III. L’omofobia raccontata dai soggetti
Significati, esperienze e prospettive nella vita quotidiana e nell’attivismo lgbt
p. 103-148
Texte intégral
1Qual è il senso che le persone attribuiscono al concetto di omofobia quando lo usano per interpretare la propria quotidianità e il mondo in cui vivono? L’uso pratico di questo concetto svolge un ruolo specifico nel riconoscimento o nella negazione dell’ostilità antiomosessuale? Come cambia il racconto dell’omofobia a seconda dell’orientamento sessuale di chi lo produce e del suo eventuale impegno politico nell’area di movimento lgbt?
2Queste domande si allacciano tutte alla medesima ipotesi di fondo. Riconoscere un determinato fatto come una forma di ostilità contro le persone omosessuali implica il riferimento all’idea di una «giusta» inclusione dei gay e delle lesbiche nella società eterosessuale. Implica quindi disegnare un confine tra quello che è ammissibile e quello che non lo è, tanto nei rapporti interpersonali quanto nel comportamento delle istituzioni. Implica infine collocare se stessi e gli altri all’interno di questa mappa, attribuendosi e assegnando i vari ruoli di vittima, di aggressore, di corresponsabile o di osservatore più o meno coinvolto.
3Per stigmatizzare un comportamento, un’opinione o una prassi istituzionale si può far ricorso a diverse etichette linguistiche. Si può parlare, per esempio, di discriminazione o di ingiustizia, di violenza o di intolleranza. Nel loro uso pratico, queste etichette possono riferirsi a diverse sfumature del fenomeno più generale che qui definiamo come ostilità antiomosessuale, attribuendo specifici livelli di gravità agli episodi di cui si parla e quindi identificando diverse tipologie di problemi sociali. Nel capitolo precedente abbiamo considerato come il termine «omofobia» sia progressivamente entrato nei repertori concettuali con cui in Italia si discute e si racconta l’ostilità antiomosessuale. Partendo da ciò, in questo capitolo ci proponiamo di capire quale sia l’uso pratico che viene fatto di questo concetto quando viene impiegato dalle persone in rapporto alla propria quotidianità.
4Tenteremo di rispondere alle domande sopra formulate considerando e comparando i punti di vista di alcuni uomini e alcune donne eterosessuali e omosessuali interpellati attraverso interviste individuali o coinvolti in focus group. Tra le persone omosessuali compaiono anche figure di spicco delle principali associazioni lgbt del Veneto e del Friuli - Venezia Giulia che da molti anni sono attive nel contrasto dell’omofobia.
5Il materiale su cui svilupperemo la nostra analisi è stato prodotto in diversi momenti storici all’interno di un percorso di riflessione quasi ventennale sui processi di costruzione sociale dell’omosessualità. La parte più consistente che qui discutiamo si riferisce a un progetto internazionale sui significati dell’omofobia in Italia e in altri paesi membri dell’Unione Europea (cfr. Trappolin, Gasparini, Wintemute 2012). Tra marzo 2010 e gennaio 2011 sono state raccolte 36 interviste a giovani uomini e donne eterosessuali residenti in Veneto. Nello stesso periodo sono state raccolte anche 36 interviste a gay e lesbiche della medesima regione, impegnati solo superficialmente nell’area di movimento lgbt locale. Alcuni di questi soggetti sono stati poi coinvolti in 8 sessioni di focus group per discutere e argomentare i rispettivi punti di vista sul tema dell’omofobia1. I primi due paragrafi del capitolo fanno riferimento a questo materiale raccolto in anni in cui il concetto di omofobia e i suoi molti referenti semantici circolavano già in maniera diffusa nel paese. Il terzo paragrafo, invece, si basa sui contenuti di 7 interviste raccolte nella prima metà del 2017 che hanno coinvolto attivisti e attiviste a vario titolo impegnati nella lotta contro l’ostilità antiomosessuale a cui si riferivano esplicitamente con il termine di omofobia. In questo caso, l’arco di tempo considerato corrisponde a una fase di complessivo ripensamento delle rivendicazioni delle associazioni lgbt italiane. In anni recenti, queste ultime sono riuscite a fare includere il contrasto alla discriminazione contro gay e lesbiche nell’agenda politica di diverse città italiane e negli statuti di alcune province e regioni (cfr. Gusmano, Bertone 2011; Gusmano 2017). Tuttavia, tali successi non si sono tradotti in analoghe vittorie sul piano nazionale. Infatti, il definitivo naufragio in Senato dell’ipotesi di sanzione penale dell’omofobia, così come la recente scomparsa del tema nel dibattito politico dopo l’approvazione della prima legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso (Legge n. 76 del 20 maggio 2016), inducono le organizzazioni lgbt a rileggere il proprio impegno nel contrasto all’omofobia per individuare nuove strade da percorrere.
6Nei paragrafi seguenti verranno forniti maggiori dettagli sul profilo delle persone coinvolte nella produzione delle narrazioni analizzate. Prima di procedere, tuttavia, è doverosa un’ulteriore premessa. Indagare i modi in cui il concetto di omofobia, così come altri più o meno attigui, entra nei sistemi di riferimento individuali è un’operazione poco frequente nel panorama internazionale della ricerca sociale, a maggior ragione se viene preso in considerazione il punto di vista delle persone eterosessuali. In ogni caso, si tratta di obiettivi conoscitivi quasi inediti nella ricerca italiana. Limitandoci a osservare il contesto nazionale, le indagini finora prodotte – come quelle già passate in rassegna in lavori precedenti (cfr. Trappolin, Motterle 2012) e quelle che discutiamo nel quarto capitolo di questo libro – sono caratterizzate da alcune focalizzazioni evidenti.
