Limiti e legittimità della modernità in rapporto alla questione della libertà umana
p. 28-36
Texte intégral
1. Premessa
1L’idea di fondo del presente contributo è di mostrare come la modernità abbia, certamente, una propria ragion d’essere, ma – da un punto di vista storico-filosofico e critico – abbia anche tentato di “ridurre” la libertà umana ad altro, finendo con ciò per snaturarla o addirittura negarla. Dinanzi a questa deriva, alcuni pensatori del secolo scorso (tra cui in primis M. Heidegger) hanno reagito proponendo un recupero del senso dell’essere e credendo con ciò di risolvere il problema. In realtà, a farne ancora una volta le spese è stata proprio la libertà umana1. Come si può dunque configurare, nel tempo presente, il recupero delle prerogative e del valore della libertà? Come fare per impostare, a tal fine, un dialogo fattivo con la “modernità”, dalla cui legittimità non si può prescindere per la comprensione della libertà stessa?
2In questo articolo si cercherà pertanto di delineare un percorso che attraversi la modernità, ne ridiscuta gli assunti di fondo, ne espliciti alcune istanze rimaste un poco in ombra e individui alcuni elementi a partire da cui ripensare il senso dell’esperienza umana della libertà.
2. L’ambivalenza del moderno
3In estrema sintesi, si potrebbe dire che la modernità presenta un carattere essenzialmente ambivalente2. Per un verso, essa pare dotata di un’indubbia ragion d’essere o legittimità, riassumibile – per così dire – nel progressivo abbandono di una matrice culturale e filosofica in senso lato dualistica (o platonizzante) con cui era poco per volta entrata in conflitto. Da questo punto di vista, l’abbattimento – a opera dell’istanza moderna – del dualismo platonizzante evidenzia una tendenza culturale diffusa, nonché l’esigenza filosofica di conseguire un’interpretazione più coerente e adeguata del reale3.
4Per altro verso, l’operazione moderna – seppur animata dalle migliori intenzioni e malgrado il conseguimento di risultati eccelsi (sia in campo conoscitivo e scientifico, sia in campo etico-politico) – risulta quantomeno discutibile. Infatti, di proposito la modernità annulla quella che pure era stata la forza del dualismo platonizzante, forza che – dal punto di vista di comprensione dell’antropologico – consisteva non nel rispetto della fenomenologia, ma nella sottolineatura e nel rispetto della novità qualitativa dello spirito4. In quest’ultimo – sosteneva la posizione dualistica – risiede infatti la specifica ragion d’essere dell’essere umano, che in tal modo veniva a distinguersi dagli altri enti naturali. Al dualismo sembrò poi ovvio che la novità qualitativa dello spirito si accompagnasse anche all’autonomia di quest’ultimo dalla realtà materiale, carattere su cui – dal punto di vista gnoseologico ed epistemologico – era possibile fondare la verità della conoscenza del mondo reale.
5Dove si annida però l’aspetto discutibile dello strappo del moderno nei confronti del passato? Precisamente in questo: il moderno non si cura delle buone ragioni da cui aveva preso le mosse il dualismo platonizzante, né si preoccupa di indagare se la loro forza si sorreggesse su una qualche acquisizione ontologica implicita o rimasta inespressa.
6È stato infatti osservato che a fondamento del dualismo e delle sue ragioni vi sarebbe una felice intuizione ontologica, che viene intravista, ma subito negata e tradita, dal dualismo stesso. Detta intuizione consisterebbe invero nel fatto che – lungi dal poter essere compreso in senso riduttivamente monistico – l’essere in quanto tale presenta un volto essenzialmente duplice, duale e ambivalente5. È – crede il dualismo – in fin dei conti questo carattere ontologico costitutivo a rappresentare la ragion d’essere dell’analoga ambivalenza che contrassegna l’esperienza quotidiana dell’essere umano.
