Crisi della ragione epersistenza del soggetto nella modernità
p. 62-69
Texte intégral
1. Una lettura retrospettiva della Fenomenologia
1Riapro una discussione sulla teoria hegeliana della soggettività vedendo nel progetto hegeliano una risposta non solo – come usualmente è stato fatto – alle difficoltà e oscurità delle concezioni kantiana e fichtiana e dei primi romantici – ma soprattutto alla vivisezione del soggetto portata avanti da Nietzsche a partire dalla svolta antimetafisica di Umano, troppo umano. Cercherò pertanto di ricostruire – passando in rassegna alcuni passaggi decisivi di Scienza della logica e Fenomenologia – le tappe mediante le quali in Hegel si ristabilisce – nel tempo – questo più solido riferimento a sé del soggetto per verificare l’ipotesi se in Hegel il soggetto concreto possa essere interpretato come la “differenza determinata” fra tempo circolare (identità) e lineare (cambiamento) e per fornire una risposta alla domanda se la “critica” di Nietzsche al soggetto e all’autocoscienza possa ritenersi legittimamente rivolta al modello riflessivo di queste.
2. Soggettività, valore del negativo, forze reattive
2La procedura con cui, nella Scienza della logica (1812-16), Hegel cerca di costruire un’impalcatura interna per i tre livelli di esperienza coinvolti nella Fenomenologia (corpo, coscienza, autocoscienza) è ciò che egli già dalla Prefazione alla prima edizione (1812) annuncia come “il negativo”. L’uso di questa premessa teorica piuttosto che di un’altra coincide con una svolta che impone alcune considerazioni. Il negativo consiste in un movimento del pensiero per cui questo esce costantemente dal rigido confine territoriale di una singola operazione mentale, per dirigersi a comprendere l’intero spettro delle condizioni oggettive e soggettive in cui e attraverso cui diventa consapevole di sé. Al carattere onnicomprensivo di questo movimento, fa da contraccolpo, come immediata manifestazione della soggettività, il bisogno di ricercare un valore del contenuto: valore che rappresenta a un primo livello un limite, la determinazione, benché lo scopo ultimo della negazione consista nell’elaborazione di un nuovo valore, tale da assorbire in sé – come risultato dell’attività di negazione – il valore del contenuto rimosso (aufgehoben). Il soggetto che inizia a emergere da tale processo, realizzandosi in un rapporto circolare con se stesso, non si isola mai dal proprio contenuto, che rappresenta il valore del negativo: occorre ben guardarsi dal credere che questi concetti rappresentino un limite di fronte al quale la soggettività si arresti, come se, di fronte a una divinità, dichiarasse un atto di fede. La ricerca umana di una propria identità è obbligata a fare i conti con questa complessità strutturale – comprendente, per es., il sistema “vitale” degli impulsi che muovono la soggettività a ricostruire il primo momento, cioè a togliersi come alterità per rifarsi identità in seguito a ripetuti atti di distinzione. I passaggi richiamati già ci annunciano la complessità di quel modo propriamente umano di muovere dialetticamente i contenuti per farsi dei soggetti che non temono l’alterità, portatori attivi delle qualità. Nel suo primo e fondamentale esito, il movimento dialettico approda infatti alla qualità (Qualität), come prima determinazione dell’essere, o più propriamente, dell’esserci, perché «soltanto l’esserci contiene la differenza reale dell’essere e del non essere, vale a dire un qualcosa e un altro»1. Il divenire della coscienza non significa dunque una riduzione dei suoi contenuti al valore del nulla, ma al valore del positivo, dell’esserci. Questo implica la differenza e al contempo la sua negazione, per via del bisogno – pulsionale – del soggetto di rientrare continuamente dentro di sé. Le qualità che si sono attribuite al “vero” essere (inteso astrattamente anche come esistere, vita, pensiero, divinità) sono le caratteristiche di un non-essere, di un contenuto superato, ma non sono tuttavia le