7Per un verso, le ricerche sulle esperienze e rappresentazioni delle persone gay e lesbiche si sono concentrate prevalentemente sulla diffusione delle diverse forme di vittimizzazione – dalle più cruente alle più ordinarie – nei vari contesti sociali come la famiglia, la scuola o il lavoro. In minor misura, esse hanno anche fatto emergere le strategie individuali di fronteggiamento o di evitamento dei rischi. Ciò che rimane per lo più inesplorato sono le condizioni attraverso le quali alcuni episodi vengono riconosciuti come violazioni inaccettabili, e a quali narrazioni della società tali interpretazioni vengono agganciate. Manca cioè un’analisi di come l’uso pratico delle diverse etichette linguistiche con cui si nomina l’ostilità antiomosessuale – compresa quella di omofobia – permetta alle persone gay e lesbiche di selezionare i tratti del mondo in cui vivono per costruire il senso della propria diversità e, soprattutto, della propria vulnerabilità. Un’analisi di questo tipo contribuisce ad arricchire la conoscenza di un fenomeno di cui, anche per l’Italia, si sono già intercettati gli aspetti più qualificanti. In lavori precedenti (cfr. Trappolin 2011) abbiamo avuto modo di mostrare come la percezione dell’esistenza di diverse forme di ostilità antiomosessuale svolga una funzione cruciale nella tipizzazione del racconto di sé come gay o come lesbica. Analizzando le narrazioni biografiche di diverse persone omosessuali italiane, ciò che emerge – coerentemente con i risultati di ricerche condotte in altri paesi occidentali – è una sorta di struttura narrativa ricorrente, socialmente prodotta, che ruota attorno alla necessità di uscire allo scoperto (in inglese, to come out of the closet). Questo «copione del coming out» include sempre due elementi necessari: il riconoscimento dello stigma sociale contro gay e lesbiche e la lotta per contrastarlo, prima verso se stessi e poi nei confronti del mondo esterno. Tuttavia, le riflessioni puntuali sugli elementi che favoriscono il riconoscimento dello stigma da parte delle persone omosessuali sono ancora scarse.
8Per altro verso, il rapporto tra omofobia e popolazione eterosessuale è stato indagato soprattutto rilevando la diffusione di stereotipi negativi riferiti all’omosessualità e l’adesione o il rifiuto delle domande di riconoscimento riconducibili alle mobilitazioni di gay e lesbiche. In questi lavori, l’obiettivo principale consiste nell’intercettare i segnali di una trasformazione culturale in atto o gli aspetti più resistenti di un’egemonia in grado di riprodursi in modo più o meno mascherato. Pochissime sono le indagini che hanno interrogato la capacità delle persone eterosessuali di riconoscere la violenza e la discriminazione ai danni di gay e lesbiche, ed eventualmente l’attivazione di comportamenti di contrasto. Citiamo a questo proposito due lavori italiani che molto probabilmente sono gli unici di questo tipo a essere stati finora pubblicati. Il primo è l’indagine torinese diretta da Alessandro Casiccia e Chiara Saraceno e coordinata da Chiara Bertone (Saraceno 2003). Attraverso la realizzazione di focus group con operatori socio-culturali, educatori, professionisti e imprenditori, la ricerca ha fatto emergere la scarsa conoscenza del «vocabolario» che le comunità omosessuali hanno prodotto per interpretare l’ostilità che le colpisce (ivi, 189-191). Questi risultati gettano luce sulla lentezza dello spostamento del confine tra legittimo e illegittimo nell’espressione dell’egemonia eterosessuale. Su questi aspetti, ancora più interessante è il progetto Schoolmates focalizzato sulle scuole delle province di Modena e Bologna, cofinanziato nel 2006 con fondi Europei e realizzato da Arcigay (cfr. Lelleri 2007). In questo caso, i questionari e le interviste in profondità hanno rilevato l’esposizione di studenti e personale scolastico a linguaggi e comportamenti omofobici, le loro capacità di riconoscerli come lesivi e le argomentazioni in base alle quali essi non vengono contrastati. Soprattutto, l’indice è stato puntato sui modi che permettono di sottostimare l’impatto di questi episodi sulle eventuali vittime, intercettando perciò una sorta di «ostilità tollerabile». Questi due lavori hanno certamente contribuito a interrogare il coinvolgimento delle persone eterosessuali nel contrasto dell’ostilità antiomosessuale, indipendentemente dalle etichette linguistiche con cui quest’ultima viene nominata. Tuttavia, l’esistenza di eventuali precondizioni che rendono possibile il riconoscimento di tale ostilità, così come il rapporto che si instaura tra di esse e l’uso pratico del concetto di omofobia, sono temi di ricerca solamente abbozzati.
