2. Migliorare la propria posizione
Adam Smith e la missione «civilizzatrice» del capitale1
p. 33-64
Texte intégral
Pour que la réalité se dévoile, il faut qu’un homme lutte contre elle.
J.P. Sartre, Matérialisme et révolution, in Situations, I, Paris 1957, p. 213
Introduzione
1L’economia politica ha costituito da sempre terreno fertile per la riflessione filosofica2. Gli ultimi anni, da questo punto di vista, non fanno eccezione: basti pensare al proliferare di studi di epistemologia economica, o ancora alla questione della relazione tra etica ed economia. Il problema che vorrei affrontare nelle pagine che seguono è invece di quelli un po’ desueti: la ricerca bibliografica difficilmente registrerebbe titoli recenti; l’inglese non sarebbe forse la lingua egemone; la letteratura definibile in senso lato come empirista e liberale sarebbe una componente importante ma non esclusiva.
2Si tratta, per dirla in breve e un po’ enfaticamente, di ripercorrere le tappe principali di quella linea di pensiero che si è interrogata sulla missione «civilizzatrice» e sul ruolo storico del capitale. Di riandare, dunque, a quegli autori che hanno visto nel primato dell’economico un problema, sino in alcuni casi ad auspicare, o a temere, un suo possibile superamento. E che, proprio perché questo era il loro tema, si sono trovati a fare affermazioni impegnative sulla «natura umana», e sul «significato della storia». Terreno che altri giudicherà scivoloso, e che senz’altro lo è: ma che comincia ad apparirmi culturalmente, e politicamente, ineludibile, per ragioni che spero saranno più chiare alla fine di questo capitolo. Certamente in questa luce l’economia politica si confonde con la filosofia della storia e con la filosofia morale; l’indagine sulle leggi di funzionamento del sistema sfocia nella questione del «senso» del corso storico, si confonde con la discussione sulla «giustificazione» del capitalismo – come vedremo, le due cose sono anzi per molti degli autori che considererò due facce della stessa medaglia.
3Il metodo che adotterò sarà quasi sempre quello di far parlare direttamente i testi. Metodo soggettivo e arbitrario quant’altri mai, al di là delle apparenze: benché poco di ciò che sosterrò pretenda di essere originale, la selezione e il percorso che proporrò presuppongono un filtro interpretativo molto forte, che rimarrà però in buona misura implicito.
Natura e storia in Smith
1. La filosofia morale
4È ormai riconosciuto che il punto di partenza della teoria economica di Smith va individuato in quell’originale compromesso tra le posizioni contrapposte di Hobbes e Hume cui l’autore scozzese approda nella sua filosofia etica: un compromesso di cui la Teoria dei sentimenti morali è il frutto più maturo, e senza il quale la Ricchezza delle nazioni sarebbe incomprensibile3.
5Nello stato di natura di Hobbes, i liberi individui isolati sono mossi esclusivamente da moventi egoistici, sicché la relazione tra di essi è definibile come una guerra di tutti contro tutti. Qualora lo stato di natura si realizzasse nella sua purezza, qualsiasi convivenza sociale si rivelerebbe impossibile. La società civile nasce in conseguenza dell’alienazione allo Stato dei propri poteri naturali: della rinuncia all’agire secondo passione, e dell’istituzione di un patto secondo ragione. Si tratta, dunque, di una costruzione artificiale. Dell’esito volontario di una convenzione, o di un contratto, tra soggetti calcolanti.
6La critica di Hume a Hobbes ha inizio con il rifiuto della finzione di uno stato di natura e con il riconoscimento di una dualità psicologica fondamentale. Accanto al linguaggio dell’egoismo, Hume individua infatti un sentimento originario di natura opposto allo spirito di cupidigia; un sentimento che spinge alla realizzazione del bene (o dell’utilità, o della felicità) individuale e sociale, e che è la fonte del giudizio morale. Tale sentimento è la «simpatia», o «benevolenza». L’etica di Hume si qualifica così come rigorosamente altruistica: la generale diffusione di un «senso di umanità», e la possibilità dell’individuo di giudicare la propria azione come se fosse uno spettatore imparziale fanno sì che il comportamento virtuoso possa aver luogo non in circoli ristretti ma in società allargate. L’egoismo, il self-love, appare invece come eticamente neutro.
7Lo sviluppo e il rovesciamento che Smith opera rispetto a Hume possono apparire in piena evidenza una volta che si sottolinei come per Smith l’egoismo sia il mezzo essenziale per la costituzione concreta di quel legame generale tra gli uomini, di quella «società» in senso proprio, che dovrebbe essere il luogo dove si esercita il comportamento morale di Hume. Infatti, il meccanismo impersonale del mercato – l’interazione tra i mercanti spinti esclusivamente dal perseguimento dell’interesse individuale – produce un’accelerazione della crescita della ricchezza materiale. Il benessere di ciascuno diviene funzione del lavoro di «sconosciuti».
8In quest’ottica l’egoismo può caricarsi, sia pure mediatamente, di un suo valore morale, per un duplice ordine di ragioni. La reale «possibilità» e «universalità» dell’etica altruistica di Hume, come etica non particolare ma comune al genere umano, dipende dal generalizzarsi dello scambio: in altri termini, se si guarda a ciò che avviene nella sfera economica, la «guerra di tutti contro tutti», lungi dal disgregare la società, ne pone le fondamenta. Inoltre, l’inclusione nel mondo del lavoro dei poveri, trasformati da mendicanti in salariati, e la crescita del benessere materiale goduto da tutti gli ordini della società, sono entrambi l’effetto – certo inintenzionale ma cionondimeno positivo – del libero confliggere dell’avidità dei singoli.
9La presenza di questi due temi – la società «progredita» è una società di mutua e generale dipendenza materiale; un paese è «civile» se la prosperità è diffusa tra tutte le classi – è evidente sin dalle prime pagine della Ricchezza delle nazioni (1776). Per quanto riguarda la sempre maggiore integrazione sociale propria dell’epoca moderna, si vedano per esempio questi due brani:
In una società incivilita [l’essere umano] ha bisogno in ogni momento della cooperazione e dell’assistenza di moltissima gente, mentre tutta la vita gli basta appena per assicurarsi l’amicizia di poche persone. In quasi tutte le altre razze animali l’individuo giunto a maturità è del tutto indipendente, e nel suo stato naturale non ha bisogno dell’assistenza di altre creature viventi. L’uomo ha invece quasi sempre bisogno dell’aiuto dei suoi simili e lo aspetterebbe invano dalla sola benevolenza; avrà molta più probabilità di ottenerlo volgendo a suo favore l’egoismo altrui e dimostrando il vantaggio che gli altri otterrebbero facendo ciò che egli chiede4.
10È per questo, scrive Smith, che la distanza che separa un principe europeo da un contadino industrioso e frugale «è minore di quella tra quest’ultimo e i vari re africani, padroni assoluti della vita e della libertà di diecimila selvaggi nudi»5. Non meno netto è il legame che Smith istituisce tra la società «progredita» – quella società dove la divisione del lavoro ha preso piede al punto da condurre a una specializzazione tendenzialmente senza limiti – e la generale diffusione del benessere materiale anche tra gli appartenenti alle classi più povere:
La grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in conseguenza della divisione del lavoro, è all’origine, in una società ben governata, di una generale prosperità che estende i suoi benefici fino alle classi più basse del popolo. Ogni operaio può disporre di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue necessità, e, dal momento che tutti gli altri operai si trovano esattamente nella stessa situazione, è in grado di scambiare una grande quantità dei suoi beni con una grande quantità dei beni degli altri, oppure, che è lo stesso, con il prezzo di questa quantità. Egli li fornisce copiosamente di ciò di cui hanno bisogno ed essi fanno lo stesso con lui, sicché una generale abbondanza si diffonde fra tutti i diversi ceti sociali6.
11Queste citazioni nascondono tra le proprie righe il «problema» che la società moderna pone a Smith, e le linee generali della soluzione che egli avanza. Il modo con cui l’uno e l’altra sono esposti ci consentono di cogliere quale sia per Smith la giustificazione storica della «grande società», cioè del modo di produzione capitalistico. È a queste tre questioni che dedicherò questa sezione e le due seguenti.
2. Il «problema»: ineguaglianza e benessere
12Il problema di Smith è rivelato dal confronto tra la disparità di benessere che separa ricchi e «poveri che lavorano» all’interno della società progredita (il principe europeo e il contadino industrioso), e il maggiore «agio» che separa il lavoratore a giornata dai capi di una società arretrata. La diseguaglianza propria della «società commerciale» non si accompagna solo al comprensibile lusso dei proprietari – il cui privilegio si esprime nella condizione di non lavoro e nella possibilità di comandare, di impiegare per il proprio utile, il lavoro di altri. Essa si accompagna anche, più misteriosamente, a un continuo miglioramento della condizione degli strati più bassi e numerosi della popolazione, i lavoratori non proprietari. Vi è qui un contrasto significativo con lo stadio «rozzo e primitivo», dove ognuno è proprietario tanto delle condizioni della produzione quanto del prodotto del proprio lavoro; dove non esistono classi che non lavorano; e dove vige una generale eguaglianza. Eppure, nota Smith, in tale situazione, a essere condivisa non è l’abbondanza, come ci si aspetterebbe a prima vista, ma la miseria.
