L’autoesperienza dell’io
p. 95-102
Texte intégral
1Nelle sue riflessioni sull’io contenute sia nel libro Les pratiques du moi1, sia nelle lezioni pubblicate nel volume Dare ragioni2, sia infine nel dialogo con Vincent Descombes pubblicato con il titolo Dernières nouvelles du moi3, Charles Larmore sostiene che l’io (ogni io) è un io in virtù di un “essenziale rapportarsi a se stesso”. Egli scrive che questa concezione dell’io è largamente condivisa nella tradizione filosofica e sintetizza in tre punti la posizione tradizionale della filosofia in proposito (con particolare riferimento a Descartes e a Locke): 1) non si può essere un io senza essere in rapporto con se stessi; 2) il rapporto che l’io ha con se stesso e in virtù del quale esso è un io è di natura cognitiva, è un’autoconoscenza; 3) questa relazione di autoconoscenza è dello stesso tipo del rapporto di conoscenza che l’io ha con gli oggetti del mondo4. Larmore critica questa posizione partendo dal punto 3: egli afferma che questo punto genera insostenibili paradossi, perché sostanzialmente esso pretende che sul modello di una conoscenza in cui soggetto e oggetto sono necessariamente distinti si concepisca una conoscenza in cui essi coincidono5. Egli sostiene inoltre che la confutazione del punto 3 implica che si abbandoni anche il punto 2: infatti parlare di una conoscenza diversa da quella degli oggetti esterni, di una conoscenza in cui non ci sarebbe distinzione tra soggetto e oggetto, significa introdurre nella riflessione filosofica un mistero; come potremmo concepire una simile conoscenza? Davvero sappiamo di che cosa si tratta? La tesi di Larmore è pertanto che il rapporto dell’io con se stesso nel quale consiste la stessa natura dell’io non è di tipo conoscitivo, ma pratico-normativo; la natura dell’io si identifica con lo stesso rapporto di commitment, di impegno, che esiste tra le mie credenze e le mie azioni; ogni mia credenza mi impegna a comportarmi in un certo modo.
2A questo punto è però possibile domandarsi: come posso conoscere me stesso? Naturalmente l’affermazione che l’autorelazione in virtù della quale l’io è un io non sia una relazione conoscitiva non implica che l’io non possa conoscersi; ma come può avvenire questa conoscenza? Larmore scrive che ogni pretesa che ci sia una conoscenza diversa da quella degli oggetti esterni porta al mistero e dunque va respinta; allora l’io può conoscersi solamente come un oggetto, assumendo su se stesso il punto di vista di un osservatore esterno (e quindi in qualche modo sdoppiandosi in un soggetto e un oggetto), senza pretendere di avere un accesso conoscitivo privilegiato a sé. Per questo, scrive Larmore, spesso altre persone capiscono meglio di noi i moventi delle nostre azioni, e se noi ci conosciamo così bene non è grazie a una forma privilegiata di conoscenza, ma è perché dedicando molto tempo a pensare a noi stessi siamo diventati degli specialisti.
