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1. A mo’ di Introduzione

Il lavoro nel capitalismo: tra teoria e storia

p. 13-31


Texte intégral

1In questo capitolo, e in fondo in tutto il libro, il tema è il lavoro nel sistema economico-sociale attuale, con uno sguardo dal punto di vista della storia dell’analisi economica.

2Lasciamo pure stare l’ambiguità del termine «lavoro». Il riferimento al sistema economico-sociale attuale può essere inteso come «capitalismo» dal suo stabilirsi come, appunto, «sistema». Ma il riferimento è anche al «nuovo capitalismo»: il cosiddetto neoliberismo, dai primi anni Ottanta del Novecento. In fondo si tratta di ragionare del destino di una dimensione che molti proclamano destinata a una fine imminente. Mi piacciono però le sfide, e proverò a tenere insieme questi livelli multipli dell’interrogazione.

Il lavoro nel capitalismo: uno sguardo di lunga durata

3Lavoro e capitalismo, dunque. Un modo, parziale ma significativo, per vedere l’evoluzione di questo rapporto è far riferimento ad alcune grandi figure del pensiero economico, a come il lavoro si configura nella loro riflessione. Conviene partire dall’inizio, da quello che molti reputano il padre dell’economia politica come disciplina autonoma, Adam Smith (che sarà l’oggetto del secondo capitolo). Smith è una figura singolare e interessante perché in lui l’elogio della libera concorrenza che si trova nella Ricchezza delle nazioni del 1776 si fonda su questo, che essa impedisce le coalizioni dei masters, dei padroni, di solito appoggiate dallo Stato, e di conseguenza spinge all’investimento, quindi all’accumulazione del capitale. Ma l’investimento è per Smith, soprattutto, fondo salari, perciò aumento della domanda di lavoro: il che da un lato porta all’aumento dell’occupazione e, dall’altro, a un’accresciuta pressione della domanda sull’offerta di lavoro e così a un salario di mercato più alto del salario di sussistenza.

4Entrambe le circostanze, dice Smith, sono favorevoli ai lavoratori e alle lavoratrici che prestano quel lavoro, che è e rimane toil and trouble, fatica dell’uomo che strappa alla natura le cose comode e utili della vita. Perché? Perché l’aumento dell’occupazione fa diventare i mendicanti «poveri che lavorano»: il capitalismo di libera concorrenza li immette nella democrazia (in un senso tutto diverso da quello che l’espressione ha preso recentemente). E perché lo scarto continuo verso l’alto del salario di mercato rispetto a quello di sussistenza fa diventare in realtà lavoratori e lavoratrici sempre meno poveri. La concorrenza e la disuguaglianza tipiche del capitalismo da lui prediletto, quello della «mano invisibile», sono giustificati in fondo soltanto perché favoriscono il mondo del lavoro. Discorso che fa una certa impressione quando si sia visto come, da fine Novecento, il capitalismo cosiddetto neoliberista non garantisca affatto, anche quando aumenti l’investimento, una crescita dell’occupazione; e tutto fa meno che aumentare il salario reale. Abbiamo qui una sorta di progressiva «filosofia della storia», che porta con sé un’idea particolare di «natura umana», che verrà sviluppata e contestata nei due secoli successivi (al dipanarsi di questo filo dall’originaria ispirazione smithiana è dedicato il terzo capitolo di questo libro).

5Quaranta-cinquant’anni dopo sarà tutto cambiato. Con Malthus e con lo stesso Ricardo (a cui è dedicato il quarto capitolo) la sussistenza, una sussistenza alquanto «biologica», ovvero la riduzione della forza-lavoro a strumento di produzione da alimentare come le macchine, è diventata una trappola molto più rigida, da cui è difficile se non impossibile scappare. Non soltanto il discorso di Smith – dove l’accumulazione del capitale si fa mezzo per l’inclusione nella cittadinanza dei soggetti, e migliora la condizione di quelli che stanno in fondo alla scala sociale – recede sullo sfondo. Lavoratrici e lavoratori sono ora – e devono rimanere – soggetto puramente «passivo». Ovviamente Ricardo riconosce il conflitto tra le classi con un rigore analitico che in Smith non c’è: non soltanto vede il conflitto tra profitto (industriale) e rendita (dei proprietari fondiari), ma anche, almeno in parte, quello tra capitale e lavoro per quel che riguarda la relazione tra progresso tecnico e occupazione. Ma, appunto, l’idea che chi presta lavoro possa essere soggetto attivo sul terreno del conflitto distributivo o sul terreno della produzione non lo sfiora nemmeno.

6Ciò che sta in mezzo tra la Ricchezza delle nazioni del 1776 e i Principi di economia politica del 1817-1821 è l’attacco a quella «economia morale» del mondo del lavoro, come l’ha chiamata E.P. Thompson: la distruzione di qualsiasi retroterra che nel vecchio sistema consentisse a lavoratori e lavoratrici una parziale possibilità d’indipendenza dal meccanismo capitalistico; la promulgazione delle leggi sui poveri; la violenta riduzione del mondo del lavoro a pura e semplice forza-lavoro sfruttabile a piacimento, non soltanto prolungando nella misura più estesa possibile la giornata lavorativa, ma anche immettendo nel mulinello della produzione capitalistica donne e bambini. Ogni resistenza dentro i processi di produzione poteva e doveva essere stroncata: per il bene di chi lavora, ovviamente… Qualsiasi intralcio al meccanismo economico avrebbe comunque peggiorato, non migliorato, le loro condizioni. A ben vedere, è l’idea «selvaggia» di capitalismo che si è di nuovo imposta ai nostri giorni.

