Due in uno. Che cosa è e che cosa fa l’io che pensa?
p. 103-109
Texte intégral
1Nelle pagine che seguono riprendo le riflessioni di Hannah Arendt sulla nozione di pensiero e di persona. Si tratta di riflessioni che in molti aspetti sono affini ai dibattiti novecenteschi sull’io, ma che si prestano bene a tracciare una possibile teoria originale della soggettività, anzitutto perché vengono raramente prese in considerazione dalla letteratura canonica sulla questione del soggetto1; in secondo luogo perché, pur partendo da una prospettiva heideggeriana2, presentano una visione dell’io piuttosto “forte”, e si distanziano per questo dall’accentuazione – tanto tedesca contemporanea quanto ermeneutica e postmoderna3 – della finitezza, fragilità e gettatezza dell’io.
2Il mio intervento è strutturato in tre parti. Nella prima riassumo brevemente le tesi di Arendt sull’io in La vita della mente4 e in Alcune questioni di filosofia morale5. Si tratta di tesi che sorgono da riflessioni di natura politica e morale e da un profondo confronto con la filosofia antica, in particolare socratica. Nella seconda accenno – rifacendomi all’interpretazione hegeliana della soggettività socratica – ad alcuni limiti dell’argomentazione arendtiana, in particolare la critica del platonismo. Nell’ultima parte cerco di integrare la visione arendtiana dell’io come pensiero e dialogo con quella hegelo-platonica di “pensiero oggettivo”.
1. Che cosa è l’io?
3“Due in uno” è il titolo di un paragrafo di La vita della mente in cui Hannah Arendt interpreta il pensiero platonicamente come “dialogo dell’io con se stesso” e l’io come “esser due in uno solo”. L’analisi di Arendt si riallaccia programmaticamente a La banalità del male6 e criticamente a Vita Activa7. In Vita Activa Arendt criticava la tradizione della metafisica che si è concentrata sulla contemplazione trascurando l’azione. Ne La vita della mente ripropone invece l’interrogativo metafisico sulla natura dell’attività spirituale ponendo le seguenti questioni: che cosa facciamo quando pensiamo? Dove ci troviamo?
4Il punto di partenza delle riflessioni arendtiane sull’io è costituito dall’analisi delle testimonianze di Eichmann, l’artefice della rete di trasporti che durante il Nazismo ha reso possibile la deportazione e l’uccisione di milioni di ebrei. In Alcune questioni di filosofia morale Arendt spiega infatti che la sede in cui l’io assume un ruolo fondamentale è la filosofia morale. In particolare, nel contesto giuridico di un processo in cui si è tenuti a dare conto delle proprie azioni e ad assumersi la responsabilità di ciò che si è detto e fatto emerge l’imprescindibilità e la rilevanza dell’io, e se ne può dunque comprendere la natura specifica. Questa fondazione giuridica della soggettività è particolarmente importante per chiarire la concezione arendtiana della politica e della morale8.
5In La banalità del male Arendt aveva svolto una minuziosa analisi del processo contro Eichmann, e a questa analisi si richiamano tanto La vita della mente quanto Alcune questioni di filosofia morale. In Eichmann, come in tutti i nazisti, Arendt diagnostica la “mancanza di pensiero” e dunque l’assenza di dialogo con se stesso, ossia di ciò che fa di un io un io. Durante il processo, Eichmann si difendeva affermando di avere eseguito gli ordini che gli erano stati impartiti, dicendo che il suo compito era organizzare i trasporti per i campi di concentramento, e che questo lui aveva fatto; quello che succedeva nei campi di concentramento e durante i trasporti non rientrava nelle sue competenze9. Da queste testimonianze Eichmann emerge come un essere umano che compie banalmente il proprio dovere quotidiano e si muove entro i limiti stabiliti dall’ordinamento giuridico in vigore senza “pensare” in senso Arendtiano, senza essere un io nel senso del due-in-uno, ovvero un io che dialoga con se stesso e riporta a se stesso azioni e pensieri diversi. Eichmann dunque non è un io nel senso del due-in-uno perché non si riconosce autore e perciò responsabile delle vicende legate all’olocausto. Eichmann non si costituisce come persona nella misura in cui rifiuta di riconoscere che, in quanto due in uno, non è vittima, ma è responsabile delle circostanze in cui si trova.