3Proprio qui, tuttavia, appare chiara la debolezza della tesi di Larmore: davvero ho conoscenza di me stesso solo guardandomi dall’esterno? Larmore individua la natura dell’io essenzialmente nella connessione tra credenze e comportamenti; prendiamo dunque per il momento in esame solo questi due aspetti dell’io. Per quanto riguarda i miei comportamenti l’affermazione secondo cui io potrei conoscerli solamente da un punto di vista esterno può avere una certa credibilità. Per le credenze, però, le cose sembrano stare diversamente: infatti ognuno può conoscere le credenze di un’altra persona solo in modo congetturale basandosi proprio sui comportamenti (comprendenti anche le affermazioni esplicite) di questa, ma generalmente ciascuno ritiene di conoscere le proprie credenze anche indipendentemente dall’osservazione dei proprii comportamenti; pertanto, senza che ciò implichi necessariamente che questa conoscenza sia un’autotrasparenza perfetta, la fonte della conoscenza che ho delle mie credenze appare diversa dalla fonte della conoscenza che posso avere delle credenze degli altri. Larmore, tuttavia, non accetterebbe queste affermazioni; egli non nega che sia possibile che io chiarisca a me stesso le mie credenze indipendentemente dall’osservazione dei miei stessi comportamenti, ma ritiene che questa non sia un’operazione autenticamente conoscitiva, attraverso la quale semplicemente conosco credenze che già ho, bensì una riflessione pratica in cui prendo posizione, abbraccio una credenza, assumo un impegno. Eppure, anche senza giudicare la validità di questa posizione di Larmore rispetto alle credenze, per altri aspetti dell’io come i sentimenti o come il piacere e il dolore il discorso presentato sopra relativamente alle credenze vale in modo incontestabile: è solo dal comportamento di un’altra persona che posso capire se questa è triste, ma nel vivere una mia tristezza ho un’autoesperienza immediata di me (di un mio vissuto) che non deriva dall’osservarmi dal di fuori e che non è interpretabile come un prendere posizione. È dunque innegabile che io abbia una forma di autoesperienza dei miei sentimenti radicalmente diversa dalla conoscenza che posso avere di quelli altrui.
4Questa forma di autoesperienza mi è del tutto privata, esclusiva e personale: io posso infatti esperire in questa forma solamente i miei vissuti. Sulla base di ciò posso affermare che tale forma di esperienza è essenziale all’io: non si può realmente parlare dell’io mettendo completamente da parte questa forma di esperienza (contrariamente a quanto sostiene Larmore, secondo cui il rapporto con se stesso essenziale all’io non è un rapporto di autoconoscenza o autoesperienza). Occorre qui infatti distinguere il concetto dell’io da quello della persona, o anche da quello della mente: come scrive lo stesso Larmore, «essere un io consiste nell’essere un io per se stessi»6; solo di me stesso, infatti, io posso dire “io”, mentre devo indicare come persone e come esseri aventi una mente sia me stesso sia gli altri esseri umani. Non è solo una questione terminologica; in realtà il problema dell’io riguarda propriamente una dimensione soltanto mia dell’esperienza e della realtà; perché il problema dell’io possa pertanto essere adeguatamente svolto, occorre che si renda conto dell’essenziale distinzione dell’io dagli altri, cioè da tutti gli esseri umani di cui accettiamo che ognuno sia per se stesso e solo per se stesso “un io” così come io sono io per me; nasce così la possibilità di parlare degli altri come “altri io” (utilizzando il termine “io” al plurale, in un modo che però forza pesantemente già la grammatica, prima che il pensiero filosofico). È possibile formulare una teoria della mente come la descrizione di un oggetto o di un processo che può essere conosciuto in terza persona così come qualsiasi oggetto esteriore, ma questa non può essere una teoria dell’io; in questo senso sembra che si possa dire che la teoria di Larmore non è una teoria dell’io, ma piuttosto una teoria della mente; del resto lo stesso Larmore considera le due espressioni come sostanzialmente equivalenti7.
5Sembra dunque necessario riabilitare, rispetto al tentativo di Larmore di negarlo, il punto 2 della concezione tradizionale riguardo all’io: essenziale all’io sarebbe una forma di autoesperienza di sé; eppure, perché il tentativo di Larmore di negare questo punto possa essere considerato respinto, non è sufficiente mostrare l’imprescindibilità del punto 2, ma occorre anche confutare l’obiezione che Larmore conduce alle posizioni (per lui rappresentate principalmente da Fichte) che, pur negando il punto 3, mantengono il punto 2, affermando cioè che la natura dell’io risiede in un’autoconoscenza, ma che questa è radicalmente diversa dalla conoscenza che normalmente abbiamo degli oggetti esterni. Secondo Larmore, come si è visto, se si afferma che questa conoscenza esiste, non si può però realmente mostrare in che cosa essa consista; la filosofia sprofonda così nel mistero. Da questa difficoltà è necessario uscire, e ciò è possibile solo se si riesce a mostrare che la peculiare esperienza che abbiamo di noi stessi non è per nulla misteriosa.
