«Scegliere se stessi»: del demonico e del demoniaco tra contingenza e destino
p. 37-45
Texte intégral
1«Qual è la cosa giusta da fare per me?». Così è formulata da Ágnes Heller la domanda cui le filosofie morali devono dare risposta, o perlomeno fornire criteri orientativi: in quella domanda traspare già la tensione, dopo Hegel non più ritenuta linearmente sintetizzabile dalla ragione, tra i due termini in gioco, l’universalità della giustizia e la singolarità dell’individuo. Proprio perché ambisce a costituire una filosofia morale che non rientri nello schema moderno di un’etica universalistica1, ormai insufficiente a mediare tra l’universalità dell’uomo e la singolarità delle sue culture, oltre che della sua individualità, la filosofia morale di Ágnes Heller è una parte alquanto stimolante, oltreché consistente, della sua produzione più recente, cui la filosofa ungherese ha dedicato ampio spazio anche nel corso delle sue lezioni torinesi2.
2Seppur la sua teoria morale si articoli in tre ricchi volumi3, la vera e propria fondazione è a mio parere racchiusa nel primo capitolo di A philosophy of morals, dal titolo “La persona contingente e la scelta esistenziale”: qui Heller porta a convergenza la sua teoria della modernità, che di fatto coglie l’essenza universale di un’epoca singolare, con l’eredità esistenzialista, che descrive gli aspetti singolari di un’esperienza universale, giungendo a fondare la propria proposta etica specifica. La modernità è per Heller l’epoca in cui la persona fa esperienza diretta di un elemento costitutivo della propria condizione umana, la contingenza. Si tratta di un elemento che nella modernità assume una doppia stratificazione: in senso più generale, è contingenza primaria, riferita al fatto che nulla, nel corredo genetico di una persona, la predestina ad appartenere a un determinato contesto socio-culturale e ambientale; in senso più specifico, è contingenza secondaria, o “sociale”, riferita al fatto che ciascun essere umano nasce come «fascio di possibilità privo di un telos» (FM 23), privo cioè di un fine intrinseco, il quale, nell’esperienza moderna occidentale, non viene più determinato dall’organizzazione sociale all’interno della quale si nasce e deve quindi essere definito dal singolo nel corso della sua vita: «la formula esistenzialista dello “scegliere se stessi”» diventa «una descrizione della forma di esistenza tipica della modernità» (FM 23).
3Cosa significa, quindi, scegliere se stessi? La contingenza tipica della modernità viene da Heller descritta, nella sua rielaborazione di Heidegger, come l’esperienza dell’essere gettati (Geworfenheit) nella libertà, una libertà tuttavia vuota che si riduce a puro nulla, se non viene declinata dal singolo – ed è solamente il singolo che può operare questo salto, questa scelta non razionale ma esistenziale – nei termini di una libertà positiva che non dà luogo al “si può diventare qualsiasi cosa”, ma al “si può diventare se stessi”. In questo caso il nulla viene vissuto, hegelianamente, come il principio negatore che trasforma l’essere in divenire, come il motore dell’essere, o come l’oscurità del soggetto che lo spinge a uscire da sé e a interrogarsi sul mondo, quindi a trasformarsi ed essere trasformato (Bloch). La contingenza, questa pericolosa esposizione al nulla, può essere allo stesso modo una maledizione o una benedizione. Diventa benedizione se la scelta di sé riesce: ciò che non si è potuto scegliere liberamente al principio della propria vita – la propria nascita, la propria doppia contingenza, il proprio tempo, il proprio ambiente, le proprie inclinazioni – diventa percorso creato e voluto dal singolo, il suo bene più caro; in altre parole, la contingenza diventa destino.