7Cos’è successo nei cinquant’anni che separano dalla prima edizione (1867) del primo libro del Capitale di Marx (autore a cui saranno dedicati il quinto e il sesto capitolo) è noto. L’idea di Marx – consegnata in pagine che occupano almeno un terzo del volume, e che male si farebbe a relegare a contorno sociologico-storico della sua teoria economica – è che il capitale non può fare nemmeno un passo senza un corpo a corpo con quell’«antagonismo» che si trova dentro la propria costituzione, e che è in potenza agito dagli esseri umani che dovrebbero invece essere meri portatori di quella forza-lavoro da cui l’attività lavorativa dev’essere «estratta» se si vuole produrre valore, plusvalore, e dunque capitale. Il capitale, che è fatto tutto di lavoro morto – moneta, macchine, mezzi di produzione, edifici, beni intermedi, beni di consumo –, non si può valorizzare se non è in grado di immettere e plasmare un «altro» da sé, quella capacità lavorativa che sola può erogare lavoro vivo. Questo qualcosa, che è una alterità che va resa «interna», va anche controllato: non può però mai esserlo fino in fondo, così che diventi l’equivalente di una macchina. I capitalisti vivono in un mondo di incertezza: acquistano una forza-lavoro che potrebbe resistere. Non è tutto: anche se questo controllo si desse con successo, come di norma avviene, essi producono merci che potrebbero non vendere.

8C’è qui un doppio paradosso di cui Marx si rende conto per primo. È proprio il conflitto dei lavoratori e delle lavoratrici che si è rivelato la spinta più potente all’innovazione capitalistica, e tanto più quanto più non ci si accontenta delle compatibilità presenti nella situazione data. È la lotta sulla giornata lavorativa, dunque per la riduzione dell’orario di lavoro, come anche la lotta sul salario reale, dunque la definizione di quel valore della forza-lavoro – non un dato di natura ma il risultato di una lotta tra le classi –, che costringe le imprese a rispondere con un aumento della forza produttiva del lavoro: insomma, con l’introduzione del progresso tecnico che spinge verso l’alto la produttività del lavoro, e che può rendere compatibili ex post gli aumenti del reddito reale dei lavoratori e la riduzione dell’orario di lavoro. Senza che questo, almeno secondo Marx, porti a una interruzione della tendenza alla caduta del salario relativo – se si vuole, alla riduzione della quota dei salari sul reddito nazionale. Ci sono margini per una lotta «riformista» sino a che ci teniamo sul terreno della distribuzione, anche se l’antagonismo è irriducibile sul terreno della produzione di valore. La spinta al mutamento tecnico e sociale è «interna», e non deriva da una dinamica meccanica: deriva dal conflitto, dall’intervento di esseri umani irriducibili a cose, dalla presenza attiva della classe lavoratrice.

9Il paradosso è però duplice perché Marx si rende conto che, sino a che la quota dei salari cade, le condizioni della vendita delle merci possono peggiorare sino a dar luogo, in prima battuta, alla crisi da sproporzioni, e poi alla crisi da domanda generale. In generale, per questa e altre ragioni, Marx pensa che il capitalismo sia destinato a crisi sempre più gravi. Questo è il secondo grande cambiamento dopo Ricardo: non solo un intervento attivo della classe lavoratrice, ma un capitalismo soggetto a crisi che davvero iniziano a susseguirsi in un ciclo periodico. C’è qui una ingenuità di Marx, del Marx migliore. L’idea che in fondo le crisi annuncino la fine di un capitalismo che, nel frattempo, ha costruito le condizioni oggettive della «socializzazione» della produzione, dall’industria alla società per azioni; e che ha costruito anche, in fabbriche sempre più grandi, il soggetto di massa socialmente coeso, e in fondo omogeneo, che può riappropriarsi di quella ricchezza. Abbiamo qui il salto dalla crisi come ciclo alla crisi come crollo.

10Una ingenuità perché il capitalismo della globalizzazione ci presenta un capitalismo sempre più organizzato e concentrato, ma con grandi imprese sempre più snelle e soprattutto con un lavoro sempre più frammentato. Proprio quando diviene estremo il tentativo capitalistico di vedere in lavoratrici e lavoratori i semplici portatori di forza-lavoro che si vuole separare dall’essere umano per godere a piacimento della prestazione lavorativa quando serve, proprio allora si capisce che il progresso economico, riduttivamente inteso, non batte sempre la stessa strada del progresso sociale, e si comprende dunque anche che l’accumulazione del capitale può procedere non riunificando naturalmente il mondo del lavoro ma segmentandolo e dividendolo. Ci tornerò.

11Tutto meno che una ingenuità è però l’idea di fondo di Marx: che la democrazia richiede condizioni materiali e sociali che Smith non si sogna nemmeno: richiede cioè che individui con capacità ricche per realizzarsi richiedano, al di là di una certa soglia dello sviluppo, non soltanto una libertà «da», una libertà negativa dall’ingerenza arbitraria dello Stato, ma una libertà «di», una libertà positiva. In questa seconda accezione il riferimento è a un individuo che in società abbia la possibilità di realizzarsi dentro la relazione con l’altro. Ciò non è possibile se nell’atto stesso del lavoro l’essere umano non è riconosciuto come in rapporto essenziale con l’altro, se dunque non è in grado di intervenire sul «come» e sul «cosa» produrre. Come scrive Marx nel Manifesto del partito comunista, in questo mondo la libertà dell’altro è davvero condizione ineludibile della mia libertà.

12Con tutti gli errori e i limiti che si possono riconoscere centocinquant’anni dopo, si è trattato di una sfida potente. Quando Keynes scrive, dopo la Prima guerra mondiale e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, è chiaro che le cose stanno cambiando di nuovo in conseguenza anche, se non soprattutto, di questa sfida. Keynes vuole salvare il capitalismo dal comunismo, e però inizia a comprendere che perché ciò avvenga il capitalismo va salvato da se stesso. La Grande Crisi glielo chiarisce come meglio non si potrebbe. La crisi da domanda, di cui già Marx sapeva, è da lui dissezionata con molta maggiore lucidità, in un capitalismo che vede adesso uno sviluppo inedito della sua dimensione finanziaria, e dove la disoccupazione di massa si fa permanente, povertà in mezzo all’abbondanza, per combattere la quale anche il nazismo diviene una opzione possibile. Siamo passati dalla crisi come ciclo alla crisi come interruzione radicale del processo capitalistico, come Grande Crisi.

