Teorie del soggetto e fenomenologia
p. 128-136
Texte intégral
1Tutti gli autori intervenuti ai cicli seminariali della Scuola di Alta Formazione Filosofica riconoscono la realtà della coscienza. Nessuno sembra considerarla una mera illusione e, anzi, pare che tutti ne sostengano l’irriducibilità ontologica1. Uno dei problemi che a questo punto si pongono consiste nel capire cosa sia da intendersi con ‘coscienza’.
2È noto che Edmund Husserl pose proprio la coscienza al centro della sua proposta di una teoria fenomenologica della conoscenza. A tale scopo, egli tentò nella sua Quinta Ricerca Logica di analizzare e differenziare alcuni concetti principali che possono andare sotto il titolo comune di coscienza2. Da tali analisi emergerebbe una teoria del soggetto come flusso unitario di vissuti organizzato in base a leggi essenziali, studiare le quali sarebbe il compito precipuo della fenomenologia; tuttavia, lungo tutte le Ricerche Logiche egli non riesce a rendere adeguatamente conto dell’unità della coscienza stessa, intesa come “flusso coscienziale” o “corrente di vissuti”. In particolare egli non risolve in modo convincente il problema della relazione tra coscienza osservante e coscienza osservata. Non è qui né possibile né opportuno seguire le riflessioni e i ripensamenti che Husserl ha sviluppato (e scritto) a questo proposito. Ci si può limitare a dire che, in sostanza, il problema altro non è che quello dell’autocoscienza, rendere conto della quale risulta necessario al fine di risolvere anche la questione relativa all’unità della coscienza3.
3Dieter Henrich rappresenta oggi non solo uno dei maggiori esperti della storia delle teorie dell’autocoscienza, ma anche uno dei suoi più acuti e attenti indagatori. Apparentemente Henrich ritiene indubbio che ci sia “coscienza di sé”4. Se seguiamo quanto dice nella lezione inaugurale tenuta alla Scuola di Alta formazione filosofica, il problema centrale sembra essere: come si può integrare questa coscienza originaria che si ha di sé in un tutto che la sovrasta? Henrich si riferisce qui al problema per il quale, se si inscrive la propria esistenza ed esperienza in un contesto obiettivo, sembra si sia condannati a perderne il senso. L’uomo costantemente tende a e tenta di “integrare” la propria esistenza nel mondo, ma alla base di questo bisogno di integrazione vi è, palesemente, un presupposto: la propria esistenza e il mondo non coincidono. Il nucleo problematico messo in luce da Henrich consiste nella impossibilità di “dar conto” del proprio esistere e, in particolare, del particolare tipo di coscienza che si ha di sé rispetto alla coscienza di oggetti “esterni”. In breve, per Henrich è la coscienza stessa in quanto sempre anche autocoscienza a costituire un enigma. Ciò nonostante, egli ritiene che proprio la soggettività autocosciente sia il principio su cui solo poter basare un’indagine filosofica rigorosa. Lo scopo dichiarato è quello di «dedurre dall’autorelazione conoscitiva, secondo un programma di tipo kantiano, la stabilità di un mondo in cui questo essere, che sa di sé, può sapere soltanto di sé»5. Come emerge da questo passaggio Henrich sembra, però, identificare coscienza e conoscenza, quindi autocoscienza e conoscenza di sé; eppure proprio Henrich, sin dai suoi primissimi studi su Fichte, ha ampiamente e dettagliatamente mostrato che in tal modo si cade necessariamente nei paradossi della teoria della riflessione e che un’adeguata teoria dell’autocoscienza deve, da una parte, evitare di concepire quest’ultima come un rapporto cosciente o come un’identificazione con se stessi; dall’altra, essa deve riuscire a mantenersi fedele alla “intimità” (Vertrautheit) immediata con la coscienza6. Come si è detto, questa intimità è affermata da Henrich come enigmatica. A questo proposito, l’accusa che è stata mossa a Henrich da una prospettiva fenomenologica, in particolare da Dan Zahavi, è sostanzialmente quella di non aver saputo concepire l’autocoscienza che come autorelazione conoscitiva e, quindi, intenzionale7. È forse proprio in quanto, pur non essendo assimilabile alla conoscenza di oggetti esterni, l’autocoscienza viene comunque considerata come una relazione conoscitiva, che essa risulta particolarmente enigmatica, rischiando peraltro di rendere enigmatico l’intero edificio filosofico che su di essa Henrich intende fondare.