4Secondo Heller tutti siamo contingenti in misura eguale, indipendentemente dalle nostre inclinazioni personali e dal nostro ambiente sociale, perché niente di ciò che ci costituisce ci conferisce un telos predeterminato, ed è questa comune “non appartenenza”, si può dire quest’originaria esposizione al nulla, il terreno universale che fonda una relazione di reciprocità simmetrica tra esseri umani ugualmente concreti, cui la filosofia morale si rivolge in quanto persone che provano emozioni, gioiscono, soffrono, scelgono, ragionano e parlano. In questo modo la scelta esistenziale secondo Heller tiene insieme, pur senza ridurre l’uno all’altro, universalità e singolarità dell’uomo. «Mi rivolgerò alla persona contingente in quanto tale, quali che siano le concrete istituzioni, professioni, partiti, nazioni, gruppi o classi a cui appartiene. Mi rivolgerò alla persona contingente di entrambi i sessi, benché io appartenga al sesso femminile e non pretenda di ascrivermi in via onoraria a quello maschile. Forse, in tal modo, io mi rivolgo all’umanità. Ma, se è così, non si tratterà di rivolgersi all’umanità che è in noi, ma all’umanità che noi siamo; ognuno di noi, tutti noi. Non alla volontà generale, ma alla volontà di tutti» (FM 26).
5In che misura, tuttavia, la scelta esistenziale è una scelta etica? Quando è operata nella categoria della differenza, ovvero quando si sceglie una particolare causa o una particolare vocazione per definire se stessi, la scelta esistenziale è esposta ai “poteri esterni” all’individuo che ne possono determinare la riuscita o il fallimento: il momento storico, le condizioni economico-sociali, l’ambiente culturale di appartenenza, la situazione politica possono essere ricondotti alla cosiddetta buona o cattiva sorte, che favorisce oppure ostacola la realizzazione della nostra scelta indipendentemente dalle nostre qualità individuali. La scelta esistenziale non ha dunque in questo caso una rilevanza morale particolare, oltre a essere una scelta che ci separa dagli altri esseri umani invece che unirci a essi, o tutt’al più ci unisce alla ristretta categoria di coloro che condividono la nostra stessa particolare causa o vocazione.
6La scelta esistenziale che ha carattere moralmente rilevante è invece la scelta esistenziale che avviene nella categoria dell’universale, da Heller così formulata: «scegliere noi stessi eticamente significa destinarci a diventare le persone buone che siamo» (FM 35). Si tratta di una scelta morale perché è la scelta della morale: la persona buona è colei che non sceglierà mai il male in quanto male e che, di fronte a una scelta, si chiederà «qual è la cosa giusta da fare per me?» alla ricerca della scelta che comporta il maggior bene possibile. Ciò non significa che la persona buona non possa sbagliare e compiere un’azione cattiva, ma significa che non sceglierà mai di compierla in quanto cattiva. «Destinarci a diventare le persone buone che siamo» significa però anche, secondo Heller, scegliere noi stessi integralmente così come siamo, ovvero scegliere tutte le nostre determinazioni, talenti, vantaggi, infermità, perché solo così possiamo acquisire la libertà necessaria a destinarci alla bontà; in caso contrario le parti di noi che non abbiamo scelto potranno sempre determinare la nostra vita e la nostra sorte indipendentemente dalla nostra volontà e portarci ad agire per motivi che esulano dalla nostra scelta responsabile. «Nello scegliere se stessi esistenzialmente-eticamente, non vi sarà alcun potere “alieno”, nessuna compulsione inerente al nostro personale carattere» (FM 36). Trasformare la propria contingenza in destino in ambito morale significa allora, nietzschianamente, dire eternamente sì a ogni istante della propria vita, a ogni aspetto del proprio essere.