7Tuttavia, anche ai moderni sfugge la possibilità di recuperare quell’istanza ontologica rimossa. Desiderosi di rompere con il passato, essi preferiscono rivolgersi contro due obiettivi polemici: in un primo tempo, abbracciano l’idea dell’assoluta irrilevanza dell’elemento spirituale ai fini della conoscenza adeguata del mondo reale e, successivamente, respingono con forza lo stesso dualismo6.
8Qui si annida però l’equivoco: il rifiuto del dualismo platonizzante diventa così il pretesto per delegittimare in blocco le sue istanze di fondo, le sue intuizioni implicite e le sue buone ragioni, nonché per abbracciare – da un punto di vista ontologico – una forma di monismo sostanziale, che verrà declinato o in senso materialistico (è il caso del ‘monismo materialistico moderno’) o in senso spiritualistico (è il caso del ‘monismo idealistico moderno’)7. Identico è, però, in entrambi i casi il risultato conseguito: il moderno, con un gesto d’arbitrio, riduce l’essere a una sola delle sue caratteristiche (o materia o spirito).
9Dal versante dei risultati prodotti, la parabola della modernità può essere dunque descritta come segue. L’epoca moderna tenta innanzitutto di esprimere la dualità ontologica originaria nei termini di una separazione di ambiti (dualismo cartesiano). Secondariamente, nella sua variante di maggior successo (quella materialistica) essa procede alla riduzione di uno dei due ambiti (la res cogitans, lo spirito) a vantaggio dell’altro (la res extensa, la materia), mediante l’espunzione delle cause finali e della teleologia (cfr. Bacon e Spinoza) e la negazione di ciò che il pensiero premoderno riteneva costituisse lo specifico e la forza dello “spirituale”8.
10Queste rappresentano alcune delle sfaccettature di quel più ampio processo storico-culturale tipicamente moderno denominato disincanto del mondo (cfr. Weber), il quale culmina nella naturalizzazione dell’umano e, da ultimo, nella sua riduzione a meccanismo cibernetico. A ciò si aggiunge in qualche caso il corollario – per la verità non universalmente accettato – della riduzione della umana esperienza interiore di libertà a inconsistente epifenomeno (cfr. per tutti D. Dennett)9.
11Il punto è, però, che sia chi approda a questo esito estremo, sia chi lo rifiuta, si trova comunque con lo spinoso problema di dover rendere ragione dello specifico dell’essere umano a partire da un’ontologia sostanzialmente devitalizzata e disponendo solamente di strumenti concettuali di matrice riduzionistica10. Se poi ci si domanda quali questioni sollevi – da un punto di vista etico, sociale e politico – la cosiddetta naturalizzazione dell’umano, non si potrà evitare di vederne gli addentellati con le più ampie questioni della tecnica e del potere diretto e indiretto esercitato da quest’ultima sull’essere umano. Il fatto, però, è che tra i corollari dell’approccio riduzionistico figurano anche l’avalutatività come caratteristica unitaria della scienza moderna e la validità della cosiddetta “legge di Hume”11. Dalla fattualità viene così espunta ogni implicazione normativa. Ne risulta, pertanto, che laddove l’approccio riduzionistico sia l’unico considerato valido, esso non è costitutivamente in grado di far fronte alle sfide etiche, sociali e politiche che esso pure solleva e incontra.
3. Attraversare la modernità: tracce di un percorso sintetico
12Occorre dunque percorrere un diverso itinerario, che sia in grado di assumere criticamente il fatto moderno della naturalizzazione dell’umano, mostrandone al tempo stesso i limiti e le buone ragioni. Tra queste si annovera in primis la denuncia – tipicamente moderna – della presunta autonomia, rispetto al dato materiale, di ciò che costituisce il proprium umano. A completamento della critica dell’autonomia, un segmento di modernità propone anche il convincente rifiuto del carattere prevalentemente o esclusivamente “conoscitivo”, formale o incorporeo della specificità umana, di ciò che costituisce l’essere umano in quanto tale12.