4Come si tenterà ora di mostrare, a questa conclusione sembra dover in ultima istanza condurre qualunque teoria che tenti di escludere o che anche solo non valorizzi adeguatamente il ruolo dell’Io puro all’interno della dinamica dell’autocoscienza.
5In una prima fase della sua produzione di respiro più esplicitamente teoretico, Henrich ha ritenuto opportuno rinunciare all’Io quale momento essenziale dell’autocoscienza, in quanto la sua inclusione sembra condurre inevitabilmente nei circoli della Reflexionstheorie. Tuttavia, Henrich non sembra voler cedere alla tentazione del primo Husserl, ripresa da Gurwitsch e da Sartre, la quale condurrebbe a concepire la coscienza come non-egologica e a considerare l’Io solo come un possibile correlato intenzionale della coscienza. Henrich sostiene, invece, che ci sia un Io, ma esso non sarebbe altro che una funzione nella struttura complessiva della coscienza8. Su questo punto egli sembra in accordo con Searle, il quale riconosce la necessità di ammettere un Io (self) come polo formale della coscienza e lo descrive in termini dichiaratamente kantiani9. Henrich, dal canto suo, concepisce l’Io come un elemento interno alla coscienza e atto a organizzarla, ma tiene anche a sottolineare che l’autocoscienza primaria di per sé non è egologica. Detto questo Henrich, come pure Searle, non approfondisce ulteriormente la questione dell’Io. Lo ammette, ma non si perita di indagarne fino in fondo la “natura”. Si limita, infatti, a dire: «Was immer dieses Selbst sein mag, es ist zumindest ein aktives Prinzip der Organisation des Bewußtseinsfeldes»10.
6A questo punto sembrano giustificate le osservazioni critiche di Zahavi, il quale sostiene che, per quanto sia successivamente giunto a riconoscere l’interna complessità dell’autocoscienza e a rivedere la sua originaria concezione, secondo la quale l'autocoscienza sarebbe qualcosa di essenzialmente semplice e non-relazionale, alla fine Henrich non andrebbe oltre la constatazione che «the unitary phenomenon of self-awareness is characterized by a profound obscurity, and self-awareness therefore ultimately remains incomprehensible (unverständlich). […] This conclusion, which reminds one of Henrich’s own description of Fichte’s theory as taking self-awareness to be an inner unity of inaccessible and unfathomable ground, is hardly satisfying»11. In effetti sembra che Henrich, forse per un’eccessiva sfiducia nelle capacità della riflessione, rinunci ad articolare più adeguatamente ciò che egli stesso ha così acutamente saputo mettere in luce. Pur riconoscendo la necessità di ammettere un Io all’interno del flusso coscienziale, egli sembra non sfruttarne l’importanza per comprendere il fenomeno dell’autocoscienza, tanto di quella pre-riflessiva che di quella riflessiva. Eppure l’Io costituisce un elemento irrinunciabile dell’autocoscienza, perché senza di esso non si potrebbe comprendere l’unità che emerge quando la coscienza viene posta quale esplicito tema di riflessione, quando, in altre parole, si osserva e al contempo si esperisce il cartesiano ego sum. La coscienza, almeno quella di cui “sappiamo” qualcosa e che effettivamente esperiamo come unitaria, è sempre coscienza di qualcuno e se si negasse ciò si ricadrebbe necessariamente nella teoria che considera l’intera coscienza una pura finzione e il sé un “centro narrativo”, oppure in una sorta di mistica che poco spazio lascerebbe alla chiarificazione filosofica del fenomeno dell’autocoscienza12.