9Secondo l’interpretazione offerta da studiosi come Gail Mason (2002), l’omofobia è pensabile come un discorso che produce il sistema di conoscenza che lo rende plausibile. Seguendo tale approccio, è legittimo chiedersi cosa implichi, sul piano pratico, ricorrere al concetto di omofobia per descrivere l’ostilità antiomosessuale, la vulnerabilità delle persone gay e lesbiche e il proprio coinvolgimento nel fenomeno. Allo stesso tempo, è possibile indagare il rapporto che intercorre tra lo sguardo dell’egemonia eterosessuale e quello della minoranza omosessuale. Nelle pagine seguenti proveremo a seguire questa pista interpretativa nell’analisi delle interviste e dei focus group. Inizieremo considerando il punto di vista e le esperienze delle persone eterosessuali per passare successivamente a quello di gay e lesbiche. Infine, chiuderemo il capitolo analizzando le narrazioni degli attivisti.
1. L’omofobia raccontata dalle persone eterosessuali
10Le interviste e le discussioni su cui ci baseremo per identificare lo «sguardo» eterosessuale sull’omofobia provengono – come già detto – da una ricerca realizzata tra il 2010 e il 2011. I soggetti che le hanno prodotte sono 10 studenti e 26 studentesse con un’età compresa tra i 16 e i 35 anni, iscritti a istituti scolastici e Atenei del Veneto2. Lo sguardo intercettato, quindi, è uno sguardo di giovani che riflettono sulle realtà che conoscono ma anche, come nel caso della grande maggioranza degli studenti di materie pedagogiche, sull’ambiente professionale dentro cui vorrebbero collocarsi come operatori sociali o insegnanti.
11Al di là delle definizioni astratte che vengono date al concetto di omofobia, ciò che ci preme fare emergere sono le sue definizioni operative, il modo in cui il concetto viene eventualmente utilizzato assieme o in contrasto ad altre etichette linguistiche di denuncia dell’ostilità antiomosessuale. Dall’analisi dei focus group e delle interviste individuali si comprende chiaramente come tutti ricorrano al concetto di omofobia con estrema cautela. La ragione di tale reticenza risiede nel fatto che il termine è ritenuto carico di un effetto altamente stigmatizzante. L’essere accusati di omofobia, così come accusare qualcuno di omofobia, sono viste come categorizzazioni che discreditano irrimediabilmente i soggetti coinvolti. Prendiamo come esempio le parole di due dei nostri partecipanti che riflettono un orientamento largamente diffuso3:
Se una persona ti dice «a me non piacciono gli omosessuali» e tu reagisci dicendo «ah, sei omofobo!» secondo me aumenta il distacco. Non ha senso insomma categorizzare le persone così. Io penso che… insomma, l’omofobia è una cosa complessa. Quindi io sinceramente se devo parlare di singole persone preferisco non dire «quello è omofobo» perché è come dire «questa è l’unica cosa che è [Alessandra, 20 anni].
Nessuno ha il coraggio di pronunciarla [la parola omofobia] perché pare troppo grossa, troppo pesante. Cioè nessuno verrebbe a dire «io sono omofobo». Però tutti usano le classiche parole gergali, come finocchio… lo fanno in tantissimi. Se dici «allora sei omofobo»… eh no! Diventa quasi un’etichetta troppo forte [Renato, 27 anni].
12La formulazione dell’accusa di omofobia, quindi, qualifica operativamente una specifica forma di ostilità contro le persone omosessuali, una forma di abiezione particolare e che può essere condannata senza ombra di dubbio. Come vedremo, non tutte le forme dell’ostilità antiomosessuale sono ritenute ingiustificabili e pertanto condannabili. Lo sono in modo inequivocabile solo quelle che rispettano i criteri che sanciscono, per le persone eterosessuali che abbiamo coinvolto nella ricerca, l’uso pratico del concetto di omofobia.
13Prima di gettare luce su tali criteri è utile passare in rassegna le fenomenologie più generali dell’ostilità antiomosessuale che i nostri partecipanti hanno identificato nelle interviste o che hanno discusso nei focus group.
1.1. Le forme dell’ostilità antiomosessuale
14Le forme dell’ostilità antiomosessuale su cui i nostri partecipanti si basano per sviluppare il loro punto di vista sul tema provengono principalmente dalle esperienze di vittimizzazione raccontate da amici o conoscenti omosessuali, oltre che da episodi che essi stessi sono in grado di percepire come ostili.
15L’esposizione alle forme più cruente di violenza veicolate dalla narrazione mediatica risulta rilevante solo per i partecipanti più giovani. Una spiegazione plausibile, che meriterebbe tuttavia maggiori approfondimenti che qui non siamo in grado di sviluppare, è che i più giovani non posseggano ancora i codici simbolici necessari per intercettare il fenomeno nelle proprie esperienze di vita quotidiana. Probabilmente ciò si collega al fatto che nessuno dei nostri partecipanti – indipendentemente dall’età – ha dichiarato di aver mai trattato il tema dell’omosessualità a scuola o all’Università. Ancora più marginale è l’esposizione alla narrazione dell’omofobia promossa dalle organizzazioni lgbt o dalle campagne istituzionali di sensibilizzazione.