13Insomma: le società arretrate hanno come destino la stagnazione e la fame; viceversa, la società del mercato e del capitale garantisce la crescita della produzione, l’aumento della popolazione lavoratrice, una generale diffusione del benessere materiale. Questa considerazione – che è spesso l’alfa e l’omega di una visione apologetica della società capitalistica – è invece, per Smith, l’enigma che l’analisi deve sciogliere. Già nell’Introduzione alla Ricchezza delle nazioni si legge che:
Nelle nazioni selvagge di cacciatori e pescatori, ogni individuo in grado di operare è più o meno impiegato in un lavoro utile con cui si sforza di provvedere alle necessità e ai comodi della vita. […] Pure, tali nazioni vivono in una povertà così orribile che soltanto per bisogno si trovano spesso ridotte, o almeno credono di esserlo, alla necessità di eliminare bambini, vecchi e ammalati inguaribili. […] Nelle nazioni civili e floride, all’opposto, sebbene una gran quantità di gente non lavori affatto, e molte di queste persone consumino il prodotto di un lavoro dieci e spesso cento volte maggiore della maggior parte di quelli che lavorano, pure il prodotto complessivo del lavoro sociale è così grande che tutti gli individui ne risultano spesso abbondantemente provvisti7.
14Nell’Abbozzo del 1763 Smith era stato ancora più esplicito nell’individuare la contraddizione della «grande società» contemporanea tra ineguaglianza nella proprietà e universale benessere8 e nello svelare il suo punto di vista. Non è difficile, scriveva, spiegare come avvenga che in una società evoluta i ricchi e potenti vivano nell’agio e si procurino tutto ciò che è necessario per vivere meglio di quanto non possa fare qualsiasi persona che viva da sola allo stato selvaggio. Non è altrettanto facile comprendere come il contadino e il lavoratore siano egualmente meglio provvisti. Ci si potrebbe naturalmente attendere – se l’esperienza non dimostrasse il contrario – che ciascuno di essi debba godere degli agi e di tutte quelle cose che sono necessarie per vivere, in misura maggiore che non gli strati inferiori del popolo in un paese civile9.
15Nella società commerciale chi lavora è soggetto a una «enorme defalcazione», sicché «a quelli che lavorano di più tocca di meno». Nelle Lezioni di Glasgow (1762-1763) è detto, sullo stesso tono, che colui che sopporta, per così dire, il peso della società, è quello che ne trae i minori vantaggi: eppure, anche chi è schiacciato da una così opprimente ineguaglianza gode di una maggiore ricchezza e abbondanza di beni rispetto ai membri di una società selvaggia.
3. La soluzione: divisione del lavoro e inclinazione allo scambio
16La soluzione di Smith fa perno sulla divisione del lavoro: un lavoro «sociale», specializzato e adibito a un’unica mansione, a un’attività particolare, produce più di quanto produrrebbe il lavoro di un produttore isolato. L’aumento della produttività media consente il mantenimento sia di «padroni», mercanti e proprietari fondiari, sia di oziosi e improduttivi. Ma consente anche di soddisfare sempre meglio i bisogni naturali, le necessità fondamentali (cibo, vestiario e riparo), delle classi più umili. La ragione è costituita dal fatto che ciò che resta al lavoratore è un prodotto comunque maggiore di quello che egli si sarebbe procurato con un lavoro non diviso, anche tenendo conto delle «deduzioni» del profitto e della rendita. L’estrazione di un sovrappiù nella «grande società» si accompagna per questa via a un miglioramento, quantitativo e qualitativo, della sussistenza rispetto alle società primitive, nelle quali la divisione del lavoro è solo ai primi passi, e in particolare rispetto alla condizione del lavoro non diviso:
Quando il lavoro è così diviso, e una così grande quantità di lavoro viene eseguita in proporzione da un solo uomo, il sovrappiù, ossia ciò che supera quanto è necessario al sostentamento delle persone impiegate, è considerevole, e ognuno può ottenere nello scambio quattro volte quello che gli sarebbe stato possibile se avesse eseguito il lavoro interamente da solo. Per questa via il bene prodotto è accessibile a un prezzo molto più basso, e il lavoro diviene invece molto più caro10.
17Come si sa, la divisione del lavoro dipende per Smith dallo scambio, per così dire, tanto a monte quanto a valle. A valle, perché la divisione del lavoro e, dunque, l’innalzamento della produttività sono tanto più approfonditi quanto maggiore è l’estensione del mercato: dunque, quanto maggiori sono le aspettative di profitto degli imprenditori. A monte, perché la divisione del lavoro trova la sua sorgente in una inclinazione, «naturale» e «comune a tutti gli uomini», al baratto e allo scambio: la quale a sua volta, come recitano le Lezioni di Glasgow, può essere ricondotta al «desiderio di persuadere, così caratteristico della natura umana»11.
18Abbiamo già visto, da una delle citazioni dalla Ricchezza delle nazioni, che, a differenza delle altre specie animali, l’uomo ha bisogno dell’assistenza dei suoi simili. Tale affermazione è peraltro ambigua, nel testo di Smith. Il bisogno di cooperazione e assistenza viene infatti interpretato a chiare lettere da Smith come una condizione propria della società «progredita», delle nazioni «civili»; al tempo stesso, l’autore scozzese sembra suggerire una tesi alternativa, quella secondo cui «quasi sempre» l’uomo dipende dai propri simili (d’altronde, già nella Teoria dei sentimenti morali Smith aveva sostenuto che «l’uomo può vivere solo in società»).
19Credo che questa duplicità possa essere sciolta se si coglie che per Smith la società di mercato, come mutuo nesso materiale, realizza pienamente nel corso della storia la dipendenza dell’uomo dall’uomo, corrispondente alla «natura». Anche qui – sulla scorta della lettera del 1755 all’“Edinburgh Review” in cui Smith commenta il Discorso sull’ineguaglianza del filosofo ginevrino – la posizione di Smith può essere interpretata come un compromesso tra la tesi di Mandeville e quella, appunto, di Rousseau. Mandeville «rappresenta lo stato primitivo del genere umano come il più triste e il più miserabile che si possa immaginare», mentre Rousseau lo considera «come il più felice e il più conforme alla nostra natura. Entrambi tuttavia ritengono che nell’uomo non vi sia alcun istinto che l’induca necessariamente a ricercare la società come tale». Per Mandeville, «è la miseria del suo stato originario che costringe l’uomo a far ricorso a questo sgradevole rimedio». Secondo Rousseau, «un seguito di eventi sfortunati»12.
20Per Smith lo stadio «rozzo e primitivo» è realmente «il più triste e miserabile»; davvero la scarsità stringe l’uomo nella sua morsa. Ciononostante, la debolezza dell’individuo isolato rispetto alla natura non è il primo motore del legame sociale. È, al contrario, la presenza, già nella condizione originaria, di un «istinto che l’induce necessariamente a ricercare la società come tale» – è l’inclinazione allo scambio che gli è propria in quanto essere dotato di ragione e linguaggio – che dà conto della spinta a vivere in società. In altri termini: nello stato primitivo, la socialità è sì essenziale, ma esiste solo in potenza. Da questo punto di vista, la natura umana appare un prodotto storico, non un dato di partenza: e il meccanismo che consente che essa giunga a maturità è appunto la divisione del lavoro.
21La situazione originaria, in cui l’uomo vive in comunità, è una situazione per un verso di eguaglianza e scarsità, per l’altro di indipendenza reciproca. In essa gli individui sono egoisti, ma spinti alla comunicazione: autonomi materialmente, dipendono però dal giudizio dell’altro. In questo senso, si può ben qualificarli come animali sociali. Lo «scambio» intellettuale si tramuta ben presto nel commercio vero e proprio, e nel volgere a proprio vantaggio l’egoismo degli altri: «Se un animale intende ottenere qualcosa dall’uomo, può riuscirvi solo in grazia del suo affetto e della sua gentilezza. […] Al contrario del cane, l’uomo non spera qualcosa dalla benevolenza, bensì dall’egoismo»13.
22Su questa base si erige quella divisione del lavoro per cui alla fine «ogni uomo vive di scambi, o diventa in certa misura un mercante»14 e che fa sì che l’egoismo divenga il cemento della società. La divisione del lavoro è la conseguenza – certamente «lenta e graduale» (dunque, non preordinata; inintenzionale) ma cionondimeno «necessaria» – «delle facoltà della ragione e della parola»15. La storia si configura qui come il progressivo svolgimento di un principio originario e benefico, in forza del quale l’egoismo proprio dell’uomo, il fare dell’altro un mezzo per i propri scopi, diviene a sua volta – attraverso l’impulso che dà al processo di specializzazione – il tramite essenziale per il completo dispiegarsi di una altrettanto originaria tendenza alla integrazione o socialità.
23Se, come spesso viene fatto, si attribuisce troppo facilmente a Smith l’identificazione tra la «società commerciale» di cui parla nei primi due libri della Ricchezza delle nazioni e il capitalismo emergente che ha concretamente di fronte, il passo è breve per farne senza troppi complimenti il sostenitore della razionalità e naturalità del mondo che esce dalla rivoluzione industriale. Il capitalismo si configurerebbe, in questa lettura, come la fine della storia e la realizzazione della natura.
24Le cose, come vedremo, non sono invece così semplici. Prima però di dar conto di questo nostro giudizio, conviene analizzare con più attenzione le tensioni contrastanti che attraversano la visione della natura umana di Smith, e la sua interpretazione della divisione del lavoro: tensioni che trovano il loro momento di cristallizzazione nella teoria del valore-lavoro comandato.