7Più recentemente è stato riconosciuto da Henrich che il “sapere di sé” è sempre e per essenza il sapere di un singolo, è cioè sapere individuato13. Henrich, tuttavia, ritiene che l’autocoscienza primaria non sia spiegabile nei termini di un “atto” dell’Io, bensì ogni attività dell’Io presuppone l’autocoscienza preriflessiva, la quale altro non è che un fatto, un evento il cui Grund per essenza ci si sottrae e rispetto al quale l’autocoscienza riflessiva esplicita si deve necessariamente riconoscere dipendente14. In questo modo, Henrich sembra non allontanarsi da quanto proposto nei suoi primi lavori più esplicitamente teoretici, dove ritiene che siccome l’Io non è ciò che rende possibile l’autocoscienza primaria, cioè quella non-tematica e pre-riflessiva, si deve concludere che tale coscienza autocosciente è anonima15. Ma il fatto di fronte a cui ci si trova vincolati nella coscienza riflessiva, vale a dirsi in quel tipo di coscienza che si pone a oggetto di se stessa e che, così facendo, si scopre fondata da una coscienza-autocoscienza primaria, non è forse che “io sono cosciente” e non, come sembrerebbe doversi concludere dalle argomentazioni di Henrich, che “c’è coscienza”? Non è forse una caratteristica imprescindibile dell’autocoscienza, a qualunque suo livello di sviluppo, quella di essere sempre “individuata”? Come Zahavi ha più volte rimarcato sulla scorta di osservazioni di diversi esponenti della filosofia analitica della mente, osservazioni riprese peraltro dallo stesso Henrich e dalla Scuola di Heidelberg, tale individuazione non avviene tramite alcun vero e proprio criterio “conoscitivo” e dunque non si tratta di un’individuazione propriamente “conoscitiva”; ciò nondimeno siamo di fronte al “fatto” che l’autocoscienza, anche quella preriflessiva, è sempre relativa a un individuo. Dire che l’autocoscienza preriflessiva è priva di un Io sarebbe, dunque, sbagliato. Al limite si può affermare che non sempre l’Io si pone al centro dell’attenzione, ma ciò non significa che esso non ci sia.
8Si deve a questo punto considerare che l’apparente paradossalità dell’autocoscienza evidenziata da Henrich, vale a dirsi il rischio di una circolarità infinita del processo stesso dell’autocoscienza, potrebbe nascere proprio dall’averla per lo più considerata come una caratteristica della coscienza stessa invece che dell’Io. L’idea che ogni coscienza sia al contempo anche coscienza di se stessa porta inevitabilmente a un regresso infinito o al “mistero”, in quanto si dovrà sempre presupporre o che ogni atto di coscienza sia intrinsecamente cosciente di sé o che un altro atto ne sia cosciente e che questo atto di “coscienza della coscienza” appartenga al medesimo intero coscienziale del primo. La seconda ipotesi conduce evidentemente nei meandri della teoria riflessiva. La prima ipotesi può, invece, essere interpretata in due modi: essa può significare o che ogni vissuto si sente come vissuto, oppure che ogni vissuto si presenta come appartenente all’intero coscienziale. Nel primo caso, di nuovo, siamo di fronte a un rischio di regresso all’infinito, o, forse più semplicemente, di assurdità: esso implica che il vissuto “senta” se stesso. Ma si può sensatamente sostenere qualcosa del genere? Un vissuto può essere davvero qualcosa che “sa”? Di certo non un vissuto isolato, bensì solo un vissuto che, tramite un vissuto di sentimento o sensazione, giunge a “sentire” o “sapere” se stesso o altro. In tal modo, però, sembrerebbe che per rinunciare a un Io quale soggetto dei vissuti si siano resi soggetti i vissuti stessi. Soggetti, per di più, “di se stessi”, e mediante se stessi. I vissuti in quanto soggetti sarebbero, in tale prospettiva, una sorta di causa sui par excellence.
9Anche diverse teorie fenomenologiche della coscienza e dell’autocoscienza sembrano inevitabilmente condurre a conclusioni di questo genere16. Notoriamente proprio Husserl, in parte sulla scorta del proprio maestro Brentano, è stato il primo fenomenologo che abbia tentato di concepire la coscienza come autocosciente per essenza e, al contempo, priva di un Io quale proprio polo o centro. Husserl ritiene che ogni vissuto, qualora posto quale oggetto, lo sia per opera di un altro vissuto. Egli deve però poter contare sull’evidenza che questo effettivamente accada all’interno di un medesimo flusso complessivo di coscienza. Dire che l’autocoscienza esplicita presuppone l’autocoscienza preriflessiva non è sufficiente. Perché ciò sia “fenomenologicamente” sostenibile ci deve essere un’esperienza che ne dia conto, che lo mostri.