16Le forme di vittimizzazione narrate nelle cerchie amicali dei nostri partecipanti – e riconosciute come tali da questi ultimi – si concentrano soprattutto su due aspetti. Il primo è l’espulsione dal lavoro o dai contesti di socializzazione in seguito al coming out o alla rottura del silenzio attorno alla propria omosessualità. Il secondo corrisponde alla condizione di isolamento sociale conseguente al mantenimento del segreto sul proprio orientamento sessuale. Per avere un’idea del contenuto di queste narrazioni riportiamo un frammento di un focus group:
Gaia (24 anni): Io so di un ragazzo gay che ha fatto dei colloqui per cercare lavoro. Lui si vede che ha atteggiamenti abbastanza femminili, tra virgolette, e ha trovato ostacoli in questa cosa. Però non si verrà mai a dire «non sei stato assunto perché sei omosessuale».
Daniela (20 anni): Un ragazzo che conoscevo l’anno scorso è venuto fuori a [nome di una trasmissione televisiva] e si è dichiarato omosessuale. Lui faceva parte della parrocchia. Il prete l’ha mandato fuori dalla chiesa, dicendogli «non tanto per te ma perché se comunque fai parte della comunità cristiana devi trasmettere certi valori e quello dell’omosessualità non va bene». Faceva parte del partito giovanile del Popolo della Libertà e anche da lì è stato buttato fuori. È stato assolutamente allontanato da tutto il paese, da tutti, dagli scout…
Gaia: Il ragazzo di cui parlavo prima, che ha avuto dei problemi a trovar lavoro… lui ai suoi genitori non l’ha ancora detto. E ha 27 anni. Cioè, non so da quanto lui lo sa di essere omosessuale, però agli amici penso l’abbia detto già quando ne aveva 18 di anni, quindi. È solo che ai suoi genitori non lo dice e già questo è sintomatico del fatto che l’ambiente non è dei migliori.
Lucia (23 anni): Anch’io ho questo mio amico che alla sua famiglia non l’ha detto di essere omosessuale perché lui vive in un paese piccolo nel Sud e là non c’è un clima proprio dei migliori per quanto riguarda i pregiudizi.
17Solo in pochissimi casi sono stati riportati episodi che potremmo qualificare come esempi dei «rituali di degradazione» ai quali possono essere sottoposti gay o lesbiche – o supposti tali – nell’ambiente scolastico o in altri contesti di interazione tra pari. Si tratta di un tipo di ostilità che – come vedremo nel quarto capitolo del libro – viene regolarmente intercettata e sottolineata nelle ricerche sul bullismo omofobico nella scuola italiana [cfr. Lelleri et alii 2005; Prati 2010]. Massimo ce ne fornisce qui sotto un esempio:
Massimo (16 anni): Conosco una ragazza di un’altra scuola che è una persona stupenda, omosessuale. Le hanno scritto delle frasi sui muri della scuola che… davvero ti distruggono la vita scolastica, offese molto pesanti.
Intervistatore: Cioè?
Massimo: Le avevano scritto che era una puttana e che non c’era posto per le lesbiche a scuola.
Intervistatore: Tu hai mai parlato con lei delle discriminazioni che ha subito?
Massimo: Sì, con questa ragazza sì. Dice che ci sta male, tanto male, perché questi atti sono gratuiti. Lei è buonissima, non ha mai fatto male a nessuno e ci stava male perché anche in classe sua la trattavano in un modo diverso, la trattavano con disprezzo.
18Altri episodi di ostilità antiomosessuale provengono dall’osservazione diretta del comportamento dei propri pari. Questi episodi sono raggruppabili all’interno di quattro tipologie principali. La prima consiste nel rifiuto di venire a contatto con ragazzi o – sebbene in minor misura – ragazze dichiaratamente omosessuali. Consideriamo come esempio il seguente scambio tra alcune ragazze che hanno partecipato a uno dei focus group:
Daniela (20 anni): C’è un mio amico che si trova a condividere l’appartamento con due ragazzi omosessuali. Si sente molto intimorito e pensa che potrebbero fargli qualcosa.
Gaia (24 anni): Anch’io ho sentito di gente che preferirebbe non condividere l’appartamento con un omosessuale.
Sonia (21 anni): Anch’io ho una mia amica, studia a [nome della città] e quando ha saputo che la coinquilina con cui avrebbe dovuto abitare era lesbica ha rifiutato. Fa la pendolare piuttosto che stare con lei.
Federica (21 anni): anch’io conosco altre persone, sempre della mia stessa generazione, che con gli omosessuali non avrebbero mai niente a che fare, che non gli piace l’idea di avere un vicino di casa omosessuale, che non vorrebbero stare in casa di omosessuali e che non ci vogliono vivere in casa.
19La seconda tipologia di ostilità direttamente osservata corrisponde a episodi dai quali emerge una indisponibilità a parlare del tema dell’omosessualità. A differenza delle altre forme di ostilità narrate, questa viene osservata in larga misura anche nelle relazioni che coinvolgono soggetti adulti, i quali si renderebbero responsabili di una vera e propria censura dell’argomento nei confronti dei loro figli o, se rivestono il ruolo di insegnanti, dei loro studenti. Come ci dice Emanuela (24 anni):
Io vedo anche genitori, anche amici che magari hanno bambini più piccoli, che sono terrorizzati solo dal fatto che esista la possibilità di trattare l’argomento omosessualità con i loro figli. Dicono: «Ah, mio figlio diventa omosessuale… meglio non parlarne proprio». O cose di questo tipo.