4. Ancora sulla filosofia morale
25Prima di procedere oltre, vale la pena di notare che la naturale «socialità» dell’essere umano si riverbera sullo stesso egoismo, che è per Smith inseparabile da una dimensione relazionale. È mettendo al nostro servizio l’egoismo degli altri che possiamo perseguire il nostro interesse individuale. Ma, più fondamentalmente, la molla universale che ci spinge è «migliorare la nostra posizione»:
Da dove dunque nasce quell’emulazione che corre attraverso tutti i diversi ceti degli uomini, e quali sono i vantaggi che ci proponiamo con quel grande obiettivo della vita umana che chiamiamo migliorare la propria posizione? Essere osservati, che ci si occupi di noi, che ci si informi di noi con simpatia, con compiacimento e approvazione, questi sono i soli vantaggi che possiamo proporci di ottenere con esso. È la vanità, non l’agio o il piacere, che ci interessa16.
26Lo stesso egoismo rimanda dunque al principio originario della socialità umana, la dipendenza dallo sguardo dell’altro.
27Il desiderio di «migliorare la propria condizione», «di norma calmo e scevro di passionalità, è presente in noi fin dalla nascita e non ci abbandona mai fino alla tomba»17. «Il mezzo più comune e ovvio» con cui tale desiderio si realizza è «un aumento del patrimonio». Ogni individuo «mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni»: curando il proprio interesse, dà luogo alla prosperità pubblica. Perseguendo l’egoismo, porta al massimo grado la socialità.
28Siamo ben lontani dall’individuo isolato di Hobbes, o – se è per questo – anche dall’«amor proprio» di Rousseau. La rivalità nel commercio dell’uno con l’altro conduce a un addolcimento del carattere e frena le passioni: l’uscita da quello stato permanente di guerra e di dipendenza servile che caratterizza l’ordine feudale è in qualche misura essa stessa un portato della ricerca del proprio utile individuale. Smith nega come corrispondente alla natura un’originaria autonomia dell’uomo isolato, e afferma anzi una sua essenziale socialità. La struttura relazionale del self-love e l’affermazione dello scambio, prima intellettuale e poi materiale, come nesso sociale «naturale», fanno dell’autore scozzese qualcosa di molto diverso da un individualista radicale.
Il comando sul lavoro. Individuale e sociale, dallo stadio «rozzo e primitivo» alla «grande società»
1. Il lavoro dell’«uomo isolato»
29La rottura di Smith con la posizione che afferma una primitiva asocialità dell’uomo è peraltro contraddetta da un motivo altrettanto potente della sua teoria economica, il motivo del lavoro.
30Quando Smith deve spiegare la generale diffusione del benessere nella società mercantile ricorre agli effetti della divisione del lavoro: nella sua argomentazione, un ruolo chiave è giocato dal paragone tra la produttività del lavoro diviso e quella del «lavoro dell’uomo isolato». Il lavoro dell’uomo isolato segnala l’inatteso riemergere di tracce della problematica dello stato di natura in Smith. Per un verso, attraverso quel paragone Smith effettua un confronto tra la situazione di isolamento degli individui autosufficienti nella produzione e nel consumo, che è propria dello stato originario, e una situazione pienamente storica quale quella della «grande società», in cui gli individui sono integrati nel consumo e il lavoro è diviso. Per altro verso, la possibilità stessa del paragone presuppone la presenza di un carattere dell’attività pratica di appropriazione della natura che permane immutato nella storia. Vediamo meglio.
31Il «lavoro dell’uomo isolato» rappresenta un caso estremo, quello in cui non esiste specializzazione produttiva, e in cui dunque il lavoro di ognuno deve provvedere interamente ai propri bisogni; un caso estremo che è approssimato dalle società arretrate nelle quali la divisione del lavoro è limitata e gli scambi sono sporadici. Ma si tratta anche di un caso che rende evidente la dipendenza dell’uomo: questa volta però dalla natura, prima e più fondamentalmente che dall’altro uomo. È qui, nel lavoro come originario confronto tra l’uomo solo e la natura, che affonda le sue radici il primato che l’attività di trasformazione dell’ambiente materiale ha nella teoria economica di Smith. La ragione può essere detta in breve. Per quanto il passaggio dal lavoro isolato e indipendente al lavoro sociale e diviso aumenti a dismisura la capacità produttiva, cioè incida sul risultato del lavoro, tale passaggio non muta però la natura del lavoro stesso. Nella fabbrica moderna il lavoro, pur ripartito su più persone, rimane sostanzialmente eguale, tanto nel «sacrificio» che comporta quanto nelle modalità di esecuzione, rispetto a quello della società primitiva.
32Questo «naturalismo» di Smith – se così lo possiamo chiamare – è il contenuto rimosso che riemerge ripetutamente tanto nella sua visione della divisione del lavoro quanto nella sua teoria del valore-lavoro comandato, nonostante e contro l’indubbia centralità dello scambio tanto per l’una quanto per l’altra.
2. Lavoro comandato e scambio
33Vediamo, per cominciare, come ciò sia vero nel caso della teoria del valore. Il valore è dato per Smith dalla quantità di lavoro che la merce può comprare o comandare, cioè dal potere d’acquisto di ciò che si è prodotto e venduto, misurato in lavoro:
Il valore di una merce, per la persona che la possiede e che non intende usarla o consumarla lei stessa ma scambiarla con altre merci, è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa la mette in grado di comprare o di comandare. Il lavoro è dunque la misura reale del valore di scambio di tutte merci. Il prezzo reale di ogni cosa, ciò che costa realmente a chi ha bisogno di procurarsela, è la pena e il disturbo di procurarsela. Il valore reale di ogni cosa per chi se l’è procurata e ha bisogno di collocarla o di scambiarla con qualche altra è la pena e il disturbo che essa può risparmiargli imponendoli ad altri18.
34Nello stadio «rozzo e primitivo» che precede l’accumulazione del capitale e l’appropriazione della terra, e in cui quindi non esistono profitto e rendita, il lavoro comandato è identico al lavoro contenuto, cioè al lavoro che è stato necessario mettere in movimento per ottenere quella data merce. L’eguaglianza tra tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto, come anche l’eguagliamento di lavori di diversa faticosità o qualificazione, è garantita dallo scambio e dalla mobilità del lavoro. Nel caso di divergenze dei valori di scambio dal rapporto tra i lavori contenuti, converrebbe infatti spostarsi dalle produzioni in cui tale divergenza è negativa a quelle in cui essa è positiva. Il processo concorrenziale fa dunque sì che il «valore di scambio» della produzione, ovvero il lavoro comandato, e il «valore del lavoro», ovvero l’anticipo necessario a pagare il lavoro contenuto, siano identici. Smith descrive tale situazione dicendo anche che l’intero prodotto è esaurito dal salario.
35La divisione del lavoro, facendo emergere un sovrappiù che è sottratto al lavoratore e di cui si appropriano i capitalisti e proprietari fondiari, dà luogo a un’eccedenza del lavoro comandato sul lavoro contenuto. Il valore di scambio di una merce ora comprende anche il profitto e la rendita, ed è dunque tale da poter acquistare merci in quantità superiore all’equivalente della spesa in salari sostenuta per la sua produzione. La cosa può essere espressa in due modi. Lo scambista riceve ora sul mercato più lavoro di quanto ne offra, perché la merce che vende ha richiesto meno lavoro di quelle che ottiene in cambio. O, alternativamente – dato il valore del lavoro (il salario) –, con il ricavato della vendita della propria merce egli può ora «mettere in movimento» più lavoratori di quanti ne erano stati necessari per produrre quanto ha venduto. Nel primo caso, si sottolinea che dietro lo scambio di merci vi è indirettamente uno scambio di lavoro (oggettivato). Nel secondo caso, si sottolinea invece che, in conseguenza dello scambio di merci, è possibile acquistare direttamente sul mercato del lavoro più lavoro (vivo) del lavoro contenuto.
36È stato spesso rilevato come l’argomentazione di Smith nasconda un circolo vizioso, in quanto fa dipendere il valore di scambio dal livello del salario, e dunque da un valore esso stesso. Ciò è senz’altro vero. Ma – riguardato non dal punto di vista di una teoria della determinazione dei prezzi relativi, ma dal punto di vista di una teoria che si interroghi sulla natura dello scambio e del capitale – il ragionamento di Smith è tutt’altro che incoerente. La definizione del valore come lavoro comandato è valida, per Smith, in qualsiasi stadio della società. Essa rimanda senza equivoci al primato della dimensione sociale nella sua visione della natura umana: infatti, quella definizione non fa che ribadire l’universalità della originaria «disposizione a trafficare»; e mette in evidenza le conseguenze della tesi smithiana che quella inclinazione trova la sua piena realizzazione solo in epoca moderna.
37Lo sforzo ricorrente del quinto e del sesto capitolo del primo libro della Ricchezza delle nazioni è quello di generalizzare il punto di vista dello scambio. Si pensi alla circostanza singolare per cui Smith, quando deve spiegare il valore nello stadio rozzo e primitivo, non procede nel modo che potrebbe apparire più lineare. Non lo definisce cioè come il tempo di lavoro contenuto nella merce stessa. Egli mantiene piuttosto la spiegazione generale: lo determina, dunque, come il tempo di lavoro che la merce «comanda» nello scambio tra produttori indipendenti, e introduce solo a mo’ di specificazione la considerazione che, nelle condizioni istituzionali delle società primitive, tempo di lavoro comandato e tempo di lavoro contenuto sono identici. Smith è insomma costretto a interpolare nella descrizione dello stadio «rozzo e primitivo» caratteristiche «moderne», come la presenza di uno scambio di merci non occasionale ma ripetuto e la compiuta affermazione del meccanismo concorrenziale: condizioni entrambe necessarie per poter giustificare l’affermazione che tipi diversi di lavoro vengano effettivamente equiparati nella vita di tutti i giorni, e che il tempo di lavoro possa costituire la base del valore.
