mirano entrambe a fare dell’economia una scienza «esatta» come la geometria o la fisica2.
Lo stato stazionario: John Stuart Mill
6L’argomentazione smithiana sulla giustificazione storica del capitale non scompare totalmente dal discorso economico. Essa riappare, nella forma che vedremo più avanti già in questo stesso capitolo, nell’opera di Marx. Fa però anche la sua comparsa in altri due momenti di svolta cruciali della storia d’Europa: l’esplosione rivoluzionaria del 1848, e la crisi successiva alla «grande guerra».
7Nel libro quarto dei Principi di economia politica di John Stuart Mill3, dedicato all’«Influenza del progresso su produzione e distribuzione», si incontrano due capitoli successivi, strettamente intrecciati e da leggere insieme: il capitolo sesto, molto citato, dedicato allo stato stazionario; e il capitolo settimo, meno frequentato, che discute «del probabile avvenire delle classi lavoratrici». La ripresa di temi smithiani è puntuale, ma la prospettiva è ora cambiata. Mill riconosce al capitale il ruolo di momento necessario del progresso: ritiene però che alla fase attuale, caratterizzata dall’egoismo e dal primato della produzione, possa seguirne un’altra che sostituisca a questo «falso ideale» del genere umano fini più desiderabili:
Confesso che non mi piace l’ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che rappresenta il modello esistente della vita sociale, sia la sorte maggiormente desiderabile per il genere umano, e non piuttosto uno dei più tristi sintomi di una fase del processo produttivo. Esso può indubbiamente rappresentare una fase necessaria del progresso della civiltà, e quelle nazioni europee che finora hanno avuto la fortuna di esserne quasi esenti può darsi che la debbano attraversare. È un incidente di sviluppo e non un segno di decadenza. […] Ma non è comunque un genere di perfezione sociale che i filantropi futuri possano desiderare di vedere realizzato. Molto più auspicabile è invece, finché la ricchezza continuerà a rappresentare il potere, e il diventare più ricchi possibile continuerà a essere oggetto dell’ambizione universale, che la via per giungere alla ricchezza sia aperta a tutti, senza favori o parzialità. Ma la condizione migliore per la natura umana è quella per cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare4.
8Secondo Mill, questa condizione morale può essere guardata senza dispiacere soltanto come primo passo da uno stadio semplicemente animale a uno stato umano, come transizione dallo sconsiderato abbandono agli istinti bruti a una prudente preveggenza e al dominio di se stessi. Se invece si desidera lo sviluppo dello spirito pubblico, di sentimenti generosi, della vera giustizia e della vera eguaglianza, queste virtù possono svilupparsi grazie all’associazione e non all’isolamento degli interessi: «Lo scopo del processo dovrebbe essere non soltanto di porre gli esseri umani in condizioni nelle quali essi siano in grado di fare a meno gli uni degli altri, ma di consentire loro di lavorare con gli altri e per gli altri in rapporti che non implichino una dipendenza»5.
9Nello stato primitivo la cooperazione, se c’è, è legata alla soggezione personale. Anche nelle condizioni moderne il lavoro sotto padrone costringe gli operai ad abusi che la crescente educazione culturale e politica – frutto della stessa associazione coatta nelle fabbriche – renderà sempre meno praticabili. Mill vede con favore che i lavoratori prendano nelle proprie mani il loro destino, e vogliano passare dal lavoro salariato al lavoro cooperativo; ma l’associazione tra eguali tenderà a prevalere non soltanto nella fabbrica, ma anche nella politica come nella famiglia. L’evoluzione spontanea e inintenzionale dell’economia è un processo che ha come fine la realizzazione di una situazione opposta. Compie un’autentica «rivoluzione morale»6, e una incruenta e graduale rivoluzione politica: sostituisce all’individuo egoista l’individuo altruista; al soggetto dipendente il soggetto indipendente. Fa di tutti degli «esseri razionali»7: in grado di scegliere la cooperazione, e non condannati invece a una competizione tra agenti isolati, che verrà piuttosto mutata in «amichevole emulazione»8. La mano invisibile, si potrebbe dire, crea le condizioni di una società fondata sul consenso cosciente. L’evoluzione cede il passo al contratto.
10Smith è, come si vede, mantenuto e, al tempo stesso, rovesciato. Il dualismo etico di egoismo e simpatia diviene successione storica. «La sproporzionata importanza attribuita al semplice aumento della produzione», che è in Smith il mezzo per una generalizzazione passabilmente equa del benessere, diviene solo lo strumento per raggiungere quel livello della ricchezza materiale che è la precondizione per una migliore distribuzione e per una trasformazione della natura umana. Mill commenta che finché le menti sono rozze esse richiedono stimoli rozzi, ed è bene che li abbiano: «[i]ntanto però quelli che non accettano l’attuale stadio iniziale del progresso umano come il suo modello definitivo possono essere scusati se rimangono relativamente indifferenti al tipo di progresso economico che suscita di solito le congratulazioni dei politici; il semplice incremento della produzione e della accumulazione»9.
11Sullo sfondo di questa visione, non stupisce che il giudizio sullo «stato stazionario» sia in Mill, diversamente che in Smith e negli altri classici, improntato all’ottimismo. Mentre per «gli economisti delle ultime generazioni», lo stato stazionario è una prospettiva spiacevole e scoraggiante, Mill si dichiara «propenso piuttosto a credere che, nel complesso, esso rappresenterebbe un considerevole miglioramento rispetto alle nostre condizioni attuali»10. La riduzione del tasso di crescita della produzione, se accompagnata alla riduzione della crescita della popolazione, non significherebbe per nulla l’esaurirsi del progresso umano. L’aumento assoluto della produzione materiale cederebbe semmai il passo allo sviluppo culturale e al perfezionamento dell’«arte della vita»11. L’industria continuerebbe certamente a essere retta da leggi astoriche e immutabili; ma, a differenza che nella situazione attuale, le innovazioni
produrrebbero il loro effetto legittimo, quello di abbreviare il lavoro. Finora è dubbio se tutte le invenzioni meccaniche compiute sino a questo punto abbiano alleggerito la fatica quotidiana dell’uomo. Esse hanno piuttosto consentito a una maggiore popolazione di vivere la stessa vita di schiavitù e di prigionia, e a un maggior numero di industriali e altri di accumulare fortune. Esse hanno indubbiamente accresciuto gli agi delle classi medie, ma non hanno ancora cominciato a operare quei grandi mutamenti nel destino umano che per loro natura sono destinati a compiere. Soltanto quando, accanto a giuste istituzioni, l’accrescimento del genere umano sarà posto deliberatamente sotto la guida di una saggia previdenza, le conquiste sui poteri della natura compiute dall’intelletto e dall’energia degli scienziati potranno diventare il retaggio comune della specie umana, e il mezzo per migliorare ed elevare la sorte dell’umanità12.
12Mill spera che l’umanità scelga lo stato stazionario prima di esservi costretta dal destino che le assegna la ineluttabile caduta del saggio del profitto. In realtà, nonostante questa sua affermazione, la sua posizione non può non risultare intimamente contraddittoria a meno di legarsi a un evoluzionismo meccanicistico.
13Paladino di una visione che separa le leggi ferree della produzione dalle leggi storiche della distribuzione, Mill non dispone di argomentazioni teoriche a favore della auspicata trasformazione della natura umana: deve ancorare quest’ultima, di necessità, alla dinamica deterministica della produzione. Alla luce della sua separazione dicotomica di produzione e distribuzione rimane infatti misterioso cosa potrebbe originare una metamorfosi così radicale, pur nella sua gradualità, del carattere umano quale egli delinea nel suo «ideale del futuro» – se non intervenisse a imporla, appunto, il corso stesso delle cose; in questo modo ribadendo però, contro le intenzioni, un permanente primato dell’evoluzione materiale sul progresso culturale.
14È per la stessa ragione che Mill deve limitare gli effetti del processo all’ampliamento del tempo di non lavoro: cioè, a ben vedere, ancora a una misura meramente redistributiva. La sua prospettiva di una riduzione del primato dell’economico si configura, coerentemente, soltanto nei termini di una più equa ripartizione e, al limite, di una vera e propria uscita dal lavoro.
15Il solo altro sostegno della sua visione di società dell’avvenire – l’unico che nel suo sistema giustificherebbe la speranza che «i nostri discendenti si accontenteranno di essere in uno stato stazionario molto prima di trovarsi costretti a esso dalla necessità»13 – avrebbe potuto essere il compimento del progetto, da lui lungamente accarezzato, di costruire una scienza del carattere umano, l’etologia. Individuate le leggi generali della formazione e del mutamento del carattere umano, si sarebbe anche mostrato come la trasformazione potesse essere il prodotto congiunto delle condizioni esterne e della volontà degli individui. Com’è noto, quel libro Mill non riuscì a scriverlo mai.
Il doppio inganno è rivelato: John Maynard Keynes
16Ben maggiore consapevolezza di queste difficoltà ha Keynes quando, tra le due guerre mondiali, riproporrà l’utopia di Mill14. Come Smith e Mill, Keynes ritiene che il capitalismo presupponga condizioni culturali (oltre che istituzionali) particolari, decadute le quali esso è destinato a entrare in crisi. A differenza dell’uno e dell’altro, sottolinea però che l’avverarsi di quelle condizioni non solo è stato in grande misura casuale, ma ha dato luogo a un sistema sociale ed economico instabile (contro Smith), e il loro esaurirsi non significa di per sé un indolore e automatico passaggio a uno stadio più alto dell’evoluzione umana (contro Mill).
17Appena terminata la grande guerra, nel paragrafo delle Conseguenze economiche della pace intitolato «La psicologia della società», Keynes riprende l’immagine di Smith che vede nella «parsimonia» un inganno ordito a danno dei singoli ma favorevole alla società. E, come Smith, individua nella traduzione del risparmio in investimento e nella conseguente, sempre maggiore, soddisfazione dei bisogni fondamentali la giustificazione storica dell’ineguaglianza e del capitale.