13Per salvare il capitalismo da se stesso, Keynes è capace di proposte molto radicali, che oggi appaiono addirittura sovversive, e che si configurano però in lui solo sullo sfondo (anche) di una sostanziale reazione al marxismo come progetto di liberazione (a questo Keynes, e alle sue ambiguità che riportano al tema smithiano dei primi capitoli, è dedicato il capitolo conclusivo). Così, nella Teoria Generale non vi è semplicemente la tesi che un sostegno statale diretto alla domanda effettiva tramite la politica fiscale attiva è necessario al raggiungimento del pieno impiego. Vi è anche la tesi che soltanto una vera e propria «socializzazione dell’investimento», che veda lo Stato governare direttamente o indirettamente la produzione di poco meno della metà del reddito nazionale, può impedire la deriva verso la stagnazione. Non dunque solo quel sostegno indifferenziato alla domanda effettiva che sarà tipico del keynesismo reale: occorre anche un intervento preciso e progressivo sulla struttura della domanda, e di rimbalzo dell’offerta. È il Keynes che all’Hayek che gli invia il suo La strada verso la servitù – un volume che si scaglia non soltanto contro il comunismo e il nazismo, ma anche contro ogni interventismo costruttivista – replica che, pur condividendo la difesa dei valori liberali, occorre non meno ma più «pianificazione».

14In questo quadro è però chiaro che il lavoro deve configurarsi di nuovo come soggetto che deve restare, o tornare, «passivo». Keynes, il Keynes dell’intervento dello Stato nell’economia per sostenere reddito e occupazione, presuppone una politica dei redditi, dove il salario va vincolato all’andamento della produttività del lavoro, così da realizzare una distribuzione del reddito tale da stimolare, dal lato dell’offerta, il soddisfacimento della domanda secondo i canoni classici della teoria dominante. Di più, il salario reale deve cadere perché si raggiunga la piena occupazione, anche se tale caduta non può e non deve realizzarsi per la strada della deflazione salariale, come vorrebbero i liberisti, ma della inflazione dei prezzi, che consegue alla crescita della domanda.

15Vi è qui evidentemente (una parte soltanto, ma significativa) della base teorica di quello che poi costituirà il cuore del sistema fordista-keynesiano, con i suoi tratti talora neocorporativi. Il lavoro viene riconosciuto come soggetto, che può anche dar luogo a un conflitto, ma soltanto come premessa per riconoscere quel che si ritiene sia il suo destino, divenire cioè parte organica dell’impresa. In quanto tale, tramite il sindacato e la contrattazione collettiva, il lavoro può divenire momento di quella redistribuzione della ricchezza prodotta che è snodo necessario per la realizzazione del valore e del plusvalore, senza che però possa sostanzialmente intervenire sui nodi della composizione della produzione, e della qualità dello sviluppo. Quello che si realizza è un keynesismo dimezzato. La ragione sta proprio nel fatto che lo stesso Keynes non riesce a concepire il lavoro come soggetto attivo, senza mai uscire dall’orizzonte borghese: proprio come Ricardo non era riuscito a concepire la categoria di plusvalore a partire dalla sua teoria del valore-lavoro, che pure aveva aperto la strada a Marx.

Il lavoro nel nuovo capitalismo: dopo la svolta neoliberista

16Il quadro appare oggi completamente mutato. Il nesso tra crescita degli investimenti e crescita dell’occupazione, e tra progresso economico e progresso sociale, appare molto meno scontato. Tanto più quando la grande impresa si snellisce e diviene sempre meno grande, e la piccola impresa diviene una galassia che copre realtà diversissime, dai sistemi locali di produzione e ai distretti, al decentramento e all’economia sommersa. Il pieno impiego non è più sinonimo di occupazione stabile e garantita, e può convivere tranquillamente con una ricaduta sotto la povertà di chi ottiene un lavoro.

17La destrutturazione del mondo del lavoro procede sempre più veloce ovunque, nel manifatturiero come nei servizi, dove la prestazione lavorativa è poco qualificata così come dove è in atto una parziale riqualificazione. L’incertezza e la flessibilità della condizione lavorativa appaiono i caratteri distintivi del nuovo ordine produttivo, il cui senso però muta a seconda dello stato del ciclo: nelle fasi discendenti, di recessione o stagnazione, le assunzioni a tempo determinato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro atipico, e così via, configurano una precarizzazione pura e semplice; nelle fasi ascendenti, di ripresa o di boom, sono invece il prezzo da pagare a una selezione prolungata che può forse sfociare poi in una stabilizzazione a tempo indeterminato. Qualcosa che però diviene sempre più improbabile dopo l’ultima grande crisi globale.

18È sicuro che questa realtà è stata fraintesa gravemente da chi ha avanzato la tesi della fine del lavoro: una tesi che poteva non apparire destituita di fondamento nell’Europa di metà anni Novanta del secolo scorso, ma che si mostra in tutta la sua inconsistenza negli anni successivi. Chi la sostituisce con l’idea di una fine del lavoro salariato, intendendo una crisi di questo rapporto sociale, pare non avere il senso dell’evoluzione dei rapporti di forza. Assistiamo a un’esplosione totalizzante del lavoro, che è anche allungamento e intensificazione del tempo di lavoro: un lavoro sempre più subordinato, quale che sia la sua caratterizzazione giuridica di lavoro subordinato o lavoro autonomo; un lavoro che è sempre più muto, e tale deve rimanere. Gli spazi di libertà possono essere agiti solo nel consumo (nella misura in cui lo consenta la distribuzione ineguale o il basso salario); o, nel caso di quelle prestazioni cui è concesso un limitato controllo, sui modi con cui realizzare obiettivi definiti da un processo estraneo. Una condizione, è bene ribadirlo, che segna tutto il mondo del lavoro, indipendentemente dalla sua qualificazione, autonomia, retribuzione; ed è perfettamente compatibile, anzi la richiede, con la dilatazione centrifuga delle mille individualizzazioni del rapporto lavorativo. Un lavoro sempre più centrale nella vita delle persone, anche se sempre meno costitutivo delle identità soggettive.