38All’interno della stessa logica, e in modo del tutto analogo, il valore del prodotto del «lavoro dell’uomo isolato» è determinabile vedendo in quest’ultimo non il produttore autonomo ma lo scambista: immaginando, cioè, «l’uomo solo» come un soggetto che scambi con se stesso. E anche in questo caso Smith anticipa al produttore indipendente categorie distributive moderne, facendone un percettore di salario.
3. La ricchezza come potere: «lavoro comandato» e disuguaglianza
39In generale, per l’individuo il «valore reale di ogni cosa» è «la pena e il disturbo che essa può risparmiargli imponendoli ad altri». La ricchezza è dunque non solo un insieme di valori d’uso destinati al consumo ma anche e soprattutto potere sull’altro, comando sul suo lavoro:
La ricchezza, come dice Hobbes, è potere. Ma la persona che si procura una grande fortuna o la eredita non deve necessariamente procurarsi o ricevere in eredità un qualche potere politico, civile o militare. La sua fortuna può forse fornirgli i mezzi di procurarsi l’uno e l’altro, ma il semplice possesso di quella fortuna non se li porta dietro necessariamente. Il potere che quel possesso si porta dietro immediatamente e direttamente è il potere di comprare, cioè un certo comando su tutto il lavoro, ovvero su tutto il prodotto del lavoro che si trova sul mercato. La sua fortuna è maggiore o minore in proporzione esatta all’estensione di quel potere: ovvero alla quantità sia del lavoro di altri uomini sia, che è lo stesso, del prodotto del lavoro di altri uomini che esso lo mette in grado di comprare o di comandare. Il valore di scambio di ogni cosa deve essere sempre esattamente uguale all’estensione di questo potere che esso conferisce a chi lo possiede19.
40In origine, quando il prodotto appartiene interamente al lavoratore, questo potere è reciproco e non in contrasto con l’eguaglianza. Fuori dallo stadio «rozzo e primitivo», la presenza di deduzioni dal prodotto del lavoro rivela invece l’esistenza di classi che non lavorano: di classi che possono attribuire ad altri la «pena e il disturbo» della produzione della ricchezza. Per queste classi, la ricchezza come consumo è funzione della ricchezza come potere diseguale. Nella società «progredita», il sovrappiù può essere destinato a un impiego produttivo: può, cioè, essere reinvestito nell’acquisto di lavoratori che producono altra merce. Di conseguenza, dopo la vendita il capitalista non solo tornerà in possesso del valore anticipato come monte salari, ma otterrà anche una eccedenza, nella forma di un profitto lordo (che eventualmente spartirà con il proprietario fondiario, pagandogli una rendita). In tal modo, «quell’oggetto o, il che è lo stesso, il prezzo di quell’oggetto, può successivamente, se necessario, mettere in moto una quantità di lavoro uguale a quella che lo ha originariamente prodotto»20.
41Da questo angolo visuale, la teoria del valore-lavoro comandato esprime, in modo del tutto adeguato, la prospettiva dello scambista in un mercato capitalistico: una prospettiva che, per quanto abbiamo detto sin qui, è da Smith resa universale. Detto altrimenti: Smith, facendo valere «a ritroso» la categoria del lavoro comandato, è in grado di individuare e sottolineare lo slittamento che la prospettiva dello scambista subisce quando si passa da una società di produttori indipendenti a una società capitalistica.
42Al centro del quadro è ora la classe capitalistica. Nella società moderna, chi acquista dopo aver venduto non è più soltanto il lavoratore diretto, ma è anche e soprattutto un «mercante», un «padrone», o «imprenditore». Per il primo le cose, dal punto di vista del tempo di lavoro comandato, non sono cambiate: il lavoratore compra ancora merci il cui costo salariale è identico a quello delle merci che egli stesso produce in quanto operaio; per lui il lavoro comandato continua a essere uguale al lavoro contenuto. Per il «padrone», invece, è tutto diverso. Il fatto che egli percepisca un profitto rivela che egli è in grado di far lavorare altri per sé, che può procurarsi «le cose necessarie e comode della vita» non mediante il lavoro ma mediante il comando sul lavoro, sia oggettivato che vivo. Eppure, paradossalmente, il desiderio di arricchire della classe imprenditoriale, invece di condurre i suoi membri a un consumo opulento, si traduce in investimento, e quindi in un aumento del consumo di una massa crescente di «poveri che lavorano».
43La ricchezza come potere di pochi finisce per questa via, che è la via dell’accumulazione – della parsimonia, cioè dell’astensione dal consumo; della divisione del lavoro; del reinvestimento del profitto, e dell’allargamento della popolazione lavoratrice – per conciliarsi con la ricchezza come benessere materiale di tutti.
4. Lavoro comandato e produzione
44La lettura della teoria del valore-lavoro comandato come teoria dello scambio ha posto l’accento sul mutamento di senso, da egualitario a disegualitario, del termine «comando» nell’espressione «comando sul lavoro». Si tratta – potremmo dire – di una teoria del cambiamento, che proietta all’indietro, sullo stadio «rozzo e primitivo», le caratteristiche proprie della società moderna: lo scambio come comando sul prodotto del lavoro dell’altro; e, appunto, il comando sul lavoro in senso stretto, nel mercato del lavoro e nelle fabbriche.
45Il fatto però che Smith insistentemente intenda come sinonimi il comando sul prodotto del lavoro e il comando sul lavoro ci dice anche qualcos’altro. Ci induce a concentrare l’attenzione su quel «lavoro» che è l’oggetto del comando. Quel lavoro che, per Smith, si configura sempre e comunque come una lotta con la materia, in buona misura immutabile e immutata dallo stato originario alla società moderna. La lettura della teoria del valore-lavoro comandato è ora l’opposto della precedente: vista come teoria della produzione, essa è una teoria della permanenza. Proietta sulla società moderna l’ombra del «lavoro dell’uomo isolato»:
In ogni tempo e luogo, uguali quantità di lavoro si può dire abbiano uguale valore per il lavoratore. Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d’animo, al livello ordinario della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare sempre la stessa quota del suo riposo, della sua libertà e della sua felicità. […] In ogni tempo e luogo, è caro ciò che è difficile da raggiungere, ovvero che costa molto lavoro per procurarselo; ed è a buon mercato ciò che si può avere facilmente o con pochissimo lavoro21.
46La prospettiva, adesso, è cambiata: non è più quella dello scambista capitalista: di colui che acquista lavoro oggettivato sul mercato delle merci, o gli operai sul mercato del lavoro. Il punto di vista – lo dichiara lo stesso Smith – è ora quello del lavoratore: del lavoratore all’interno del processo di produzione. Direbbe Marx: del lavoratore come erogatore di lavoro vivo. È per lui che uguali quantità di lavoro sono sempre di uguale valore, quale che sia il salario. La fatica e la pena del lavoro, per lui, non si sono modificate rispetto alla condizione di isolamento e autosufficienza del lavoratore nello stato originario.
47Per Smith, il lavoro è sempre la fonte di ogni ricchezza: il «primo prezzo» con cui sono state comprate in origine tutte le ricchezze del mondo. È per questo motivo – perché il lavoro è l’unica fonte della ricchezza materiale, di cui muta solo l’organizzazione – che «il lavoro è la sola misura universale del valore, oltre che la sola precisa, ovvero è la sola unità di misura per mezzo della quale possiamo paragonare i valori di diverse merci in tutti i tempi e in tutti i luoghi»22. Il ragionamento, a ben vedere, ruota tutto attorno alla tesi che, quale che sia la «ricompensa reale del lavoro», cioè «la quantità reale di cose necessarie e comode della vita che esso può procurare al lavoratore»23 – una ricompensa che è indubbiamente aumentata a causa della divisione del lavoro – non cambia la «pena del proprio corpo»24 nel tempo di lavoro: «Il prezzo che egli paga deve essere sempre lo stesso, qualunque sia la quantità di beni che ne riceve in cambio»25. È l’intrinseca invariabilità del lavoro come «sacrificio» nel corso della storia che spiega come per Smith le condizioni della distribuzione siano parimenti irrilevanti quando si tratta d’individuare la misura appropriata del valore: «il lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro, ma anche di quella che si risolve in rendita e quella che si risolve in profitto».
48Al centro dell’attenzione sono l’uomo come agente attivo della trasformazione della materia e il lavoro vivo in quanto lavoro naturale. È soltanto il lavoro «l’oggetto» che l’ineguaglianza può, direttamente o indirettamente, redistribuire tra le classi. Non vi è dunque contraddizione tra l’affermazione di Smith, che vede nel salario, nel profitto e nella rendita le tre «fonti originarie» del valore di scambio, e la riconduzione della ricchezza al solo lavoro. Ciò che Smith vuole dire è che il valore di scambio, che sappiamo da lui definito essenzialmente come un potere d’acquisto, dipende dai redditi: ma quello che i redditi acquistano dipende a sua volta dal lavoro.
49Ritroviamo qui la duplicità – ma non, si badi, l’aporia – di Smith: diviso, ancora una volta, tra il principio «sociale» dello scambio e il principio «naturalistico» del lavoro. Non c’è dubbio insomma che, per lui, dietro il «valore di scambio» ci sia sempre e comunque il «prezzo reale», il lavoro.
5. Ancora sulla divisione del lavoro
50L’argomentazione di Smith ha così compiuto una perfetta rivoluzione su se stessa. La definizione del valore-lavoro comandato, inconcepibile al di fuori di una prospettiva centrata sullo scambio, nasconde una più fondamentale teoria del lavoro come necessario e unico costo reale della produzione.