18La corrispondenza con i temi smithiani è talmente pronunciata che vale la pena di citare ampi brani:
L’Europa [dopo il 1870 e prima della guerra] era socialmente ed economicamente organizzata in modo da permettere la massima accumulazione di capitale. Mentre vi era un certo continuo miglioramento nelle condizioni quotidiane di vita della massa della popolazione, la società era organizzata in guisa che una gran parte del reddito di nuova formazione veniva a cadere sotto il controllo della classe che era meno incline a consumarlo […] era precisamente la «ineguaglianza» di distribuzione della ricchezza che rendeva possibili quelle vaste accumulazioni di ricchezza fissa e di sviluppo di capitali che distinguono quel periodo da ogni altro. E qui sta, in fatto, la principale giustificazione del sistema capitalistico. Se i ricchi avessero speso la loro ricchezza di nuova formazione nei godimenti personali, il mondo già da un pezzo avrebbe trovato questo sistema intollerabile. Ma, come api, essi risparmiavano e accumulavano a vantaggio anche della comunità, perché essi stessi avevano di mira fini più ristretti. […] Lo sviluppo di questo rimarchevole sistema dipendeva perciò da un doppio inganno. Da un lato le classi lavoratrici accettavano, per ignoranza o per impotenza, o erano costrette, persuase o indotte dal costume, dalla convenzione o dall’autorità e dal ben regolato ordine sociale, ad accettare una situazione per la quale esse potevano chiamare propria una ben piccola parte della torta che esse stesse e la natura e i capitalisti avevano cooperato a produrre. Dall’altro lato era consentito ai capitalisti di considerare propria la miglior parte della torta ed essi erano teoricamente liberi di consumarla, nella tacita, sottintesa condizione che in pratica ne avrebbero consumato una ben piccola porzione. Il dovere di «risparmiare» divenne celebrata virtù e l’ingrossamento della torta oggetto di vera religione. […] Ciò dicendo io non riprovo necessariamente il metodo di quella generazione. Negli inconsci recessi del suo essere la società sapeva quello che si faceva15.
19Il soggetto è qui dunque la società, e i comportamenti degli individui sono – di nuovo come in Smith – dettati dalla propria collocazione di classe, e perciò determinati dalle leggi di riproduzione di quel sistema. Il mezzo è il capitale; fini sono il superamento della scarsità, e il passaggio a un’economia dell’abbondanza e dell’ozio: «forse sarebbe venuto un giorno in cui ce ne sarebbe stato finalmente abbastanza per tutti e la posterità avrebbe potuto cominciare a godere il frutto delle “nostre” fatiche»16.
20Il futuro è però incerto. Il processo può incepparsi prima di aver raggiunto il suo termine: la «torta» può essere insufficiente per una eccessiva crescita della popolazione, come in Mill; oppure, com’è avvenuto, a causa di una guerra. L’effetto principale della guerra non è stato tanto materiale, quanto culturale: ha dissolto «condizioni psicologiche instabili, che non si possono riprodurre». La Guerra ha rivelato a tutti la possibilità del consumo immediato e a molti la vanità dell’astinenza. Così «l’inganno è rivelato; le classi lavoratrici possono non essere più disposte a così larghe rinunzie e le classi capitalistiche, non più fiduciose nel futuro, possono avere voglia di godere in modo più completo la loro libertà di consumo fin quando essa duri, precipitando così l’ora della sua confisca»17.
21La questione sarà affrontata di nuovo nel 1930, nelle «Prospettive economiche per i nostri nipoti», e ci torneremo nel capitolo conclusivo. Questa volta, a essere impressionanti non sono solo le corrispondenze con Smith, ma anche quelle con Mill. In analogia con quanto scriveva nel 1919, Keynes ritiene che la velocità dello sviluppo sia tale che «scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di una soluzione, nel giro di un secolo»18.
22Il sintomo della nuova situazione è il diffondersi di una nuova malattia, la disoccupazione tecnologica. La causa, l’essere ormai vicino il soddisfacimento completo dei bisogni «assoluti», «quelli che sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili»; bisogni che, a differenza di quelli «relativi», caratterizzati dal bisogno insaziabile di superiorità sugli altri, possono raggiungere la saturazione19. La via di uscita è la riduzione dell’orario di lavoro: «Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo»20.
23Come in Smith, la storia della società sino al capitalismo è una storia sotto il segno della lotta per la sussistenza. Come in Mill, l’evoluzione naturale del sistema ha uno scopo di cui il fine dell’azione dei singoli è inconsapevole – la soluzione del problema economico –, ma una volta raggiunto deve lasciare spazio ad attività il cui fine sia cosciente: «per la prima volta dalla sua creazione l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero»21. Ancora come in Mill, il meccanismo dell’accumulazione conduce oltre il lavoro, al tempo stesso modificando – sino a rovesciarlo rispetto a Smith – il codice morale:
Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione «denaro» il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali22.
24Muta rispetto a Mill, come avevamo preannunciato, la coscienza della drammaticità della transizione. Una drammaticità che nel testo in questione, tra il 1928 e il 1930, sembra soprattutto localizzata al livello della cultura della società, cui viene imposta una trasformazione troppo accelerata. Keynes si interroga se sarà un bene, e risponde che se crediamo nei valori della vita si apre una possibilità che lo sia. Non nasconde però di pensare con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti dell’uomo comune, nel giro di pochi decenni, visto che per troppo tempo «siamo stati allenati a faticare anziché godere»23.
25Già nel 1936, nelle «Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria generale potrebbe condurre», la preoccupazione di Keynes si sarà radicalizzata. L’«amore per il denaro» costituisce uno sfogo per tendenze aggressive ben radicate nell’essere umano, come amaramente dimostrano i fascismi. Pretendere di cancellarlo in poco tempo può essere più un male che un bene: «È meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini; e mentre talvolta si denuncia il primo quale un mezzo per raggiungere il secondo, talaltra almeno ne è un’alternativa»24. La difficoltà di Mill si presenta ora sotto nuove spoglie: come conciliare il compito di trasformare la natura umana con il compito di governarla, quando i mezzi necessari al secondo scopo ostacolano il primo, perché si fondano proprio su quelle passioni che occorrerebbe estirpare affinché prevalgano i valori della vita?
26Può essere utile fare un passo indietro, per indicare un altro aspetto della questione. La distinzione operata da Keynes tra i bisogni assoluti e quelli relativi – una distinzione che è anche separazione e indipendenza dei primi dai secondi – non può non richiamare alla mente la distinzione di Smith tra bisogni «naturali» (cibo, vestiario e riparo) e desiderio di «quelle comodità che sono richieste dalla raffinatezza e delicatezza del nostro gusto»: si vedano, per esempio, le Lezioni di Glasgow. I primi, potremmo dire, sono comuni agli esseri umani in quanto eguali, siano essi soli o in società; i secondi, che pongono l’accento sulle differenze reciproche, sono necessariamente relazionali e posizionali.
27A differenza del Keynes di questi brani, però, Smith mette in relazione i due tipi di bisogni, e anzi crea un effetto di ritorno dei secondi sui primi. Non soltanto perché lo scopo del processo capitalistico, il sempre migliore soddisfacimento dei bisogni naturali, è per lui il risultato inintenzionale di attività che sono invece rivolte all’obiettivo impossibile di esaudire il desiderio di distinzione, attraverso l’impulso che esse danno alla divisione del lavoro e alla crescita economica. C’è di più. Quei beni, dapprima prodotti come «comodità» per i ricchi, finiranno con il tempo – quando le classi superiori se ne saranno stancate – con il passare alle classi più povere, soddisfacendo i loro bisogni «naturali». Che, dunque, sono in realtà sempre meno autonomi, e vanno a rimorchio del desiderio dei ricchi.
28Qui l’antico si rivela più attuale del moderno. I fenomeni di induzione e imitazione del consumo sembrano confermare l’intuizione di Smith e non la tesi di Keynes. L’economia ha più a che fare con i bisogni relativi che con quelli assoluti: sia perché le necessità fondamentali sono sempre più determinate dal contesto storico e sociale; sia perché è la produzione stessa a plasmare la domanda. Se le cose stanno così, non si vede perché l’espansione «artificiale» dei bisogni non possa costringere ancora l’essere umano nel mondo del lavoro e dell’economia, contrariamente a quanto scrive Keynes.
29D’altronde, un’ulteriore riprova di ciò la si ritrova nella stessa forma che ha poi assunto proprio l’intervento keynesiano, quando si è proposto di rimuovere i limiti che il capitalismo «puro», di libero mercato, poneva alla piena utilizzazione delle risorse, limiti che intralciavano la strada che conduce al superamento del problema economico. Quell’intervento si è infatti configurato come un’immissione di domanda aggiuntiva da parte dello Stato che ha sostenuto, direttamente e indirettamente, la domanda privata, e in particolare la quota dei consumi sul reddito. Vista da questo punto di vista, la politica economica eretta sulle basi della Teoria generale – qui non importa con quanta fedeltà – è la smentita più radicale del futuro preconizzato da Keynes, dal momento che si traduce in un ulteriore salto nell’«artificialità» del consumo. Un’«artificialità» che un commentatore, malevolo ma certamente acuto, come Schumpeter mette in risalto con perfidia in una tempestiva recensione al libro di Keynes:
Chi accetta il messaggio lì esposto potrebbe riscrivere la storia dell’ancien régime francese grosso modo nei termini seguenti. Luigi XV fu un monarca molto illuminato. Percependo la necessità di stimolare la spesa, egli si procurò i servizi di spenditori esperti quali Mme de Pompadour e Mme du Barry. Esse si misero all’opera con un’efficacia insuperabile. La conseguenza avrebbe dovuto essere la piena occupazione, indi il massimo di produzione e in ultimo un generale benessere. In verità si trova invece miseria, infamia e, alla fine di tutto, un fiume di sangue. Ma ciò fu una coincidenza del caso25.
