L’autocoscienza fra vita e libertà
p. 110-117
Texte intégral
1Nel fluire apparentemente caotico dell’esistenza l’uomo rischia di perdersi, qualora non riporti su un fondo di continuità l’accadere esteriore degli avvenimenti. Nel teatro della storia che si svolge dentro e fuori di lui, l’individuo giunge al paradosso di recitare una parte in cui non si riconosce, allorquando i fatti continuino a scorrere senza che vi sia un ordinamento unitario, una trama con cui viverli ed esperirli. È il pericolo dell’inumano che alberga sempre nell’individuo, continuamente minacciato da varie forme di violenza. In tal senso l’autorelazione costituisce un argine, un punto unitario a cui ricondurre tutto ciò che viviamo, permettendo alla nostra esistenza di innalzarsi da quella che anticamente si chiamava ζωή, la vita meramente biologica, in un ϕώς, come vita consapevolmente vissuta.
2Col declino della modernità e col distacco dal tema della soggettività che si è accentuato dopo di essa, si è rischiato di trasformare il mondo in qualcosa di anonimo in cui l’uomo non si ritrova. È stato inizialmente un meccanismo di autodifesa dalla pericolosa deriva cui il principio moderno della soggettività, nelle sue estreme conseguenze, aveva condotto: attraverso nuove modalità di pensiero si voleva sottrarre l’individuo alla logica del dominio. Il tentativo di preservare l’uomo dalla prepotenza della soggettività può però condurlo a una ben più pericolosa forma di violenza, che si esplicita nella creazione di uno spazio per l’uomo, ma senza l’uomo. In un mondo impersonale – o meglio, in una dimensione in cui l’autorelazione diviene secondaria – si può venire fagocitati nella violenza dell’anonimato spaziale, come oblio della memoria e dell’autocoscienza, di cui anche Günther Anders ha parlato: un’esteriorità dalla quale si omette quel “nel frattempo” temporale che permette alla soggettività di scavarsi il suo margine di storia sullo sfondo impersonale della natura biologica1. Il riferimento alla soggettività può ancora salvare l’uomo da una possibile deriva verso uno spazio e un tempo che non gli appartengono più, o – più gravemente – dal possibile riassorbimento del tempo nello spazio.
3La ripresa del tema dell’autocoscienza compiuta da Henrich appare allora particolarmente interessante proprio per quel margine di umanità e di relazioni vere che permette di recuperare in un mondo che rischia di diventare sempre più impersonale. Si tratta di un tema che egli mutua dagli idealisti, ma ridimensionandolo nelle pericolose valenze neutre che il principio della soggettività in quel movimento aveva assunto, fino a essere interpretato come l’espressione storica di una sfrenata volontà di dominio. La soggettività singola è quella che Henrich pone al centro del suo dibattito, ovvero il luogo dove risulta possibile conciliare corporeità, linguaggio, intersoggettività – temi centrali della filosofia contemporanea – in una prospettiva che non si ponga più come l’oblio dell’autocoscienza2. Nella singolarità si realizza una sintetica unione fra individuale e universale che permette di congiungere soggettività e intersoggettività, pensiero dell’uomo e pensiero di Dio. Questa sinteticità rappresenta un originario attraverso cui è possibile pensare l’aprirsi all’altro e all’universale come un ritrovamento e non una perdita di sé. Per usare le parole di Henrich, «nell’amore si compie la vita, ma è la vita di ogni individuo che si compie»3. Il concetto di vita come sintesi di individualità e universalità ricorda la concezione giovannea della luce (ϕώς) che spiega un rapporto di coappartenenza fra uomo e Dio, individuo e comunità, per cui l’uomo, che è anch’egli luce come il suo principio, si può con questo immediatamente ricongiungere nell’amore4. Ed è qui che il pensiero di Henrich s’incontra pienamente con la filosofia del giovane Hegel.