qualità di un nulla. Di questi contenuti e di queste qualità se ne appropria il soggetto, per così dire facendosene carico: esperisce possibilità che scopre sue, identificandosi con i contenuti che testimoniano il valore del negativo. Ma in Hegel la convinzione che esperire l’una o l’altra qualità significhi situarsi in un processo di autoappropriazione e di autoidentificazione si accompagna alla consapevolezza “drammatica” dei limiti in cui questo processo si sviluppa: per un verso la costituzione del soggetto ha inizio solo come qualcosa di affatto indeterminato – infatti solo nel concetto può raggiungere una più concreta intensità – per un altro, quando assume una più precisa determinatezza – il suo esserci, appunto – è costretto a prendere atto dell’esistenza, parimenti legittima, di un altro esserci che inizialmente resta come ‘altro in generale’. Sul fronte del particolare orfano di concetto, rimane «il qualcosa posto col suo limite immanente come la contraddizione di se stesso, dalla quale è indirizzato e cacciato oltre a sé, è il finito»2. In questo passaggio è descritta chiaramente quella condizione esistenziale dell’uomo da cui prenderà le mosse lo “smascheramento” di Nietzsche: l’esserci è determinato solo in modo finito, nelle sue qualità ha solo limiti antropomorfici, perché nella relazione con se stesso si riferisce come a un puro nulla, rimandando di necessità al di là di se stesso, al di là del suo essere un nulla di fatto. Conformemente a questi presupposti, nell’aforisma 374 della Gaia scienza egli sentirà il bisogno di un «nostro nuovo ‘infinito’», lamentando limiti di un idealismo del finito.
3Quando Nietzsche ricorre all’espressione “esso pensa” (Es denkt), la verità di questo essere è la sua fine, perché, come ci spiega Hegel, «l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro esser dentro di sé il germe del perire: l’ora della loro nascita è l’ora della lor morte»3. Se inizialmente Hegel opponeva l’essere (seppure indeterminato) al non-essere, posizionando la vita (divenire) nel dominio dell’essere determinato mediante le qualità, la sua filosofia cerca di superare l’incapacità di riuscire ad altro che all’io e il rischio di dissolvere il movimento dialettico nel nulla di questo io. Con questa ultima nota intendo riferirmi all’esito estremo della negazione qualitativa, a quella condizione, che ho osato definire “drammatica”, in cui «la finità è la negazione come fissata in sé», mentre «si erge rigida contro il suo affermativo»4. Il problema della finitezza dell’io sollevato da Hegel nella Scienza della logica, considerato alla luce dell’interpretazione posteriore di Nietzsche, acquista uno dei suoi sensi più importanti: si tratta per Hegel di arrestare (o meglio, di ritardare) questo fatale fanatismo del finito, cercando di prevenire i rischi di quando il finito non confluisce nell’affermativo, ma nel nulla, ossia a una rottura definitiva della relazione tra sé e altro. La sequenza che viene in tal modo a delinearsi è quella di una riflessione che «trova prima di sé un immediato ch’essa sorpassa e dal quale essa costituisce il ritorno», benché questo ritorno sia «solo il presupporre ciò ch’era stato trovato»5, perché solo questa presupposizione protegge l’incolumità del ritorno. Senza comprendere preliminarmente questi processi che sottintendono l’autolegislazione – o meglio – l’autodeterminazione dell’individuo, sarà sempre difficile accedere entro la filosofia di Nietzsche, benché con questa idea non si potrà restarci dentro a lungo. A questo punto bisogna vedere quali sono in Hegel gli ostacoli che impediscono al soggetto il ritorno in se stesso – ostacoli contro cui Nietzsche indirizzerà la sua dura polemica. Se teniamo bene a mente i passaggi della dialettica servo-padrone della Fenomenologia, sembra proprio che Hegel non ritenga affatto casuale mettere in gioco una intera tipologia delle forze reattive. Al soggetto reattivo frutto della ‘morale del risentimento’ descritto dalla Genealogia