20Una terza tipologia corrisponde a episodi in cui persone apertamente omosessuali vengono fatte oggetto di insulti e derisioni nelle relazioni face-to-face o nei commenti fatti in loro assenza. Gli esempi rimandano spesso al contesto maschile dei pari, nel quale «io i gay li ammazzerei tutti» pare essere un’espressione piuttosto comune. Ma vengono riportati anche episodi che coinvolgono ragazze, come quello che segue:
Una volta, con queste mie amiche, stavamo andando in bus a [nome della città]. L’autobus era pieno e noi quattro eravamo due sedute e due in braccio. C’erano due ragazze omosessuali davanti a noi. A un certo punto le mie amiche che sono molto invadenti e molto sfacciate, hanno cominciato a chiedere loro: «Ma voi cosa fate a letto?» Andavano avanti e sempre sul pesante e aspettavano la risposta per ridere. E poi quando sono scesa dall’autobus sono scoppiata! E mi sono arrabbiata. Loro mi hanno detto: «Ma perché ti arrabbi tanto non sono mica tue amiche o tue sorelle». «A noi fa schifo», dicevano [Laura, 17 anni].
21La quarta e ultima tipologia di ostilità antiomosessuale intercettata direttamente dai nostri partecipanti è l’uso metaforico dell’omosessualità per stigmatizzare modalità di comportamento o stili del sé che trasgrediscono le aspettative sociali della maschilità. Questi episodi vengono giudicati negativamente per due ragioni. Per un verso, essi vengono annoverati tra le forme di ostilità perché rivelano modelli di binarismo di genere considerati troppo rigidi. Infatti, le vittime sono bambini o ragazzi che vengono accusati di una sorta di «difetto di maschilità» che, agli occhi dei nostri partecipanti, non appare giustificabile. Per altro verso, l’uso squalificante di metafore che alludono all’omosessualità è ritenuto penalizzante per chi sta maturando un orientamento omosessuale. Tali metafore, infatti, comunicano l’esistenza di un clima ostile contro le persone gay e lesbiche, clima che viene facilmente interiorizzato dai diretti interessati.
Diciamo che l’omosessualità è usata molto come strumento di offesa. Molti ragazzi, secondo me immaturi, usano la parola omosessuale per offendere qualcun altro. Anche se invece io non do molta importanza a questo modo di fare e di dire [Stefano, 16 anni].
È sempre una situazione scherzosa dentro la quale si buttano frecciatine sui gay oppure si fa una battuta, così tanto per dire. Se è fatta per scherzare e non è offensiva, si lascia perdere [Alessia, 17 anni].
22Come si vede chiaramente dalle parole di Stefano e Alessia sopra riportate, se osservate nelle interazioni tra pari queste forme estremamente diffuse di etichettamento e di derisione possono anche venire giustificate. Ciò significa che la loro interpretazione come fenomeni di ostilità antiomosessuale risulta piuttosto ambigua. Viceversa, esse appaiono meno giustificabili se collegate al comportamento degli adulti. Le testimonianze seguenti ci aiutano a inquadrare meglio questa distinzione:
La [mia figlia] più piccolina ha un compagno di classe che è stato individuato immediatamente, parliamo di prima elementare, in quanto gioca con le bambole. E immediatamente è saltata fuori questa parolina: è gay. Le insegnanti si sono preoccupate con la famiglia interessata, ma non di chiarirlo a livello di classe. Le maestre l’hanno visto e hanno reagito chiedendo alla famiglia: ma lo sapete che gioca con le bambole? [Antonio, 35 anni].
Io non sono insegnante e non ho mai insegnato, però ho visto delle cose che secondo me non devono essere fatte. Nel senso che ho visto bimbi essere presi in giro perché hanno la vocina più flebile dei compagni di classe, essere chiamati froci perché magari leggermente più… magari anche studiosi, quindi con una caratteristica femminile. E ho visto insegnanti anche loro messi in difficoltà. Io penso alla mia classe… cioè non ho finito da tanto le superiori, ho dei ricordi delle medie anche molto brutti. Penso a un insegnante… penso a quella classe del mio paese, che è piccolo, e al papà del mio compagno di classe che diceva a mia mamma che lui non fa fare la pipì al bambino seduto sulla tavoletta perché sennò diventa gay [Ilenia, 21 anni].
23Considerando le narrazioni dell’ostilità antiomosessuale nel loro complesso, emergono due caratteri distintivi. Il primo consiste nella declinazione essenzialmente al maschile di tale ostilità. I nostri partecipanti sono indotti a nominare quasi esclusivamente le esperienze di vittimizzazione di gay che generalmente si verificano nelle interazioni con altri maschi. Le modalità con cui le ragazze lesbiche fanno esperienza di tale ostilità risultano sostanzialmente invisibili nelle loro specificità. Infatti, gli episodi di vittimizzazione ai danni di ragazze che ci sono stati riferiti possono essere considerati come versioni al femminile di fenomenologie tipicamente maschili.
24La declinazione al maschile dell’ostilità antiomosessuale viene data per scontata e poggia sulla considerazione che sono i bambini e i ragazzi – e non le loro pari età di sesso femminile – a essere «naturalmente» portati verso questa ostilità dalla pressione esercitata dal gruppo dei pari.