7Consapevole della problematicità di questo nucleo centrale della propria teoria, e della doppia universalità che attribuisce alla scelta etica di sé, la quale include dunque sia l’universalità della scelta del bene per il bene, sia l’universalità dell’accettazione integrale di sé nella propria irriducibile complessità e nelle proprie irripetibili determinazioni, siano esse positive o negative, costruttive o distruttive, Heller solleva due obiezioni possibili, risolvendole però troppo rapidamente. La prima: cosa c’è di universale nello scegliere tutto ciò che abbiamo di più particolare? L’universalità, risponde Heller, risiede nel fatto che questa scelta è possibile, e da un punto di vista morale spetta, a ogni essere umano. Sorge allora una seconda obiezione: non tutte le singole determinazioni umane possono fungere allo stesso modo da base per una scelta esistenziale, e in particolare per una scelta etica di sé: sofferenza psichica, scarsa fiducia in sé, limiti intellettivi, ambienti familiari e sociali deprivanti sono tutti fattori fortemente limitanti. Sorprendentemente, e sbrigativamente, Heller risponde che quest’obiezione è irrilevante, e radicalizza la sua tesi: «Che sia facile o difficile, la scelta esistenziale della bontà è la stessa, ed egualmente possibile, per tutte le persone umane» (FM 36).
8È proprio questo punto, a mio parere così critico e proprio perciò così interessante, a far sorgere sotto una nuova luce l’antica domanda sul male, sulla sua realtà e sul suo rapporto con la nostra libertà: se la scelta di sé come persona buona è uguale ed egualmente possibile per tutti, non è poca cosa quel male che, nella nostra esperienza, sembra frapporsi tra noi e il nostro ambizioso obiettivo, ovvero la libertà conseguita dall’accettazione integrale di sé? Lo stesso Nietzsche, che pur non voleva distinguere tra bene e male e avrebbe desiderato poter fare a meno dei giudizi di valore, deplora come negativa quella che Freud chiamerà la pulsione del gregge, o pulsione gregaria (Herdentrieb)4, la quale a suo parere trattiene la maggior parte degli uomini dall’accettare integralmente la propria vita, dal volere fino in fondo la propria singolarità con tutti i rischi che essa comporta, sfida che solo l’Übermensch, ovvero quell’uomo capace di oltrepassare la debolezza e la fragilità della propria condizione umana, vive autenticamente sulla propria pelle e vince solo in virtù della propria volontà di potenza.
9Non si tratta però qui di porre l’alternativa tra una concezione egualitaria e una aristocratica dell’umanità, bensì di capire se, innanzitutto, l’affermazione di Heller sia vera o falsa, e secondariamente se, in questa prospettiva, il male non perda gran parte della propria tragicità e quindi della propria consistenza, cadendo ancora una volta vittima di una delle tante strategie di rimozione del male che gran parte della cultura umana ha messo in atto5, a discapito della libertà e quindi della dignità dell’uomo6, oppure se essa vada proprio nella direzione contraria, ovvero quella di ritenere ogni uomo egualmente responsabile per il male e il bene commesso, indipendentemente dalle sue determinazioni particolari. Infine resterà da chiedersi se quest’eguaglianza aprioristica di fronte alla responsabilità sia un esito coerente con la tutela della dignità umana secondo una logica non più universalistica, bensì universalmente singolare.
10Per mettere in questione la verità dell’affermazione che la scelta della bontà sia egualmente possibile a tutti gli esseri umani prendiamo brevemente in esame il significato dei termini demonico e demoniaco, operando una distinzione tra i due termini, spesso sinonimi, che aiuti a guidarci nell’analisi: indichiamo con demonico qualsiasi potenza che agisca indipendentemente dalla nostra volontà, in particolare ogni forza interna al singolo che sfugga alla sua scelta, indipendentemente dalla sua qualità negativa o positiva, mentre intendiamo con demoniaco il carattere negativo e distruttore di una potenza, sia essa da noi liberamente scelta oppure no. Non è certo così che i due termini sono presenti nella tradizione filosofica, e prima ancora mitologica: più spesso invece una forza, per il solo fatto di sfuggire al controllo dell’uomo, è considerata minacciosa e dunque negativa, mentre all’uomo si attribuisce la colpa anche di ciò che sfugge al suo controllo, molto spesso per esempio nella forma di complicità con un potere negativo a lui esterno, personificato nel “demonio”.