19È questa presumibilmente la vera novità della globalizzazione di fine Novecento: l’evento inatteso di un’accumulazione del capitale senza la contemporanea crescita di una classe lavoratrice, non dico massificata, ma riunificata e omogenea. La tendenza naturale dello sviluppo capitalistico sembra portare spontaneamente alla divisione e alla frammentazione. La riunificazione non può dunque che essere il portato di una controtendenza, che però non può cadere «dall’alto», da un sapere politico o economico che troverebbe la sua garanzia nell’avanzata lineare delle forze produttive. Essa dev’essere «costruita», e costruita «dal basso», rimettendo al centro – in una corretta dialettica che rimanda i rappresentanti ai rappresentati – un lavoro che si riconosce e si riunifica processualmente come soggetto politico centrale nella trasformazione sociale: paradossalmente, a un tempo, per ridurre il «peso» del lavoro, e per liberarne la «qualità».

20Se l’accumulazione del capitale nel mondo della globalizzazione tutto fa meno che riunificare il mondo del lavoro, Smith e Keynes non stanno molto bene: ma anche Marx ha i suoi problemi. Da dove nasce tutto ciò? È molto facile vederne la nascita nella crisi del keynesismo, o se si vuole di quell’epoca che è stata chiamata fordista-keynesiana, e nella risposta neoliberista a questa crisi. Cercherò di dire qualche cosa su entrambi i punti, partendo da ciò che sappiamo o, meglio, da ciò che crediamo di sapere. Ovviamente, anche qui, in modo molto impressionistico.

21Il fordismo-keynesismo fece perno sulla triade Grande Impresa-Grande Sindacato-Grande Stato, a cui ho già fatto riferimento. Per quel che riguarda la Grande Impresa, gli anni in cui si costruisce il keynesismo, e gli anni in cui esso è il paradigma macroeconomico di riferimento, sono anni in cui si afferma una separazione di proprietà e controllo, con l’indipendenza dei manager dagli azionisti, e in particolare dai grandi azionisti. Per quel che riguarda il Grande Sindacato, esso viene riconosciuto come «soggetto», e anche come «parte»: la contrattazione collettiva è elemento necessario del nuovo sistema di regolazione, e il conflitto non è una patologia. Tutto questo è vero, ma soltanto a condizione della partecipazione a un processo di cui non si devono mettere in discussione i fini. In questo quadro, la produttività senz’altro cresce molto, e si tira dietro i salari reali: anche perché il reddito, trainato dalla domanda, sale velocemente, e ciò rende per qualche tempo tollerabili piena occupazione stabile e miglioramento delle condizioni materiali del mondo del lavoro.

22Grande Stato significa intervento diretto dello Stato sul terreno della politica monetaria e della spesa pubblica. Controllo dei movimenti di capitale, bassi tassi di interesse, acquisti diretti di merci da parte dell’operatore pubblico. Ma anche, almeno in parte, politiche selettive del credito, politiche industriali attive. Il fordismo-keynesismo, in realtà, è il frutto delle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Più che un compromesso, è il risultato di un conflitto, oltre che evidentemente di una storia: la storia di una prima metà del secolo segnata dalla disoccupazione di massa, dal fascismo e dal nazismo, tollerati dapprima con molta, troppa compiacenza, pagata poi duramente, dalle potenze democratiche. Esisteva allora un competitore oltre cortina, il socialismo reale. Anche i governi di orientamento conservatore non potevano non porre la piena occupazione, invece che le leggi del libero mercato, al primo punto della propria agenda politica. Nella forma idealizzata con cui viene spesso raccontato, il «fordismo» è un’invenzione, un mito, la cui esistenza è stata in fondo breve. A dirla tutta, quando il keynesismo si realizza come tale davvero, per così dire coscientemente, con l’entrata dei consiglieri economici «keynesiani» nei governi in tutto il mondo capitalistico, a partire dagli USA, all’inizio degli anni Sessanta, proprio allora esso inizia ad andare in crisi o questa crisi è imminente, una crisi che si compirà nel corso degli anni Settanta.

23Perché quel sistema va in crisi? Quello che crediamo di sapere, quello che ci viene detto, è che va in crisi per la saturazione del mercato dei beni di consumo di massa, per l’aumento dei prezzi delle materie prime, perché lo sviluppo diviene una strada sbarrata per il limite ambientale. C’è del vero evidentemente in tutto ciò: come c’è però, spesso, in tutte le interpretazioni sbagliate. La crisi, a me pare, nasce un decennio prima, ha una lunga incubazione, e si riconduce a una parola sola: conflitto; un conflitto che, in alcuni casi, diviene antagonismo. Le ragioni sono molte. La pressione della finanza per la mobilità dei capitali, principalmente all’inizio di marca americana, per cominciare. Poi la lotta tra capitalismi, il Giappone e l’Europa, in modo particolare la Germania, che mettono in questione l’egemonia economica degli Stati Uniti. Ancora, la tensione che matura tra paesi produttori di materie prime e paesi avanzati. In particolare, e in modo cruciale, per la importanza centrale che ha il lavoro, per l’antagonismo sociale: non soltanto sul terreno della distribuzione, dunque del salario, ma anche su quello della produzione, e quindi dell’organizzazione del lavoro e della prestazione lavorativa. Un antagonismo che si prolunga – certo, confusamente: ma non tanto confusamente da non essere discernibile – in una contesa sul come e cosa produrre. Una lotta che mette in questione non semplicemente il modo della distribuzione ma in primis il modo della produzione.