6Questo è quanto ritengo sia stato fatto da Michel Henry, grazie anche a un atteggiamento metodicamente molto più attrezzato rispetto alla dichiarata indifferenza di Larmore alle questioni di metodo8: con gli strumenti della fenomenologia, peraltro da lui profondamente rivista, Henry ha mostrato che si dà un genere di esperienza del tutto diversa da quella degli oggetti esterni, e che questa esperienza è proprio esperienza dell’io. Questa forma di esperienza è quella dell’immanenza, che riguarda per esempio i nostri sentimenti. Ciò che differenzia questo genere di esperienza da ogni forma di conoscenza di oggetti esterni è proprio il suo carattere immanente, in opposizione al carattere trascendente (in senso fenomenologico, come rivolgersi della coscienza all’esterno di sé, come suo superarsi intenzionalmente verso un oggetto esterno) della conoscenza degli oggetti esterni; nell’esperienza che abbiamo dei nostri sentimenti, infatti, non si dà alcuna distanza né alcuna mediazione tra la coscienza che li prova, il provare e ciò che è provato. Nel caso di una tristezza, per esempio, non solo non c’è alcuna distanza tra l’individuo vivente che prova vivendola la propria tristezza e la tristezza medesima che egli prova, ma non c’è neppure nessuna distinzione tra ciò che appare e il suo apparire; a differenza di quanto vale per ogni oggetto esterno che ci appare attraverso uno dei nostri sensi, la tristezza e il suo apparire sono la medesima cosa; non c’è cioè distinzione tra la tristezza e il provare tristezza; la tristezza è il suo provarsi. Questo apparire immanente non riguarda solo i sentimenti, ma anche altri vissuti, per esempio altri stati soggettivi più chiaramente aventi un rapporto con i processi materiali che accadono nel nostro corpo (come il piacere, il dolore o la fame), oppure la consapevolezza dei nostri poteri corporali, come la consapevolezza di poter muovere un braccio.
7La presa in considerazione di questa esperienza immanente è dunque proprio ciò che si cercava per comprendere come sia possibile che il tratto più essenziale della natura dell’io sia racchiuso in una relazione di autoconoscenza o, forse meglio, di autoesperienza. Si può così rispondere all’obiezione di Larmore9: una simile autoesperienza non è alcunché di eccezionale e di misterioso, ma è piuttosto l’esperienza più comune e quotidiana di tutte, quella del piacere e del dolore, della gioia e della tristezza.
8In realtà potrebbe forse ancora nascere il dubbio che con ciò l’esistenza di questo genere di esperienza venga solo affermata senza che realmente si dia di essa una spiegazione, senza che se ne renda veramente conto. Tuttavia davvero si può pretendere che si dia conto delle nostre esperienze più semplici? Per esempio, è sensato chiedere una spiegazione (fenomenologica) del fatto che vediamo o del fatto che udiamo? Chiaramente è possibile una spiegazione fisiologica, ma essa non è in grado di spiegare davvero il fatto che vediamo e udiamo, in quanto tra un processo materiale descrivibile scientificamente che si svolge nel nostro corpo oggettivo e un vissuto immanente provato in prima persona come il vedere o l’udire c’è necessariamente un salto che la spiegazione oggettiva e causale non può superare. Altre risposte ipotetiche alla domanda “perché vediamo?” potrebbero forse venire dalla metafisica speculativa, ma la fenomenologia non sembra poter neppure tentare una risposta; ciò che essa può fare è descrivere le strutture del nostro avere sensazioni. Allo stesso modo, allora, occorre riconoscere che anche l’affermazione dell’esistenza di un genere di esperienza immanente in cui consistono i sentimenti e i vissuti del piacere e del dolore non necessita (a meno di non voler entrare in una metafisica speculativa) di un’ulteriore spiegazione in senso fondativo, bensì di uno sviluppo nel senso della descrizione dei caratteri fondamentali di questa esperienza stessa.