11È Jaspers, ne La fede filosofica, ad analizzare la demonologia, che lui considera la prima forma di antifilosofia, ovvero di negazione della fede filosofica in una trascendenza quale radice di verità di tutte le possibili forme di vita. La negazione della filosofia non riconosce il rinvio a una realtà ulteriore di ciò che esiste, mentre ne assolutizza l’immanenza7. Demonologia è allora «quella concezione che, credendo con una convinzione immediata di vedere l’essere in potenze e forze efficaci nella distruzione e nella costruzione, in demoni favorevoli e ostili, fa di questa visione un pensiero o una dottrina»8. In questa prospettiva, impulsi e inclinazioni dell’uomo assumono un carattere sacro (“è un Dio che l’ha fatto, non io”) e il mondo un magico fascino nella mitica luce della divina immanenza. Per definire alcune declinazioni possibili del significato dei termini demonico e demoniaco, tra i quali Jaspers non opera distinzioni, egli rimanda a Goethe e Kierkegaard: il primo parla di “demoniaco” come di una forza incomprensibile, misteriosa, non spiegabile, che agisce secondo criteri insondabili; il secondo invece attribuisce al demoniaco il carattere dell’isolamento e del silenzio, che lo accomunano alla divinità: l’individualità che sta sola per se stessa in relazione all’idea è religiosa se quest’idea è Dio, ma demoniaca se quest’idea è il male; sia il demoniaco sia il divino sono per Kierkegaard silenzio, «quanto più lungo è il silenzio, tanto più terribile diventa il demonio; ma il silenzio è anche la testimonianza della divinità nel singolo»9. La volontà del singolo, nella sua analisi, è demoniaca quanto più consapevole è l’uomo del proprio disperato voler essere se stesso:
Più l’uomo è cosciente, più potente in lui è la disperazione che diventa addirittura demoniaca. Un uomo si tormenta per una pena qualsiasi, e proprio in questo tormento pone tutta la sua passione. Non vuole alcun aiuto, preferisce scatenarsi contro tutto ciò che esiste, essere la vittima innocente e ingiustamente perseguitata dal mondo intero. Nella sua disperazione non vuol mai rinunciare stoicamente a essere se stesso, ma vuole esserlo per esprimere l’odio che porta contro tutto l’esserci per la sua miserabile condizione. Ribellandosi contro tutto l’esserci, pensa di offrire una prova contro di esso, contro la sua bontà. Pensa che questa prova sia la sua stessa disperazione, quindi vuole essere affinché il suo tormento sia una protesta contro tutto l’esserci.
Opposta alla concezione kierkegaardiana è, in un certo senso, l’analisi freudiana della coazione a ripetere, almeno in quanto essa è tanto più potente, quindi tanto più demonica, quanto più è inconscia. La coazione a ripetere è un processo inconscio di origine pulsionale che spinge il soggetto a ripetere, senza rendersene conto, situazioni penose vissute in passato, soprattutto nell’infanzia, e dipende secondo Freud dalla pulsione di morte, la quale spinge l’organismo a ripristinare le condizioni inorganiche che hanno preceduto il sorgere della vita, per mantenere costante, ridurre o sopprimere la tensione interna prodotta dagli stimoli, quando il dolore causato da un trauma sopravanza le energie psichiche necessarie a elaborarlo. La coazione a ripetere può prendere le sembianze di un «dämonischer Zug» anche in persone che non sembrano manifestare sintomi nevrotici: «Ci sono persone che danno l’impressione di essere perseguitate da qualche fato maligno o possedute da qualche potenza “demoniaca”; ma la psicoanalisi è stata sempre del parere che il loro destino è in massima parte da essi stessi fabbricato, oltre a essere determinato da influenze subite nella prima infanzia»10.