4La vita di cui parla Henrich è quella autocosciente, diversa dalla vita meramente biologica. In tal senso l’autocoscienza si costituisce come quella forma di autorelazione primaria che differenzia l’uomo, nella sua autoconsapevolezza, dalle altre modalità di autorelazione presenti in natura5. L’originarietà dell’autorelazione conoscitiva – anteriore sia alla mediazione linguistica che all’azione – non è attingibile in maniera riflessiva, e su questo punto il pensiero di Henrich incrocia soprattutto quello di Fichte, per quell’importante scoperta del fondamento sottratto che sarebbe avvenuta nella sua filosofia. Il fondamento non è raggiungibile riflessivamente, essendo l’autocoscienza un’unione sintetica di componenti che non si possono scomporre. L’idea di un fondamento sottratto, lungi dall’annullare la libertà, la rafforza, e l’originaria identità relazionale dell’autocoscienza dischiude quest’ultima alla vita infinita e al pensiero di Dio. Sarebbe interessante allora tentare un confronto fra la concezione di questa vita originariamente autocosciente di cui parla Henrich con la filosofia di Hegel, il filosofo della mediazione assoluta. A questo proposito si partirà anzitutto da una convergenza, notando come la presentazione che Henrich dà della vita autocosciente si avvicini molto al concetto di ϕώς, che Hegel elabora nello Spirito del cristianesimo e il suo destino, mutuandolo dall’evangelista Giovanni. Il modello di soggettività che Hegel descrive nell’esperienza dell’amore è, similmente a quello di Henrich, sintetico, nel presentare una cooriginarietà fra dimensioni che riflessivamente andrebbero separate. Proseguendo questo confronto, ci sposteremo nella Fenomenologia dello spirito, nel capitolo dedicato al Gewissen, dove, sebbene il termine di riferimento su cui pensare le due coscienze in lotta (coscienza agente e coscienza giudicante) non sia più la vita ma lo spirito, si può leggere una continuità fra questi due termini che rinvia a quella della vita consapevole del giovane Hegel. La differenza fra la concezione dell’autocoscienza hegeliana – pensata nell’orizzonte della pura mediazione e negatività – e quella henrichiana – che nella sua autorelazione originaria si accosta più al tema della vita – la riguarderemo infine nelle Lezioni berlinesi di filosofia della religione, a proposito della trattazione del tema del peccato originale. Qui la concezione hegeliana della mediazione si trova a scontrarsi con la realtà dell’innocenza, uno stadio che Hegel rifiuta come quello in cui l’uomo non può né essere né rimanere, ma con cui comunque egli deve fare i conti nel suo rapporto con la libertà. Vedremo come è sottesa in questo contesto una profonda tensione fra due concezioni della natura che si scontrano e come alla fine sia possibile uscire dai grovigli in cui il pensiero hegeliano della mediazione si imbriglia solo attraverso un possibile ritorno alla concezione della vita umana come ϕώς.
5Il modello di vita consapevole descritto da Henrich si avvicina, dicevamo, a quello implicitamente tracciato da Hegel nelle pagine francofortesi dello Spirito del cristianesimo e il suo destino, dove la soggettività è definita soprattutto in relazione all’amore e quindi in parte separata dalla sua identificazione con l’autocoscienza. La soggettività che l’esperienza dell’amore rivela è sintetica, realizzando una cooriginarietà delle componenti interne ed esterne al soggetto e una continuità fra natura e libertà, che non appare raggiungibile a un pensiero che proceda per divisioni. Come tale questo modello di soggettività è definito vita, nel senso di ϕώς, luce: un’unità originaria fra attività e passività non attingibile in maniera meramente riflessiva. Nell’amore come descritto dal giovane Hegel – vita che ritrova la vita – non solo le componenti interiori (cioè ragione e sensibilità) ritrovano la loro unità, ma anche l’individualità e l’alterità, la soggettività e l’intersoggettività. «Il miracolo dell’amore – scrive Lino Rizzi – sta quindi nel convenire laddove normalmente l’uomo