9A partire da tutto ciò mi sembra opportuno formulare due corollari relativi a questa teoria dell’autoesperienza immanente dell’io: il primo riguarda il particolare genere di validità epistemica che può spettare (soprattutto in riferimento a una pretesa di universalità) a una descrizione fenomenologica delle strutture dell’autoesperienza immanente: che universalità può avere una simile descrizione fenomenologica dell’io? Il fenomenologo che pratica una simile descrizione non può effettuarla che a partire dalla propria esperienza vissuta; egli quindi, in qualche modo, parla di sé. Non può però parlare solo di sé; perché il suo discorso sia filosoficamente valido occorre che ognuno di noi, essendo per se stesso un io, possa imparare qualche cosa di se stesso da questo discorso; alle descrizioni del fenomenologo deve allora essere riconosciuta un’universalità. Il fenomenologo deve però accettare che alle sue descrizioni spetti una forma di universalità molto specifica, diversa da quella che spetta non soltanto alle scienze naturali, ma anche ad altri generi di filosofia; queste descrizioni, infatti, non si riferiscono a uno stato di cose trascendente che possa essere oggetto di un controllo “pubblico”, ma ai vissuti privati dell’individuo, cioè a vissuti che ogni individuo può trovare solamente in se stesso. In questo senso, di fronte agli enunciati di una descrizione fenomenologica dell’autoesperienza dell’io, ognuno deve cercare in se stesso conferma o smentita delle tesi fenomenologiche. L’universalità di una legge fisica non consiste nel fatto che tutte le volte che una persona ha occasione di verificarla la trova effettivamente verificata; questo fatto non costituisce il significato dell’universalità della legge, ma ne è solo una necessaria conseguenza. Al contrario ogni enunciato della descrizione fenomenologica dell’io, riguardante per esempio un certo sentimento, non può avere la propria universalità se non nel fatto che ogni io prova in sé i vissuti indicati da tale enunciato medesimo; in questo senso tra due affermazioni come “ogni bisogno insoddisfatto genera sofferenza” e “tutte le volte che io (e allo stesso modo ogni altro io) ho un bisogno che rimane insoddisfatto provo una sofferenza” non intercorre un rapporto di implicazione, ma piuttosto il rapporto che c’è tra un enunciato e la sua spiegazione; il secondo enunciato non aggiunge nulla al primo; se a prima vista si può pensare che questo sia contrario alle leggi della logica è perché non si considera che il bisogno o la sofferenza sono sempre tali come provati dall’io vivente.
10Il secondo corollario riguarda il concetto di identità personale: l’unicità di ogni io e la sua distinzione dagli altri sono in genere indicate con l’espressione “identità” o “identità personale”. In realtà questo termine sembra ancora troppo legato a una prospettiva oggettivistica sull’io; per parlare di un’identità del soggetto sembra necessario considerarlo come un oggetto tra gli altri, a molti dei quali (gli altri uomini) esso somiglia e rispetto ai quali si distingue per una qualche proprietà (così come ogni altro uomo ha le proprie peculiarità che lo distinguono dai suoi simili). In realtà occorrerebbe considerare la questione da un altro punto di vista: l’io non è un oggetto tra gli altri, perché l’esperienza che se ne ha appartiene a un peculiare ambito dell’esperienza (il quale è proprio soltanto dell’io e si identifica con esso) estraneo all’opposizione soggetto-oggetto. Ciò che mi distingue definitivamente da un altro, per quanto egli mi somigli, è proprio il possesso esclusivo di vissuti da me provati in prima persona, cioè il possesso di un ambito non condivisibile, soltanto mio (il dolore mio non è il dolore dell’altro). Per indicare questa esclusività, che definisce perfettamente la mia distinzione da tutti gli altri, è allora inopportuno il termine “identità”; conviene forse piuttosto, come fa Michel Henry, parlare di “ipseità”, che indica non il fatto di essere diverso da ogni altro essere umano così come un oggetto è diverso da un altro, ma il fatto di vivere la propria vita in prima persona, di essere proprio io (secondo il significato di “ipse”).