12In tutti gli autori fin qui citati, dunque, demonico e demoniaco sono attributi delle potenze che sfuggono all’umano controllo, e sono potenze tanto più irresistibili, quindi pericolose, quanto più sono interne all’uomo, siano esse consce o inconsce, positive o negative. Sia la filosofia che la psicoanalisi si sono quindi tradizionalmente assunte il compito di “liberatrici” da queste potenze: Jaspers, come detto, riconosce nella demonologia un principio antifilosofico attivo nella stessa filosofia, che va conosciuto per difendersene, perché la concezione demonologica induce a un atteggiamento di contemplazione estetica che tende all’indeterminato e che concepisce la passione come «affettività momentanea, mentre si evita la risoluzione appassionata che decide di tutta la vita senza esitazioni e mezzi termini». La potenza demonica risulta dunque essere, infine, ciò che preclude la possibilità di una scelta esistenziale, ma che, proprio per questo, secondo Jaspers, la filosofia deve riconoscere e oltrepassare per rendere possibile l’esperienza della libertà.
13La stessa Heller interverrà in altri luoghi della sua opera sul tema del male utilizzando il termine demoniaco, senza distinguerlo dal demonico, per dare una definizione di male radicale profondamente diversa da quella kantiana: il male radicale è la demoniaca concordanza tra pulsioni, inclinazioni, passioni negative e la propria ragione “corrotta” da massime cattive, come quella di perseguire sempre i propri interessi o quella di considerarsi superiori agli altri, al di sopra del bene e del male, massime che portano a ignorare il bene e a esporsi alla scelta del male per il male11. Un carattere che si può definire “malvagio” dunque, preda di inclinazioni negative che lo portano a ledere sé e gli altri, non è radicalmente malvagio finché la sua volontà non decide liberamente di compiere il male cui tende, si potrebbe dire dunque, alla luce della distinzione operata, finché il demonico non viene trasformato in demoniaco dalla cooperazione di ragione e volontà. Alla luce di quest’analisi si può quindi interpretare quel nucleo fondante della filosofia morale di Ágnes Heller, la scelta di sé come persona buona egualmente possibile a tutti gli esseri umani, come un’apertura della possibilità per ciascun singolo di conoscere progressivamente se stesso e i propri lati demonici, finché l’accettazione di tutte le proprie componenti psichiche, fisiche e ambientali lo metta nella condizione di poter rinunciare volontariamente alla minaccia del demoniaco, inteso quindi come volontaria adesione alle parti che lo dominano. Si tratta quindi di una concezione morale che va nella direzione di salvaguardare la libertà universale dell’uomo nella forma unica e personale che ciascun singolo incarna, senza sminuire la responsabilità morale che essa implica.
14È a questo punto, però, che la rilettura dell’incubo di Ivan nella parte finale dei Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, in cui Ivan si trova a faccia a faccia col diavolo, e l’analisi della complessità morale ed esistenziale di questa figura, con riferimento all’interpretazione che ne dà Luigi Pareyson, vorrebbe riaprire una questione che ancora una volta viene risolta troppo rapidamente: davvero la disgregazione e la dissoluzione della personalità, che secondo Pareyson rappresenta per Dostoevskij «l’estrema e più completa forma del male», «nel senso che l’azione del male nell’uomo non può essere se non dissolvente e disgregatrice»12, concede all’uomo quella libertà che lo rende sempre imputabile della colpa più grave? Ivan desidera uccidere il padre, teorizza le massime in virtù delle quali potrebbe moralmente concedersi di compiere quell’atto atroce senza giudicarlo malvagio (“Se Dio non esiste tutto è lecito”), ma non sarà lui a trarre le estreme conseguenze di questo processo in cui il demonico si trasforma progressivamente in demoniaco, bensì il suo fratellastro Smerdjakov. Il senso di colpa, tuttavia, tormenta Ivan fino a condurlo alla follia, sull’orlo della quale incontra il diavolo e ne fa oggetto del suo delirio, parlandogli apertamente: «In qualche momento non ti vedo più, e non sento nemmeno la tua voce, ma indovino sempre quel che blateri, perché sono io, io stesso che parlo, e non tu!». È il riconoscimento della propria originaria colpevolezza, il riconoscimento della propria completa responsabilità anche in condizioni psichiche precarie, l’unica strada per salvaguardare libertà e dignità dell’uomo, come sembrano indicare all’unisono, quasi inaspettatamente, Heller e Pareyson? Con questa domanda non posso che rimandare a una più ampia ricerca, ancora da scrivere, sugli spazi di libertà negli smarrimenti della follia.