24Uno dei tanti paradossi che la storia del Novecento ci consegna è in fondo questo. Se si cerca un’epoca in cui il lavoro comincia a recedere come dimensione totalizzante e assorbente della vita, una dimensione di cui i lavoratori finiscono con l’essere una semplice appendice, questa è l’era del fordismo-keynesismo. Tutto ciò avviene in una parte sola del mondo: e non investe neanche tutto il capitalismo, ma esclusivamente il capitalismo avanzato. L’obiettivo della piena occupazione coinvolge ancora soltanto i maschi, mentre nei decenni successivi assisteremo a una «femminilizzazione» del lavoro. È un’economia dove la crescita è sì rapida ma costruisce un universo pesantemente, ossessivamente, consumistico, tutto dentro quel fenomeno che è stato definito della «società opulenta». E però in questo mondo la domanda di «qualità» della produzione, di «qualità» della vita, di valori e gerarchie altre, si fa strada, con una forza e un’intensità prima inedite.

25Passiamo alla risposta neoliberista: cosa crediamo di sapere? Che, come sembrerebbe dire il nome stesso, non si tratti di nient’altro che del ritorno a un capitalismo di libera concorrenza. Non ne sono così convinto. Come nel caso della globalizzazione, si tratta di un disegno, di un progetto politico «dall’alto», gestito dagli Stati che si strutturano in un ordine gerarchico che in questi anni va semplificandosi, sino a che ora il potere si concentra in uno Stato nazionale, a detrimento di tutti gli altri. Sicché lo Stato non scompare a nessun livello, come si è fantasticato: ne muta la funzione, e si fa strumento della competizione mondiale a favore delle proprie imprese. «Metamorfosi», anche qui, come nel caso del lavoro: non fine. Questo neoliberismo è anche, a un polo, costruzione statuale di una egemonia imperiale, e all’altro polo neomercantilismo dei poli dominanti delle regioni del centro sviluppato.

26È una fase che è segnata dal «capitalismo predatore» di cui hanno parlato numerosi autori, ma anche dal predominio della finanza sul capitale reale. È stata preparata nel corso degli anni Settanta dalla deregolamentazione dei movimenti di capitale, anch’essa gestita attivamente e politicamente da alcuni Stati (in primis, Regno Unito e Stati Uniti), poi dal conflitto anch’esso politico sulla gestione dei tassi di cambio che da allora va avanti. Negli anni Ottanta questa svolta neoliberista – anche qui devo essere molto impressionista – è sotto il segno della restrizione monetaria, quindi dell’alto costo del denaro, che contribuisce a determinare una riduzione dei tassi di crescita del reddito nazionale, una crescita che diventa non soltanto più lenta ma anche più instabile. Per questo la concorrenza tra imprese diventa globale e aggressiva tra i cosiddetti global players nel manifatturiero e nei servizi. La capacità produttiva aumenta ovunque per via di un fenomeno in qualche misura paradossale: non soltanto a causa della bassa e instabile domanda di merci, ma anche perché le grandi imprese cercano di spiazzarsi reciprocamente con una corsa agli investimenti che aumenta gli impianti e la produzione potenziale. La base produttiva si dilata anche per una spinta dal lato dell’offerta.

27La terza caratteristica del decennio – legata evidentemente agli altri due fattori di cui si è appena detto, la crescita bassa e instabile e la concorrenza distruttiva – è l’attacco al welfare state, il che significa riduzione delle imposte e riduzione conseguente della spesa pubblica: beninteso, la spesa pubblica per la sua componente sociale. Per il primo aspetto, la riduzione delle imposte dovrebbe stimolare il lavoro e l’imprenditorialità. Per il secondo aspetto, la riduzione della spesa pubblica e sociale dovrebbe ridurre l’improduttività e l’incentivo a uscire volontariamente dal mercato del lavoro.

28È singolare come i disavanzi, spesso e volentieri, non siano poi visti dagli economisti neoliberisti così negativamente. Non è inusuale leggere e sentire da loro lodi alla politica di disavanzi pubblici di Reagan o Bush jr. e critiche alla politica di avanzi di Clinton. La ragione è semplice: i disavanzi di Reagan e Bush jr., i disavanzi dei repubblicani, consentiranno di premere per una politica fiscale più «responsabile» dei governi democratici. Lo Stato dovrà in futuro ridurre le imposte il più possibile e comprimere la spesa pubblica – evidentemente la spesa sociale; non la spesa militare o per la sicurezza, che ha giustificazioni politiche o militari ritenute indiscutibili. Un avanzo, si sa, induce in tentazione. Il problema della disoccupazione è delegato alla «famiglia», alla «carità». Una carità che nel caso di Milton Friedman può assumere anche i panni di una forma di reddito di esistenza, sotto le vesti di una imposta negativa.

29Gli anni Novanta del Novecento sono stati il concentrato paradossale di tutto ciò. Si concentrano le funzioni di comando, in particolare la finanza ma anche la ricerca, l’innovazione, le produzioni ad alto valore aggiunto, in un capitalismo che è, da questo punto di vista, sempre più organizzato, benché diviso tra un centro e una periferia. Si riduce la dimensione d’impresa, e il centro si diffonde nelle diverse aree geografiche (anche se non in tutte), cosicché la dicotomia centro/periferia non corrisponde più a quella tra paesi sviluppati/paesi sottosviluppati. Il mercato è sempre più sovrano: non soltanto come tendenza alla costituzione di un mercato globale delle merci; non soltanto come dominio dei mercati finanziari dove circola senza freni e vincoli il capitale speculativo. Il mercato penetra all’interno stesso dell’organizzazione delle imprese. La cosiddetta «terziarizzazione» – nel senso che la parola ha assunto negli anni più recenti –, l’outsourcing (il decentramento intra moenia), la subfornitura, il make or buy, e così via sono alcuni esempi della trasformazione dell’«organizzazione» stessa in una rete di relazioni di «mercato» dentro l’impresa. Dentro la stessa grande impresa le diverse unità produttive sono oramai viste come unità che devono fare profitti singolarmente prese, e che «scambiano» tra di loro.