non conviene, ossia nel trovare che un suo desiderio sia desiderato da altri»6. La sussistenza dell’individualità colpevole nasce invece con la coscienza della separazione, ovvero con la riflessione su di essa. Nell’amore il fondamento rimane e deve rimanere sottratto, sia se pensato come interno all’individuo, sia come esterno; e fin quando il fondamento è sottratto, l’amore non conosce il pudore, segno della sua fine. Quest’ultimo, come vergogna per l’individualità irriconciliata, sorge appunto con il riflettere sul proprio fondamento nascosto. Allora la soggettività diviene colpevole, ripiegandosi in una falsa proiezione di sé e radicandosi nella cattiva coscienza di un’individualità separata e irriducibile all’altra7. Il pudore sottrae gli amanti all’amore, chiudendoli in un’autorelazione priva di intersoggettività. La morte dell’amore sopraggiunge qualora l’autocoscienza soggettiva – pur presente nell’amore anche se non nella forma di una mera relazione a sé – disperde la sua sinteticità divenendo materia. Nel rapporto d’amore la passività esprimentesi nel corpo si vivifica attraverso l’apertura spirituale all’altro. Il corpo, lungi dall’essere forma di separazione, diventa veicolo di comunicazione fin quando l’amore sussiste. Lo stesso Henrich sottolinea come senza la passività del farsi corpo non potrebbe esserci vera apertura all’altro, dal momento che i soggetti non possono del tutto raggiungersi nel mero rimanere per sé8. Quando l’amore finisce, l’individualità potenzialmente relazionale si chiude in se stessa, riducendosi alla sua corporeità irriducibile, alla sua materia, al possesso e alla proprietà. Anche nel descrivere il rapporto di fede – pensata come unificazione fra vita finita e vita infinita – Hegel punta l’attenzione sul termine ϕώς, che individua una coappartenenza fra umano e divino9. La separazione dell’individualità è soltanto una falsa proiezione di essa e l’uomo sente dolore nel destino, appunto perché avverte la nostalgia di ciò che ha perduto e con cui originariamente è congiunto.
6Una visione simile dell’individualità la ritroviamo in altri testi hegeliani, tra cui la Fenomenologia dello spirito, in particolar modo nella sezione dedicata al Gewissen, o spirito coscienzioso. Sebbene qui lo scenario sia cambiato, perché non si parla più di vita, ma di spirito, Hegel segue uno stesso filo nel porre il tema della soggettività, la cui verità autorelazionale si completa nell’intersoggettività. Questo è d’altra parte anche il senso della libertà, pensata nella sua coincidenza con la necessità. L’intersoggettività e la relazione diventano forme di approdo della soggettività, solo a partire da un’autorelazione a sé, perché è proprio dall’autoriferimento al soggetto che è possibile dischiudere per l’uomo quella consapevolezza e libertà che gli permettono di recuperare lo spazio veramente autentico della comunicazione. In altri termini, per dirla con Henrich, l’intersoggettività è pensabile solo a partire da una serie di individui che si riferiscono a sé10. Nella sezione della Fenomenologia dedicata al Gewissen11, il soggetto principale è lo spirito, che recita dietro le maschere di due coscienze che si contendono arbitrariamente l’intero: la coscienza agente (das handelnde Bewusstsein) e la coscienza giudicante (das beurteilende Bewusstsein). Il male di queste due coscienze non è la loro particolarità – l’azione o il giudizio – ma l’unilateralità eretta a bastevole, nella misura in cui l’autocoscienza non si media con l’altra, pretendendo di valere per sé. La manifestazione della spiritualità si ha quando le due autocoscienze depongono la loro pretesa arbitraria e nella riconciliazione del perdono ritrovano il senso della propria individualità relata. Anche se qui si tratta di un ritorno – perché siamo nel regno dello spirito assoluto, che ha conosciuto la negatività e l’ha superata – ciò a cui si ritorna ripresenta, in maniera mediata, la stessa sinteticità e relazionalità che la vita come ϕώς disvelava nello Spirito del cristianesimo e il suo destino.