51Ce lo conferma un ulteriore sguardo all’analisi smithiana sull’origine della divisione del lavoro. Partita come una rivendicazione del primato causale dello scambio sul lavoro diviso, approda infine alla tesi di un primato del lavoro dell’uomo isolato sullo scambio: lo scambio non può modificare la natura del lavoro rispetto alla situazione originaria, ma soltanto accrescerne la produttività. Il lavoro diviso, «sociale», è una specificazione del lavoro individuale. Un risultato tanto più rilevante se si pensa che in Smith l’indagine sulla divisione del lavoro ha una larga autonomia dalla problematica del valore, di cui in qualche modo costituisce il presupposto: sia nel senso che essa è già pienamente formulata in quegli scritti preparatori della Ricchezza delle nazioni in cui la teoria del valore-lavoro non fa ancora la sua comparsa; sia nel senso che anche nell’opera maggiore i capitoli dedicati alla divisione del lavoro precedono quelli sul valore.
52Nelle società primitive dedite alla caccia e alla pesca, i lavoratori, benché vivano in società, riproducono la situazione ipotetica del lavoratore isolato: effettuano tutti lo stesso lavoro e sono adibiti agli stessi compiti. Smith spiega in due modi – addirittura nelle stesse pagine – l’emergere della divisione del lavoro nello stadio «rozzo e primitivo». Comincia con l’osservare che una pur limitata diversità dei «talenti naturali» è sufficiente a mettere in moto il processo della specializzazione. La diversità delle abilità individuali, e perciò la presenza di un ventaglio di produttività, conduce i lavoratori – in quanto soggetti «egoisti» – a percepire la convenienza della separazione dei compiti e della cooperazione nella produzione: dividendosi i compiti allo scopo di sfruttare le differenze nelle rispettive abilità, essi possono produrre più di prima. Ogni lavoratore vedrà probabilmente migliorata la propria situazione: potrà infatti aumentare il consumo rispetto alla situazione di partenza, tanto del bene alla cui produzione si è specializzato, quanto degli altri beni che potrà procurarsi dagli altri lavoratori scambiando con loro l’eccedenza sul proprio autoconsumo.
53In questo ragionamento la divisione del lavoro ha la precedenza sullo scambio, di cui costituisce la condizione. Ma Smith rovescia subito la sequenza:
La differenza tra i talenti naturali degli uomini è in effetti molto minore di quel che si pensa; e in molti casi, le diversissime inclinazioni che sembrano distinguere in età matura uomini di diverse professioni sono piuttosto effetto che causa della divisione del lavoro. La differenza tra due personaggi tanto diversi come un filosofo e un volgare facchino di strada, per esempio, sembra derivi non tanto dalla natura quanto dall’abitudine, dal costume e dall’istruzione26.
54Qui la divisione del lavoro è piuttosto vista come un risultato dell’inclinazione allo scambio. È perché gli uomini comunicano, è perché «scambiano» col linguaggio, che sono poi indotti a scambiarsi i prodotti del proprio lavoro, e dunque ad affinare diverse abilità, che rompono l’eguaglianza originaria e creano i presupposti della disuguaglianza storica.
55Smith sembra dare la preferenza alla seconda spiegazione, integrandovi la prima. Coerentemente con la propria filosofia morale, ribadisce la precedenza della dimensione sociale su quella tecnica nell’attivazione del processo di crescita materiale della ricchezza. Va rilevato, peraltro, che il progresso della divisione del lavoro – pur così essenziale nel discorso smithiano – non modifica in nulla la descrizione che egli dà dei caratteri della divisione del lavoro né sembra avere conseguenze sulla sua visione del lavoro. Vi è un preciso parallelismo tra ciò che Smith scrive dell’una e dell’altro nello «stadio rozzo e primitivo» e nella società «progredita». In un passo già citato, per esempio, Smith ripete per la fabbrica la descrizione della divisione del lavoro in una società di caccia e pesca. In un paese civile e fiorente, come conseguenza della divisione del lavoro nelle manifatture:
ogni operaio può disporre di una grande quantità del suo lavoro che supera le sue necessità, e, dal momento che tutti gli altri operai si trovano esattamente nella stessa situazione, è in grado di scambiare una grande quantità dei suoi beni con una grande quantità dei beni degli altri, oppure, che è lo stesso, con il prezzo di questa quantità27.
56A essere cambiata è dunque solo la scala del processo, che ora è molto più estesa. Una volta che il capitale si è accumulato, la divisione del lavoro può essere spinta ai suoi estremi: sia perché è possibile anticipare un salario ai molti operai parziali, adibendoli a mestieri sempre più frammentati; sia perché è possibile aumentare le dimensioni delle unità produttive in conseguenza della frantumazione sempre più spinta del ciclo lavorativo. Ma il ciclo lavorativo stesso continua a essere il medesimo del lavoratore isolato, solo ripartito tra più braccia: «ciò che è opera di un sol uomo in uno stadio primitivo della società diviene infatti opera di parecchi in una società progredita»28. Insomma: il lavoro «sociale» della manifattura è lo stesso lavoro dell’individuo isolato: semplicemente, ognuna delle operazioni dello stadio primitivo è divenuta l’attività unica dell’operaio moderno, sicché essa è svolta con più destrezza, in minor tempo, e facilitata dalle macchine.
57L’identità di natura posta da Smith tra la divisione del lavoro nelle società primitive e la divisione del lavoro manifatturiera è rilevante anche per un’altra ragione. Essa consente di equiparare la relazione tra operai nella fabbrica moderna alla relazione di scambio tra produttori indipendenti. Vi è qui un collasso tra divisione tecnica e divisione sociale del lavoro, che – già nel primo capitolo del primo libro della Ricchezza delle nazioni – apre la strada al sorprendente isomorfismo tra la famosa descrizione della fabbrica di spilli29, con la sua necessaria sequenza di fasi lavorative concatenate, e quella integrazione tra industrie che dev’essere assicurata dal mercato affinché venga prodotto anche il più umile dei beni di consumo30.
58Una confusione che sembra rendere cieco Smith di fronte alla contraddizione tra l’organizzazione pianificata del lavoro dentro le unità produttive, e la separazione e il conflitto concorrenziale tra queste ultime sul mercato. Per lui, separazione e cooperazione governano ugualmente imprese e scambio. La società moderna finisce con l’essere così ridotta, squarciato il velo del mercato, a un’unica grande fabbrica. Un quadro che, come vedremo, non poteva non inquietare lo stesso Smith.
Il mercato e i «poveri che lavorano». La giustificazione storica del capitale
1. Mano invisibile ed equità sociale
59Tiriamo le fila del discorso. Gli imprenditori sono mossi dal movente egoistico del profitto: vogliono divenire ricchi, non accrescere le capacità produttive del lavoro, né soddisfare meglio i bisogni degli operai. Ciononostante, è proprio l’impulso a migliorare la propria condizione, accoppiato all’operare impersonale del mercato, che garantisce che sia questo il risultato delle loro azioni, al di là delle loro intenzioni. Il «chiaro ed evidente interesse di ogni individuo» è infatti «un principio potentissimo» che fa sì che nessuna parte della quota di reddito risparmiata possa «mai essere impiegata se non per mantenere lavoratori produttivi», pena «una evidente perdita per colui che la distogliesse in tal modo dalla sua giusta destinazione»31. La «parsimonia», dunque, tende ad aumentare il numero dei lavoratori. E anche il loro consumo, perché «ciò che ogni anno si risparmia viene regolarmente consumato», non direttamente ma indirettamente, «dai lavoratori, dai manifatturieri e dagli artigiani, i quali riproducono con un profitto il valore del loro consumo annuo»32.
60Il ragionamento è chiaro. Il profitto fa della produzione un mezzo per l’ulteriore accumulazione del capitale; lo stesso consumo dei lavoratori è un consumo «produttivo», finalizzato coscientemente all’accrescimento senza limiti del valore, e dunque al perseguimento di uno smodato desiderio di arricchimento. A sua volta, l’accumulazione è il mezzo per ottenere il benessere della grande massa della popolazione. La massimizzazione dell’accumulazione è la via più sicura per rendere massimo il consumo dei «poveri che lavorano».
61Il capitalismo realizza così, senza saperlo, una vera e propria «missione civilizzatrice»: grazie alla divisione del lavoro, porta al pieno sviluppo le caratteristiche razionali e comunicative della cultura umana, e rende massima la crescita della ricchezza; attraverso l’«inganno» di un risparmio finalizzato all’acquisizione futura di una ricchezza che non verrà però mai consumata da chi lo effettua, trasforma dei poveri «oziosi» in lavoratori «operosi». Garantendo la disuguaglianza con la «giustizia», cioè tutelando giuridicamente la proprietà dei pochi, li spinge a un’accumulazione accelerata che ha l’effetto di redistribuire nel modo più favorevole ai molti quanto si è prodotto. È da questo punto di vista che si comprende bene il giudizio negativo che Smith dà della condizione di stato stazionario, che consegue alla caduta del saggio del profitto.
62L’argomentazione smithiana su quella che abbiamo definito la giustificazione storica del capitale si ritrova, con poche variazioni, tanto nella Teoria dei sentimenti morali come nella Ricchezza delle nazioni. Bastino due passi:
I ricchi pescano nel mucchio solo ciò che è più prezioso e più piacevole. Consumano poco più dei poveri, e nonostante il loro egoismo e la loro rapacità naturali, benché pensino solo al loro interesse e il solo scopo che si prefiggono dalle fatiche delle migliaia di persone cui danno lavoro sia la gratificazione dei propri desideri vani e insaziabili, essi dividono con i poveri il prodotto di tutti i loro progressi. Sono portati da una mano invisibile a operare quasi la stessa distribuzione delle necessità della vita che avrebbe avuto luogo se la terra fosse stata divisa in parti uguali fra tutti i suoi abitanti; e così, senza volerlo e senza saperlo, fanno l’interesse della società e forniscono i mezzi per moltiplicare la specie33.