6In Alcune questioni di filosofia morale e in La vita della mente Arendt specifica ulteriormente queste intuizioni, chiarendo in che senso ci sia un legame essenziale tra moralità e soggettività. Il non fare il male, spiega, è legato necessariamente alla natura dell’io come io pensante e dialogante con se stesso. Arendt deriva questa concezione dalla filosofia antica, in particolare dall’osservazione di Socrate nel Gorgia secondo cui: «sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e stonata, e che lo fosse il coro da me istruito, e che la maggior parte degli uomini non fosse d’accordo con me e mi contraddicesse, piuttosto che fossi io, anche se sono uno solo, a essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi». Arendt commenta: «Anche se sono uno solo, io non sono solo, ma ho un io e entro in relazione con questo io […] In questo senso io sono, in quanto uno, due-in-uno e può esserci armonia o disarmonia con l’io. Se non vado d’accordo con le persone che mi circondano, posso andarmene; ma non posso andare via da me stesso […] Dunque è preferibile essere in armonia con se stessi prima di prendere in considerazione tutti gli altri»10. Certamente, per Arendt è possibile essere “due-in-uno” con gli altri, ossia proseguire il dialogo dell’io con se stesso insieme agli altri; in particolare l’amico, per Arendt come per Aristotele, è il sé nell’altro. Ciò che però è importante osservare a questo punto è l’impossibilità, radicata nella natura dell’io come due-in-uno, di andarsene da se stessi nel momento in cui si è in disaccordo con se stessi. Dunque l’impossibilità effettiva di essere in disaccordo con se stessi (secondo Socrate) mantenendo uno stato di benessere.
7L’impossibilità di andarsene da se stessi implica che l’io, inteso come due-in-uno, si trova nell’impossibilità di fare il male. Nel Gorgia Socrate afferma infatti «preferisco subire il male piuttosto che farlo». Si tratta di un’affermazione apparentemente paradossale. Istintivamente, nessuno sarebbe d’accordo a subire il male piuttosto che farlo; ma, a una considerazione più attenta, che tiene conto della natura dell’io, l’affermazione si rivela necessariamente e universalmente vera. Infatti la natura dell’io come due in uno implica che, in quanto due, oltre al me che compie l’azione malvagia c’è anche sempre il me che osserva l’azione compiuta; in quanto i due me sono in me, ossia in uno, non posso poi andarmene da me stesso. Dunque Arendt scrive che «se compio un’azione ingiusta, sono condannato a vivere in un’intimità insopportabile con un ingiusto; non me ne potrò mai liberare»11. Dunque, se penso sono “un due in uno”, e non posso fare il male.
8Ora Arendt accosta la sua concezione dell’io come due-in-uno a una critica della dottrina platonica delle idee e contrappone l’attività del pensiero alla contemplazione platonica delle idee. In Alcune questioni di filosofia morale scrive che «nella dottrina delle idee, platonica e non socratica, che potete trovare esposta nella Repubblica, Platone ci insegna che esiste un regno separato delle idee, o delle forme, in cui cose come la Giustizia, la Bontà ecc. “esistono per natura, dotate di un proprio essere”. Non tramite il discorso, dunque, ma guardando attraverso queste Forme, visibili soltanto agli occhi della mente, il filosofo prende conoscenza della Verità e solo attraverso l’anima, che è invisibile e immortale, […] egli penetra nell’invisibile, immortale e immutabile Verità. Egli vi penetra, nel senso che la vede e la contempla, senza ragionare o argomentare»12. La dottrina specificamente platonica e per Arendt non socratica delle idee implica che la questione fondamentale non è più quella del distinguere il bene dal male ma la seguente “sono io in possesso dell’‘idea’, ossia dello standard che devo applicare in ciascun caso?”. L’attività del pensiero, del ragionamento e argomentazione implica sempre un atteggiamento attivo, la contemplazione una passività che esclude l’azione. E, come si è visto considerando il caso Eichmann, la passività, l’interruzione del dialogo dell’io con se stesso (che fa dell’io un io, ossia una persona responsabile) è, per Arendt, banalissima, perché nella vita quotidiana interrompiamo continuamente il nostro dialogo con noi stessi, per esempio quando lavoriamo manualmente, ma pericolosissima, perché implica anche sempre un annullamento della responsabilità personale.
9L’interpretazione arendtiana dell’io è molto simile alle riflessioni di Hegel su Socrate. Nel paragrafo seguente considererò l’interpretazione hegeliana della soggettività socratica e mostrerò come in Hegel la difesa della natura morale dell’io non implichi la critica del platonismo.