11Occorre infine segnalare una conseguenza preoccupante di questa teoria, cioè il fatto che essa sembri chiudere ogni porta a un’autentica intersoggettività: se la dimensione essenziale dell’io è quella dei vissuti privati, e se è impossibile accedere ai vissuti di un’altra persona, è anche impossibile accedere realmente all’altro io nella sua vera natura. Si direbbe così che l’altro non possa apparirci se non nel suo aspetto esteriore di oggetto sensibile; l’altra persona non potrebbe allora essere per noi che una cosa tra le cose, e ogni vera partecipazione ai sentimenti dell’altro non sarebbe che un affetto che però, a sua volta, sarebbe esclusivamente nostro; lo stesso Henry si rende conto di questa conseguenza e cerca di superarla, discutendo le teorie dell’intersoggettività (tutte sottoposte allo scacco della privatezza dei vissuti immediati dell’io) di altri fenomenologi, in particolare di Husserl e di Scheler10; la sua risposta alla questione dell’intersoggettività consiste nell’affermazione per cui a fondamento della vita di ogni singolo ci sarebbe una Vita assoluta, e nel comune fondamento di questa Vita assoluta (che Michel Henry identifica con la Vita stessa di Dio) sarebbe possibile all’io avere un autentico rapporto affettivo con la soggettività di ogni altro. Chiaramente in una posizione del genere è fortissimo il rischio che ci si allontani, nonostante le assicurazioni di Michel Henry in contrario, dalla fenomenologia per avventurarsi in una metafisica speculativa di dubbia fondazione; questa soluzione henriana andrebbe naturalmente vagliata in dettaglio; qui si può però solo dire, per concludere, che la questione dell’intersoggettività si pone come un problema gravissimo per una teoria dell’io che appare molto convincente nei suoi tratti fondamentali.
Notes de bas de page
1 C. Larmore, Le pratiques du moi, Paris, PUF, 2004; trad. it. M. Piras, Roma, Meltemi, 2006.
2 C. Larmore, Dare ragioni. Il soggetto, l’etica, la politica, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2008.
3 V. Descombes e C. Larmore, Dernières nouvelles du moi, présenté par J.-C. Billier, Paris, PUF, 2009.
4 Cfr. in particolare C. Larmore, Dare ragioni, cit., p. 85.
5 Per una trattazione più diffusa di questa critica, cfr. ivi, pp. 84-85.
6 C. Larmore, Le pratiques du moi, cit., p. 5; it. p. 7.
7 Cfr. C. Larmore, Dare ragioni, cit., p. 97. È ora opportuna una precisazione linguistica: Larmore, scrivendo in francese i suoi libri sull’io, parla del “moi”, mentre, tenendo oralmente lezione in inglese (il libro Dare ragioni è per ora pubblicato solo in italiano, ma riproduce il testo di lezioni tenute in inglese), parla del “self”; del resto egli stesso equipara esplicitamente, dal punto di vista del problema filosofico dell’io, i termini “self” o “Selbst” e”io” o “moi” (cfr. C. Larmore, Dare ragioni, cit., pp. 22-23). Chiaramente questa equiparazione potrebbe destare qualche perplessità, e ci si potrebbe chiedere se non sia opportuno distinguere un problema dell’io da un problema del sé (che per certi versi costituirebbe una migliore traduzione dell’inglese “self”), nel qual caso la determinazione di un ambito di esperienza assolutamente privato riguarderebbe solo il problema dell’io, mentre le riflessioni di Larmore si collocherebbero piuttosto in quello del sé. Il problema è troppo complesso per affrontarlo qui; tuttavia credo di poter rispondere che non ritengo corretto parlare di un problema del sé parallelo a quello dell’io ma del tutto distinto da esso, in quanto la sostantivazione del pronome “sé” appare indicare che ognuno è per se stesso un io così come io lo sono per me.
8 Cfr. C. Larmore, Le pratiques du moi, cit., p. 11; it. pp. 12-13.
9 Larmore esprime questa obiezione esplicitamente nei confronti di Michel Henry: cfr. C. Larmore, Le pratiques du moi, cit., pp. 98-99; it. pp. 86-87.
10 Cfr. la terza parte di M. Henry, Phénoménologie matérielle, Paris, PUF, 1990; trad. it. E. De Liguori e M.L. Iacarelli, a cura di P. D’Oriano, Milano, Guerini e Associati, 2001.
Auteur
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