63La ricompensa reale del lavoro, la quantità reale di cose necessarie e comode della vita che esso può procurare al lavoratore, è forse aumentata durante questo secolo in misura maggiore del suo prezzo in moneta. […] Questo progresso nelle condizioni dei ceti più bassi del popolo deve essere considerato un vantaggio o un inconveniente per la società? La risposta sembra a prima vista estremamente agevole. Servi, lavoratori e operai di diverso genere rappresentano la parte di gran lunga maggiore di ogni grande società politica. Ma tutto ciò che fa progredire le condizioni della maggioranza non può mai essere considerato un inconveniente per l’insieme. Nessuna società può essere florida e felice se la grande maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile. Oltretutto, è semplice questione di equità il fatto che coloro che nutrono, vestono e alloggiano la gran massa del popolo debbano avere una quota del prodotto del loro stesso lavoro tale da essere loro stessi passabilmente ben nutriti, vestiti e alloggiati34.
64Rispetto alla vulgata di uno Smith apologeta di un capitalismo liberista, disposto a immolare gli uomini di oggi sull’altare di un benessere futuro, è vero esattamente l’opposto. Potremmo addirittura dire: il profitto come mezzo del salario. Smith, insomma, come il teorico dell’accumulazione: ma soltanto perché un’accumulazione sempre più veloce si traduce in un’economia di alti salari e di massima occupazione. O ancora, Smith come teorico della libera concorrenza: ma soltanto perché la rivalità e la competizione tra «mercanti», impedendo il monopolio, rendono minimi i profitti (date le rendite e gli interessi), e danno luogo a prezzi delle merci i più bassi possibili (alzando dunque, coeteris paribus, la retribuzione reale del lavoro).
65Vediamo il ragionamento sul salario. I comportamenti coscienti della classe capitalistica e di chi comanda politicamente mirano, ineluttabilmente, a colpire la condizione operaia: «I padroni sono sempre e ovunque in una specie di tacita ma non per questo meno costante e uniforme coalizione volta a impedire il rialzo dei salari al di sopra del loro livello attuale»35; d’altro canto, «tutte le volte che il legislatore cerca di regolare le controversie fra i padroni e i loro operai, i suoi consiglieri sono sempre i padroni»36. In questa situazione, è l’«anarchia» del mercato l’unica carta che può – paradossalmente – giocare a favore dei lavoratori. Tanto più è rapido e variabile il ritmo dell’accumulazione del capitale, tanto più è elevato il saggio di crescita della domanda di lavoro; e tanto meno efficaci le coalizioni degli imprenditori, costretti a farsi concorrenza l’uno con l’altro37. Di conseguenza, nel breve periodo, il salario fissato dal mercato del lavoro tende a eccedere il livello naturale, «il più basso compatibile con la natura umana». Se però l’accumulazione procede e lo scarto tra salario di mercato e salario naturale permane abbastanza a lungo, è convinzione di Smith che la sussistenza stessa finirà con l’essere trascinata verso l’alto. Il meccanismo che regola la «produzione di uomini» al variare del salario reale rispetto alla sua norma, pur continuando a operare, non è talmente forte da annullare gli effetti positivi dell’accumulazione.
66Peraltro, gli alti salari non sono soltanto l’effetto ma anche, almeno in parte, la causa del «progresso» economico. Vi è, per Smith, un vero e proprio circolo virtuoso tra crescita del salario e aumento della produttività: il maggior costo del lavoro è messo in moto dallo stesso meccanismo che spinge gli imprenditori a un approfondimento della divisione del lavoro; e l’impulso alla divisione del lavoro ha – come sappiamo – dei benefici effetti di ritorno sulla prosperità di tutta la società:
Tuttavia la stessa causa che eleva i salari, cioè l’aumento dei fondi, tende a fare aumentare le capacità produttive del lavoro e a far sì che una minor quantità di lavoro produca una maggiore quantità di prodotti. Il proprietario dei fondi che impiegano un gran numero di lavoratori deve sforzarsi, nel suo stesso interesse, di organizzare una divisione e una distribuzione del lavoro tale da metterlo in grado di produrre quanto più è possibile. Per la stessa ragione egli si sforza di fornire ai lavoratori le macchine migliori che sia lui stesso sia loro possono escogitare. Ciò che avviene tra i lavoratori di una particolare casa di lavoro avviene per la stessa ragione nell’insieme della società38.
67Con terminologia moderna, potremmo dire che l’aumento della produttività rende «compatibile» un corrispondente aumento del salario. Nella stessa logica, non c’è che un passo per intravedere, in un aumento del salario, il mezzo attraverso cui l’accumulazione riproduce se stessa, governando il tasso di innovazioni nelle imprese. «L’aumento dei fondi, mentre innalza i salari, abbassa i profitti»39, scrive Smith. Quando la concorrenza è massima, i profitti ordinari saranno ridotti al minimo possibile40. Mentre, infatti, «il prezzo di monopolio è in ogni occasione il più alto che si possa ottenere, al contrario, il prezzo naturale è il più basso che possa essere accettato, se non proprio in ogni occasione, almeno per un periodo considerevole»41.
2. I costi della divisione del lavoro
68Smith vede dunque nell’accumulazione capitalistica un mezzo per rendere più felici i lavoratori in quanto consumatori. Non gli sfugge, però, che le cose stanno ben diversamente se si guarda a ciò che ne è dei lavoratori in quanto produttori. Riemerge qui, in altra forma, la duplicità di Smith, teorico dello scambio e teorico del lavoro.
69I brani che Smith dedica agli effetti negativi della divisione del lavoro sono giustamente famosi, ma meritano una rilettura:
Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l’occupazione della stragrande maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cioè della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l’intelligenza della maggioranza degli uomini è necessariamente la loro occupazione ordinaria. Un uomo che spenda tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni, i cui effetti oltretutto sono forse sempre gli stessi, o quasi, non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva a scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non incontra mai. […] La sua destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo modo acquisita a spese delle sue qualità intellettuali, sociali e militari. Ma in ogni società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo42.
70Il «povero che lavora», la cui condizione era qualificata come la più felice e confortevole quando si analizzavano gli effetti dell’accumulazione sull’occupazione e sul consumo, è ora un soggetto senza virtù civiche o marziali, istupidito e impoverito nelle sue capacità da quella stessa divisione del lavoro che rende florida la società. Riemergono qui accenti rousseauiani: nelle
società barbare […] le svariate occupazioni di ogni uomo lo costringono a esercitare le sue capacità e a inventare espedienti per superare le difficoltà che incontra continuamente. L’inventiva è mantenuta viva e la mente non è lasciata cadere in quella sonnolenta stupidità che, in una società civile, sembra ottenebrare l’intelligenza di quasi tutti i ceti inferiori del popolo. In queste cosiddette società barbare […] ogni uomo è un guerriero ed è in una certa misura anche un uomo di stato, e può formarsi un discreto giudizio sull’interesse della società e sulla condotta di coloro che lo governano43.
71Certamente, queste note pessimistiche non sono sufficienti a rovesciare il giudizio che Smith aveva formulato sulla divisione del lavoro. Nelle società moderne, è vero, la ricchezza è ottenuta a spese della virtù. Ma, se è vero che nelle società primitive vi è «molta varietà nelle occupazioni di ogni individuo, non c’è molta varietà in quelle della società nel suo complesso» in uno stadio avanzato della civiltà, eppure, «sebbene ci sia poca varietà nelle occupazioni della maggior parte degli individui, c’è una varietà quasi infinita in quelle del complesso della società»44.
72Il ragionamento è chiaro. La divisione del lavoro comporta un costo elevato per gli individui appartenenti alle classi più povere, cioè per la gran massa della popolazione. Più precisamente, si tratta di una vera e propria caduta nell’eteronomia, nei processi di lavoro e nella società politica. Un destino senza ritorno, si potrebbe dire, perché la fabbrica manifatturiera costruisce un nuovo tipo d’uomo, integrato agli altri nel consumo ma ignorante e incapace di giudizio. Ciò che perde l’individuo lo guadagna, con l’interesse, la società. Aumentando le attività, aumentano le abilità, e dunque le capacità del corpo sociale collettivo. Può goderne quella frazione ristretta della popolazione che ha mantenuto un qualche tenue legame con la condizione originaria, in cui «ognuno fa, o è capace di fare, quasi tutto ciò che chiunque altro fa, o è capace di fare». Si tratta dei «filosofi», la cui collocazione particolare nella divisione del lavoro era stata sottolineata già nel primo capitolo del libro: la loro specificità consiste non «nel fare qualche cosa, ma nell’osservare ogni cosa»45. È a loro che deve riferirsi l’osservazione di Smith secondo cui la moltiplicazione delle mansioni e la frantumazione del lavoro «presentano una varietà quasi infinita di oggetti alla contemplazione di quei pochi che, non essendo essi stessi impegnati in nessuna occupazione particolare, hanno tempo libero e predisposizione per esaminare le occupazioni degli altri»46. Aumenta dunque l’intelligenza della società: e con essa il numero d’invenzioni e innovazioni, dal momento che è dall’osservare ogni cosa che può svilupparsi la facoltà «di combinare e unificare le possibilità insite negli oggetti più dissimili e lontani fra loro»47.
