Naturalismo, riduzionismo, eliminativismo. Considerazioni metodologiche sul problema del soggetto
p. 84-94
Texte intégral
1Come è capitato a molte delle discipline che per tradizione rientravano nel dominio della metafisica, il discorso razionale sul soggetto e sulle sue facoltà sembra oggi possibile soltanto all’interno di una prospettiva naturalistica. Questa però, più che una posizione di diritto, sembra essere una situazione di fatto. Scopo di queste considerazioni metodologiche è quello di impostare una trattazione critica del diritto che il naturalismo rivendica nel presentarsi come la prospettiva privilegiata per affrontare il problema della natura del soggetto. Come termine di confronto si prendono alcuni momenti del dibattito svoltosi in filosofia della mente attorno al fenomeno della coscienza.
1. Naturalismo
2In uno dei suoi ultimi libri, Daniel Dennett porta avanti una polemica verso quelli che chiama “misterici”: coloro che celebrano la coscienza come un mistero insolubile «che va oltre le possibilità della scienza, impenetrabile dall’esterno e tuttavia intimamente conosciuto da ognuno di noi dall’interno».
3L’obiezione che Dennett rivolge ai misterici è oltre che di contenuto anche di metodo. Ritenendo che la coscienza sia «un fenomeno fisico, biologico […] che è squisitamente ingegnoso nella sua operazione, ma non miracoloso, e tantomeno misterioso», egli rimprovera i misterici di essere non soltanto in errore, ma di porre «un serio ostacolo allo sviluppo della ricerca scientifica, la quale può spiegare la coscienza con la stessa profondità e completezza con cui riesce a spiegare altri fenomeni naturali»1.
4Queste considerazioni di Dennett consentono di mettere bene a fuoco la questione. Rispetto al problema del soggetto e delle sue facoltà, il naturalismo rappresenta innanzitutto un atteggiamento della ricerca scientifica e di conseguenza esprime una tesi che è di carattere metodologico. La volontà di non considerare il soggetto e le sue facoltà come entità soprannaturali è dettata dalla necessità di preservare la possibilità di proiettare su di essi quelle strategie conoscitive messe in campo dalle scienze positive che si sono rivelate di successo per i fenomeni naturali.
5Da questo punto di vista sembra che il naturalismo debba esser considerato qualcosa di non problematico, perché nessuno può impedire, affermando il carattere soprannaturale del soggetto, che su di esso o sulle sue facoltà vengano proiettati i metodi di indagine delle scienze positive. Ha ragione Dennett quando dice che ciò costituirebbe un serio ostacolo alla ricerca scientifica.
6Vi è tuttavia qualcosa di problematico nel naturalismo che si nasconde in un aspetto implicito. Il naturalismo non ha soltanto un carattere metodologico, ma esprime anche un tesi di natura ontologica, secondo cui il soggetto e le sue facoltà sono fenomeni naturali proprio come tutti gli altri fenomeni naturali.
7Questa tesi può assumere forme piuttosto radicali, dipende da come si interpreta quel “proprio come”. Può significare per esempio che il soggetto e le sue facoltà non sono nient’altro che fenomeni naturali. Si discuterà il naturalismo in questa versione perché oltre a essere la più ambiziosa sembra anche la più diffusa. I suoi due aspetti – quello metodologico e quello ontologico – possono essere così sintetizzati:
(A) Il soggetto e le sue facoltà possono essere conosciuti al pari e attraverso i metodi con cui si conoscono gli altri fenomeni naturali.
(B) Il soggetto e le sue facoltà non sono nient’altro che fenomeni naturali.