Notes de bas de page
1 Le etiche universalistiche moderne seguono, secondo Heller, uno stesso modello teoretico: il filosofo morale deriva la propria autorità dall’appartenenza a una comunità universale, l’umanità identificata con alcuni principi di ragione, e affida al destinatario la responsabilità di scegliere se accogliere o rifiutare la proposta morale in base alla propria ragionevolezza. Il problema dell’etica universalistica è che resta un’etica formale, incapace di tener conto dell’unicità dell’individuo. Questo stesso schema può inoltre essere declinato in un contesto particolaristico, scegliendo come destinatari i membri di un particolare movimento o di una particolare classe e dare luogo a etiche ideologiche o fondamentaliste.
2 Á. Heller, Per un’antropologia della modernità, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009.
3 Á. Heller, General Ethics, Oxford-New York, Blackwell, 1988; trad. it. M. Geuna, Etica generale, Bologna, il Mulino, 1994. Á. Heller, A Philosophy of Morals, Oxford-New York, Blackwell, 1990; trad. it. R. Scognamiglio, Filosofia morale, Bologna, il Mulino, 1997. Á. Heller, An Ethics of Personality, Oxford-Cambridge, Blackwell, 1996. Da qui in avanti indicheremo Filosofia morale con la sigla FM.
4 Cfr. S. Freud Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921) in Gesammelte Werke, a cura di A. Freud, Band 13, London-Frankfurt, Imago Publisher, Fischer Verlag, 1940, pp. 71-161, in particolare pp. 129-135; edizione italiana a cura di C.L. Musatti, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1977, pp. 257-330, in particolare 305-309. Qui Freud ascrive il termine gregariousness, traducendolo anche con Herdeninstinkt, a W. Trotter, Instincts of the Herd in Peace and War, London, 1916.
5 Cfr. C. Ciancio, Del male e di Dio, Brescia, Morcelliana, 2006, pp. 7-26.
6 Cfr. L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Torino, Einaudi, 1993, pp. 61-62. Cfr. anche C. Ciancio, Del male e di Dio, cit., pp. 111-112.
7 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, Piper Verlag, München 1948, p. 91; trad. it. U. Galimberti, La fede filosofica, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 170.
8 Ivi, p. 92; it. p. 171.
9 Ivi, p. 96; it. p. 176.
10 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, in Gesammelte Werke, cit., pp. 1-69, in particolare p. 20; ed. it. a cura di A. Civita, Al di là del principio di piacere, Milano, Mondadori, 2003, p. 63.
11 Á. Heller, On Evils, Radical Evil and the Demonic, testo risalente a una conferenza tenuta in occasione della 8th Annual Comparative Literature Conference: Culture of Evil and the Attractions of Villany, presso il College of Art and Science della University of South Carolina (9-11 febbraio 2006), e fornito dalla Heller durante il V ciclo SdAFF. Il tema del demoniaco nel comico era già stato affrontato in Immortal Comedy: the Comic Phenomenon in Art, Literature and Life, Oxford, Lexington Books, 2005, pp. 67-68.
12 L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 53.
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