13Lo scopo di tale itinerario – che qui si può soltanto abbozzare – è di rendere ragione di una duplice specificità, segnatamente dell’essere umano in rapporto alla natura e della sua esperienza morale, nell’atto stesso con cui si riconosce a tale riguardo l’apporto conoscitivo insostituibile offerto nel nostro tempo dalla scienza.
14Come si può configurare un simile itinerario? In che termini e con quali scansioni? Esso potrebbe riassumersi come segue: tentare un’interpretazione articolata e sintetica della complessità del darsi naturalizzato dell’umano13. In particolare, questo progetto dovrebbe tener fede alle seguenti linee-guida. Innanzitutto, è importante che esso, deponendo l’atteggiamento riduzionistico di certa modernità, rinunci all’illusione di giungere alla completa autochiarificazione dell’umano14. In secondo luogo, è importante che esso, recuperando il senso complessivo dell’impresa gnoseologica ben oltre quanto era stato messo in opera dall’istanza riduzionistica moderna, abbandoni la pretesa che la conoscenza di certi oggetti si limiti al solo conoscere “dall’esterno”15.
15In terzo luogo, occorre condurre una rinnovata fenomenologia dell’umano che, tra l’altro, non consideri separatamente l’aspetto storico-genetico da quello strutturale-ontologico (distinzione cui sembra ancora tener fede D. Henrich)16, ma che mostri l’interrelazione inscindibile, dinamica, plastica e polare di quei due aspetti della costituzione umana (si può a questo riguardo far tesoro della lezione dell’evoluzionismo otto e novecentesco).
16In ogni caso, la messa a punto di una rinnovata fenomenologia dell’umano non può prescindere da una preliminare analisi intorno alla struttura fondamentale di quest’ultimo, la quale appare contrassegnata – come a suo tempo implicitamente evidenziato dal dualismo platonizzante premoderno – da una dinamica relazionale ambivalente, duale e polare17.
17Ci si dovrà a questo punto chiedere dove si manifesti l’unità polare caratteristica dell’umano. L’indicazione più promettente proviene da quelle ricerche, di cui è disseminato il Novecento, che a tal riguardo evidenziano sia la centralità dell’esperienza corporea, sia il suo carattere relazionale. Sono così poste le premesse per tentare un passo ulteriore: individuare l’esperienza relazionale della corporeità come la sede ontologica e la guida metodologica per la comprensione, da un lato, della consistenza sintetica (carattere che prende in tal modo il posto della vetusta nozione di autonomia spirituale) e, dall’altro lato, del dinamismo di trascendimento (che sostituisce il carattere immobilistico e sostanzialistico della precedente ontologia), che da ultimo sembrano caratterizzare l’umano18.
18Quali conseguenze derivano da tutto ciò per l’interpretazione della libertà umana? Ne deriva il fatto che quest’ultima, finalmente affrancata dalla tirannia del solipsismo, può venir declinata in senso concretamente relazionale. Più precisamente, la libertà si configura come relazionalità responsiva, e ciò in una duplice accezione: si tratta non solo di un “rispondere” delle o alle ragioni19, ma precisamente anche di un “rispondere” pratico ed effettivo che cerca di rendere ragione della dualità dell’essere umano e del senso della polarità che ne caratterizza – in maniera essenzialmente dinamica – l’esperienza morale e simbolica20.
19Di qui occorre effettuare un ulteriore sforzo ermeneutico che tematizzi l’ambivalenza stessa di tale esperienza e cerchi per quanto possibile di comprenderne la struttura. Sotto questo aspetto, la dinamica peculiare dell’umano sembra in qualche modo chiarirsi qualora se ne interpreti la costitutiva dualità nei termini di una dialettica che si muove tra due poli, costituiti rispettivamente da un’istanza che si potrebbe definire “costruttivistica” e da un’opposta istanza denominabile come “ontologica”, di cui occorre esplicitare sinteticamente i caratteri.