8La problematicità del naturalismo risiede nel fatto che tra il suo aspetto metodologico e il suo aspetto ontologico viene a crearsi una sorta di circolo. Il secondo aspetto è infatti il presupposto implicito del primo: se non si pensasse che il soggetto e le sue facoltà non siano altro che fenomeni naturali, non avrebbe senso pensare di poterli conoscere al pari e attraverso i metodi con i quali si conoscono gli altri fenomeni di questo tipo. Allo stesso tempo, però, la plausibilità del naturalismo ontologico dipende dai successi del naturalismo metodologico, ossia dai successi che le strategie conoscitive messe in campo dalle scienze positive riscuoteranno nello spiegare il soggetto e le sue facoltà al pari di tutti gli altri fenomeni naturali.
9Se ci si vuol togliere dall’imbarazzo di questa circolarità, si può guardare la questione in questi termini: il naturalismo ontologico è l’ideale regolativo che guida il naturalismo metodologico.
2. Riduzionismo
10Si cercherà ora di mostrare come i successi del naturalismo metodologico dipendano dai successi del riduzionismo. Non si discuterà ogni posizione di tipo riduzionista avanzata attorno al fenomeno della coscienza; si terrà invece sullo sfondo questo dibattito e si esamineranno alcune versioni del fisicalismo, perché sembra questa la posizione naturalista più generale che si può oggi sostenere in filosofia della mente.
11A un livello introduttivo si può definire “fisicalismo” quella posizione che afferma o che tutto alla fin fine è fisico oppure che tutto può essere spiegato in termini fisici. Con ciò si vuol dire che anche l’ambito del mentale rientra sotto la giurisdizione della fisica. Dal punto di vista dell’analisi metodologica il fisicalismo è utile perché, in modo speculare rispetto al naturalismo, permette di distinguere il riduzionismo in due diversi aspetti, che sono il riduzionismo ontologico e il riduzionismo esplicativo.
12Un esempio di riduzionismo ontologico è dato dalla teoria dell’identità, secondo cui le proprietà mentali di una data entità coincidono con le sue proprietà fisiche. La teoria dell’identità non è eliminativista, non dice che non esiste il mentale ma solo il fisico. Per essa esiste il mentale, esiste il fisico ed essi coincidono.
13Sicuramente questo tipo di riduzionismo implica un riduzionismo esplicativo. Infatti, se le proprietà mentali coincidono con le proprietà fisiche, una volta fornita una spiegazione delle proprietà fisiche, si avrà anche a disposizione una spiegazione delle proprietà mentali. È questa per esempio la posizione descritta da David Lewis: «Il dolore è una sensazione. Avere un dolore e provare dolore sono la stessa e identica cosa. […]. Una teoria che spieghi perché uno stato è uno stato di dolore è inevitabilmente una teoria di ciò che si prova a essere in quello stato, di come lo stato viene avvertito, del carattere fenomenico dello stato»2.
14È evidente il circolo in cui finisce un fisicalismo riduzionista di tipo ontologico come la teoria dell’identità. Dire che se una teoria spiega un certa proprietà fisica, allora spiega anche una certa proprietà mentale è, infatti, la conclusione legittima che deriva dall’assunzione dell’identità tra proprietà mentali e proprietà fisiche, ma non può in alcun modo essere la premessa a partire dalla quale giustificare, come conclusione, la validità della teoria dell’identità. È dunque la correttezza della propria assunzione che Lewis dovrebbe legittimare e che invece dà per scontato all’interno del suo discorso. Questo circolo rende insostenibile un riduzionismo come quello proposto dalla teoria dell’identità.
15Il passaggio citato ha però il merito di sintetizzare il nucleo essenziale del riduzionismo esplicativo e di introdurre al senso in cui per molti filosofi della mente quest’ultimo possa implicare una forma di riduzionismo ontologico. Infatti, perché si possa inferire una relazione ai limiti dell’identità tra proprietà fisiche e proprietà mentali è necessaria oltre a una spiegazione delle proprietà fisiche (una teoria di ciò che precisamente avviene nel cervello), anche una spiegazione di come da quelle proprietà fisiche possano effettivamente sorgere le proprietà mentali, ovvero una teoria della causalità dal fisico al mentale.