30Certo, Schumpeter è incapace di prevedere l’efficacia dell’interventismo keynesiano, e perciò la possibilità che su di esso si fondi ciò che alcuni autori qualificano come la tregua sociale tra capitale e lavoro dei primi trent’anni del secondo dopoguerra. Ai nostri scopi, però, è proprio l’innaturalità dei bisogni soddisfatti dal capitalismo – cui approdano, da sponde diverse, tanto lo Schumpeter della Teoria dello sviluppo quanto il Keynes della Teoria generale – a essere di un qualche significato. Un meccanismo capitalistico di questo tipo, in cui è la produzione a tirar dietro di sé la domanda, riproduce, invece che superare, il «problema economico».
Come se avesse l’amore in corpo. Marx e l’enigma del lavoro
31Il discorso smithiano sulla giustificazione storica trova la sua ripresa e il suo rovesciamento in Marx26. I brani probabilmente più rappresentativi sono i due seguenti:
Dal punto di vista storico, questa inversione [di soggetto e oggetto] appare come il punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l’inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono fornire la base materiale di una libera società umana. Passare attraverso questa forma contraddittoria è necessario come, in un primo tempo, l’uomo deve dare alle proprie forze intellettive la forma religiosa di potenze indipendenti da sé27.
I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio28.
32In questa sezione cercherò di mostrare come la riconduzione dell’incivilimento dell’umanità allo sviluppo della produttività del lavoro portato dal capitalismo e l’individuazione di tre fasi della storia umana – della dipendenza personale; della indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale; dell’affermazione della libera individualità – non configurino né una concezione economicistica ed escatologica della storia, né un’ontologia; benché, certamente, siano fondate su una particolare visione dell’«essenza» dell’essere umano, e affermino la possibilità di dare un senso alla storia.
1. Il lavoro come essenza dell’essere umano
33Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx svolge la sua critica del modo di produzione capitalistico a partire dalla tesi che in esso viene a essere alienata l’essenza stessa dell’essere umano, costituita dal lavoro.
34Per il Marx dei Manoscritti, la specificità dell’essere umano è di essere un ente, al contempo, naturale e generico. Naturale: l’essere umano è, infatti, egli stesso una parte della natura, e ha una natura fuori di sé, di cui vive; dalla natura trae i propri mezzi di sussistenza, e la materia con cui appronta gli strumenti e l’oggetto del lavoro. Generico: in quanto essere pensante, e dunque dotato di ragione, è l’indifferenza di tutte le differenze; non è perciò legato ad alcuna determinazione particolare, ma può in potenza, attraverso il lavoro, progettare e rendere oggettiva ogni determinazione. Agendo secondo le leggi della natura e in rapporto con gli altri, in società, l’essere umano produce la stessa realtà che lo circonda secondo una misura universale.
35La libera attività consapevole, scrive Marx29, è il carattere specifico dell’essere umano. Mentre l’animale fa tutt’uno con la propria attività vitale, e non si distingue da essa, l’essere umano fa della propria attività vitale stessa l’oggetto del volere e della coscienza: non c’è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. Per questo l’essere umano è un ente generico: la pratica produzione di un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica, ne è la conferma. Per questo l’essere umano produce universalmente e non come l’animale sotto l’imperativo del bisogno fisico. Mentre l’animale produce solo se stesso e il suo prodotto appartiene immediatamente al proprio corpo fisico, l’essere umano riproduce l’intera natura e confronta libero il proprio prodotto: «[l]’animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie […] soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come un ente generico».
36In un lavoro autenticamente umano si mediano la genericità dell’attività, che non è fissata in uno scopo determinato, e la sua naturalità, la dipendenza da un mondo naturale e oggettivo. La realtà viene appresa trasformandola: è un «in sé» che può essere colto come tale, nella sua indipendenza, solo nella misura in cui è al contempo reso un «per noi». Il passaggio al lavoro salariato inverte qui, nel cuore stesso della sua essenza sociale, la natura del lavoro. Separa il lavoratore dal mezzo di lavoro, facendo anzi del primo uno strumento del secondo. Separa, ancora, il lavoratore dal prodotto del suo lavoro, che non soltanto non è di sua proprietà ma gli è indifferente. Separa, di conseguenza e per ultimo, il lavoratore dal suo stesso lavoro, che diviene così una maledizione. Alla originaria dipendenza dalla natura segue una altrettanto cieca dipendenza da meccanismi sociali incontrollati. Invece di trovare nel lavoro il luogo di uno sviluppo universale delle proprie capacità, l’individuo vive nel lavoro il massimo di estraneazione.
37Come si sa, gli interpreti si dividono tra chi ritiene che il Marx maturo, «scientifico», abbia abbandonato queste tesi del Marx giovane, «filosofo» troppo influenzato dalla critica che Feuerbach muove a Hegel. E anche chi sostiene la tesi della continuità si trova quasi sempre a leggere il discorso di Marx sul lavoro come essenza dell’essere umano come una generalizzazione mentale, oppure come la descrizione di una realtà metastorica. In quanto tale, esso andrebbe visto come la base di un giudizio – o pregiudizio, se si preferisce – filosofico, che stigmatizza la realtà del capitale in quanto deviazione da un’essenza, appunto, «naturale». Credo che le cose stiano molto diversamente. Che il Marx maturo trasformi radicalmente ma non abbandoni del tutto la visione giovanile. In questa trasformazione avviene un mutamento di grande portata: l’universalità e la socialità del lavoro sono ora ritenuti fenomeni integralmente storici. Essi fanno la loro apparizione, sia pure in forma rovesciata e astratta, soltanto con il modo di produzione capitalistico. È con quest’ultimo, infatti, che trovano pratica conferma il carattere sociale della produzione e la possibilità di non essere costretti permanentemente in una e una sola attività – elementi cruciali della definizione di quella genericità che costituisce il tratto distintivo di quel particolare ente naturale che è l’essere umano. In questa luce, il discorso sul lavoro come essenza dell’essere umano non è più, come nel 1844, il fondamento di una critica filosofica ed esterna della realtà esistente, ma diviene parte di una scienza che vuole totalmente immanente il punto di vista della critica. Vediamo meglio.
38Il luogo più opportuno per accertare la posizione del Marx maturo è, a me pare, la parte dei Grundrisse dedicata alle «forme economiche precapitalistiche». È qui, nella discontinuità tra il mondo del capitale e ciò che lo precede, che Marx sottolinea come nella storia venga a compimento quel cambiamento radicale della configurazione del rapporto tra essere umano e natura che si riflette nella realtà del lavoro, e dunque anche nella riflessione su di esso. Nelle forme economiche precapitalistiche, l’essere umano intrattiene un rapporto particolare e determinato con la natura, che irrigidisce gli stessi rapporti personali dentro i vincoli della tradizione. Prima del capitalismo, la natura non soltanto appare, ma ancora in larga misura effettivamente è, una condizione esterna, non mediata, dell’attività umana. Ne impone i ritmi, e ne segna il limite. L’agricoltura è in queste condizioni il centro dell’organizzazione economica. La terra come natura è presupposta al lavoro, «la principale condizione obiettiva del lavoro non si presenta essa stessa come prodotto, ma esiste come natura»30. Il rapporto con la terra è mediato dall’esistenza dell’individuo come membro di una comunità, ed egli deve riprodursi in questo ruolo determinato:
In tutte queste forme la riproduzione di rapporti dati in precedenza – più o meno naturali, o anche sorti storicamente, ma divenuti tradizionali – del singolo con la propria comunità, e una esistenza che sia oggettiva, determinata, predeterminata nei suoi confronti sia in rapporto alle condizioni di lavoro che ai suoi collaboratori, membri della sua tribù, ecc. – è il fondamento dello sviluppo, che fin dal principio è pertanto limitato, ma con l’eliminazione delle limitazioni diventa rovina e decadenza. […] All’interno di una determinata cerchia, possono qui verificarsi grandi sviluppi. Le individualità possono apparire grandi. Ma non c’è qui da pensare a uno sviluppo libero e completo né dell’individuo, né della società, in quanto un tale sviluppo è in contraddizione con il rapporto originario31.
39La divisione del lavoro è in queste forme economiche, come anche nella produzione artigianale precapitalistica, una divisione del lavoro «naturale-spontanea». Il lavoro del singolo, in quanto lavoro utile, è un lavoro immediatamente sociale. Ma, si badi, soltanto in quanto esso è al contempo lavoro parziale in una comunità ristretta, che mira a riprodursi in quanto tale. La separazione del lavoratore dalla proprietà dei mezzi di produzione, dalla terra come «laboratorio naturale», e quindi anche dai mezzi di sussistenza, è per Marx una condizione storica necessaria per emancipare l’essere umano dalla destinazione a una forma di attività limitata, che ne fa un ente particolare, non universale.
40L’universalità del lavoro capitalistico va intesa in modo duplice. Si tratta, innanzitutto, del fatto che nelle nuove condizioni il lavoro diviene sociale solo attraverso la mediazione del mercato: attraverso, cioè, un processo di equiparazione nello scambio, che realmente separa e oppone il lavoro vivo del salariato – in quanto produttore di denaro, e dunque in quanto lavoro sociale-astratto in potenza – rispetto ai lavori utili-concreti dei medesimi operai, che sono invece immediatamente privati, e disomogenei gli uni rispetto agli altri.