20I due poli non si devono configurarsi come elementi ontologicamente separati, di cui si raggiunga una sintesi per via estrinseca. Al contrario, la dialettica che ne descrive il moto e le oscillazioni è intimamente unitaria, benché sia al tempo stesso attraversata da attriti, tensioni e tendenze eterogenee, le quali sono sostanzialmente riassumibili in una dualità di istanze. Si tratta dunque di una dinamica duale, vale a dire non univoca, ma neppure dualistica.
21Venendo alle caratteristiche delle due istanze implicate, la prima può essere denominata “costruttivistica”21, in quanto incarna il desiderio di attività e di relazione, espletamento della libertà, produzione simbolica e progettualità. La seconda, invece, può essere definita “ontologica”, dal momento che esprime un rapporto originario, e per così dire innanzitutto recettivo, con una datità o un’alterità che in qualche modo interpella la responsabilità individuale. Si tratta di un’istanza sensibile al contesto, ai suoi stimoli e alle sue pressioni. È sulle basi di tale sensibilità originaria che l’essere umano può conseguentemente interpretare il proprio contesto di vita come un insieme di richieste che esigono un riconoscimento preliminare da parte sua. È chiaro che la risposta a tali richieste di riconoscimento potrà venire soltanto dalla messa in moto dell’istanza “costruttivistica”, la cui efficacia necessita a sua volta di essere già preliminarmente in relazione con l’istanza “ontologica”.
22Non esiste in linea di principio alcuna priorità di un’istanza sull’altra, giacché a essere originari e specifici dell’umano sono proprio l’ambivalenza e la polarità, tratti che richiedono appunto la mutua implicazione di una dualità di istanze. L’essere umano vive della paradossale e ambivalente compresenza di entrambe.
23Viceversa, la dinamica antropologica può anche essere illuminata a partire dalle sue distorsioni, di cui – per ragioni di sintesi – non si possono in questa sede studiare le implicazioni etico-politiche22. Laddove non bilanciata dalla tendenza “ontologica”, la spinta “costruttivistica” potrebbe degenerare in astrazione egoica, libertà smodata e irresponsabile, velleitarismo, relativizzazione delle differenze (a vantaggio, ad esempio, di un costrutto universale e astratto), ecc. Al contrario, laddove l’istanza “ontologica” non si relazionasse con quella “costruttivistica”, si potrebbe riscontrare la mortificazione della forza emancipativa del desiderio e la chiusura reattiva della libertà, nonché un’assolutizzazione delle differenze.
24Rispetto alle ipotesi interpretative che, negando la complessità duale dell’esperienza umana, tendono a ricadere in uno solo o nell’altro dei due estremi, la soluzione qui prospettata vorrebbe distinguersi per le seguenti ragioni. Innanzitutto, essa si propone di restituire centralità ontologica, gnoseologica e metodologica al carattere relazionale e complesso della esperienza duale dell’uomo. In secondo luogo, si propone di mettere in luce la dinamica di mutua implicazione esistente tra i due poli e di analizzarne la fenomenologia, che dovrà guardarsi dal ricadere negli estremi interpretativi del dualismo conflittuale, da un lato, e del monismo irenico, dall’altro. In terzo luogo, effettua un tentativo – denso di implicazioni normative per la configurazione della libertà umana e del suo carattere sociale – di delineare in che cosa consista il luogo di sintesi e di dinamica coimplicazione delle due istanze23. Infine, sostenendo l’esigenza di estendere lo studio dell’antropologico al di là di concetti riduttivi, quali il soggetto o l’anima, la prospettiva abbozzata intende così offrire un contributo per l’oltrepassamento della reciproca diffidenza tra scienza moderna e filosofia moderna.