16Non è dunque un caso che oggi un riduzionismo ontologico radicale come la teoria dell’identità sia rispetto ai decenni precedenti largamente minoritaria e alcuni filosofi della mente preferiscano parlare di proprietà mentali sopravvenienti sulle proprietà fisiche.
17La teoria della sopravvenienza sostiene che, sebbene nel mondo ci siano entità fisiche, queste sono dotate oltre che di proprietà fisiche, anche di proprietà mentali che, appunto, sopravvengono su quelle fisiche. La teoria della sopravvenienza abbraccia quindi una sorta di dualismo rispetto alle proprietà – e in questo non è riduzionista in senso ontologico – ma è in cerca di una spiegazione che giustifichi la sopravvenienza del mentale sul fisico. In definitiva, essa propenderebbe per una forma di riduzionismo esplicativo.
18Una teoria della sopravvenienza soddisfacente dovrebbe tendere a mostrare come proprietà ontologicamente distinte – mentali e fisiche, appunto – siano strettamente correlate tra loro e come, dunque, le une possano sopravvenire sulle altre. Oggi siamo purtroppo ben lontani da una situazione di questo tipo e l’idea della sopravvenienza non sembra andare al di là di una generica caratterizzazione intuitiva3.
19La situazione cambia di poco se si sposa una versione emergentista dell’idea della sopravvenienza e si afferma, come fa Tim Crane, che le proprietà mentali emergono nomologicamente dalla materia quando questa raggiunge un certo grado di complessità: «La relazione tra mente e cervello è qualcosa che dovremmo accettare […] con “devozione naturale”. […]. [A]nche se entrambi sostengono che il mentale sopravviene sul fisico, il fisicalista non riduzionista [il teorico della sopravvenienza] ritiene che tale sopravvenienza debba essere spiegata, mentre l’emergentista è disposto ad accettare la sopravvenienza come fatto di natura. In altre parole, il fisicalismo non riduzionista ritiene che debba esserci una riduzione esplicativa; l’emergentista ritiene che la possibilità di tale riduzione è una questione del tutto empirica e non tale da permetterci di presupporla prima che la ricerca l’abbia effettivamente trovata»4.
20Pochi mettono in dubbio che una teoria in grado di render ragione delle proprietà fisiche possa esser qualcosa di accessibile alla mente umana; si discute al contrario se si possa davvero individuare una spiegazione di come le proprietà mentali sopravvengano o emergano sulle proprietà fisiche e, qualora si potesse, se la possibilità di individuare una spiegazione di questo tipo debba esser considerata qualcosa di necessario oppure di empirico.
21Si provi a immaginare che il progetto del riduzionismo esplicativo effettivamente si realizzi e ci si chieda quale impatto questo possa avere sul riduzionismo ontologico e sul naturalismo metodologico. È difficile dire se insieme col riduzionismo esplicativo debba considerarsi realizzato anche uno ontologico. Andrebbero fatte alcune distinzioni fondamentali che inducono a riprendere il discorso dopo essersi confrontati con l’atteggiamento eliminativista verso l’ambito del mentale. Si può invece rispondere all’altra parte della domanda. Infatti, dovrebbe risultare chiaro che i successi del naturalismo metodologico dipendono non dai successi del riduzionismo in generale, ma dai successi di quel tipo particolare di riduzionismo che è il riduzionismo esplicativo, sostenuto in modi diversi dalla teoria della sopravvenienza o da quella dell’emergenza. Questa relazione di dipendenza non è una relazione di plausibilità, perché il naturalismo metodologico può aver senso se (e solo se) è possibile realizzare un riduzionismo esplicativo.