2. Hegel e Arendt
10Nelle Lezioni sulla storia della filosofia Hegel spiega che la dottrina socratica è “filosofia morale”: nella moralità l’elemento dominante è l’intenzione soggettiva, l’idea che io ho del bene. ‘Morale’ significa che il soggetto «a partire dalla sua libertà pone le determinazioni del bene, del giusto e dell’eticità e nella misura in cui le pone a partire da se stesso, toglie loro la determinazione dell’essere poste da se stesso»13. In questa affermazione emerge subito che l’attività critico-riflessiva tipica del dialogo socratico dell’io con se stesso ha anche un risvolto oggettivo: l’io socratico non dialoga semplicemente ma pone, nel processo del dialogare, le idee, fa delle assunzioni su ciò che è buono, giusto ecc. Inoltre Hegel precisa che proprio nella misura in cui l’io, nel suo libero dialogo con se stesso, pone soggettivamente le determinazioni della verità, della giustizia ecc., le universalizza e toglie loro la soggettività. L’obiettivo del dialogo socratico è, come sottolinea Hegel, «aiutare i pensieri – che sono già sempre presenti nella coscienza di ognuno – a venire al mondo»14 e «derivare l’universale dal particolare della nostra rappresentazione e esperienza soggettiva»15. La peculiarità della prospettiva socratica è dunque ad avviso di Hegel l’aver concepito l’universale (ossia le idee, il bene, la giustizia ecc.) come istanze fondate nella coscienza individuale. Questo aspetto è precisamente quello che sottolinea Arendt quando chiarisce che la moralità (dunque la consapevolezza di ciò che è giusto e della propria responsabilità) si fonda nel dialogo dell’io con se stesso e che c’è un primato dell’accordo con se stessi sull’accordo con gli altri e con le istituzioni. Ciò che Arendt non sottolinea è il rapporto tra il dialogo dell’io con se stesso e le idee, tra il bene socratico e l’universale. L’essere due in uno è la condizione per stabilire che cosa sia giusto fare, ma lo è nella misura in cui nel dialogo si comprende il significato di ciò che è giusto e ingiusto, e lo si comprende universalmente conoscendo o imparando a conoscere il significato del concetto di giustizia.
11Dunque per pensare “davvero”, ossia per entrare in quel tipo di attività a partire dalla quale siamo persone, e dunque responsabili, sembra che sia necessario ammettere che all’attività del dialogare appartenga anche l’acquisizione di contenuti, come per esempio di ciò che distingue un comportamento giusto da un comportamento sbagliato, un enunciato vero da uno falso. Il pensiero, anche nella forma in cui lo difende Arendt, sembra implicare di necessità il platonismo. Il dialogo dell’io con se stesso non è antiplatonico, ma implica e contiene le idee. Hegel ci insegna che non c’è contrapposizione tra dialogo e idee (come invece crede Arendt e con lei la tradizione dell’antiplatonismo novecentesco), ma che le idee si danno precisamente nel dialogo e nella riflessione soggettiva, pur essendo poi qualche cosa di autonomo e oggettivo, che assolve la funzione di dirigere il dialogo. In un certo modo l’indipendenza dei contenuti pensati effettivamente implica una passività del soggetto che cessa di essere ‘autore’ e diventa ‘raccoglitore’. Forse questa passività è la ragione per cui Arendt esclude a priori il momento dell’‘intuizione intellettuale’ e della ‘contemplazione’ dalla sua descrizione del pensiero: in essa Arendt vede probabilmente il rischio di un annientamento della responsabilità personale.
3. Che cosa significa pensare?
12Ciò che mi sembra decisamente nuovo in Arendt è la fondazione giuridica e morale dell’io e la fondazione della morale (e della giustizia) nell’essere dell’io. Questa impostazione socratica, ritrovata da Arendt nel quadro di una riflessione politica sui crimini nazisti, può in effetti essere integrata anche da una forma di platonismo dialettico quale è quello di Hegel.