73La stupidità – se non addirittura l’infelicità – dell’individuo è il prezzo da pagare per allentare il vincolo della scarsità, e per consentire ai pochi un’«intelligenza progredita e raffinata»48. Il discorso di Smith assume qui un accento spietatamente realistico: amaro, certamente, ma che di nuovo non mi sentirei di definire apologetico. Non tanto per la cura, in verità un po’ superficiale, che l’autore scozzese propone: un intervento statale che imponga una istruzione di base alle classi più povere sarebbe poco più di un lenitivo, per un processo dalle tinte così fosche. E nemmeno per il pessimismo che conduce Smith a concludere che, in ogni caso, «tutti i tratti più nobili del carattere umano possono essere in gran parte cancellati ed estinti nella gran massa del popolo»49. Un pessimismo troppo frammisto alla rivendicazione con cui viene, a ragione o a torto, lamentata l’esclusione della propria corporazione, dei «filosofi», dalle leve del comando: «a meno che a questi pochi non capiti di essere collocati in situazioni molto particolari, le loro grandi capacità, per quanto onorevoli per loro, possono contribuire ben poco al buon governo o alla felicità della società»50.
74Quello che più conta è che nella Ricchezza delle nazioni l’abbrutimento della classe lavoratrice appare non come un destino di natura ma come un risultato storico: di una storia, per di più, che avrebbe potuto svolgersi in tutt’altro modo. Il capitalismo della «rivoluzione industriale» non è insomma per Smith il capitalismo «naturale», quel capitalismo che si sarebbe potuto realizzare con altre leggi e altre istituzioni. È certamente, sotto gli ordinamenti storici dell’Europa a lui contemporanea, il migliore dei mondi possibili: non però il mondo in cui vorrebbe vivere, né quello che, con altri presupposti e con una piena libertà commerciale, avrebbe potuto aver luogo.
75È con alcune citazioni da uno Smith così inconsueto e poco frequentato, almeno dagli economisti – uno Smith il cui peccato non è l’apologia, semmai l’utopismo –, che chiuderò questo capitolo dedicato all’autore scozzese.
3. Innaturalità del capitale
76È nella natura delle cose che la sussistenza preceda la «comodità e il lusso», e dunque «l’attività che procura la prima deve necessariamente aver preceduto quella che fornisce i secondi»51. La sequenza naturale dello sviluppo economico e del progresso della divisione del lavoro dovrebbe dunque andare, per Smith, dal «miglioramento e dalla coltivazione della terra» – che determina la creazione di un sovrappiù in agricoltura il quale a sua volta garantisce alla città cibo e materie prime – al conseguente aumento della domanda di manufatti, che stimola la produzione nelle città, alla ricerca di sbocchi all’estero:
Quindi, secondo il corso naturale delle cose, la maggior parte del capitale di ogni società che comincia a formarsi è diretta prima all’agricoltura, poi alle manifatture, e infine al commercio estero […] Ma per quanto quest’ordine naturale delle cose debba aver avuto luogo in qualche misura in ogni società, in tutti i moderni stati europei esso è stato sotto molti aspetti completamente rovesciato. Il commercio estero di alcune delle loro città vi ha introdotto manifatture più raffinate, cioè quelle adatte per la vendita in luoghi remoti e le manifatture e il commercio estero insieme hanno dato occasione ai principali miglioramenti dell’agricoltura52.
77«Quest’ordine di cose innaturale e retrogrado»: così Smith definisce la sequenza storicamente data, quella per cui le manifatture invece di essere figlie dell’agricoltura sono figlie del commercio estero.
78Non è questo il luogo per affrontare alcune questioni, peraltro di notevole interesse, suggerite dal modo con cui Smith sviluppa la sua argomentazione. Quale, per esempio, il senso da darsi alla sua «storia congetturale», che fa delle città il luogo primo di quella emancipazione dal dominio dei grandi proprietari fondiari che poi si estende alla campagna, in forza del graduale e impersonale diffondersi dello scambio. O quale, ancora, il riconoscimento dell’esistenza di vie alternative all’industrializzazione: quella che è stata definita «semi-naturale», che pur attivata dal commercio internazionale vede uno sviluppo dell’agricoltura precedente lo sviluppo delle manifatture secondo la sequenza commercio estero-agricoltura-manifatture, ed è dunque incentrata su un equilibrio tra settori che salvaguarda il lavoro indipendente tanto nelle campagne quanto nelle città; e quella «storica», sbilanciata a favore delle fabbriche e delle concentrazioni operaie secondo la sequenza commercio estero-manifattura-agricoltura, che finirà con il prevalere. Un contrasto che si riflette in quello tra crescita «proporzionale», quando le città si sviluppano secondo le capacità di estrazione di sovrappiù della campagna che le circonda, e crescita «non proporzionale», quando le manifatture si liberano dal vincolo costituito dalla domanda interna per inseguire quella estera.
79Vorrei piuttosto limitarmi a ricordare gli eroi di questo capitalismo naturale di Smith: l’agricoltore proprietario e l’artigiano indipendente. È indubbio da che parte stiano le simpatie di Smith; com’è indubbio che l’inedito capitalismo, agrario e di libera concorrenza, che ha in mente manterrebbe i tratti positivi dell’efficienza produttiva e dell’allocazione ottima delle risorse, senza i tratti negativi della divisione del lavoro e di un’eccessiva mobilità del capitale.
80Dai grandi proprietari terrieri non ci si può aspettare grandi miglioramenti, dediti come sono al consumo di lusso; ma meno ancora da chi lavora alle loro dipendenze: «una persona che non può acquisire proprietà non può avere altro interesse oltre quello di mangiare il più possibile e lavorare il meno possibile»53. Osserva Smith:
Un piccolo proprietario, però, che conosce ogni palmo del suo piccolo terreno, che lo guarda tutto con l’affetto che la proprietà, e specialmente quella piccola, naturalmente ispira, e che per tale motivo trae piacere non solo a coltivarlo, ma anche ad adornarlo, è in generale il più industrioso, il più intelligente e il più fortunato fra tutti coloro che attendono ad apportare miglioramenti alla terra54.
81La premessa del giudizio di Smith è che si dia una maggiore produttività del lavoro agricolo, in quanto quest’ultimo è favorito dalla collaborazione della natura. Di norma, dunque, la redditività dell’agricoltura è superiore a quella delle manifatture, e lo sviluppo delle campagne dà il via a quello delle città. Se non vi fossero retaggi storici o vincoli istituzionali a deviare il corso delle cose, lo stesso meccanismo concorrenziale dovrebbe imporre uno sviluppo trainato dal capitale agrario. La peculiare collocazione geografica dell’Inghilterra, che ne favorisce i rapporti con l’estero, giustifica che la crescita sia stata qui attivata dalle esportazioni, ma non che l’inversione della sequenza naturale sia così completa: il commercio internazionale avrebbe potuto comunque privilegiare la campagna prima della città, mentre invece è avvenuto proprio l’opposto.
82Un elemento che certamente concorre nella valutazione positiva che Smith dà di una crescita caratterizzata da un primato dell’agricoltura sulla manifattura, di questa possibilità non percorsa dallo sviluppo economico, è che il capitale del proprietario terriero «è fissato nei miglioramenti della sua terra»55 e, di conseguenza, è «il più sicuro, per quanto lo consente la natura delle vicende umane». Al contrario, «il mercante non è necessariamente cittadino di un particolare paese», e «il capitale che viene acquisito da un paese con il commercio e le manifatture costituisce un possesso molto precario e incerto»56. E ancora: mentre i mercanti e i manifatturieri sono mossi da «bassa rapacità» e da uno «spirito di monopolio», e dunque «il loro interesse è sempre direttamente opposto a quello della gran massa della popolazione»57, «i gentiluomini di campagna e gli agricoltori sono, a loro grande onore, tra tutta la popolazione i meno soggetti al meschino spirito del monopolio».
83Né va trascurato che per Smith il lavoro dell’agricoltura è per sua natura meno soggetto alla suddivisione del lavoro58: se questa circostanza di per sé rallenta l’aumento della produttività nelle campagne, è certo però che il lavoratore agricolo è appunto per ciò più tutelato dalle conseguenze nefaste della specializzazione:
Al comune aratore, generalmente considerato un campione di stupidità e di ignoranza, è raro manchino questo giudizio e quest’avvedutezza. Certamente egli è meno pratico di relazioni sociali di quanto lo sia il meccanico che vive in città, la sua voce e il suo linguaggio sono più incolti e più difficili da capire per coloro che non vi sono abituati, ma il suo intelletto, essendo abituato a considerare una grande varietà di cose, è in genere molto superiore a quello di coloro la cui attenzione è interamente occupata, da mattina a sera, nel fare una o due operazioni semplicissime59.
84Lo sviluppo della città a rimorchio della campagna ha un ultimo vantaggio. Si tratta di un processo caratterizzato non dalla presenza di grandi opifici e dall’impiego di lavoro salariato ma dalla predominanza nei centri urbani del lavoro artigiano indipendente. Una situazione in cui virtù e ricchezza sembrano, finalmente, poter andare di concerto:
Nulla può essere più assurdo, comunque, dell’immaginare che gli uomini in generale lavorino meno quando lavorino per se stessi che quando lavorino per altri. Un bravo operaio indipendente sarà in genere più attivo anche di un giornaliero che lavori a cottimo. L’uno gode dell’intero prodotto della sua attività, mentre l’altro lo spartisce col suo padrone. L’uno, nella sua situazione di isolamento e di indipendenza, è meno soggetto alle tentazioni delle cattive compagnie che nelle grandi manifatture rovinano tanto spesso i costumi dell’altro. La superiorità dell’operaio indipendente sui servi pagati a mese o ad anno, i salari e il mantenimento dei quali restano identici sia che facciano poco o molto, è probabilmente ancora maggiore60.