Notes de bas de page
1 Cfr., ad esempio, F. Volpi, L’etica rimossa di Heidegger, “Micromega”, 2 (1996), pp. 139-163.
2 In questo articolo si assumono i termini ‘moderno’ e ‘modernità’ come sostanzialmente equivalenti. Inoltre si intende attribuire loro non un valore strettamente storiografico, quanto piuttosto idealtipico (cfr. M. Weber, Die “Objektivität” sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, “Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, 19 (1904), pp. 22-87, poi in Id., Gesammelte Aufsätzte zur Wissenschaftslehre, Tübingen, Mohr, 1922; trad. it. P. Rossi, L’“oggettività conoscitiva” della scienza sociale e della politica sociale, in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Milano, Mondadori, 1974, pp. 53-141). Questo non esime certo dal confronto puntuale con le singole posizioni storico-filosofiche di volta in volta esaminate. Eppure la possibilità di ragionare al contempo in termini idealtipici consente di riflettere in senso più ampio anche sulle evidenti uniformità riscontrabili in luoghi e momenti diversi della cosiddetta “modernità”. Lo stesso dicasi per le locuzioni ‘dualismo platonizzante’ e ‘atteggiamento riduzionistico moderno’ su cui ci si soffermerà nel corso della trattazione.
3 Cfr. H. Jonas, Organismo e libertà, trad. it. A. Patrucco Becchi, Torino, Einaudi, 1999, in particolare pp. 15-80. L’“antiplatonismo dello spirito moderno” è citato espressamente a p. 60.
4 Devo al professor Carlo Isoardi dello Sti-Issr di Fossano l’individuazione di questo nodo tematico, così come di altre suggestioni riguardanti il senso della modernità, che ho cercato di sviluppare in questo articolo.
5 Cfr. H. Jonas, Organismo e libertà, cit., p. 25. In questo senso, a essersi squalificato agli occhi della modernità (contribuendo in modo decisivo alla propria legittima condanna da parte di quest’ultimo) sarebbe stato l’atteggiamento dualistico stesso, che – ben prima dell’avvento della modernità – aveva già tradito la propria intuizione ontologica originaria, interpretando la dualità nei termini di un dualismo sostanziale.
6 In un primo tempo, infatti, la modernità (cfr., ad esempio, Newton e Descartes) permane più o meno velatamente dualista (oltreché avversaria della fisica qualitativa dell’aristotelismo), rifiutando però il tratto platonizzante per cui per interpretare adeguatamente la realtà si debba far ricorso alla verità eterna supplita dall’ambito spirituale (ecco dunque il primo passo: l’autonomia spirituale platonizzante diventa un elemento deteriore). Solo successivamente l’irrilevanza epistemologica e gnoseologica dello spirituale dà origine all’esplicita negazione ontologica, nonché al rifiuto e al superamento dello stesso, da cui il secondo passo, che consiste nell’approdo a un monismo sostanziale.
7 Tra i due monismi – osserva Jonas – è quello materialistico a distinguersi per forza e coerenza (cfr. H. Jonas, Organismo e libertà, cit., pp. 28-29).
8 Cfr. H. Jonas, Organismo e libertà, cit., pp. 50-51; E. Pulcini, La cura del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 56-57.
9 Cfr. ad esempio D. Dennett, Consciousness Explained, Boston, Little-Brown and Co, 1991; trad. it. L. Colasanti, La coscienza, Milano, Rizzoli, 1993.
10 Che questo non sia un falso problema, è dimostrato – per esempio – dal fatto che la biologia ha a lungo dovuto lottare per vedere riconosciute le proprie prerogative, la propria specificità epistemologica e la propria autonomia rispetto alla fisica. Cfr. E. Mayr, This is Biology, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press, 1997; trad. it. A. Vezzaro, Il modello biologico, Milano, McGraw-Hill-Italia, 1998.
11 La “legge di Hume” prescrive la separazione tra essere e dover essere, unitamente al divieto di dedurre da semplici descrizioni affermazioni di carattere prescrittivo. Viene enunciata per la prima volta da Hume nel Trattato sulla natura umana (libro III, parte I, sezione I). Nel xx secolo viene ripresa nell’ambito della filosofia analitica anglosassone (cfr. ad esempio G.E. Moore).
12 Cfr., tra gli altri, H. Jonas, Organismo e libertà, cit.; C. Larmore, Dare ragioni, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2008, pp. 83-88 (e nello specifico p. 85) e p. 94.