41Vi è anche un secondo aspetto. Una volta che la ricchezza non è più costituita dai valori d’uso, ma da una ricchezza astratta, la produzione non ha più un limite esterno dato dalla finalizzazione al consumo della classe dominante, o dalla riproduzione di rapporti già dati e fissi. Diviene autovalorizzazione del capitale, massimizzazione dell’estrazione del pluslavoro, produzione per la produzione. La stessa struttura tecnica della produzione viene incessantemente rivoluzionata, allo scopo di ottenere il profitto il più elevato possibile. In tal modo, peraltro, il capitale finisce con l’infrangere all’interno della produzione stessa il legame tra lavoratore singolo e mansione lavorativa. Autonomizza la produzione capitalistica dalle abilità particolari dell’individuo: un punto che segna un vero e proprio rovesciamento della posizione di Smith sulla divisione del lavoro.
42Nell’universalità del lavoro capitalistico vi è dunque una doppia separazione dalla naturalità. Nello scambio generalizzato è stata soppressa ogni traccia del lavoro utile, produttore di beni concreti, e il lavoro si è realmente ridotto a una pura astrazione, a creazione di ricchezza generica. Nel processo lavorativo non vi è quasi più rapporto tra le abilità particolari dell’operaio e gli specifici valori d’uso prodotti.
43Il modo di produzione capitalistico è così l’espressione di una contraddizione. Costituisce, per la prima volta nella storia, la società come effettiva universalità di relazioni nello scambio; fa ciò però isolando i produttori e contrapponendoli nella concorrenza. Rende il lavoro del singolo funzione della cooperazione sociale; gli impone però quest’ultima come risultato di una scienza e di una organizzazione capitalistica, di cui diviene un accessorio vivente: «[q]uello che compera il capitalista e che il lavoratore vende è il valore d’uso della capacità di lavoro, vale a dire il lavoro stesso, la forza che crea e accresce il valore. Perciò la forza che crea e che accresce il valore appartiene non al lavoratore ma al capitale. Incorporandosela esso diventa vivo e comincia to work “come se avesse amore in corpo”»32.
2. Il lato positivo del capitale. Natura e storia in Marx
44Poche altre citazioni basteranno a confermare la nostra interpretazione. Marx riprende da Smith la tesi che l’unica vera società è quella capitalistica, e ne ammette la superiorità rispetto alle forme precedenti. Ma ne sottolinea la contraddittorietà, e la possibilità che essa apre: che l’evoluzione spontanea lasci il posto alla libera individualità, la quale fa della società il suo progetto.
Si è detto e si può dire che il lato magnifico sta proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione naturale, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche. Altrettanto certo è che gli individui non possono subordinare a sé i loro stessi nessi sociali prima di averli creati. Ma è anche insulso pensare quel nesso soltanto materiale come un nesso naturale, inscindibile dalla natura dell’individualità (in antitesi al sapere e al volere riflessi) e ad essa immanente. Esso invece ne è un prodotto. È un prodotto storico. Appartiene a una determinata fase del suo sviluppo. L’estraneità, e l’autonomia in cui esso ancora si trova rispetto a loro, dimostra soltanto che essi sono ancora presi nella creazione delle condizioni della loro vita sociale invece di averla iniziata a partire da queste condizioni. Quella naturale è la connessione di individui nell’ambito di determinati e limitati rapporti di produzione. Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado, e l’universalità dello sviluppo della capacità in cui questa individualità diventa possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l’universalità, l’alienazione dell’individuo da sé e dagli altri, ma anche l’universalità e l’organicità delle sue relazioni e delle sue capacità33.
45Il modo di produzione capitalistico va visto dunque come il momento di passaggio tra due fasi della storia dell’essere umano: la prima «naturale», dove nel rapporto tra l’essere umano e la natura è il secondo elemento che prevale; la seconda «storica», dove è predominante l’attività dell’essere umano su una natura che, pur rimanendo esterna, è però sempre più sotto il suo dominio e la società è propriamente tale, cioè generale. A queste due fasi corrispondono necessariamente due diverse configurazioni del lavoro. Nella prima, lo scopo del lavoro è dettato dalla necessità naturale, mentre nella seconda è posto dall’essere umano stesso (e lo stesso vale, in certa misura, per gli ostacoli che il lavoro inevitabilmente incontra).
46La libera individualità è peraltro sociale non solo, per così dire, a valle, ma anche a monte. Le relazioni sociali non sono soltanto il prodotto di un nuovo tipo di individualità, ma esse entrano nella sua stessa costituzione. Si tratta nuovamente di un risultato reso possibile dall’epoca borghese. Infatti, il capitalismo, che nello scambio riunifica unità produttive separate e antagonistiche, dissolve però nella produzione l’isolamento dell’individuo e ne fa un essere generale, collettivo. Marx nega, di conseguenza, tanto che lo stadio primitivo possa essere caratterizzato, come in Smith, dal «lavoro dell’uomo isolato», quanto che la divisione del lavoro si limiti a frantumarne l’unità mantenendone però immutata la natura. La storia può piuttosto essere letta come il passaggio dal gregarismo primitivo all’autentica socialità del futuro, attraverso la fase contraddittoria dell’atomismo concorrenziale, e della cooperazione nella produzione, come anche, d’altro canto, della solidarietà tra i lavoratori: «L’essere umano si isola attraverso il processo storico. Originariamente egli si presenta come essere sociale, tribale, animale gregario». È lo stesso scambio a essere mezzo di questo isolamento, a dissolvere il gregarismo: «Non appena le cose si svolgono in modo tale che egli in quanto individuo isolato si ponga ormai in rapporto solo con se stesso, i mezzi per affermarsi come isolato consistono però nel suo farsi essere generale e collettivo»34.
47Che il capitalismo, giunto allo stadio del macchinismo, produca per un verso il massimo arricchimento potenziale delle capacità dei lavoratori, «liberandoli» dalle rigidità del mestiere e facendone in potenza gli ideatori e i controllori di una produzione universale, e per l’altro il loro massimo impoverimento, legandoli alla determinazione particolare impostagli dalla macchina di cui divengono mero strumento e appendice, è affermato a chiare lettere nel Capitale, di nuovo in chiara anche se implicita contrapposizione a Smith:
S’è visto che la grande industria elimina tecnicamente la divisione del lavoro di tipo manifatturiero con la sua annessione d’un uomo intero a una operazione parziale vita natural durante, mentre, allo stesso tempo, la forma capitalistica della grande industria riproduce in maniera anche più mostruosa quella divisione del lavoro, nella fabbrica vera e propria, mediante la trasformazione dell’operaio in accessorio consapevole e cosciente d’una macchina parziale […] Finché l’artigianato e la manifattura costituiscono il fondamento generale della produzione sociale, la subordinazione del produttore a un ramo esclusivo della produzione, cioè la distruzione della molteplicità originaria della sua occupazione, è un momento necessario dello sviluppo. Su quella base ogni branca particolare della produzione trova empiricamente la configurazione tecnica che le si confà, la perfeziona lentamente e la cristallizza rapidamente appena è raggiunto un dato grado di maturazione. Quel che provoca qua e là dei cambiamenti è, oltre qualche nuovo materiale di lavoro, fornito dal commercio, la graduale modificazione dello strumento di lavoro. Una volta raggiunta la forma confacente secondo l’esperienza, anche lo strumento di lavoro si irrigidisce, come dimostra il suo passare, spesso per millenni, dalle mani di una generazione in quelle della seguente. […] La industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma esistente di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione era sostanzialmente conservatrice […] Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica […] Per essa diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro: sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l’uno con l’altro35.
48Ben s’intende, sulla base di questa analisi, come Marx avesse elevato nei Grundrisse un inno al capitale tale da far impallidire qualsiasi cosa scritta da Smith:
Perciò la vecchia concezione secondo cui l’uomo anche se inteso in un senso molto limitato dal punto di vista nazionale, religioso, politico è sempre lo scopo della produzione appare molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell’uomo e la ricchezza come scopo della produzione. Ma, in fact, una volta gettata via la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, dei consumi, delle forze produttive, ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz’altro presupposto che il precedente sviluppo storico, la quale rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane, non misurate su di un metro già dato. Nella quale l’uomo non si riproduce entro un modo determinato, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualche cosa di divenuto, ma è nell’assoluto movimento del divenire?36
3. Una filosofia della storia?
49Non ci aiuta a intendere il senso della riflessione marxiana interpretarla come un’ontologia, dove la critica concreta della realtà sociale viene fatta dipendere da una previa comprensione speculativa del lavoro in quanto «modello» generale dell’agire umano. Non credo neanche che sia corretto leggerla come una filosofia della storia: almeno se con questo termine si intende, come è d’uso per i critici di Marx, una concezione «forte», aprioristica e teleologica, che dispone le fasi dello sviluppo del genere umano secondo un ordine orientato secondo la realizzazione di un Fine, imposto dalla Ragione o dalla Materia poco importa; una concezione in cui quindi la spiegazione si colora dei tratti della giustificazione. A questo schema Marx corrisponde altrettanto poco di Smith, Stuart Mill o Keynes, per i quali il capitalismo era un «caso», sia pure fortunato. In modo analogo, il riconoscimento da parte di Marx di un «senso» della storia, ricostruibile grazie a certe categorie generali, è più sotto il segno della possibilità che della necessità.
50Confesso che mi è sempre apparsa convincente la posizione di Alfred Schmidt, che legge in tutt’altri termini il discorso marxiano. Marx individua, a partire dalla sua analisi – scientifica e critica – di questa società, la differenza specifica tra il capitalismo e le forme precapitalistiche di produzione, differenza consistente nel fatto che «nel mondo preborghese il rapporto tra l’elemento naturale e lo storico rientra nel grande contesto della natura; nel mondo borghese, anche per quanto concerne la natura non ancora appropriata, quel rapporto rientra nella storia»37. L’attribuzione marxiana della «naturalità» alle formazioni sociali precapitalistiche è data, insomma, solo nel confronto con la società borghese, e sulla base della comprensione teorica dei moderni rapporti di produzione. Così, anche la fase della libera individualità sociale non costituisce tanto il fine cui tende linearmente l’evoluzione sociale, ma può essere il risultato di una prassi emancipativa.