3. Eliminativismo
22Da ora in poi non si parlerà più di proprietà mentali e proprietà fisiche, ma si tireranno in causa alcune tra le posizioni che animano l’attuale dibattito sulla coscienza. Sono davvero in pochi coloro che mettono in discussione la possibilità che sia il cervello a causare la coscienza, per cui quello che deve essere considerato oggetto di discussione è il modo in cui questo avviene per tutti gli aspetti della coscienza compreso quello fenomenico. È quello che David Chalmers ha denominato “problema difficile”5.
23Non è eccessivo dire che la caratteristica principale della coscienza sia rappresentata dalla soggettività, cioè il modo in cui ciascuno fa consapevolmente e in prima persona esperienza del proprio essere nel mondo. La soggettività è dunque fenomenica. Pur essendo la principale, tuttavia, essa non è l’unica caratteristica della coscienza; non tutta la coscienza, infatti, implica la coscienza di sé6. In ogni modo, qualunque siano le sue caratteristiche, una teoria della mente che abbia la pretesa di identificare a tutti gli effetti la coscienza con gli stati cerebrali che la producono (riduzionismo ontologico) deve innanzitutto possedere una teoria causale che spieghi esattamente come le sue caratteristiche così come sono esperite da ciascuno in prima persona possano sopravvenire o emergere su quegli stati cerebrali (riduzionismo esplicativo).
24Da questo punto di vista l’eliminativismo, e in particolare la versione sposata da Daniel Dennett, non può considerarsi una soluzione accettabile del problema. E questo principalmente perché ne nega l’esistenza: «il problema persistente della coscienza rimarrà un mistero, fino a che non avremo quell’intuizione assolutamente ovvia che dimostrerà che, a dispetto dell’apparenza iniziale, si tratta di un falso problema»7. Infatti, il problema (difficile) della coscienza è secondo Dennett un trucco messo in atto da abili prestigiatori all’interno di una tradizione secolare. Dentro questa tradizione la coscienza è stata definita come il prototipo della soggettività, qualcosa di essenzialmente privato e di conseguenza inaccessibile all’investigazione scientifica. In una parola, un vero e proprio “mistero”. In realtà la coscienza è, secondo Dennett, nient’altro che il prodotto dei meccanismi cerebrali che sottostanno a essa, esattamente come lo è la digestione rispetto ai processi che si attuano nel nostro apparato digerente8. Dato che l’immagine che ci viene consegnata dalla tradizione non esiste, allora il problema della coscienza è un’illusione da eliminare: «Sembra ancora che la Terra stia ferma e il Sole e la Luna le girino intorno, anche se sappiamo che è sensato considerare questa potente apparenza come apparenza. […]. Verrà un giorno in cui filosofi, scienziati e gente comune sorrideranno delle tracce fossili delle nostre confusioni sulla coscienza: “Sembra ancora che queste teorie meccaniciste della coscienza lascino qualcosa fuori, ma ovviamente si tratta di un’illusione. In realtà esse spiegano della coscienza tutto quello che ha bisogno di essere spiegato”»9.
25La posizione di Dennett è irragionevole per alcune semplici ragioni. Innanzitutto è profondamente controintuitiva: egli nega l’esistenza di ciò che nessuno, eccetto gli eliminativisti, sarebbe disposto a negare e che tutti, infatti, colti e meno colti, assumono come una delle evidenze meno discutibili. Inoltre, la negazione della coscienza che egli va divulgando è dogmatica almeno quanto l’affermazione del suo mistero annunciata dagli oppositori. Sembra che Dennett abbia intuito che una spiegazione della coscienza come quella da lui proposta – quella di un grande meccanismo biologico totalmente assorbito all’interno dei suoi ingranaggi – non avrebbe mai potuto rendere ragione di quelle caratteristiche che ciascuno di noi attribuisce alla coscienza; solo che davanti a questa evidenza, anziché mutare la propria ipotesi esplicativa, egli ha liberamente deciso di negare l’esistenza di quelle caratteristiche che, anche se riconosciute all’unanimità, faticano a rientrare nel suo schema precostituito. Infine, egli sostiene che una teoria della coscienza come quella che lui caldeggia spieghi tutto ciò che in realtà sarebbe necessario spiegare. Nel dir questo egli richiama, come semplici analogie, altre celebri apparenze che sono state di impedimento all’evoluzione della scienza, come quella riportata nel passaggio appena citato. Tuttavia, queste analogie funzionano molto male e rendono la scelta di Dennett del tutto scivolosa.