della morale di Nietzsche sta adesso di fronte – e contrapposto , forse come sua premessa dimenticata per strada – la figura del servo nella Fenomenologia, che si riferisce a sé come negativo, non secondo una morale del risentimento, ma secondo un movimento attivo. Per mezzo della forza speciale che esercita su di sé con il proprio lavoro, il servo di Hegel sta in relazione con l’esterno, è aperto all’influsso delle altre cose, ed entra in attività rispetto a quelle; passa dal suo esser dentro se stesso nella realtà universale dei rapporti, delle relazioni negative e nell’avvicendamento della realtà, dimostrandosi «una continuazione dell’individuo in altri individui e quindi un’universalità»6. Nella Logica, Hegel, al termine della dottrina dell’essenza (riflessione) tratta una tipologia della reazione seguita da una teoria dell’azione reciproca perché in lui è diventata chiara e urgente l’aspirazione a superare quelle scissioni e divaricazioni delle forze reattive che pure hanno consentito il progresso della civiltà verso l’azione reciproca. Più chiaro e più urgente diventa il bisogno di portare la sostanza passiva, ossia «la potenza dell’accidentalità, […] il puro essere o l’essenza, che è soltanto in questa determinatezza dell’astratta identità con sé»7, a comprendersi oltre di sé, nel momento in cui egli nella Fenomenologia ha fissato il principio speculativo che può soddisfare questa comprensione: la sostanza efficiente ovvero operante da concepirsi, circolarmente, come autocoscienza di un soggetto. Benché la sostanza passiva di Hegel possa sembrare un qualcosa di contingente (secondo Nietzsche in realtà lo è sempre), in essa è presente al contempo anche uno sforzo “attivo” della ragione per sopprimerla: per sopprimere l’opposizione di soggettività e di forze già fissate, con lo scopo di concepire quello che era un semplice presupposto (la sostanza passiva, appunto) come un divenire. Particolarmente i meccanismi che corrispondono allo sviluppo delle forze attive dalla sostanza passiva, costituiscono già una teoria della soggettività morale che meriterebbe di essere messa a confronto con la genealogia nietzschiana nel suo insieme: un confronto che potrebbe offrire risultati molto sorprendenti, stando all’importanza che la ricerca genealogica – rivolta regressivamente allo svelamento del fondamento dell’umano – possiede nel pensiero di Hegel8. In Hegel il soggetto reattivo, sapendo benissimo di essere debitore della forza di quello attivo, gli orienta contro la sua azione in un modo tutto particolare: non come subdola vendetta (Nietzsche) ma come un’azione che si ri-organizza in qualità di azione reciproca. Una volta sottratta loro ogni potenza affermativa unilaterale, come nel caso emblematico dell’azione reattiva orientata al nulla (ossia la morte a cui andrà incontro il servo se si ribellerà individualmente al padrone) – facendosi negare dalla sostanza attiva che è in loro, le potenze reattive sono così riuscite a trovare nell’azione reciproca l’alleato che impedirà loro di trionfare. Abbiamo cercato fin qui di mostrare come il valore positivo della qualità (come contenuto) in Hegel si opponga anticipatamente a quell’uso che ne farà Nietzsche, cancellando le differenze qualitative, con la loro riduzione a differenze indifferenti, ossia a differenze di ‘potenza’.
3. Temporalità, un presente “parvente”
4Secondo la sua durata finita, l’adesso nel momento in cui è indicato non è già più, ma ciò che resta di quell’istante trascorso – attraverso la memoria, mediata dal linguaggio che narrerà la storia – è appunto la sua intensità, fatto che spiega perché nella Fenomenologia l’‘adesso’ agli occhi di Hegel può essere assolutamente (o meglio, la ‘fusione’ di) ‘molti adesso’. La verità temporale della certezza sensibile si potrà intendere come l’intensità (o meglio la durata infinita) di un istante perduto: ragione che può spiegare perché Hegel, a partire dalla Jenenser Logik, introduce il concetto di eternità nel tempo.