51«Solo alla considerazione teoretica – scrive Schmidt – la modificazione di una forma si dimostra come suo sviluppo superiore pur senza esserne il necessario prodotto.» Il corso della storia in Marx «non obbedisce ad alcuna idea che ne costituisca l’unità e il senso, bensì si ricompone continuamente a partire da singoli processi originali», e alla società borghese spetta un ruolo metodologicamente decisivo solo in quanto a partire da essa si dischiudono tanto il passato quanto anche le possibilità del futuro. «Ogni momento storicamente superiore – prosegue – si fonda su quello inferiore, ma l’alterità qualitativa dell’inferiore rispetto al superiore che da esso scaturisce può essere compresa soltanto quando questo momento superiore si è pienamente dispiegato, ed è diventato oggetto di una critica immanente»38. In questo modo di vedere le cose il materialismo marxiano è critica della filosofia perché «attribuisce al mondo un significato soltanto nella misura in cui gli uomini sono riusciti a realizzarlo attraverso le loro istituzioni sociali» e «rifiuta di trasfigurare il continuo negativo della storia movendo dal concetto di una natura umana comune a tutti e immutabile o di un fondamento ontologico che il singolo dovrebbe scoprire in se stesso»39.
Orfeo e Narciso contro Prometeo. La fuga dal lavoro
1. La positività del finito
52La contraddittorietà del modo di produzione capitalistico si esprime, secondo Marx, nel fatto che, benché esso misuri la ricchezza sul tempo di lavoro, ha la tendenza a ridurre al minimo il tempo di lavoro che la società dedica alla produzione della ricchezza.
53Di solito, Marx viene rinchiuso dagli interpreti in posizioni estreme, entrambe caricaturali. Secondo taluni, Marx sarebbe il teorico dell’esaltazione del lavoro, all’interno di una visione della storia che riconduce le leggi di movimento di qualsiasi formazione sociale in un vero e proprio determinismo tecnologico, e fa del comunismo la condizione in cui si generalizza la figura del salariato. È una tesi che ha, di fatto, attraversato tanto la Seconda quanto la Terza Internazionale. Altri ne hanno fatto, all’opposto, il teorico del rifiuto del lavoro, all’interno di una visione della rivoluzione come «salto nell’assoluto». Come uscita, cioè, dai limiti di un finito alienato, in cui il lavoro sarebbe costitutivamente intrappolato, allo scopo di realizzare un agire, quello sì autenticamente umano, dai caratteri a priori indeterminati. Salto, dunque, dal finito all’infinito, da un lavoro condizionato a un’attività incondizionata. È questa, per esempio, l’interpretazione di autori così diversi come Franco Rodano, che ne fa la base di una critica di Marx, o come Toni Negri, che ne fa il fondamento di un’apologia del sabotaggio della produzione e dell’esproprio «proletario»40.
54Si tratta di un duplice, grottesco, travisamento della posizione di Marx.
55L’interpretazione «lavorista» inverte, rispetto a Marx, il nesso di causalità tra determinazioni tecniche e relazioni sociali, facendo comandare le prime sulle seconde; e non vede che in Marx la centralità della produzione e il discorso sul lavoro come essenza dell’essere umano sono antitetici, nel senso che la realizzazione del secondo può avvenire solo in un mondo in cui la prima sia stata superata.
56L’interpretazione «antilavorista» compie un errore idealistico, speculare a quello oggettivistico implicito nella precedente. Confonde, infatti, oggettivazione e alienazione: il Marx di questa lettura riterrebbe che qualsiasi attività che si svolge entro una materialità condizionante vada per ciò stesso ritenuta alienante. Come scrisse Claudio Napoleoni all’inizio degli anni Settanta, per Marx
il finito non è negativo, ma è reso tale da una situazione sociale determinata. La rivoluzione, nel senso di Marx, ne risulta allora caratterizzata come la riconquista della positività del finito, come quella riappropriazione dell’essere umano per cui il limite proprio dell’ente naturale generico, e perciò del lavoro, è solo limite e non anche alienazione e sfruttamento41.
57Rimane, comunque, il problema di individuare quale possa essere, in una prospettiva marxiana, la conciliazione tra riduzione del tempo di lavoro e «libero sviluppo dell’individualità», una volta che l’aumento della produttività sociale abbia esaurito il ruolo storico della centralità della produzione. Quale, insomma, la relazione tra economia e società, una volta superata la forma contraddittoria del capitalismo.
58La riflessione successiva dello stesso Claudio Napoleoni può esserci anche qui di aiuto. In alcuni scritti di questo autore, infatti, viene proposta una rilettura della prospettiva marxiana di superamento del capitalismo che riprende esplicitamente le argomentazioni di Mill e Keynes. Dopo aver ribadito che: «la centralità dell’economico, da un certo punto di vista, non può che essere constatata […] però, all’interno di quello che possiamo continuare a chiamare un compito, questa centralità va negata»42, osserva:
Questo però è un discorso aperto, e allora qui vengono concetti molto delicati, come quello di «scarsità», e il suo corrispettivo in negativo, che è l’abbondanza. Insomma, l’economia come scienza della scarsità – anche questo è un paradosso – è stata pensata così da chi pensava di dare una definizione generale, non connessa a un sistema sociale dato. Invece, secondo me, si potrebbe mostrare che questa definizione è strettamente legata al sistema sociale dato; e che, se invece si volesse tentare una definizione non così condizionata, bisognerebbe probabilmente pensare a un’economia in cui il momento dell’abbondanza – perciò della quiete, in qualche modo della tranquilla fruizione di ciò che si è conseguito – non si configura solo come necessaria base per andare avanti, ma come pacificazione, almeno relativa, rispetto a una certa condizione storica. Questo concetto avrebbe altrettanta legittimità di essere elemento costitutivo di una definizione dell’economia, di quanta ne abbia la scarsità43.
59Proprio perché incapaci d’intravedere una definizione diversa di economia, prosegue Napoleoni, Stuart Mill e Keynes avrebbero inteso l’uscita dal capitale come un’uscita dall’economia tout court. Piuttosto, si tratterebbe di vedere che in tal modo viene a terminare solo una particolare modalità dell’economia. Un ragionamento, e un suggerimento, suggestivi: ma che rimandano, inevitabilmente, a un chiarimento ulteriore, che riempia di contenuto l’economia dell’abbondanza, della «tranquilla fruizione di ciò che si è conseguito».
60Vale la pena di seguire tre possibili piste, tutte in qualche modo consentite dal percorso dell’ultimo Napoleoni – anche se, come dirò, le prime due non possono in alcun modo essere da sole viste come rappresentative della sua posizione.
2. Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?
61La prima possibile interpretazione è quella di leggere nel recupero operato da Napoleoni della nozione greca di σχολή, di contemplazione, come dimensione dell’essere umano altrettanto essenziale del lavoro, il rovesciamento rivoluzionario della posizione conservatrice di Augusto Del Noce44.
62La situazione contemporanea viene definita in termini di completa secolarizzazione, e quindi di crisi dei valori tradizionali: tale crisi andrebbe intesa però non come definitivo tramonto ma come temporanea eclissi. Il «compito» di cui parla Napoleoni potrebbe allora essere ridetto in questo modo: si tratta di superare insieme la riflessione preborghese, che ritiene che la vera umanità possa esplicarsi soltanto fuori dal lavoro, e l’assolutizzazione del lavoro realizzata dalla società borghese. Il ruolo storico del capitale, all’interno di questa lettura, sarebbe stato quello di costruire le condizioni materiali per estendere a tutti la σχολή. Il gigantesco progresso tecnico portato dall’industrialismo libera gli individui dal lavoro come sacrificio, e lo dispone ad «altro», ad attività in senso lato spirituali.
63Una prospettiva non troppo dissimile dal Keynes che, chiedendosi in cosa consista la fine dell’economia, si trova a citare il Vangelo di Matteo (2, 26-30):
Vedo quindi gli uomini tornare ad alcuni dei principi più solidi ed autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile45.
3. Marxismo e psicoanalisi. Un nuovo principio di realtà?
64Una seconda interpretazione, non necessariamente alternativa alla precedente, è quella di vedere l’uscita dal capitalismo come la condizione del superamento della contrapposizione tra principio della realtà e principio del piacere. Questa lettura può prendere lo spunto da alcune considerazioni di Napoleoni stesso.
65Secondo questo autore, una linea di ricerca molto proficua è quella del collegamento, finora tentato in modo superficiale, tra il marxismo e una parte della psicoanalisi come interpretazione della storia. Il congiungimento sarebbe possibile proprio sul punto del lavoro. «Il primo Freud, quello che contrappone principio della realtà e principio del piacere, si è posto il problema del lavoro in maniera molto precisa, cioè il problema del processo attraverso il quale, per ragioni attinenti essenzialmente alla sussistenza fisica, l’uomo abbia dovuto sviluppare una facoltà – appunto il principio della realtà, cioè il lavoro – che è stata la negazione di una altra sua facoltà, con una frattura al suo interno che ha determinato, nello stesso momento, sul terreno sociale la necessità della repressione, e sul terreno della vita individuale la costituzione graduale dell’inconscio.» Anche se Freud ha poi cambiato le sue idee su questo terreno, una problematica di questo tipo sarebbe vicina, secondo Napoleoni, a quella che Marx affronta nei Manoscritti. Anche in Marx il lavoro si oppone ad altre facoltà, il cui sviluppo sarebbe possibile soltanto in una fase in cui il lavoro divenga meno necessario46.