4. Una voce solitaria
26Diversa è invece la proposta di John Searle, la quale in prima battuta presenta un che di affascinante: pur non costituendo intrinsecamente un mistero, la coscienza è qualcosa di irriducibile.
27Anche Searle sostiene, come Dennett, che l’ostacolo principale che si annida dietro una soluzione del problema della coscienza risieda nel vocabolario ereditato dalla tradizione filosofica. Essa infatti ci ha abituati a distinguere tra ciò che è soggettivo, e riguarda ciascun individuo in prima persona, e ciò che è oggettivo, ossia ciò che è indipendente dal soggetto e può, di conseguenza, esser descritto in terza persona. Questa distinzione ha avuto notevoli ripercussioni: la coscienza, qualcosa di intrinsecamente soggettivo, è diventata un’entità inaccessibile ai metodi delle scienze positive, che sono oggettivi perché in terza persona.
28In realtà, dietro una posizione di questo tipo si cela, secondo Searle, un errore madornale, ossia credere che se una data cosa è ontologicamente soggettiva – proprio come lo è la coscienza – su di essa non si possano formulare enunciati epistemicamente oggettivi10. O detto in altri termini, che è impossibile studiare in terza persona ciò che presenta un’ontologia in prima persona.
29Si tratta di un errore che è opportuno lasciarsi alle spalle. Il cervello è infatti, secondo Searle, una macchina organica e la coscienza è causata dai processi fisici che avvengono al suo interno. In questo senso costituisce una proprietà emergente del cervello. Essa è dunque soggettiva, ma fa parte di un sistema oggettivo, fisico nel senso di biologico. Una proprietà emergente di un dato sistema è qualcosa che è spiegato causalmente dal comportamento degli elementi del sistema, ma non è né una proprietà di nessuno di quegli elementi e né può essere spiegata come somma delle loro proprietà. Il senso di mistero che ci avvolge è il frutto della nostra ignoranza e si dissiperà quando otterremo una spiegazione della modalità in cui il sistema del cervello causa quel fenomeno sorprendente che è la coscienza: «la ragione per cui la coscienza sembra essere un “mistero” è data dal fatto che non abbiamo un’idea chiara di come nel cervello vi sia qualcosa che possa causare gli stati coscienti. Credo che questo senso di mistero potrà essere rimosso quando saremo in grado di rispondere alla domanda sulla causazione»11.
30Searle definisce la sua posizione «naturalismo biologico». Inoltre, tiene particolarmente a mantenerla distinta da ogni forma di dualismo come anche di materialismo. Ci sono seri dubbi sul fatto che egli ci riesca veramente.
31Negando che la coscienza possa costituire un mistero irrisolvibile, Searle non può che sostenere una forma di riduzionismo esplicativo. A ciò egli aggiunge anche una forma di riduzionismo ontologico: «Nella mia esposizione non c’è alcun tipo di dualismo perché non sostengo l’esistenza di due ambiti ontologici separati, bensì di differenti livelli di descrizione dello stesso ambito ontologico»12. Con questo egli vuol dire che non ci sono due mondi, il mondo dei fenomeni soggettivi, accessibili in prima persona, e il mondo dei fenomeni oggettivi, che possono essere conosciuti in terza persona. Di mondo invece, secondo Searle, ve ne è uno soltanto ed è il mondo fisico ordinario, la cui struttura è studiata dalle scienze naturali.