7Il modello della vita pensata come ϕώς – in cui si sintetizzano interiorità ed esteriorità, attività e passività – può tornarci utile per risolvere alcune questioni da Hegel lasciate sospese a proposito del rapporto fra libertà e innocenza nelle Lezioni di filosofia della religione. Nelle pagine dedicate al tema del peccato originale12 Hegel si trova in particolare imbarazzo quando deve parlare dell’innocenza, giacché la sua visione dell’autocoscienza, teorizzata come assoluta mediazione, non gli consente di fare del primo stadio qualcosa di egualmente consapevole. L’innocenza è così equiparata alla natura, come condizione in cui l’uomo non può né essere né rimanere e, in quanto stadio che omette la dimensione libera e consapevole dell’uomo, la sua realtà è ammessa solo nella misura in cui è negata. In questo contesto il tema dell’autocoscienza, pensata nel suo appiattimento nella riflessione, desta problema, ponendo una pericolosa discontinuità fra inizio e svolgimento: se si fa del primo stadio qualcosa di meramente naturale l’autocoscienza rischia di essere fagocitata in una negatività che non si riesce a possedere mai del tutto. Le difficoltà in cui si trova avviluppata la visione hegeliana dell’autocoscienza si palesano anche nell’interpretazione del peccato originale, dove Hegel abbraccia la grandezza della realtà della libertà umana ritenendola però inconciliabile con il senso della proibizione divina, che impedisce all’uomo di mangiare dall’albero della conoscenza, del bene e del male. Se la colpa fosse da intendersi come mera trasgressione, allora la libertà umana finirebbe col radicarsi in un pervertimento del principio e l’azione della conoscenza s’identificherebbe con l’atto sacrilego di appropriazione di un bene che all’uomo non compete. Ma la libertà umana non può essere intesa per Hegel come l’azione prometeica del sacrilegio, dal momento che l’uomo si appropria di un bene che è il suo e la cui divinità anche Dio riconosce nel racconto biblico13. Sulla provenienza divina della conoscenza il serpente non può avere mentito. La colpa assume dunque una portata diversa rispetto alla sua mera identificazione col reato e nella trascendentalità della sua apertura al bene e al male essa si connota come principio di libertà. In cosa sarebbe consistita allora l’ipocrisia del serpente? Hegel risponde che non la colpa è il male, ma l’averne frainteso il senso: l’infrazione di quello stadio di indeterminazione in cui l’uomo risiedeva nell’innocenza sarebbe stato in qualche modo necessario, perché lo avrebbe aperto alla libertà; tuttavia, a partire dalla riflessività dell’autocoscienza che nella colpa si dischiude, l’uomo rischia di radicarsi su di sé, utilizzando la sua libertà come uno strumento che, lungi dall’unirlo al suo principio, lo pone in aperta contrapposizione ad esso. Ciò è quanto fa delle parole del serpente eritis sicut deus un discorso menzognero che fa conoscere la grandezza della libertà umana esclusivamente nella forma dell’arbitrio. Rimane comunque il fatto che secondo questa visione hegeliana dell’autocoscienza la natura è uno stadio incompleto, in cui, non essendo ancora presenti né la consapevolezza, né la libertà, l’uomo non può risiedere e che, quindi, il guadagno della divinità che l’individuo ottiene con la colpa sembra esulare dal piano originario della creazione. Il rischio di far cadere la libertà umana nel principio prometeico dell’appropriazione illecita è dunque sempre in agguato. Seguendo quest’ottica anche l’eritis del serpente, in quanto futuro, può non risultare menzognero. In realtà è proprio nel significato da dare a questo eritis, nel senso del “sarete simili a Dio”, che si annida, come ha sottolineato anche Adolphe Gesché, il nodo della questione14 e il possibile punto a partire dal quale riuscire a sciogliere la problematica discontinuità fra natura e libertà nel testo hegeliano. L’utilizzo del tempo futuro sembra presupporre che la natura umana sia stata creata al di fuori di Dio e che il senso della sua appropriazione possa avvenire attraverso un atto di assoluta negazione. Questo non è tuttavia il significato della creazione cristiana e neanche il senso della riappropriazione della libertà da parte dell’uomo in Hegel, il quale più volte sottolinea come l’albero della conoscenza non sia da intendere come qualcosa di esterno all’uomo, ma interno alla sua natura, attingendo da cui l’individuo disvela a se stesso il senso della sua più alta umanità. Per quanto Hegel utilizzi il termine concetto della libertà per designare l’essere in potenza nella natura del divenire liberi, rimane il fatto che in una situazione tale, dove lo stadio iniziale è equiparato a una condizione di rozzezza ed egoismo – un al di qua dello spirito – la linea di coappartenenza tra l’uomo e il suo principio risulta problematica e il passaggio alla libertà rischia di ricadere in una scelta meramente umana. La colpa appare l’unica possibilità dell’individuo di sottrarsi all’oscurità dell’inizio come stadio di non autocoscienza.