66Tra i «tentativi superficiali» cui fa riferimento Napoleoni vi è forse da annoverare quello di un autore, cui peraltro egli ha sempre prestato molta attenzione: mi riferisco al Marcuse di Eros e civiltà. Accanto al testo di Marcuse, non privo d’interesse è un altro libro degli anni Cinquanta, dalle tesi non molto dissimili. Si tratta di La vita contro la morte di Norman Brown, che dedica uno dei suoi capitoli centrali – intitolato «lo sporco denaro» – all’irrazionale razionalità dell’homo oeconomicus, e che fonda gran parte della sua argomentazione sui brani di Keynes contenuti in Conseguenze economiche della pace, che abbiamo citato. Vale la pena di soffermarsi un attimo su questa particolare versione di marxismo psicoanalitico.
67Basteranno poche citazioni per cogliere il senso della filosofia della storia proposta da Marcuse e Brown. Si prenda quello che scrive il secondo su Keynes: «Per Keynes, l’arte di vivere, che in un’età di abbondanza e di tempo libero dovrà prendere il posto dell’arte di accumulare i mezzi di sussistenza, è un’arte difficile che richiede una raffinata sensibilità, come quella dei membri del Bloomsbury Group immortalato nell’opera di Virginia Woolf». Se però è vero che «Keynes guarda con terrore all’emancipazione dal lavoro dell’uomo comune», si deve tener conto che «dal punto di vista di Freud ogni uomo ha gustato il paradiso del gioco durante l’infanzia; sotto le abitudini al lavoro, in ogni uomo c’è l’immortale istinto del gioco. Nell’inconscio rimosso esistono già le fondamenta su cui costruire l’uomo del futuro; non bisogna crearle dal nulla, basta recuperarle»47.
68Prendiamo ora il discorso di Marcuse: la repressività che domina nella civiltà contemporanea deve essere descritta «nei termini dello specifico principio della realtà che ha governato le origini e la crescita di questa civiltà». L’autore lo definisce un vero e proprio principio di prestazione perché «sotto il suo dominio la società si stratifica secondo le prestazioni economiche (in regime di concorrenza) dei suoi membri»48. La repressione istituzionalizzata è stata giustificata con il pretesto della penuria, un pretesto che diviene sempre meno plausibile con il progredire delle conoscenze dell’essere umano e il fatto che il controllo della natura consente di soddisfare sempre più i bisogni con minima fatica49. Il «regno della libertà» sta qui totalmente al di là della «lotta per l’esistenza», e la libertà si configura al di fuori di quest’ultima: «Il regno della necessità, del lavoro faticoso, manca di libertà poiché in questo regno l’esistenza umana è determinata da obiettivi e funzioni che non le sono propri, e che non consentono il libero gioco delle facoltà e dei desideri dell’uomo»50. Ne segue che maggiore è l’alienazione, maggiore è il potenziale di libertà: «l’optimum sarebbe un’automatizzazione totale. È la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione, ed è la possibilità di determinare l’esistenza umana in base ai valori di questa sfera che costituisce la negazione del principio di prestazione»51. Marcuse conclude:
Se Prometeo è l’eroe civilizzatore della fatica, della produttività e del progresso per mezzo della repressione, i simboli di un altro principio di realtà vanno cercati al polo opposto […] Orfeo e Narciso sono simboli di realtà, esattamente come Prometeo. […] Ora siamo in grado di trovare qualche conferma della nostra interpretazione nel concetto freudiano di narcisismo primario […] con esso, si rivelò l’archetipo di un’altra relazione esistenziale con la realtà. Il narcisismo primario è più che autoerotismo; esso assorbe l’«ambiente» integrando l’Io narcisistico col mondo oggettivo. […] [In quanto sentimento di estensione senza limiti, e identità con l’universo (senso oceanico)] il narcisismo può contenere il germe di un differente principio di realtà52.
69Il ragionamento è chiaro. Il principio di realtà viene identificato con il principio di prestazione, cioè con il lavoro. La civiltà si è potuta sviluppare, a partire dalla sua originaria situazione di penuria, solo in forza della repressione del principio di piacere: la desessualizzazione del corpo è stata necessaria per costringere al lavoro. Ma il superamento della scarsità, determinato dallo stesso capitalismo, rende possibile lo stabilirsi del nuovo principio di realtà, il ritorno del rimosso. La condizione di una società liberata è che vengano recuperati gli istinti infantili repressi, che spingono verso l’autosoddisfazione e la fusione con l’altro.
70In un saggio di qualche anno fa, raccolto poi in volume, Nancy Chodorow ha sviluppato una critica distruttiva di queste tesi, che rivela insospettate convergenze con il filo di discorso che sto perseguendo53. Secondo Chodorow, Brown e Marcuse assolutizzano il punto di vista del bambino. In tal modo, non si rendono conto che il principio di realtà non è integralmente riducibile a una civilizzazione repressiva basata sul principio di prestazione. Esso è anche, e in primo luogo, la soggettività di altri – per il bambino, la soggettività della madre. I bisogni degli altri divengono un problema solo per l’adulto, e nel corso del processo di crescita.
71Negando l’altro, si nega in primo luogo la donna. Svalutando la relazione sessuale di tipo «genitale», Marcuse e Brown concepiscono il piacere soltanto in quanto non separazione dall’oggetto d’amore: ma è proprio a partire dalla separazione che è possibile l’incontro con i desideri dell’altro, che acquistano quasi la stessa importanza dei propri. Ancora, il rifiuto dell’elemento procreativo nella sessualità (che entrambi gli autori riprendono da Nietzsche) esprime una negazione dell’esperienza della maternità (e, più in generale, della genitorialità), la quale richiede un agire che combina razionalità teleologica, senso della realtà, accoglimento dei bisogni dell’altro. La donna è qui negata, dunque, tanto come soggetto di desiderio, quanto come madre-persona che insieme gratifica e limita l’onnipotenza infantile. Al più compare – sulla scorta di Totem e tabù di Freud – come oggetto sessuale (proprietà comune della donna); o viene, addirittura, annullata in quanto singola e identificata con il mondo (senso oceanico), in una fusione che configura una relazione asimmetrica di asservimento dell’altro a sé.
72Non a caso, rileva Chodorow, gli eroi dei due autori sono Orfeo e Narciso: uomini che incorporano in sé il femminile, ma non hanno relazioni con donne. La liberazione, in questa prospettiva di individualismo radicale, è in primo luogo liberazione dall’altro, dalla donna. Un individualismo da cui, sia detto tra parentesi, non sfugge, come vorrebbe, la critica che alla «cultura del narcisismo» viene da autori come Christopher Lasch, i quali, contrariamente a Marcuse e Brown, imputano alla società contemporanea l’allentarsi delle forme di controllo culturale tradizionale. In fondo non stupisce che a un Es asociale si contrapponga un Super-io altrettanto asociale. Su queste basi, di rifiuto del processo di crescita e del principio di realtà, il recupero del narcisismo primario difficilmente può far da base a una teoria della società non individualistica, e a suo modo repressiva.
73All’opposto, psicoanalisi e femminismo possono essere visti come l’affermazione di una diversa fondazione per una teoria sociale alternativa: si tratta di rifarsi a un «individualismo relazionale», che sottolinei come gli individui siano costituiti dalle relazioni con gli altri, a partire da quella primaria con la madre. La nostra struttura psichica è sin dal principio costruita socialmente. I soggetti possono sfuggire all’alternativa tra solipsismo e fusione, se accettano la separazione e una «matura dipendenza» dall’altro come condizione della propria individuazione e del perseguimento del proprio desiderio.
74Da questo punto di vista, si potrebbe dire che tanto la visione della società del futuro come ripresa dei valori tradizionali à la Del Noce quanto il ritorno della natura istintuale à la Marcuse-Brown condividono, sia pure in forma a loro peculiare, la prospettiva smithiana dell’«uomo solo». Con la specificazione, ora, che alla solitudine dell’individualismo corrisponde un genere sessuale non casualmente maschile54. E si potrebbe forse aggiungere che a partire da questa diversa prospettiva, fondata su una necessaria intersoggettività e sul ruolo cruciale della relazionalità (a partire da quella primaria e fondamentale, quella con la madre), sarebbero possibili diverse filosofie della storia. Per esempio, sarebbero possibili una visione della storia che vede nell’intersoggettività e nella relazionalità (appunto, se si vuole, perché ha origine in un legame apparentemente «naturale» come quello madre-figli) un tratto permanente, che porta dunque a criticare tutte le filosofie che trascurano tale elemento; oppure una visione della storia che interpreta l’intersoggettività e la relazionalità (e, addirittura, la stessa relazionalità «materna») come un prodotto in larga misura storico: una posizione che evidentemente finirebbe con l’intersecare le tesi di Marx.
4. L’antropologia marxiana in questione
75In effetti, se il discorso su Marx che ho svolto nelle sezioni che precedono ha una qualche plausibilità, la natura umana resa possibile dal capitalismo ha caratteri sorprendentemente simili a quelli indicati dalla Chodorow: in particolare, un’essenziale socialità dell’individuo (nel lavoro), un’intrinseca relazionalità, che rende ormai improponibile il paradigma dell’«uomo solo». Non può non colpire la corrispondenza tra la descrizione che Marx dà – nei suoi Estratti dagli Éléments d’économie politique di James Mill, del 1844 – di un lavoro autenticamente umano, e quella che Chodorow offre di una relazione sessuale e di una maternità (e paternità) mature. Sia l’una sia l’altra sottolineano come l’altra persona entri in qualche misura realmente dentro di noi; come l’individuo sia, davvero, anche comunità:
Supponiamo d’aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l’altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, e avrei quindi goduto, nel corso dell’attività, una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l’oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come oggettuale, sensibilmente visibile e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) Nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque di aver oggettualizzato l’essenza umana e aver quindi procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D’essere stato per te l’intermediario fra te e il genere, e dunque di venir inteso e sentito da te stesso come un’integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D’aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque d’aver confermato e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comune e umana55.
76Una descrizione che, d’altronde, è ripetuta da Marx nei Manoscritti, con termini quasi identici, in riferimento al rapporto dell’uomo alla donna: quel rapporto «da cui si può, dunque, giudicare ogni grado di civiltà dell’uomo»; quel rapporto in cui si mostra «fino a che punto l’altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo, e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale è a un tempo comunità»56.