Io ho sempre sentito queste cose di cui noi stiamo parlando, cioè è ovvio che a un ragazzo in genere, per esempio i miei fratelli, non piacciano gli omosessuali. È logica questa cosa. Perché sei ricchione, si dice dalle nostre parti [Federica, 21 anni].
25Il secondo carattere distintivo che emerge da tutte le narrazioni è la tendenza a prendere le distanze dai soggetti o dai gruppi che agiscono l’ostilità che viene riportata. L’ostilità antiomosessuale riguarderebbe sempre gli altri e si manifesterebbe attraverso dinamiche sociali e modalità di categorizzazione nelle quali i partecipanti non sono implicati, se non come osservatori. Questa tendenza è accompagnata dall’espressione di una certa empatia nei confronti di chi subisce l’ostilità osservata. Entrambe queste tendenze – allontanarsi dagli ostili ed essere solidali con le vittime – risultano tanto più evidenti quanto più ci si approssima a forme di ostilità che rientrano nell’ambito di applicazione del concetto di omofobia.
1.2. L’omofobia come patologia
26Come già anticipato, interpretare l’omofobia come un’abiezione non significa riconoscere come tali tutte le forme di squalifica delle persone gay e lesbiche. In relazione alle diverse forme di ostilità antiomosessuale riportate nel paragrafo precedente, i nostri partecipanti operano delle nette distinzioni.
27Nell’interpretazione assolutamente prevalente l’omofobia è ricondotta a una patologia individuale o sociale, ovvero a una lettura inadeguata e potremmo dire disfunzionale della realtà che riguarderebbe solo alcuni soggetti o alcuni gruppi sociali. Per la verità, nei focus group emergono anche dei timidi segnali di un’interpretazione alternativa a quella prevalente, all’interno della quale l’omofobia è definita come il prodotto della cultura e delle dinamiche della riproduzione sociale. Si tratta però di un punto di vista decisamente minoritario e fortemente osteggiato, al quale non è concesso di sviluppare le sue argomentazioni.
28Il frame dell’omofobia come patologia individuale o sociale utilizza un modello esplicativo che, come abbiamo visto nel capitolo i, richiama da vicino la codificazione del concetto di omofobia proposta inizialmente da George Weinberg (1972). In primo luogo, i partecipanti definiscono questo concetto chiamando in causa diverse dimensioni in esso implicate: quella del comportamento, quella delle emozioni e quella degli stereotipi. Ciò risulta in linea con la multidimensionalità ipotizzata dalla formalizzazione scientifica del concetto, in cui convivono aspetti comportamentali, emotivi e cognitivi. In secondo luogo, la definizione di omofobia viene applicata dai nostri partecipanti solamente alle fenomenologie di ostilità che includono tutt’e tre le dimensioni.
29La necessaria compresenza delle tre dimensioni di cui si compone il concetto di omofobia si traduce in una forte circoscrizione degli episodi di ostilità che possono essere certamente condannati da parte dei nostri partecipanti. Questa modalità di limitazione del problema si basa sull’argomentazione di una precisa concatenazione causale tra le tre dimensioni operative dell’omofobia. In questo senso, l’omofobia corrisponderebbe a un comportamento lesivo che traduce in pratica uno stato emotivo causato da un bias cognitivo.
30La strategia retorica che supporta questa concatenazione tra le tre dimensioni considerate è l’insistenza sul tema dell’intenzionalità: l’omofobia è tale solo se la sua manifestazione empirica – cioè il comportamento – esprime una precisa volontà di ledere i soggetti ritenuti devianti. L’intenzione lesiva è vista come l’espressione di una condizione emotiva specifica, che i nostri partecipanti fanno corrispondere essenzialmente alla paura delle persone gay e lesbiche, al disgusto nei confronti del desiderio omosessuale o dei rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso e, seppure in modo più marginale, all’odio verso queste ultime4. Paura, disgusto e odio sono descritti come stati d’animo incontrollabili: si ritiene che chi li avverte non riesca a contrastarli. La sua capacità di imporsi al soggetto qualifica come irrazionale questa ostilità, anche agli occhi degli stessi attori che la esprimono. Dal materiale che abbiamo raccolto, l’omofobia non risulta perciò collegabile alle logiche di razionalità che governano i processi sociali dei propri mondi di vita. Come ci dice Alessandra (20 anni):
Mi capita di parlare con persone che hanno atteggiamenti di questo tipo e chiedere perché. C’è come un blocco, è una cosa… irrazionale. Si rendono conto dell’irrazionalità, ma è più forte di loro. Non riescono a controllarla e si vede che magari non sono neanche… si trovano a disagio, non sanno come parlarne.
31La dimensione emotiva, descritta come irrazionale, acquista tuttavia una qualche forma di razionalità – cioè di intelligibilità – quando viene collegata a ciò che la causa, ovvero all’adesione a stereotipi negativi nei confronti dei «modi di vita» delle persone gay e lesbiche. Esattamente come nella formulazione di Weinberg, è la dimensione cognitiva che viene individuata dai nostri partecipanti come la causa primaria dell’omofobia. I pregiudizi negativi sulle persone omosessuali – ciò che nel dibattito scientifico è stato definito anche in termini di sexual prejudice (cfr. Herek 2004) – si ritengono diffusi soprattutto all’interno di determinati contesti sociali, dei quali il più evocato è il gruppo maschile dei pari.