32Nonostante ciò, egli continua a sostenere che la coscienza sia un fenomeno irriducibile, perché di essa è possibile dare due diversi livelli di descrizione: un livello di descrizione fisicalista, che è in terza persona e comprende la causazione, e un livello di descrizione fenomenologico, che è in prima persona e costituisce l’esperienza di ciascuno. Questo secondo livello è il fenomeno emergente dai meccanismi di causazione sottostanti, i quali compongono il sistema del cervello che come entità appartiene al mondo fisico ordinario. In tutta franchezza, non sembra che Searle si sia liberato del dualismo ereditato dalla tradizione che, al fine di salvare il senso comune, è costretto a proiettare sui livelli di descrizione.
5. Conclusioni
33Il problema del riduzionismo rimane dunque intatto: una teoria della mente che abbia la pretesa di identificare la coscienza con gli stati cerebrali che la producono (riduzionismo ontologico) deve innanzitutto possedere una teoria causale che spieghi esattamente come le sue caratteristiche così come sono esperite da ciascuno in prima persona possano sopravvenire o emergere su quegli stessi stati cerebrali (riduzionismo esplicativo).
34Che attualmente ci sia un vuoto esplicativo su come il cervello causi il fenomeno complesso della coscienza è fuori discussione. A riguardo, però, le posizioni si dividono in due partiti. Innanzitutto, ci sono coloro che ritengono questo vuoto incolmabile per ragioni concettuali. Costoro in genere si appellano ad alcuni argomenti a priori13. A questi si oppone un secondo partito: coloro che ritengono questo vuoto colmabile almeno in linea di principio. Tra questi, alcuni pensano che sarà per forza di cose colmato, altri che la possibilità di colmarlo sia una questione empirica, su cui soltanto il futuro potrà illuminarci. Il punto di maggior dissenso tra i due partiti investe il ruolo della causazione, ossia se questa possa davvero colmare il vuoto esplicativo esistente. Il primo partito ritiene di no, perché una spiegazione causale non costituirebbe un’inferenza necessaria, in quanto – come sostiene Joseph Levine – non permetterebbe di dedurre un affermazione sulla coscienza da una sulla fisica del cervello14. Il secondo partito pensa ovviamente il contrario.
35Ci sono buone ragioni per concordare con Tim Crane quando ritiene che i membri del primo partito avanzino un’obiezione assurda15. In effetti, chiedere al riduzionismo esplicativo di spiegare come le caratteristiche della coscienza così come sono esperite da ciascuno in prima persona possano sopravvenire o emergere sugli stati cerebrali sottostanti è già di per sé una richiesta elevata. Tuttavia, si tratta di una richiesta che il riduzionismo deve soddisfare per ritenersi degno di questo nome e capace di esprimere una tesi di natura ontologica. È inoltre vero che il suo soddisfacimento non garantirebbe l’identità di uno stato mentale – a maggior ragione complesso come la coscienza – con lo stato fisico corrispondente nel cervello. Tale identità potrebbe essere inferita soltanto con un alto grado di plausibilità dai successi del riduzionismo esplicativo.
36Infine, non è scontato che il programma del riduzionismo esplicativo riesca effettivamente a realizzarsi. Non solo oggi non è disponibile una teoria complessiva del cervello e, di conseguenza, una teoria che spieghi la causazione, ma a riguardo si registra anche un’incredibile carenza di ipotesi e metodi. In ogni caso non è opportuno opporre al riduzionismo esplicativo argomenti a priori, né impugnare tesi dogmatiche sul presunto mistero di alcune proprietà mentali (compresa la coscienza) perché molto spesso gli argomenti a priori si rivelano smentiti dai fatti, mentre i presunti misteri sono frequentemente risolti tramite nuove strategie investigative.