30Tutto ciò era in incubazione negli anni Ottanta, poi esplode negli anni Novanta, sicché è impossibile non vederlo. Così come esplode la nuova corporate governance: con il consueto ritorno in forza degli azionisti. Non solo il ritorno dei grandi azionisti, ma – più preoccupante, in un certo senso – l’ascesa per la prima volta dei piccoli azionisti, in sé irrilevanti ma potenti invece quando unificati nei «fondi» (i fondi di investimento, i fondi pensione, eccetera) che impongono la regola del 15% di rendimento minimo sul capitale proprio: è la cosiddetta «creazione di valore» a favore degli azionisti. Valorizzazione non significa più, come al tempo di Marx, produrre ricchezza attraverso il lavoro sfruttato, e neanche, come al tempo di Keynes, produzione di dividendi da parte dell’industria retta dal management; significa invece far crescere di valore la ricchezza degli azionisti, anche, se non prevalentemente, attraverso i guadagni in conto di capitale nella borsa. Dalle stock options all’esuberanza irrazionale, dalla bolla speculativa al conseguente sgonfiamento degli ultimi anni, sino alla crisi «etica» del capitalismo e alla falsificazione dei bilanci per (paradossalmente) inventarsi utili che non ci sono invece che per nasconderli, è cronaca dei nostri giorni.

31Il capitalismo predatore è dunque anche il capitalismo cosiddetto «flessibile», il capitalismo «patrimoniale». Il lavoro, in tutto questo, diviene forzatamente una variabile dipendente, in un senso ben più forte di quanto già non fosse nell’epoca keynesiana. È però un lavoro da cui si pretende più qualità, più partecipazione, più autonomia. Non vi è contraddizione tra i due aspetti. L’autonomia viene concessa perché è un’autonomia automaticamente «limitata» dai processi macroeconomici che ho sommariamente ricordato. La «qualità» del lavoro può rivelarsi talvolta un requisito reale e prezioso rispetto all’esigenza di vendere su mercati in cui la domanda è molto instabile, ma ciò spesso non contrasta con un lavoro più flessibile, e con il fatto che il salario, che sia alto o più spesso basso, deve divenire sempre più qualcosa contrattato in maniera totalmente decentrata e individuale. Il che non toglie che la flessibilità o l’individualizzazione del rapporto di lavoro possano talora davvero favorire fasce particolari di lavoratori.

32In tutto questo si inserisce quella che altrove ho definito la «sussunzione reale del lavoro alla finanza», che coinvolge sia i mercati delle attività sia il debito. Il riferimento è qui a quei «fondi» di cui ci hanno parlato autori statunitensi come Minsky, italiani come Gallino, francesi come Aglietta od Orléan: questi ultimi parlano di un nuovo «capitalismo patrimoniale», intendendo quel capitalismo in cui le risorse dei piccoli azionisti sono concentrate e manovrate speculativamente da «gestori», i quali ricercano – e non possono non ricercare, perché così pretendono gli individui atomizzati e spaventati che confidano loro i risparmi vitali: un controllo sindacale non potrebbe cambiare la natura dei processi – il massimo del rendimento nel lungo periodo. È l’orizzonte di una finanza che concresce con le imprese, l’unico «lungo periodo» che ormai conti. Il capitalismo col denaro degli altri, il capitalismo dei gestori finanziari. Il capitalismo dei fondi pensione.

33È un capitalismo questo – mi si consenta un ossimoro – coerente e a un tempo contraddittorio. Coerente perché, per un verso, la situazione macroeconomica, il primato della finanza, la diffusione della logica del mercato, la ridefinizione delle strategie d’impresa, tutto congiura a rendere garantita e massima la soggezione dei lavoratori in carne e ossa attraverso un comando impersonale e tale da favorire l’estrazione massima possibile sia del plusvalore assoluto (aumento della giornata lavorativa sociale) sia di quello relativo (intensità del lavoro e aumento della forza produttiva) di cui ragionava Marx. È però anche contraddittorio, non soltanto perché sul terreno della domanda tutto ciò produce una forte spinta alla stagnazione, come è nella logica di Keynes, ma anche perché è un capitalismo in cui la corsa alla flessibilità del lavoro, con il suo corredo di precarietà e licenziamenti, fa perdere all’impresa competenze e saperi che invece essa dovrebbe accumulare nel lungo periodo. Il lavoro «usa e getta» determina nel medio-lungo termine una flessione, non un aumento, della produttività.

34Però, vorrei che fosse chiaro, qui siamo di fronte, sì, a un capitalismo dell’accumulazione flessibile, che è anche un capitalismo patrimoniale e predatore, dove la finanza predomina: ma questo non è un capitalismo puramente e semplicemente «parassitario». Non è nemmeno un capitalismo in cui la tendenza alla stagnazione di cui dicevo si sia mai dispiegata compiutamente. Lo hanno impedito politiche economiche, e spesso il paradosso di politiche economiche keynesiane a loro modo, gestite da presidenti degli Stati Uniti aggressivamente conservatori e ideologicamente iperliberisti, come appunto Reagan e Bush jr. È un capitalismo che, a suo modo, produce sviluppo: uno sviluppo disegualitario, instabile, periodicamente insostenibile; e che però include qualcuno, distribuisce della ricchezza.