10Un dato su cui si è spesso creduto di potersi appoggiare sarebbe quello della particolare “qualità” di un vissuto. Giungiamo così al secondo possibile modo di concepire l’intrinseca autocoscienza di ogni atto coscienziale a cui sopra si è accennato. Secondo Husserl, così come molti altri autori sia appartenenti alla tradizione fenomenologica che non, alcuni vissuti si presentano come miei e recano in sé la qualità dell’essere-miei (Meinigkeit)17. Si può dire che in ogni corso di coscienza si presentano vissuti di due specie fondamentalmente differenti: quelli di ‘proprietà’ e quelli di ‘estraneità’. In tal modo si potrebbe forse credere che il problema sia risolto: l’autocoscienza altro non sarebbe che l’insieme dei vissuti che, in un decorso di coscienza, hanno l’aspetto della Meinigkeit, della datità in prima persona. Non è necessario presupporre alcun Io che li “possieda” veramente: essi si danno così, vale a dirsi come “propri”, e tanto basta.
11Questo non è, tuttavia, sufficiente per superare una concezione non-egologica della coscienza. Si potrebbe, infatti, ritenere che il polo strutturale di azione e riflessione e il principio di unità degli atti di ripresentificazione (che permettono di avere unità del flusso coscienziale anche in assenza di contiguità tra i vissuti stessi) non sia altro che un plesso primario e fondamentale di vissuti su cui poggiano tutti gli altri e che hanno in sé la caratteristica della “prima persona”; ma concepire l’Io in tali termini non significa altro che tornare a dar ragione al primo Husserl e, in ultima istanza, al suo maestro/nemico Hume: l’Io altro non sarebbe che un fascio di vissuti fusi assieme in modo particolarmente coriaceo (sebbene, forse, non ineluttabile)18. In tal modo, tuttavia, riuscire a rendere conto dell’autocoscienza esplicita, dunque del rapporto tra vissuto riflettente e vissuto riflesso, resta un’impresa pressoché disperata, inevitabilmente esposta alle aporie che Henrich ha saputo acutamente evidenziare.
12Questo sembra essere un rischio a cui ci si espone necessariamente ogni qual volta si tenti di descrivere l’esperienza in prima persona come “vissuta”. Quando si afferma che l’esperienza è vissuta non si dice in fondo altro che “un certo vissuto è cosciente”. Siccome “vissuto” non è che un altro termine per “coscienza”, parlare di vissuto cosciente equivale a dire che “una coscienza è cosciente”. Ci si deve, però, chiedere se abbia davvero senso parlare di “coscienza cosciente” o se, invece, non sia più sensato e più fedele al fenomeno dell’autocoscienza parlare di un “essere”, di un “qualcosa” che è o si trova a essere cosciente e, quindi, di un soggetto della coscienza che non sia esso stesso parte della coscienza. Se davvero si vogliono evitare i paradossi della riflessione infinita risulta necessario comprendere che una coscienza di coscienza, dunque una presenza, un’apparizione della coscienza e non solo di ciò che attraverso la coscienza si dà, non può aver senso che per un Io, vale a dirsi per un polo che contemporaneamente ha entrambi i vissuti: la coscienza “osservata” e quella “osservante”.