37Per concludere, il credito che il naturalismo rivendica nel presentarsi come la prospettiva privilegiata per affrontare il problema del soggetto non glielo si può non concedere perché è vincolato principalmente al suo aspetto metodologico. Il suo successo d’altra parte dipende dai successi del riduzionismo esplicativo, per cui tale credito non deve considerarsi a fondo perduto. In tutta franchezza, chi scrive pensa che il naturalismo abbia la possibilità di risolvere molti di quelli che in genere si chiamano misteri, persino quelli più impervi come la coscienza. Questo però non implica che esso ci riuscirà realmente. C’è da chiedersi se – qualora ci riuscisse – questo significhi davvero che il soggetto e le sue facoltà non portino con sé un mistero oppure, più semplicemente, non possa significare che si è mal identificato ciò che va considerato come misterioso.
38Infatti, il soggetto potrebbe considerarsi un mistero in un senso più fondamentale. Si prenda ancora per un attimo il fenomeno della coscienza, che emerge in organismi dotati di una certa complessità. L’uomo è sicuramente il più complesso tra questi e in lui la coscienza diventa un problema vero e proprio. In particolare, arriva a concepirsi come qualcosa di misterioso e questo pur restando un fenomeno che accade in natura. Anzi, tramite la coscienza dell’uomo l’intera natura raggiunge il suo punto più elevato di consapevolezza perché arriva a chiedere le ragioni di se stessa e quindi di tutto. Quand’anche si scoprisse come nasca la coscienza, come emerga a un certo stadio della natura, non sarebbe ancora spiegato perché essa nasca, perché la natura abbia raggiunto quel certo stadio, da cui poteva emergere qualcosa di così diverso da tutto il resto, come la coscienza dell’uomo, capace di interrogarsi su come e perché essa sia.
39Il soggetto può quindi considerarsi un mistero anche in un altro significato. Per parafrasare il Tractatus di Wittgenstein (6.44): “Non come il soggetto è, è un mistero, ma che esso è”. Non è né esplicativo, né ontologico; si tratta di un mistero in senso metafisico. Un mistero che non chiede di esser postulato, ma di esser riconosciuto e domandato: “Perché c’è qualcosa – un soggetto – invece che niente?”.
Notes de bas de page
1 D.C. Dennett, Sweet dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, trad. it. A. Ciluffo, Milano, Cortina, 2006, pp. 23 e 53.
2 D.K. Lewis, Mad Pain and Martian Pain, in Philosophical Papers, vol. 1, Oxford, Oxford University Press, 1983, pp. 122-130, in particolare p. 130.
3 Cfr. T. Crane, Fenomeni mentali. Un’introduzione alla filosofia della mente, trad. it. C. Nizzo, Milano, Cortina, 2003, pp. 80-85.
4 Ibidem, p. 96.
5 Cfr. D.J. Chalmers, La mente cosciente, trad. it. C. Meini e A. Paternoster, Milano, McGraw-Hill, 1999, in particolare p. 31.
6 Cfr. J.R. Searle, Coscienza, linguaggio, società, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009, pp. 38-44.
7 Il passaggio di Dennett è tratto da un confronto avuto con John Searle. Qui è citato da un più lungo estratto riportato in J.R. Searle, Il mistero della coscienza, trad. it. E. Carli, Milano, Cortina, 1998, pp. 93-97, in particolare p. 93.
8 Cfr. D.C. Dennett, Sweet Dreams, cit., p. 66.
9 Ibidem, pp. 20-21.
10 Cfr. J.R. Searle, Coscienza, linguaggio, società, cit., pp. 57-58.
11 J.R. Searle, Il mistero della coscienza, cit., p. 158.
12 J.R. Searle, Coscienza, linguaggio, società, cit., p. 55.
13 Cfr. T. Crane, Fenomeni mentali, cit., pp. 134-149.
14 Cfr. J. Levine, On Leaving Out What It’s Like, in M. Davies e G.W. Humphreys (a cura di), Consciousness: Psychological and Philosophical Essays, Oxford, Blackwell, 1993, pp. 121-136.
15 Cfr. T. Crane, Fenomeni mentali, cit., pp. 134-136.
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