35Vanno per questo contestate le tesi, tanto degli apologeti quanto dei critici di sinistra di questa nuova economia globalizzata e postfordista, che la vedono come un sistema di nuova estrazione stabile di plusvalore, perché è invece massimamente instabile. Come va anche contestata la tesi che a questo nuovo capitalismo attribuisce un’interruzione dello sviluppo, il prelievo della rendita, la scarsità della moneta, perché un certo sviluppo lo produce, e perché sotto la crisi si celano la ristrutturazione e una gestione politica delle dinamiche economiche. Il momento centrale della critica al capitalismo non può limitarsi alla distribuzione o all’insufficienza della domanda, ma deve investire, e sempre di più, l’organizzazione della produzione, la qualità della composizione del prodotto, il controllo sociale sulla struttura dell’economia.

Prospettive: la ri-formazione della classe lavoratrice

36È possibile uscire da una condizione del genere? Qui vale la pena di riandare un po’ indietro nel tempo. Negli anni Ottanta del Novecento, nel vigore della controrivoluzione (neo)liberista, il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, come anche il marxismo, è stato oggetto di critica, talora aspra, delle culture verdi e femministe (a un dialogo tra la centralità del lavoro nel capitalismo con la questione della natura e con la questione di genere sono dedicate le due Appendici). Il problema posto alle diverse tradizioni, moderate e radicali, vecchie e nuove, era il supposto produttivismo e industrialismo che lo avrebbero caratterizzato, facendone una sorta di specchio del capitalismo che si voleva superare.

37Tutto ciò è sicuramente vero. La «centralità della produzione» è stata per lungo tempo assunta come un valore inequivocabilmente positivo che rifletteva la dinamica di crescita nel tempo delle forze produttive. La «centralità del lavoro» come soggetto sociale nel fronte anticapitalistico si traduceva in un primato politico dei rappresentanti politici dei lavoratori (del partito) o di una particolare composizione di classe. E però mi si consenta di aggiungere che questa critica aveva torto su un punto, un punto solo, ma determinante. Non vedeva che la «centralità dell’economico» che si voleva contestare in questa società non è un’idea, un’illusione. Non è meramente simbolica. È un fatto oggettivo: duro, materiale, concreto. Un fatto che l’evoluzione del capitalismo, invece di smentire, come abbiamo visto, conferma appieno. Oggettivo non significa però naturale. Sicché, se davvero si vuole combattere la centralità esasperata della produzione, la crescita puramente quantitativa, l’assorbente e ossessiva centralità di un lavoro senza qualità, bene, se si vuole tutto ciò, quel fatto va riconosciuto, e la condizione sociale del lavoro va modificata nella sua natura dentro la stessa produzione. Non ci si può limitare alla (necessaria) liberazione dal lavoro, ma coniugarla con la liberazione del lavoro (di nuovo, il tema del capitolo ottavo, dedicato ad alcuni temi di Keynes).

38Questa potrebbe forse essere tacciata da qualcuno/a quale prospettiva «maschile». Forse lo è. Consentitemi di citare una battuta attribuita a Rosa Luxemburg, a cui Lelio Basso ha dedicato studi insuperati e che hanno contato non poco nella mia formazione. Questa battuta si trova ricordata in un bel saggio di Hannah Arendt, raccolto nel volume Men in Dark Times, tradotto qualche anno fa da “MicroMega”. Rosa Luxemburg e Clara Zetkin erano in una casa di campagna assieme ai più importanti leader della socialdemocrazia tedesca. Le due amiche escono per una passeggiata, tardano a tornare, si teme per la loro sorte. Quando finalmente le due donne tornano da una lunga passeggiata, Kautsky e Bebel raccontano loro che avevano scherzato su quel che si sarebbe dovuto scrivere sulla loro iscrizione tombale. Rosa Luxemburg, gelida, suggerì: «qui giacciono gli ultimi due uomini della social-democrazia tedesca». Ma forse non lo è, così tanto maschile. Rosa Luxemburg è appunto la teorica che nella Introduzione all’economia politica sostiene che l’economia politica, così come ha avuto un inizio, avrà una fine: appunto perché scopo della rivoluzione è per la Luxemburg «rompere» la centralità dell’economico.

39Il problema a me sembra questo, ieri come oggi: come lottare per la dignità del lavoro, in un mondo in cui il lavoro diviene ossessivamente totalizzante. La centralità dell’economico è nel capitalismo qualcosa rispetto a cui il lavoro (le lavoratrici e i lavoratori, in realtà) si deve fare solo «mezzo», strumento della valorizzazione del capitale. Un mondo dove la qualità viene al lavoro dal capitale, e gli viene in dipendenza di scopi e in condizioni tali che non consentono una reale autonomia e libertà.

40Rispetto a questo problema la tentazione di rivendicare teoricamente il «conflittualismo» e in termini di politica economica il «keynesismo» è del tutto comprensibile. In quello che ho scritto dovrebbero essere però già incluse le ragioni per cui tutto ciò non è sufficiente, e forse non coglie neanche il nodo della questione. Un’altra donna ce lo dice già nel 1972 con lucidità ineguagliata, ed è proprio una keynesiana doc, Joan Robinson, in un saggio che dichiarava aperta una «seconda crisi della teoria economica». Keynes, scrive, non voleva certo far scavare le buche per poi riempirle e così risolvere il problema dell’occupazione. Favoriva quelli che oggi chiameremmo dei «lavori socialmente utili». E però, osserva amara, non è affatto un caso che il capitalismo del secondo dopoguerra sia stato dominato dal «complesso militare-industriale», non è un caso che siano stati proprio gli stessi consiglieri keynesiani a spingere su questa strada i presidenti degli Stati Uniti. Il problema che abbiamo di fronte, afferma, è definire a che serve l’occupazione, che cosa si produce: è su questo che è fallita una seconda volta la teoria economica (non soltanto sul problema della distribuzione). Il problema che pone una keynesiana autentica come Joan Robinson è dunque lo stesso che negli anni Sessanta-Settanta del Novecento iniziavano a porre i lavoratori nella pratica. Vi torneremo nelle conclusioni.