13 Con il concetto di ‘sintetico’ ci si riferisce all’oltrepassamento delle interpretazioni parziali (dualistica o monistica). Interpretazione “sintetica” dell’umano significa, per esempio, riconoscere nel darsi fenomenologico della forma umana l’intreccio di ‘concretezza’ e ‘spirito’ (o senso), senza che vi siano reciproche sopraffazioni, vale a dire senza che la prima sia dedotta dal secondo e senza che il secondo sia indotto dalla prima.
14 L’abbandono – sancito paradigmaticamente da correnti di pensiero tra cui la psicanalisi e l’ermeneutica contemporanea (cfr., per esempio, Ricœur) – di questa illusione rappresenta un indiscusso guadagno rispetto alla credenza kantiana dell’assoluta autoevidenza del soggetto a se stesso.
15 Cfr., tra gli altri, H. Jonas, Organismo e libertà, cit.; C. Larmore, Dare ragioni, cit., pp. 55-75.
16 Cfr. D. Henrich, Metafisica e modernità, a cura di U. Perone, Torino, Rosenberg & Sellier, 2008, pp. 93-94.
17 Cfr. H. Jonas, Organismo e libertà, cit.
18 Cfr. P. Sequeri, L’umano alla prova, Milano, Vita e Pensiero, 2002.
19 Cfr. C. Larmore, Dare ragioni, cit., pp. 69 ss.
20 Sulla duplicità dell’umano e dell’etico, cfr. tra gli altri P. Sequeri, L’umano alla prova, cit., pp. 65 ss.
21 Per il costruttivismo (filosofico, epistemologico e psicologico) in quanto tendenza a mettere da parte l’ontologia a favore dell’epistemologia e a effettuare una riflessione sull’esperienza interna del soggetto e la sua autonomia, cfr. autori come E. von Glasersfeld, H. von Foerster, L. Vygotskij, J. Bruner e E. Morin. Cfr. A. Cosentino, Costruttivismo e formazione, Napoli, Liguori, 2002.
22 È infatti possibile riscontrare la dualità anche a livello etico-politico, senza nutrire con ciò la pretesa di dedurre – come intende fare la sociobiologia di E.O. Wilson – il socio-politico dall’antropologico-fondamentale, e quest’ultimo a sua volta dal biologico. Per le possibili distorsioni della dualità a livello etico-politico, si possono a titolo esemplificativo citare, per lo sbilanciamento verso il polo “costruttivistico”, teorie formali come il kantismo e l’etica del discorso, o autori come R. Rorty e J. Rawls, mentre, per lo sbilanciamento verso l’istanza “ontologica” si possono citare pensatori come E. Lévinas, o, al contrario, teorie come il naturalismo etico implicito nella sociobiologia wilsoniana, o infine forme radicali di comunitarismo. Cfr. A. Da Re, La saggezza possibile, Padova, Gregoriana, 1994, p. 88; Id., Figure dell’etica, in C. Vigna (a cura di), Introduzione all’etica, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 3-117; P. Becchi, La vulnerabilità della vita, Napoli, La scuola di Pitagora, 2008, pp. 119-121; C. Larmore, The Morals of Modernity, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 147 ss.; E. Pulcini, La cura del mondo, cit., pp. 67-69 e pp. 103-106.
23 Questo “spazio intermedio”, che si tiene in equilibrio tra il momento dell’autonomia e quello dell’appartenenza (o dell’eteronomia), è lo spazio ambivalente e dialettico dell’“essere sociale” (E. Pulcini, La cura del mondo, cit., p. 280; cfr. anche ivi, p. 112). È lo spazio forgiato dal pensiero critico, dialogico, creativo, emancipativo e caring. Cfr. M. Lipman, Thinking in Education, Cambridge, Cambridge University Press, 20032; trad. it. A. Leghi, Educare al pensiero, Milano, Vita e Pensiero, 2005.
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