5Nella sua evidente critica a una riduzione quantitativa del tempo, egli non ha tuttavia sacrificato come priva di interesse l’immediatezza, ma ha cercato di ricondurla al suo limite assoluto, l’intensità della sua durata. Questa intensità della durata è l’oggetto di quella intuizione della coscienza di cui Hegel parla a partire dai Frammenti jenesi sulla filosofia dello spirito che fa del tempo un tutto continuo e pone gli stessi istanti come riempiti (erfüllte). L’istante inteso come un “presente parvente”9, è una parte del passato, una sorta di passato recente, illusoriamente preso per un tempo che s’interpone fra il passato e il futuro. Ma dal momento che Hegel, come filosofo del mondo cristiano-germanico, ha concepito il soggetto come volontà e libertà, il suo rapporto con il tempo, anche inteso alla greca come movimento ciclico, non rimane più una contraddizione e un enigma (come per Edipo, di fronte al proprio passato ignoto, causa della sua rovina), ma si risolve a favore della libertà del volere, rispetto al quale il futuro è decisivo.
6L’immediatezza in sé mediata della certezza sensibile, indica certamente un attimo della storia dell’esperienza del soggetto – che viene pensato da Hegel assieme all’eterno presente della storia del mondo – ma in quanto “identità dell’identità e della non-identità”, il soggetto può esperire se stesso come la differenza determinata fra tempo circolare (identità) e tempo lineare (non-identità). Questo sembra confermare la giusta osservazione di Kojève, che il tempo storico e umano di Hegel è un circolo non ciclico, che pertanto può essere percorso una sola volta. Ho parlato dell’uomo perché la verità dell’essere si è scoperta nel soggetto, così come la temporalità è questo movimento della coscienza che non rispetta l’istante ma lo nega, per impadronirsi dei contenuti facendoli propri e per avere, nel ricordo (passato recente), immediatamente la coscienza di sé. Tale appropriazione dei contenuti presuppone il carattere fenomenico del tempo quale semplice mezzo per il Sé. Per la certezza sensibile il tempo ha una durata finita, tende a scomparire, ma questo stesso scomparire dell’istante è necessario alla coscienza per porre sé come “principio di intensità” se è vero che essa è desiderio (Begierde), come ci ricorda Hyppolite. Allora l’oggetto intenzionale di questo appetire non è più dello stesso ordine dell’oggetto immediato della certezza sensibile ma è l’unità dell’io con se stesso (autocoscienza), contraddistinta temporalmente come intensità della durata (durata che si approssima all’infinito). Quello che l’autocoscienza trova come suo ora, non è più l’ora sensibile della percezione, ma un istante che è già riflessione in se stesso per via della sua originaria intensità, custodita fin da subito dalla memoria: l’oggetto immediato del desiderio è una totalità vivente. La vita è infatti la prima essenziale verità dell’autocoscienza. La vita del tempo nel tempo consiste pertanto nella memoria della sua durata infinita, facendo sì che esso sia al contempo l’irrimediabilmente altro (il susseguirsi dei singoli istanti) e il medesimo (l’intensità che li tiene saldamente uniti, come il filo passa attraverso il rosario, per riprendere un’immagine di James). La vita scandita dal tempo naturale (lineare) può apparire come altro da sé, ma attraverso la memoria diventa quanto è più vicino al soggetto, di più intimo e insieme più lontano, per via di questo ‘peccato originale’ della temporalità, che ha comportato una rottura con la vita (l’immediatezza) di cui la coscienza infelice ha vissuto tutta la drammaticità.