41In questa logica, che condivido, il richiamo al keynesismo non è un «ritorno», ha senso soltanto all’interno della sfida di una ridefinizione strutturale della spesa pubblica e dell’intervento statale, che si fondi su un protagonismo attivo (anche, ma centralmente) del lavoro. Ma messe le cose in questi termini, è chiaro che siamo ben oltre l’orizzonte ideale possibile per lo stesso Keynes. La grande crisi capitalistica non ha fatto che confermare queste conclusioni.

42È però tutto ciò possibile? Qui siamo alla questione spinosa delle «prospettive». Certo la situazione non è rosea. Claudio Napoleoni ha scritto che la storia del pensiero economico si condensava nel modello di Piero Sraffa (l’autore a cui è dedicato il settimo capitolo di questo libro). Sraffa andava interpretato alla luce di Marx, in questo senso: che il capitalismo andrebbe visto come una «totalità» che include il lavoro dentro di sé come sua «parte», quale mero strumento di produzione al pari dei mezzi di produzione inanimati; che dunque il salario deve ridursi al minimo di sussistenza, e il capitale ha «diritto» ad appropriarsi dell’intero sovrappiù. Ne traeva una implicazione logica: che il capitalismo «allo stato puro» è da ritenersi incompatibile con la democrazia. Il capitalismo concreto, storico – che ha registrato per lungo tempo, nei secoli, l’aumento del salario reale e una soggettività attiva dei lavoratori – è stato invece caratterizzato da un’infrazione a questa natura intrinsecamente «totalitaria» del capitalismo in sé. Anche se questo ragionamento non lo condivido in alcuni dei suoi passaggi, credo contenga qualcosa di vero, e illumina il capitalismo di oggi.

43La via di uscita che proponeva Napoleoni era invece a mio parere del tutto sbagliata, anche se è una via tentata da altri autori successivamente. È una via di uscita che oggi, sotto altri nomi, affascina non poco. Si tratterebbe di ridurre la sfera del capitalismo e dell’economico per poter ampliare la sfera del gioco e della cura; Giorgio Lunghini direbbe anche per dar vita a lavori concreti fuori dal lavoro astratto soggetto al capitale. Una «fuoriuscita» che a me appare del tutto illusoria, per due ragioni. La prima è, per così dire, filosofica. Non credo che siano possibili due principi di organizzazione sociale allo stesso tempo, uno dei due sarà dominante. I lavori «fuori» dalla sfera capitalistica ed economica si riveleranno dunque marginali, una nicchia, se non addirittura daranno luogo a uno sfruttamento capitalistico mascherato, e ancor più sfrenato. Va da sé, poi, che un mondo regolato dal lavoro soggetto al capitale subordina a sé i momenti della relazione sociale non strettamente lavorativi. La seconda ragione è che una prospettiva del genere suppone un mondo dove si possa per lungo tempo, sistematicamente, spaccare le persone a metà, significa immaginarsi, per esempio, che i lavoratori possano dividersi tra una sfera in cui, gioiosamente o tristemente, sono sfruttati nella produzione capitalistica, e un’altra in cui realizzano liberamente se stessi.

44Il quadro che ho tracciato è un quadro cupo, in cui il lavoro è una categoria ambigua. Per un verso, è il lavoro totalizzante di cui i lavoratori e le lavoratrici in carne e ossa sono ridotti a portatori, ad appendice, soggetti a dinamiche che sfuggono al loro controllo. Per l’altro verso è il lavoro come attività dentro un limite, che trasforma la realtà secondo un fine, e in cui gli esseri umani entrano in relazione sociale, affermando i propri bisogni anche attraverso il conflitto, contestando i modi di organizzazione della produzione e la qualità di ciò che ne risulta a partire da una idea alternativa di economia e di società in un percorso di costruzione processuale. Bisogna liberarsi dal lavoro sfruttato e salariato, ma non lo si può fare se non si libera anche il lavoro – meglio, i lavoratori. Il conflitto sociale non deve necessariamente «partire» dal lavoro né deve «chiudersi» nel lavoro: ma non può non attraversare il momento centrale del lavoro. A meno di immaginarsi una società signorile in cui il lavoro ritorna a una condizione «servile», che magari colonizza gran parte di noi, mentre ci si illude di poter essere liberi altrove.

45Simone Weil scrisse nel 1933 un articolo che si intitolava, appunto, Prospettive. Sottotitolo: Andiamo verso la rivoluzione proletaria? Weil, dopo una disamina della situazione di cupo (e purtroppo fondato) pessimismo, si chiede: «Dobbiamo disperare?». Si risponde: «Certo le ragioni non mancherebbero, si fa fatica a scorgere dove riporre la speranza». E prosegue: «L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi oppure non ci sarà. Il fatto più tragico dell’epoca attuale è che la crisi colpisce più profondamente il proletariato che la classe capitalista, per cui essa appare non come la semplice crisi di un regime, ma come la crisi della nostra stessa società». E conclude: «Se, come è fin troppo possibile dobbiamo morire, facciamo in modo di non morire senza essere esistiti. Le forze tremende contro cui dobbiamo batterci si accingono a schiacciarci, possono impedirci forse di esistere pienamente. Ma c’è un ambito in cui sono impotenti, non possono impedirci di lavorare a concepire chiaramente l’oggetto dei nostri sforzi, niente al mondo può impedirci di essere lucidi. E non c’è nessuna contraddizione tra questo compito di chiarificazione teorica e i compiti che la lotta effettiva ci impone, non si può agire senza sapere ciò che si vuole».

46Personalmente sono convinto che siamo, nel mondo del lavoro, ma dunque nella nostra società, davvero a una svolta di civiltà. Non va mai dimenticato che l’esistenza di una democrazia degna di questo nome nasce dentro le lotte del lavoro: da una classe lavoratrice che rivendica la sua natura non di mera rotella del meccanismo produttivo ma di soggetto politico che, «dal basso», pone la questione del cambiamento strutturale sotto il segno dell’eguaglianza e della libertà «positiva».

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