85Ritroviamo uno Smith diviso. La storia realizzata, e dunque il capitalismo realmente esistente, ha al suo attivo non solo la crescita materiale, ma anche la creazione di un ordine politico fondato sull’ordine e il buon governo. È grazie allo sviluppo «distorto» delle città e delle manifatture che si è passati dalla dipendenza servile e dalla soggezione personale alla dipendenza dal mercato e alla libertà individuale. Il giudizio che Smith dà è inequivocabilmente positivo, anche se vede i costi del processo; e anche se non si stanca di sottolineare la possibilità di accelerare l’accumulazione rimuovendo «i cento inconsulti ostacoli con cui la follia delle leggi umane»61 intralcia la spontaneità delle leggi di mercato. Gli ordinamenti politici possono ormai solo rallentare ma non arrestare il cammino verso la ricchezza e il progresso: quel cammino che è retto dai «principi potentissimi» dell’egoismo e dell’inclinazione allo scambio; e che è certo nella sua direzione anche se non nella sua velocità, una volta garantite libertà personale e sicurezza della proprietà.
86Smith non nasconde però l’esistenza di un’altra storia, di una storia possibile. Una storia che, come rivela l’ultima citazione, percorrendo, parzialmente o integralmente, la sequenza naturale dello sviluppo avrebbe consentito di far permanere nella «società commerciale» non solo, per così dire, il lato negativo ma anche quello positivo del «lavoro dell’uomo isolato». Non solo la pena e il sacrificio del lavoro, ma anche l’autonomia e l’indipendenza personale: massima nel caso dell’agricoltore piccolo proprietario, comunque superiore a quella dei «poveri che lavorano» nel caso dell’artigiano indipendente.
87Una storia non percorsa dall’Europa, ma che potrebbe essere il presente e il futuro di quello che è il vero modello di Smith: le nuove colonie, l’America:
Nelle nostre colonie americane, dove la terra incolta si può ancora avere a buone condizioni, non si è stabilita in nessuna città nessuna manifattura per la vendita in luoghi lontani. Quando nell’America del Nord un artigiano ha acquisito un po’ più dei fondi sufficienti a condurre la sua attività rifornendo la campagna vicina, egli con quei fondi non tenta di fondare una manifattura per la vendita in luoghi più remoti ma li impiega invece nell’acquisto e nel miglioramento della terra incolta. Da artigiano diventa piantatore, e né gli alti salari, né la facile sussistenza che quel paese concede agli artigiani possono indurlo a lavorare per altri invece che per se stesso. Egli sente che un artigiano è il servo del suo cliente, dal quale trae la propria sussistenza, e che un piantatore che coltiva la propria terra e trae la sua necessaria sussistenza dal lavoro della propria famiglia è in effetti un padrone ed è indipendente da tutto il mondo62.
Notes de bas de page
1 Questo capitolo e il seguente presentano un personale percorso di lettura di alcuni autori, e sono dunque densi di citazioni di cui le note danno conto.
2 Un contributo di grande rilievo sui temi qui trattati è il capitolo «Economia e filosofia» di C. Napoleoni, in Filosofia. Storia del pensiero occidentale, diretta da E. Severino, Milano, Armando Curcio, 1987. Di Napoleoni, com’è ovvio, ho anche tenuto presente il capitolo su Smith in Smith Ricardo Marx, Torino, Boringhieri, 1970.
3 La mia lettura di Smith ha l’obiettivo di illuminare aspetti del suo pensiero centrali e pure troppo spesso trascurati dalla vulgata che ne fa un liberista un po’ volgare. Riferimento principale è più la letteratura secondaria sull’economista scozzese prodotta da filosofi politici, antropologi, e storici, che non le interpretazioni avanzate dagli economisti. Si veda, per quanto riguarda i filosofi politici, I. Hont, M. Ignatieff (a cura di), Wealth and Virtue. The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, Cambridge, Cambridge University Press, 1983. Di Ignatieff va citato anche lo splendido I bisogni degli altri. Saggio sull’arte di essere uomini tra individualismo e solidarietà, Bologna, il Mulino, 1986, che vede nella «mano invisibile» ciò che concilia disuguaglianza sociale e assistenza ai più poveri. Per gli antropologi il riferimento è a L. Dumont, Homo aequalis. 1. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Milano, Adelphi, 1984 (ed. orig. 1977), che individua in Smith una tensione tra un momento ontologico e naturalistico che rimanda al primato della produzione e del lavoro dell’uomo isolato, e un momento sociale in cui il valore di scambio è determinato sul mercato. Tra gli storici, segnalo M. Berg, The Age of Manufactures. Industry, Innovation and Work in Britain 1700-1820, London, Fontana Press, 1985, per le diverse vie all’industrializzazione, e E.A. Wrigley, People, Cities and Wealth. The Transformation of Traditional Society, Oxford, Blackwell, 1987, per i limiti naturali allo sviluppo. Parte da questi due testi l’ottima rassegna critica di M.L. Pesante, La rivoluzione industriale, gli storici, e la ingannevole concretezza dei classici, “Metamorfosi”, seconda serie, 8, 1988. Va visto anche D. McNally, Political Economy and the Rise of Capitalism. A Reinterpretation, Berkeley, University of California Press, 1988, che a partire dalle posizioni controverse di Robert Brenner sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo vede in Smith il campione di un capitalismo agrario anziché l’interprete della rivoluzione industriale. Tra gli economisti, fondamentali G. Pietranera, La teoria del valore e dello sviluppo capitalistico in Adam Smith, Milano, Feltrinelli, 1963, e C. Benetti, Smith. La teoria economica della società mercantile, Milano, Etas, 1979. Attento alle molte sfaccettature della filosofia morale di Smith, A. Sen, Etica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 1988 (ed. orig. 1987). Vi è pure qualche consonanza tra quanto sosterrò e quanto scrive A.O. Hirschman, Interpretazioni rivali della società di mercato: civilizzatrice, distruttiva o debole?, in L’economia politica come scienza morale e sociale, con un saggio di L. Meldolesi, Napoli, Liguori, 1987, per quanto riguarda in particolare la tesi del doux commerce e la tesi dell’autodistruzione (su questo libro, e su Hirschman più in generale, si veda la mia recensione, Hirschman: domande e inquietudini, “Teoria politica”, 1, 1988). Di Hirschman rimane fondamentale il suo Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Milano, Feltrinelli, 1979 (ed. orig. 1977). Un cenno va fatto anche all’articolo di N. Rosenberg, La divisione del lavoro in Adam Smith: due concezioni o una?, in R. Faucci, E. Pesciarelli (a cura di), L’economia classica. Origini e sviluppo (1750-1848), Milano, Feltrinelli, 1976. Infine, due monografie di impianto marxiano muovono alcuni passi in direzione della linea che ho esposto: N. Fischer, Economy and Self. Philosophy and Economics from the Mercantilists to Marx, Westport, Connecticut, Greenwood Press, 1979, e D. Levine, Political Economy and the Argument for Inequality, “Social Concept”, numero monografico, settembre 1985.
4 Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano, Isedi, 1973, p. 19.
5 Ivi, p. 16.
6 Ivi, p. 15.
7 Ivi, pp. 3-4.
8 La ricchezza delle nazioni. Abbozzo, Torino, Boringhieri, 1959, p. 26.
9 Ivi, pp. 18-19.
10 Lezioni di Glasgow (1762-1763): cito da C. Napoleoni, Smith Ricardo Marx, seconda ed., Torino, Boringhieri, 1973, p. 179.
11 Ivi, p. 183.
12 Cito da L. Colletti, Ideologia e società, Bari, Laterza, 1970, p. 265.
13 Lezioni cit., p. 183.
14 La ricchezza delle nazioni cit., p. 26.
15 Ivi, p. 16.
16 Cito la Teoria dei sentimenti morali (p. 50), da M.L. Pesante, Economia e politica, Milano, Franco Angeli, 1986, p. 20.
17 La ricchezza delle nazioni cit., p. 336, anche per le successive.
18 Ivi, p. 32.
19 Ivi, p. 33.
20 Ivi, p. 323.
21 Ivi, p. 35.
22 Ivi, p. 38.
23 Ivi, p. 77.
24 Ivi, p. 32.
25 Ivi, p. 35.
26 Ivi, p. 19.
27 Ivi, p. 15.
28 Ivi, p. 11.
29 Ivi, pp. 9-10.
30 Ivi, pp. 15-16.
31 Ivi, p. 333.
32 Ibid.
33 Cito la Teoria dei sentimenti morali da M. Ignatieff, I bisogni degli altri, Bologna, il Mulino, 1986, p. 198.
34 La ricchezza delle nazioni cit., pp. 77-78.
35 Ivi, p. 67.
36 Ivi, p. 141.
37 Ivi, pp. 85-86.
38 Ivi, p. 86.
39 Ivi, p. 87.
40 Ivi, p. 94.
41 Ivi, p. 62.
42 Ivi, pp. 769-770.
43 Ivi, p. 770.
44 Ivi, p. 771.
45 Ivi, p. 14.
46 Ivi, p. 771.
47 Ivi, p. 15.
48 Ivi, p. 771.
49 Ibid.
50 Ibid.
51 Ivi, p. 374.
52 Ivi, p. 377.
53 Ivi, p. 382.
54 Ivi, p. 410.
55 Ivi, p. 375.
56 Ivi, p. 413.
57 Ivi, p. 483.
58 Ivi, p. 11.
59 Ivi, p. 127.
60 Ivi, pp. 83-84.
61 Ivi, p. 532.
62 Ivi, p. 376.
Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
La legittimità democratica
Imparzialità, riflessività, prossimità
Pierre Rosanvallon Filippo Domenicali (trad.)
2015
Filosofia sociale e politica
Lezioni in Cina (1919-1920)
John Dewey Federica Gregoratto (dir.) Corrado Piroddi (trad.)
2017