13In conclusione, una teoria della soggettività pensante che integri la visione arendtiana dell’io come istanza morale con quella hegelo-platonica dovrebbe specificare anzitutto che l’io pensante in senso proprio non è distaccato dal riconoscimento dell’universalità. Anzi, l’io stesso si autoriconosce nel momento in cui riconosce l’universalità delle istanze concettuali. In secondo luogo, pensare implica anche sempre assumersi la responsabilità di ciò che si pensa, implica dunque l’esercizio opposto del riportare a sé ciò che si pensa, un esercizio che potrebbe sembrare una “risoggettivizzazione” di ciò che si pensa. In realtà anche per Arendt assumersi la responsabilità di ciò che si pensa non è un’attività soggettiva nel senso dell’essere guidati da interessi personali, ma corrisponde, come in Socrate, alla dimensione morale del pensiero, e dunque, di nuovo, platonica e “universale”. Infatti ricondurre ciò che si pensa a se stessi (essere due in uno) significa (in senso arendtiano) capire che la radice del bene (in senso universale, morale) è l’io come due in uno. Infatti se l’io non fosse due in uno non si capirebbe perché il bene sia preferibile al male.
Notes de bas de page
1 Cfr. D. Henrich, Denken und Selbstsein. Vorlesungen über Subjektivität, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2007; Id., Bewußtes Leben. Untersuchungen zum Verhältnis von Subjektivität und Metaphysik, Stuttgart, Reclam, 1999; Id., Metafisica e modernità. Il soggetto di fronte all’assoluto, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2008; K. Düsing, Moderne Kritiken und systematische Entwürfe zur konkreten Subjektivität, München, Fink, 1997; Id., Fundamente der Ethik, Stuttgart, Frommann-Holzboog, 2005.
2 Sull’influsso di Heidegger su Arendt cfr. S. Forti, Hannah Arendt, Milano, Bruno Mondadori, 1999; L.P. Hinchamnn e S.K. Hinchmann, In Heidegger‘s Shadow. Hannah Arendt’s Phenomenological Humanism, “The Review of Politics”, 46 (1984), pp. 183-211; M. Canovan, Socrates or Heidegger? Hannah Arendt’s Reflections on Philosophy and Politics, “Social Research”, 57/1 (1990), pp. 187-200; M. Braun, Hannah Arendts transzendentaler Tätigkeitsbegriff. Systematische Rekonstruktion ihrer politischen Philosophie im Blick auf Jaspers und Heidegger, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1994.
3 Cfr. G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano, Feltrinelli, 1981. Vattimo interpreta la finitezza del soggetto ermeneutico in senso “biologico“, come mortalità e finitezza effettiva e ne sottolinea le implicazioni normative, interpretandola anche come indicazione etica, ossia rimemorazione dell’alterità.
4 H. Arendt, The Life of the Mind. Thinking, New York, Random House, 1977; trad. it. G. Zanetti, La vita della mente, Bologna, il Mulino, 1987.
5 H. Arendt, Responsability and Judgement, New York, Random House, 2003; trad. it. D. Tarizzo, Responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi, 2004.
6 H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, New York, Random House, 1963; trad. it. P. Bernardini, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964.
7 H. Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; trad. it. S. Finzi, Vita activa, Milano, Bompiani, 1964.
8 Viene anche sviluppata in un importante saggio del 1964: La responsabilità della persona al tempo della dittatura, in H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., pp. 15-40.
9 Alcuni sostengono che quello che dice Eichmann corrisponde a una strategia di difesa e che ci sono documenti – scoperti dopo la morte di Arendt (cfr. F. Augstein, Über das Böse, München-Zürich, Piper, 2007, pp. 177 ss.) – che testimoniano la sua effettiva volontà di uccidere gli ebrei. In questa prospettiva Eichmann non corrisponderebbe in tutto alla figura del male ‘banale’. Sono d’accordo però con Simona Forti che nella sua introduzione a Hannah Arendt, cit., sostiene che il comportamento di Eichmann non sia una semplice strategia suggerita dalla difesa.
10 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 77.
11 Ibidem
12 Ivi, p. 73.
13 G.W.F. Hegel, Werke in 20 Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1968 ss., vol. 18, p. 445; trad. it. E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. II Dai Sofisti agli Scettici, Firenze, La Nuova Italia, 1964, p. 43. In seguito le opere di Hegel verranno citate soltanto con Werke, seguito dal numero di volume e di pagina.
14 G.W.F. Hegel, Werke, 18, p. 462; it. p. 59.
15 Ibidem.
Auteur
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Volontà, destino, linguaggio
Filosofia e storia dell’Occidente
Emanuele Severino Ugo Perone (éd.)
2010
Estraneo, straniero, straordinario
Saggi di fenomenologia responsiva
Bernhard Waldenfels Ugo Perone (éd.)
2011