32Sul piano pratico, la categorizzazione squalificante da cui nascerebbe la forma più inammissibile di ostilità antiomosessuale – chiamata appunto omofobia – si basa sull’ipotesi dell’anormalità delle persone gay e lesbiche. Il motivo che rende inaccettabile questo «pregiudizio omofobico» è l’idea che una diversità localizzata nella sfera affettiva e sessuale determini una differenza localizzabile nelle visioni del mondo e nelle pratiche sociali di gay e lesbiche. Dal punto di vista dei nostri partecipanti chi aderisce a questo presupposto dimostra di non conoscere la «realtà» delle persone gay e lesbiche, se non a livello stereotipato. Nell’uso prevalente, dunque, l’omofobia dipende da una forma di ignoranza che dà per scontata una differenza sociale e culturale incolmabile tra omosessuali ed eterosessuali. Si tratta di un’ignoranza tanto più condannabile quanto più si è convinti che le categorizzazioni che la supportano – per quanto alimentate anche a livello istituzionale – abbiano perso la legittimazione sociale di cui potevano godere in passato. Francesca (17 anni), per esempio, è convinta che gli stereotipi negativi sull’omosessualità non facciano più presa come un tempo, soprattutto sulle nuove generazioni:
I giovani di oggi, della nuova e della nostra generazione, sono più aperti. Ci sono sempre i casi di discriminazione, ma sono più aperti. Anche perché ne senti parlare di più [di omosessualità] alla televisione e nei film.
33L’uso decisamente selettivo del concetto di omofobia permette ai nostri partecipanti di escludere dall’ambito della sua applicazione alcune forme di squalifica che loro stessi avevano identificato. In primo luogo, l’etichetta di abiezione assoluta non viene estesa alle difficoltà relazionali, ai modi di pensare e di agire che essi si autoattribuiscono o che considerano diffusi nei loro contesti di vita. Sentirsi a disagio in presenza di persone gay o lesbiche o ragionare per stereotipi non sono considerate forme di omofobia, a meno che non si traducano in comportamenti intenzionalmente ostili generati dall’adesione a pregiudizi squalificanti. In relazione a questi episodi i nostri partecipanti parlano al massimo di «tendenze omofobe» che non hanno alcun legame predeterminato – per esempio in termini di cause strutturali – con quella che viene ritenuta la «vera» omofobia.
34In secondo luogo, l’uso selettivo dell’etichetta di omofobia induce quantomeno alla sospensione del giudizio rispetto a comportamenti avvertiti come ostili da chi ritiene di subirne gli effetti. In altri termini, la condanna di un determinato comportamento ostile in termini di omofobia non si basa sulle conseguenze che produce su chi si percepisce come vittima, ma sulle motivazioni che supportano chi lo compie. Infatti, come ci dice Sonia (21 anni), «non perché la parola [omofobia] l’ha usata lui [un gay] significa che è assolutamente giusto usarla».
35Infine, la qualificazione dell’omofobia come azione o attitudine sostanzialmente irrazionale si traduce nella minimizzazione dell’ostilità antiomosessuale che struttura i rituali all’interno del gruppo maschile dei pari. Per un verso, i nostri partecipanti contemplano un nesso tra l’omofobia e i processi di costruzione della maschilità. L’espressione di diverse forme di ostilità contro gay e lesbiche è raccontata infatti come «tipica» del mondo giovanile dei maschi. Tutti i bambini e i ragazzi ne fanno esperienza: imparare a conoscere, usare e difendersi da questa ostilità sono compiti previsti dal processo di crescita. Per altro verso, il disprezzo di tutto ciò che potrebbe generare un sospetto di omosessualità, o che sia riconducibile alla subalternità femminile, è inteso come una «necessità rituale» che i giovani maschi abbandonano una volta entrati nella vita adulta5. Non c’è alcun legame tra l’ostilità antiomosessuale che governa l’acquisizione e la perdita della virilità nei giovani e le regole che orientano la riproduzione dell’egemonia maschile nella vita adulta. Una costante interessante di tutti i focus group con partecipanti eterosessuali, infatti, è stato il rifiuto e la marginalizzazione dei pochissimi e timidi tentativi di spiegare l’omofobia come un effetto delle norme che stabiliscono la differenziazione dei destini sociali di uomini e donne. Prendiamo come esempio il seguente frammento che coinvolge Paolo e Antonio, entrambi di 35 anni:
Paolo: Penso che ci sia un atteggiamento [omofobo] diffuso a tutti i livelli della vita quotidiana, istituzionale, politica, religiosa. Viene cavalcato per motivi strumentali, di potere elettorale, di consenso. Forse è un orientamento culturale per diventare uomini. Io in Italia lo vedo ai massimi livelli questo fenomeno. L’imposizione di questo ideale la vedo anche a scuola. Disegniamo la famiglia con la coppia formata da maschio e femmina.
Antonio: In Italia si gioca tanto, si gioca parecchio con le prese in giro, con i giochi. Questi giochi portano poi a fraintendimenti o a strumentalizzazioni in senso politico.