13L’Io puro che Husserl propose e cominciò ad analizzare all’interno della sua filosofia fenomenologica dal tempo delle Ideen è essenzialmente proprio questo. Si deve sottolineare che l’Io puro non fu concepito da Husserl pressoché mai come atto a dar conto dell’unità della coscienza in quanto tale. Non è, in altre parole, l’Io puro ciò che “costituisce” l’unità della coscienza. Esso è, piuttosto, ciò che, proprio nell’evidenza dell’autocoscienza, si ritrova necessariamente connesso con il fatto stesso di quest’ultima, senza per questo confondersi con la coscienza stessa e con le sue determinazioni. Nella prospettiva husserliana parlare della purezza dell’Io non ne esclude dunque affatto la concretezza. Piuttosto, si tratta di comprendere che se si volesse a ogni costo negare la “concreta formalità” dell’Io non ci sarebbe più modo di capire perché nell’ego cogito - ego sum ci si trovi a vivere un’evidenza che, per quanto possa apparire povera, pure risulta innegabile, tanto da poter essere considerata quale intentionaler Urgrund19 di ogni altra esperienza, soprattutto di qualunque conoscenza si voglia avere dell’autocoscienza e del suo funzionamento. Se non si vuole che la soggettività sia un principio astratto o, peggio ancora, una finzione o un’invenzione dei filosofi, si deve riconoscere che proprio la sua fatticità implica la sua egologicità, il suo rapporto con quell’Io puro che il riflettente si trova a essere. È questa soggettività concreta, ineludibilmente, “apoditticamente” egologica, che deve essere posta come principio, e non una coscienza anonima, che per la sua ineffabile natura e struttura inaccessibile risulta improbabile e improponibile quale principio di un’impresa conoscitiva. A ben vedere, la coscienza anonima si rivela infatti più una costruzione teoretica che non un principio concreto cui potersi affidare.
14La prospettiva che qui si propone si porrebbe, dunque, in alternativa a quella che Henrich attribuisce a Kant, secondo la quale «l’autocoscienza è l’unico caso in cui l’atto del pensare e ciò che viene pensato (l’intenzione e l’intenzionato) non sono distinti l’una dall’altro»20. Al contrario, in quanto l’intenzionato è innanzitutto l’Io e non la coscienza, si deve dire che, almeno parzialmente, nell’autocoscienza intenzione e intenzionato sono distinti. Questa distinzione tra Io e coscienza sembra trovare alcune possibili analogie con quanto Henrich ha illustrato quale terza versione dell’autocoscienza proposta da Fichte, vale a dirsi come «attività nella quale è posto un occhio»: anche in tale teoria, infatti, sebbene l’occhio non possa essere assolutamente, dunque concretamente separato dall’attività, pure non deve essere confuso con essa21.
15Sebbene lo stesso Husserl non abbia sempre saputo svolgere fino in fondo le conseguenze della propria scoperta e rimanere loro fedele, dal presente intervento dovrebbe essere emerso che ci sono buone ragioni per ritenere che la considerazione della “purezza” e della “formalità” dell’Io, della sua assenza di determinazioni, della sua “vuotezza”, può offrire un importante e, forse, decisivo contributo a quella «filosofia fondamentale capace di far luce sull’esistenza dell’uomo»22 che Henrich auspica.
Notes de bas de page
1 L’“irriducibilità ontologica” della coscienza non viene, in realtà, affermata esplicitamente che da Searle: cfr. J. Searle, Coscienza, linguaggio, società, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009, pp. 23-24. Anche gli altri autori sembrano comunque nettamente propendere per l’idea che la coscienza non sia riducibile a livelli del reale diversi dalla coscienza stessa.
2 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, in Husserliana, Den Haag, Nijhoff, 1984, vol. XIX/1, a cura di Ursula Panzer, pp. 355-376; trad. it. G. Piana, Ricerche Logiche, vol. II, Milano, il Saggiatore, 1968, pp. 138-155.
3 Si consideri che nella Quinta Ricerca Husserl pone esplicitamente la coscienza in quanto autocoscienza come fondamentale per comprendere lo stesso concetto di “Io fenomenologico” o “flusso di coscienza”: cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, cit., pp. 367-370; it. pp. 147-149. In quest’opera Husserl ritiene che la soluzione dell’unità della coscienza sia fondamentalmente offerta dall’unità del “tempo immanente”, anticipando così le questioni con cui si confronterà nelle celebri lezioni sul tempo, dalle quali, tuttavia, emergerà che il problema non è di così facile soluzione: cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), in Husserliana, Den Haag, Nijhoff, 1969, vol. X, a cura di R. Boehm; trad. it. A. Marini Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Milano, Franco Angeli, 1992.