77La visione di Marx è, insomma, caratterizzata da un pessimismo non lontano da quello di Freud. L’essere umano, per vivere, deve trasformare, ma perciò anche in una certa misura dominare, una natura esterna a sé; il lavoro a sua volta, cioè la realizzazione della propria natura storica, comporta una rinuncia al pieno dispiegarsi della propria natura istintuale. È in questa rinuncia, peraltro, che l’essere umano può raggiungere la sua autentica umanità – un’umanità definita, come abbiamo visto, non metastoricamente, ma nell’attuale e contraddittorio svolgersi della dinamica capitalistica. È in questa rinuncia, ancora, che l’essere umano diviene davvero un essere sociale, un individuo segnato ab origine dalle relazioni con gli altri.
78La prospettiva antropologica di Marx non può allora essere la negazione del lavoro, o la sua riduzione a gioco, come vorrebbe Marcuse: ma neanche una sua assolutizzazione, come è nella banalizzazione di Marx che va oggi di moda. Semmai, la sua integrazione con le altre facoltà umane, quali la contemplazione e il piacere. La libertà reale non si nega ma si afferma in quel «superare gli ostacoli» che è tipico del lavoro. Lo stesso lavoro caratterizzante il regno della necessità – la necessità della riproduzione materiale al livello dato delle forze produttive e delle relazioni sociali – può divenire lavoro libero, autorealizzazione dell’individuo:
Il lavoro di produzione materiale può acquistare questo carattere solamente 1) se è posto il suo carattere sociale, 2) se è di carattere scientifico, e al tempo stesso è lavoro universale, se è sforzo dell’uomo non come forza naturale appositamente addestrata, bensì come soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma meramente naturale, primitiva, ma come attività regolatrice di tutte le forze naturali57.
79L’atto d’accusa di Marx al capitalismo è, appunto, quello di avere creato le condizioni di possibilità di questo sviluppo universale e relazionale dell’essere umano, mentre al tempo stesso ne impedisce la realizzazione. La società contro cui Marx si scaglia non schiaccia i diritti dei lavoratori: più radicalmente, ne violenta la natura. È, in questo senso – ormai del tutto alieno alla filosofia politica anglosassone –, una società non giusta.
80Un punto colto lucidamente da un’autrice estranea al canone classico del marxismo, come Simone Weil. Il linguaggio dei diritti, scrive, può forse essere adeguato al rapporto tra acquirente e venditore sul mercato delle merci. Non alla condizione del lavoratore dentro la fabbrica nel regime attuale, in tutto analoga a quella di una giovane donna condotta al bordello: «chiunque parlasse in tal caso dei suoi diritti utilizzerebbe una parola che suona ridicolmente inadeguata»58.
Dobbiamo disperare?
81Credo sia possibile una terza interpretazione del suggerimento di Napoleoni che individua come «compito» una ridefinizione della nozione stessa di economia; un’interpretazione in sintonia con quel Marx che mantiene al lavoro, anche materiale, un ruolo essenziale oltre il capitalismo.
82Si può partire da questo giudizio, contenuto nello stesso testo in cui quel suggerimento è avanzato:
La produzione come dominio è la «fissazione» in senso psicotico; l’ossessione del superamento di ogni e possibile scarsità: sempre, senza che questo abbia fine. Ecco: qui c’è proprio la possibilità di un momento di riflessione razionale; e quindi di ricostruzione di un’economia – e perciò di una regola – che si dovrebbe dare all’intenzionalità morale – che comunque non può mancare ogni volta che si parla di «compito» – un punto di riferimento che non sia solo uno scatenamento soggettivistico59.
83Come intendere questa «regola», questo principio di realtà, che non si contrappone, ma nemmeno si identifica, con il principio di piacere, evitando di scivolare in uno «scatenamento soggettivistico»?
84Credo si tratti di intendere questa «regola» in continuità con queste altre osservazioni che Napoleoni formula, proprio criticando la visione di Stuart Mill e di Keynes di una fine del primato dell’economico da intendersi come uscita dal lavoro:
Che il lavoro sia un fatto puramente negativo, un mero costo, rispetto al quale non si potrebbe porre altro problema che quello di liberarsene, è un’immagine che sorge appunto sulla base della storia data. Se questa storia viene criticata, se quindi non si pensa che essa sia stata l’espressione compiuta delle facoltà umane, allora si può pervenire all’idea che il lavoro non soltanto potrebbe essere cosa diversa da ciò che è stato finora, ma potrebbe anzi essere l’attività mediante la quale l’uomo si realizza nella sua «libertà e felicità»60.
85Una diversa economia presuppone, al tempo stesso, un lavoro diverso e un diverso «consumo». Una diversa produzione è la condizione di un autentico recupero delle dimensioni della contemplazione e del piacere. Credo che quest’ultima lettura sia la più fedele alle intenzioni di Napoleoni. Pure, penso che non sia senza significato che anche le precedenti interpretazioni abbiano comunque una qualche plausibilità. Le oscillazioni di Napoleoni trovano infatti la loro origine in difficoltà della posizione di Marx, e nel particolare contesto storico-sociale in cui ci troviamo.
86Per quanto riguarda Marx, si tratta di ciò. Un lavoro diverso nel «regno della necessità» richiede per lui che i soggetti siano in grado di riappropriarsi della propria produttività sociale alienata al capitale, del sapere sociale generale, che si erge loro contro nella forma di macchine usate capitalisticamente allo scopo di estrarre il massimo possibile di plusvalore. Marx, ovviamente, sa benissimo che l’introduzione delle macchine è determinata dall’antagonismo fondamentale tra capitale e lavoro. La ricchezza capitalistica è il pluslavoro, il tempo di lavoro vivo erogato dai lavoratori produttivi in eccesso rispetto al lavoro oggettivato nel salario reale che essi percepiscono: ma perché questa ricchezza sia ottenuta, il capitalista deve garantirsi sia che il lavoro sia effettivamente prestato, sia che sussista una differenza per lui «soddisfacente» tra valore d’uso e valore di scambio della forza-lavoro. Le macchine sono appunto disegnate in modo da sottrarre il più possibile agli operai il controllo della prestazione lavorativa trasferendolo all’impresa, e da consentire lo sfruttamento massimo.
87Se le cose stanno così, però, ci si può chiedere in che misura sia possibile distinguere tra un uso capitalistico e un uso non capitalistico delle macchine. Come Marx stesso sembra sospettare, il processo storico che ha dato nascita a un determinato tipo di base tecnologica della produzione segna quest’ultima in modo indelebile. «Quelle» macchine non potranno essere impiegate altrimenti che per il dominio delle cose sull’essere umano.
88D’altro canto, si potrebbe sostenere con molte ragioni che la missione storica del capitale è la costituzione delle condizioni del lavoro sociale non dal lato oggettivo – dal lato della scienza e della tecnica – ma dal lato soggettivo. L’«individuo relazionale» costruito nella produzione non sarebbe allora altri che il lavoratore, non in quanto singolo ma in quanto collettività solidale che lotta per l’eguaglianza e l’autonomia contro il meccanismo sociale che lo sfrutta. Se si vuole, da questa prospettiva si potrebbe dire che l’unico comunismo realmente conosciuto è il tempo libero, l’ozio produttivo, la dignità, riconquistati qui e ora, dentro e fuori dai luoghi di lavoro, da chi ha lottato contro un sistema che annulla le soggettività. Un comunismo la cui legge di movimento è stata sinora quella di procedere attraverso sconfitte.
89Ma qui la difficoltà si presenta in altra forma: il processo capitalistico, che nasce dall’antagonismo, tende però sistematicamente ad abolirlo. Da questo punto di vista, Marx non può che dar ragione al Ricardo di cui discorreremo nel capitolo successivo: immanente al sistema capitalistico è il periodico tentativo di ridurre il lavoratore a elemento della produzione in tutto analogo al bestiame; a merce che produce altre merci.
90La realtà del capitalismo «neoliberista», dagli anni Ottanta, a cui abbiamo accennato nella Introduzione, può essere interpretata come un’illustrazione storica esemplare di tutto ciò. Ha rivelato nei fatti la capacità del sistema capitalistico di abbattere un’opposizione operaia interna e antagonistica al processo di produzione della ricchezza sociale quale si dette dalla metà degli anni Sessanta del Novecento. Lo strumento di questa distruzione di soggettività è stato un salto tecnologico. È il «progresso» nel sistema di macchine ad avere non soltanto espulso donne e uomini dalla fabbrica, ma ad avere ridotto ad atomo chi vi rimaneva. Su questo sfondo, non stupisce che la prospettiva marxiana di integrazione tra lavoro e bisogni vada persa; che il soggetto possa essere recuperato solo fuori dal lavoro. Ma non è detto, come oggi troppo facilmente si pensa, che sia una strada senza ritorno61.
91Vale qui quanto afferma Alfred Schmidt:
Compito della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà, che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica62.
Notes de bas de page
1 Vedremo nel capitolo settimo che l’apertura a metà degli anni Novanta dell’archivio di Sraffa contenente le sue carte ha chiarito l’importanza che ha Marx nella costruzione del suo libro, oltre l’orizzonte ricardiano che pure caratterizza il suo oggetto d’analisi più esplicito ed evidente.
2 Come pretendono in fondo non soltanto i neoclassici, ma anche gli interpreti che riducono Sraffa al «fisicalismo».
3 Su Stuart Mill, a parte i testi già richiamati nel capitolo precedente, va vista soprattutto l’Introduzione di G. Becattini ai Principi di economia politica, Torino, Utet, 1983.