7Nella monotona ripetizione degli istanti – che Nietzsche radicalizza fino alle sue estreme conseguenze, come eterno ripetersi dell’identico (ciclicità) – la coscienza scopre questa verità: l’istante non si esaurisce mai, ma si conserva, crescendo in profondità. Il sapere della certezza sensibile si era trovato di fronte alla impossibilità di esaurire il tempo mediante il giudizio “l’ora è adesso”: dicendo ciò non ne aveva per così dire toccato il limite “assoluto”, ma solo “relativo”, per via della necessità di sostituire il primo giudizio con un altro, di pari diritto, “l’ora è la notte”. Questo primo sapere sensibile si riferiva a un tempo senza limiti, a una cattiva infinità, ragion per cui in quel caso non c’era sapere certo ma solo opinione. Mediante l’appropriazione delle diverse intensità degli istanti trascorsi, in quanto “essenze” di quegli istanti, la memoria inizia a strutturare – dall’interno, come autocoscienza – il concetto del tempo che fu: una eternità dentro e fuori del tempo, sintesi assoluta di circolarità (identità) e linearità (non-identità, cambiamento). Rappresentando alla propria coscienza tutti questi momenti assieme ai loro contenuti, il soggetto giunto alla fine della propria vita, di fronte all’abisso della morte incombente (oltre che essenzialmente temporale, l’uomo è essenzialmente mortale) può a buon diritto dire: “io sono-stato” (giudizio d’intensità di un uomo che è saggezza incarnata). A questo punto dovrà poter accadere qualcosa di magico, perché incorporando l’intensità delle durate trascorse egli diventa un’“eternità generata dal tempo”10, un creatore del proprio tempo. Nell’ultimo capitolo della Fenomenologia, Hegel chiarisce questo passaggio fondamentale. Se lo spirito si manifesta necessariamente nel tempo, all’inizio come intuizione vuota, con dei contenuti che tendono a svanire, il suo compito è quello di conservare quei contenuti, che andranno di necessità rimossi; conservandone la sommatoria delle intensità, la memoria arriva a un punto in cui si distacca dai contenuti, adempiendo così il proprio destino: «la necessità di realizzare e di rendere manifesto ciò che dapprima è solo interiore; vale a dire, di rivendicarlo alla certezza di se stesso»11. Col medium della memoria, tutti i contenuti sono tenuti insieme sensibilmente dall’intensità, mentre il concetto, che poi è il tempo, li connette logicamente, sottraendoli alla repressione. Con questo passaggio, Hegel ci ha chiarito perché l’atto è nel tempo ma non si riferisce tanto al tempo, riferendosi piuttosto ai contenuti dell’esperienza, dato che il soggetto ha la forza di cogliere, sensibilmente (intuizione sensibile replicata) come intensità e logicamente come concetto, l’essenza permanente del tempo, raggiunta attraverso la fusione delle intensità (durate infinite) dei singoli istanti rimossi (ma non repressi) e conservati nella memoria. Tutta questa concezione riesce a spiegare l’esistenza temporale del soggetto come effettiva, cioè come storia. In questa storia il tragico non è al di fuori della vita temporale; anche se il soggetto con la propria vita realizza un programma preventivamente intuito, non è l’eternità che annulla il tempo nel silenzio del sapere assoluto, ma è libero – nel tempo – avendo bisogno di tempo per costruirsi, e risultare, con la sua storia, la differenza determinata fra circolarità e linearità.
Notes de bas de page
1 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik I (d’ora in avanti WL), in Werke in 20 Bänden (W), a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1969-71, Band 5, p. 90; trad. it. Scienza della logica (SL), 2 voll., a cura di C. Cesa, Roma-Bari, Laterza, 1968, tomo 1, pp. 76-77.
2 WL, p. 139; SL p. 128.
3 Ivi, p. 140; ibidem.
4 Ibidem; ivi, p. 129.
5 WL II, p. 27; SL II, p. 446.
6 Ivi, p. 308; ivi, p. 711.
7 Ivi, pp. 233-234; ivi, pp. 639-640.
8 Cfr. G. Cantillo, Natura umana e senso della storia, Napoli, Luciano Editore, 2005, p. 28.
9 Cfr. L. Ruggiu, Il tempo nella Fenomenologia dello spirito, in La Fenomenologia dello spirito dopo duecento anni, a cura di G. Cotroneo, G.F. Luvarà e F. Rizzo, Napoli, Bibliopolis, 2008, pp. 315 ss.
10 Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, trad. it. G. Frigo, Milano, Adelphi, 1996, p. 473.
11 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, W, cit., Band 3, p. 585; trad. it. La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Torino, Einaudi, 2008, p. 525.
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