4 Cfr. D. Henrich, Metafisica e Modernità, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2008, p. 20.
5 Ivi, p. 97.
6 D. Henrich, Selbstbewußtsein. Kritische Einleitung in eine Theorie, in Hermeneutik und Dialektik (Gadamer-Festschrift), a cura di R. Bubner, K. Cramer e R. Wiehl, Tübingen, Mohr, 1970, p. 275.
7 La medesima obiezione nei confronti di Henrich e della cosiddetta “scuola di Heidelberg” è stata mossa anche da autori che non si pongono necessariamente nella corrente fenomenologica: cfr., ad esempio, K. Düsing, Selbstbewusstseinsmodelle. Moderne Kritiken und systematische Entwürfe zur konkreten Subjektivität, München, Fink, 1997, p. 118.
8 Cfr. D. Henrich, Selbstbewußtsein. Kritische Einleitung in eine Theorie, cit., pp. 275-276.
9 Cfr. J. Searle, Coscienza, linguaggio, società, cit., pp. 42-44.
10 Cfr. D. Henrich, Selbstbewußtsein. Kritische Einleitung in eine Theorie, cit., p. 276.
11 D. Zahavi, Self-Awareness and Alterity, Evanston, Northwestern University Press, 1999, p. 27.
12 Si consideri, a questo proposito, che proprio Husserl nell’Idea della Fenomenologia, nel momento in cui sostiene con vigore che la coscienza sia “di nessuno”, giunge a sostenere che il discorso della fenomenologia sarebbe da paragonarsi al discorso dei mistici! Cfr. E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie, in Husserliana, Den Haag, Nijhoff, 1973, vol. II, a cura di W. Biemel, p. 62; trad. it. A. Vasa, L’idea della fenomenologia, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 103.
13 Cfr. D. Henrich, Subjektivität als Prinzip, in D. Henrich, Bewußtes Leben, Stuttgart, Reclam, 1999, pp. 59 ss.; trad. it. in Metafisica e Modernità, cit., pp. 83 ss.
14 Cfr. ivi, pp. 59 ss.; it. pp. 85 ss.
15 Cfr. D. Henrich, Selbstbewußtsein. Kritische Einleitung in eine Theorie, cit., p. 280.
16 Eduard Marbach e Iso Kern sono coloro che, all’interno del “movimento fenomenologico” più recente, hanno maggiormente ed esplicitamente insistito su una concezione, almeno parzialmente, non-egologica della coscienza: cfr. I. Kern, Selbstbewußtsein und Ich bei Husserl, in Husserl-Symposion Mainz 1988, Stuttgart, Akademie der Wissenschaften und der Literatur, 1989, pp. 51-63; E. Marbach, Das Problem des Ich in der Phänomenologie Husserls (Phaenomenologica 59), Den Haag, Nijhoff, 1974.
17 Si tratta di ciò che Zahavi riassume sotto il titolo di Egocentricity of First-Personal Giveness: cfr. D. Zahavi, Self-Awareness and Alterity, cit., pp. 142-146.
18 Da questo tipo di conclusioni non si può sottrarre neppure la concezione di Gallagher e Zahavi del self come «the invariant dimension of first-personal givenness in the multitude of changing experiences» (S. Gallagher e D. Zahavi, The Phenomenological Mind. An Introduction to Philosophy of Mind and Cognitive Sciences, London-New York, Routledge, 2008, p. 204).
19 Cfr. E. Husserl, Formale und Transzendentale Logik, in Husserliana, a cura di P. Janssen, Den Haag, Nijhoff, 1974, vol. XVII, pp. 243-244; trad. it. G.D. Neri, Logica formale e trascendentale, Roma-Bari, Laterza, 1966, pp. 292-293.
20 D. Henrich, Fichtes ‚Ich‘, in D. Henrich, Selbstverhältnisse, Stuttgart, Reclam, 1982, p. 61; trad. it. in Metafisica e Modernità, cit., p. 44, corsivo mio.
21 Cfr. ivi, pp. 75-78; it. pp. 53-56.
22 D. Henrich, Metafisica e Modernità, cit., p. 32.
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