4 Principi di economia cit., pp. 999-1000.
5 Ivi, p. 1015.
6 Ivi, p. 1043.
7 Ivi, p. 1009.
8 Ivi, p. 1043.
9 Ivi, p. 1000.
10 Ivi, p. 999.
11 Ivi, p. 1002.
12 Ivi, p. 1003.
13 Ivi, p. 1002.
14 Tra Stuart Mill e Keynes salta agli occhi l’assenza nel mio discorso (del tutto ingiustificata) di Alfred Marshall, che pure alle questioni qui trattate dedicò non poco spazio nella sua riflessione. Anche in questo caso rimando a G. Becattini, Mercato e comunismo in Alfred Marshall, in B. Jossa (a cura di), Teoria dei sistemi economici, Torino, Utet, 1989. Qualche ragione ha invece la non considerazione di Karl Polanyi, la cui critica all’identificazione della nozione di economia (valida per società non di mercato) con il concetto di «economico» (modellato sulle categorie della scienza economica) segnala una rottura più drastica con la problematica smithiana di quanto non sia il caso degli altri autori analizzati. La trattazione anche di Marshall e Polanyi avrebbe allungato eccessivamente un discorso già non breve. Per quanto riguarda Keynes, pur nella differenza di alcune valutazioni, mi è stato di notevole stimolo lo scritto di un’anglista: A. Marzola, Retorica e immaginario nel discorso economico e politico di J.M. Keynes, raccolto in Aa. Vv., L’altro Keynes: linguaggio ed economia, Bergamo, Lubrina, 1990.
15 Le conseguenze economiche della pace, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983, pp. 34-35.
16 Ivi, p. 36.
17 Ibid.
18 Prospettive economiche per i nostri nipoti, in Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 272. Corsivo nel testo.
19 Ibid.
20 Ivi, pp. 274-275.
21 Ivi, p. 221.
22 Ivi, p. 275.
23 Ivi, pp. 273-274.
24 Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet, 1978, p. 545.
25 È nella Review of Keynes’ General Theory, tradotta in italiano in M. Messori (a cura di), Schumpeter, Bologna, il Mulino, 1984, p. 357.
26 Riprendo e sviluppo alcune tesi in Il concetto di lavoro in Marx, “Ricerche economiche”, 3-4, 1979, e in L’enigma del lavoro, “Collegamenti”, 23-24, 1989, dove si trovano più dettagliati riferimenti bibliografici.
27 Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 21.
28 Grundrisse, Firenze, La Nuova Italia, 1968-1970, 2 voll., vol. I, pp. 98-99.
29 Si veda Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 199-200. Corsivo di Marx.
30 Forme economiche precapitalistiche, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 83. Corsivi di Marx.
31 Ivi, p. 86. Corsivi nel testo.
32 Manoscritti del 1861-1863, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 114: «come se avesse amore in corpo» è frase che Marx riprende da J.W. Goethe, Faust, vv. 2130-2149.
33 Grundrisse, vol. I cit., p. 104.
34 Forme cit., p. 99. Corsivi nel testo.
35 Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1970, libro primo, parte 2, pp. 196-201. Corsivi di Marx.
36 Forme cit., pp. 87-88.
37 A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Bari, Laterza, 1973, p. 171, nuova ed. Milano, Punto Rosso, 2018 con mia Introduzione.
38 Ivi, p. 171.
39 Id., Ontologia esistenziale e materialismo storico in Herbert Marcuse, in J. Habermas (a cura di), Risposte a Marcuse, Bari, Laterza, p. 46.
40 Tra i molti scritti di Toni Negri in cui viene condotta una lettura antilavorista di Marx segnalo per tutti Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, 1979.
41 Quale funzione ha avuto la Rivista Trimestrale, “Rinascita”, 6 ottobre 1972. Corsivo nel testo.
42 La libertà del finito. Conversazione con Claudio Napoleoni, “Palomar. Quaderni di Porto Venere”, 3, 1987, p. 15. Corsivi nel testo.
43 Ivi, pp. 15-16. Corsivi nel testo.
44 La posizione conservatrice di Augusto Del Noce a cui faccio riferimento ha una nitida presentazione in Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Milano, Rusconi, 1971. L’interpretazione di Franco Rodano è soprattutto consegnata agli articoli pubblicati sulla “Rivista Trimestrale”.
45 Prospettive cit., p. 276.
46 Marx e la critica dell’economia politica, “An.archos”, 2, 1979, pp. 104-105.
47 N.O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Milano, Garzanti, 1986, p. 53.
48 H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1968, p. 87.
49 Ivi, p. 127.
50 Ivi, p. 213.
51 Ivi, p. 181.
52 Ivi, pp. 185-191.
53 Beyond Drive Theory: Object Relations and the Limits of Radical Individualism, “Theory and Society”, 13, 1985; poi in Feminism and Psychoanalytic Theory, Oxford, Polity Press, 1989.
54 E dunque parlando di Smith e delle variazioni sul suo tema non abbiamo impiegato, in questi ultimi due capitoli, per lo più «essere umano» ma «uomo».
55 Marx, Opere, Roma, Editori Riuniti, vol. III, 1843-1844, p. 247. Corsivi nel testo.
56 Manoscritti del 1844, p. 225. Corsivi nel testo. Qui «uomo» va appunto inteso come Mensch, essere umano.
57 Grundrisse, vol. II cit., pp. 278-279. Corsivi nel testo.
58 La Personne et le sacré, in Ecrits de Londres et dérnieres lettres, Paris, Gallimard, 1957. Questa parte finale del mio scritto è molto influenzata da alcune tesi di Simone Weil, di cui, oltre ai testi citati nel testo, vale la pena di vedere nella stessa linea: Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Milano, Adelphi, 1983 (ed. orig. 1955), e la recensione a Materialismo e empiriocriticismo di Lenin, originariamente pubblicato in “La Critique sociale”, 10, 1933, e ora ristampato in S. Weil, Oeuvres complètes, vol. II: Écrits historiques et politiques, tomo I: L’engagement syndical (1927-juillet 1934), Paris, Gallimard, 1988. Sul piano interpretativo mi sono stati utili il saggio di A. Scattigno, La volontà di conoscere, originariamente comparso in “Memoria”, 5, 1982, ripubblicato in P. Melchiori, A. Scattigno, Simone Weil. Il pensiero e l’esperienza del femminile, Milando, La Salamandra, 1986, e P. Winch, Simone Weil. «The just balance», Cambridge, Cambridge University Press, 1989. Quest’ultimo testo mette bene in luce la differenza, e addirittura la possibile opposizione, tra una visione della filosofia politica incentrata sul linguaggio dei «diritti», quale è quella del filone oggi egemone e di cui l’esponente più noto è John Rawls, ruotante attorno a una nozione astratta e astorica del «contratto sociale» stipulato da soggetti autointeressati e calcolanti dietro un «velo di ignoranza», e il linguaggio della «giustizia» di cui invece parla la Weil, che rimanda piuttosto in senso forte a una nozione di «natura umana» e alla contingenza storica. Una visione della filosofia morale che recupera anch’essa la nozione di natura umana, con un minore piglio polemico nei confronti della tradizione liberale di quanto sia nella Weil, l’ho ritrovata in due libri di R. Norman: The Moral Philosophers. An Introduction to Ethics, Oxford, Clarendon Press, 1983, e Free and Equal. A Philosophical Examination of Political Values, Oxford, Clarendon Press, 1987. Le ultime sezioni di questo lavoro sono anche state influenzate dal giudizio di Hannah Arendt, che condivido, secondo cui non potrebbe certamente esserci niente di peggio di una società di lavoratori senza lavoro (Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1988, ed. orig. 1958, p. 5), giudizio che però lei impiega erroneamente. A Hannah Arendt si deve anche il termine «ozio produttivo», che utilizzo per designare i momenti di liberazione che configurano il solo comunismo oggi possibile.
59 La libertà del finito cit., p. 23.
60 Elementi di economia politica, terza ed., Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 219. È questo un testo su cui tornerò più a lungo nel capitolo conclusivo. Il tema viene ripreso nei saggi posti in Appendice, che si ricollegano per molti versi al tema trattato negli ultimi due capitoli, ridefinendo la centralità del lavoro in rapporto alle questioni della natura e del genere.
61 La tensione tra un Marx affascinato dal dinamismo esasperato e distruttore del capitalismo e un Marx critico dell’atomizzazione borghese, cui egli contrappone un agire collettivo e i vincoli comunitari prodotti contraddittoriamente dallo stesso capitalismo, è molto ben chiarita nel libro di M. Berman, L’esperienza della modernità, Bologna, il Mulino, 1985 (ed. orig. 1982). La «soluzione» che suggerisco in questo capitolo alla contraddizione individuata da Berman – «se la visione globale della modernità [di Marx] è esatta, perché le forme di comunità prodotte dall’industria capitalistica dovrebbero rivelarsi più solide di qualsiasi altro prodotto capitalistico? Tali collettività non potrebbero dimostrarsi, come qualsiasi altro elemento di questo contesto, meramente temporanee, provvisorie, forgiate per invecchiare?» – consiste proprio nella possibilità e desiderabilità che la comunità antagonista di lavoratori e lavoratrici si percepisca qual è, cioè autodissolventesi essa stessa, e sia dunque capace di far spazio all’altro da sé, in significativo contrasto con la totalità capitalistica. È una soluzione che non fa altro che sviluppare un suggerimento dello stesso Marx in La sacra famiglia: se vince, il proletariato non diventa perciò il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo se stesso e il suo opposto. Il che ripropone l’autentico nodo problematico della teoria politica comunista: la necessità cioè di tenere insieme la centralità del lavoro salariato nella teoria della crisi sociale del capitalismo, riconoscendo la «gerarchia» reale presente nell’attuale costituzione della società, e la pari dignità dei soggetti quale base materiale di una autentica democrazia – qualcosa che fa confusamente capolino nel dibattito attuale su eguaglianza e differenze.
62 Il concetto di natura in Marx, Bari, Laterza, 1973, p. 189.
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