8L’antica concezione della vita umana come luce (ϕώς) potrebbe allora forse aiutarci a uscire dalle strettoie in cui si imbriglia l’autocoscienza nella rappresentazione hegeliana del peccato originale. L’uomo, sosteneva il giovane Hegel, è luce, non solo nel senso che la riflette esteriormente, ma perché egli stesso è fiamma, materia incandescente15. Fra l’uomo e il suo principio vi è dunque un rapporto di coappartenenza originaria, anche se l’individuo può decidere di farsi egli stesso tenebra. L’essere originariamente nella luce non pregiudica, d’altra parte, la libertà di scegliere consapevolmente la verità: come l’uomo può farsi tenebra, allo stesso modo, nell’apertura trascendentale che il suo libero arbitrio comporta, egli può risolversi a custodire la sua luce. Proprio questa metafora della vita come ϕώς, dove si conciliano azione e visione, attività e passività – immagine che ci riporta all’espressione che Henrich recupera da Fichte per enunciare la sinteticità dell’identità autocosciente, «attività nella quale è posto un occhio»16 – può permettere di gettare un ponte fra vita e libertà nell’autocoscienza, grazie a cui quest’ultima non diviene più la negazione dell’immediatezza, ma il suo compimento. E, a proposito del tema dell’innocenza, la vita consapevolmente vissuta come luce permette il passaggio dalla natura alla libertà, svincolando l’autocoscienza dall’identificazione con l’orizzonte della colpa.
Notes de bas de page
1 G. Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, trad. it. a cura di S. Fabian, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 68 ss.
2 D. Henrich, Metafisica e modernità, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2008, p. 93.
3 D. Henrich, Metafisica e modernità, cit., p. 94.
4 Henrich richiama questo principio anche nella conferenza pubblica Autocoscienza e pensiero di Dio, in Metafisica e modernità, cit., p. 152.
5 Cfr. D. Henrich, Subjektivität als Prinzip, “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, 1 (1998), pp. 31-44; poi in D. Henrich, Bewusstes Leben. Untersuchungen zum Verhältnis von Subjektivität und Metaphysik, Stuttgart, Reclam, 1999, pp. 49-73; trad. it. F. Michelini, Soggettività come principio, “Il Pensiero”, 38 (1998), pp. 7-21; poi in Metafisica e modernità, cit., pp. 81 ss.
6 Cfr. L. Rizzi, Eticità e Stato in Hegel, Milano, Mursia, 1993, p. 54.
7 G.W.F. Hegel, Theologische Jugendschriften, a cura di H. Nohl, Tübingen, Mohr, 1907, pp. 379-382; trad. it. N. Vaccaro ed E. Mirri, Scritti teologici giovanili, Napoli, Guida, 1972, pp. 530-531.
8 Cfr. D. Henrich, Soggettività come principio, in Metafisica e modernità, cit., p. 90.
9 G.W.F. Hegel, Theologische Jugendschriften, cit., pp. 307 ss; it. pp. 418 ss.
10 D. Henrich, Metafisica e modernità, cit., p. 94.
11 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, a cura di W. Bonsiepen e R. Heede, Hamburg, Meiner, 1980, vol. IX, pp. 340-362; trad. it. V. Cicero, Fenomenologia dello Spirito, Milano, Bompiani, 2000, pp. 840-893.
12 Cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, in Vorlesungen. Ausgewälte Nachschriften und Manuskripte, voll. III, IV a, IV b, V, a cura di W. Jaeschke, Hamburg, Meiner, 1983-1985, Teil III, Die vollendete Religion vol. V, pp. 28-69 (nach der Manuswript); pp. 131-153 (nach der Vorlesung von 1824); pp. 215-251 (nach der Vorlesung von 1827).
13 Ivi, p. 139 (nach der Vorlesung von 1824); p. 226 (nach der Vorlesung von 1827).
14 Cfr. A. Gesché, Dio per pensare, vol. 1, Il male, trad. it. R. Torti Mazzi, Torino, San Paolo, 1996, p. 76.
15 G.W.F. Hegel Theologische Jugendschriften, cit., pp. 302 ss; it. pp. 415 ss.
16 D. Henrich, L’io di Fichte, trad. it. A. Manolino, in Metafisica e modernità, cit., p. 53.
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