36Considerate le sue caratteristiche interne, il meccanismo discorsivo che permette al frame della patologia di svilupparsi nelle modalità d’uso che abbiamo fatto emergere si basa, in fin dei conti, sulla circoscrizione del problema e sulla negazione di qualsiasi dimensione strutturale tra le cause che lo determinano. D’altro canto, questo meccanismo non consente solo di allontanare i nostri partecipanti dai problemi che individuano, costruendo su di essi uno sguardo critico. Come vedremo nel prossimo paragrafo, esso produce effetti rilevanti anche nella definizione del profilo della «vittima meritevole». Esattamente come non tutte le forme di ostilità sono qualificabili come omofobia, non tutti i modi di vivere l’omosessualità sono ritenuti meritevoli di tutela.
1.3. La normalità di gay e lesbiche
37Quello di omofobia appare un concetto a cui si è disposti a ricorrere solo se il comportamento che la manifesta è supportato da pregiudizi antiomosessuali. L’inammissibilità di questi pregiudizi risiede nel fatto che essi non rispettano una «realtà» che i nostri partecipanti giudicano autoevidente e che la loro stessa interpretazione dell’omofobia contribuisce a rafforzare: i gay e le lesbiche sono «normali». In altre parole, i gay e le lesbiche «sono come noi», reputano importanti le stesse cose che «noi» reputiamo importanti e si comportano come ci comportiamo «noi». Questa normalità attribuita funge da metro di misura con cui valutare l’illegittimità dei pregiudizi su cui si fonda l’omofobia.
38In questo senso, la dimensione privata del desiderio diviene l’unico spazio in cui è ammissibile la diversità tra eterosessuali e omosessuali. Rifiutare lo stereotipo significa quindi non cadere nell’errore di «ridurre» le persone gay e lesbiche esclusivamente al loro desiderio omosessuale. Quest’ultimo non deve essere interpretato come la variabile indipendente dalla quale derivano tutti gli altri aspetti dell’identità. Il dialogo tra Carla, Emanuela e Lara è un raro esempio di problematizzazione del proprio punto di vista che tende a «ridurre» le persone gay e lesbiche alla loro sessualità:
Carla (35 anni): Questo fatto dell’omosessualità, dell’omofobia, io lo vedo tanto legato proprio al gesto sessuale. Noi, almeno io, quando si sta parlando di un omosessuale o di una coppia lesbica si va subito con la mente… Almeno io, vado con la mente al gesto proprio sessuale. Anche se vedo una coppia maschio-femmina non è che penso subito al loro rapporto sessuale, penso alla loro relazione, ma sotto l’aspetto umano, affettivo eccetera.
Emanuela (24 anni): Mentre con una coppia omosessuale no?
Carla: Mi immagino… mi viene subito in mente il gesto sessuale. Nel senso che mi viene in mente, cosa che magari con le altre coppie non mi viene in mente. Lara (22 anni): Anche a me succede questo.
39Ma in cosa consiste, nel dettaglio, questa normalità che gli stereotipi e i pregiudizi ignorerebbero? Come viene raccontata quando si punta il dito contro l’omofobia (degli altri)? Emergono principalmente due aspetti. Il primo corrisponde alla collocazione di sé all’interno del genere appropriato: essere gay o lesbica non significa mettere in discussione l’esistenza di una distinzione – per quanto socialmente costruita – tra le attitudini e gli stili maschili e quelli femminili. È su questa base che gli stereotipi del gay effeminato e della lesbica mascolina vengono respinti in modo netto. Il secondo aspetto consiste nel rispetto della polarizzazione tra omosessualità ed eterosessualità: i gay e le lesbiche non cambiano idea sul proprio orientamento sessuale, così come non lo fanno gli eterosessuali. Essi sono attratti affettivamente e sessualmente solo da persone del loro stesso sesso.
40Si riproduce in questo modo l’idea dell’esistenza di una minoranza sessuale, internamente omogenea nel rispetto dei criteri della distinzione di genere – gli uomini sono diversi dalle donne – e della polarizzazione tra i due orientamenti sessuali. Accade anche che questa minoranza venga essenzializzata, cioè che all’omosessualità venga data una spiegazione di tipo biologico in base alla quale alcune persone nascono gay o lesbiche esattamente come altre – la maggioranza – nascono eterosessuali. Questa argomentazione emerge soprattutto quando la discussione nei focus group tocca il tema della ritrosia degli adulti a parlare di omosessualità con i propri figli piccoli per paura di «contagiarli». Abbiamo già visto come questo tipo di episodi venga interpretato dai nostri partecipanti come esempio di ostilità antiomosessuale. L’argomentazione usata per criticare la fondatezza della «paura» attribuita agli adulti implicati ruota attorno all’ipotesi dell’origine biologica dell’orientamento omosessuale. Come ci dice infatti Fabiana (33 anni), «anche se nei bambini ci fosse una voglia di emulazione […], la pulsione sessuale non è una cosa che si controlla».
41D’altro canto, l’ipotesi della normalità dell’omosessualità genera una forte aspettativa di coming out. Nell’affrontare il tema delle possibili strategie di contrasto dell’omofobia e, più in generale, dell’ostilità antiomosessuale, i nostri partecipanti insistono molto sulla necessità di rendere visibile la normalità delle persone gay e lesbiche. Pur mantenendo il velo sulla dimensione privata della vita sessuale, l’ordinarietà e per certi aspetti la banalità della vita quotidiana di gay e lesbiche andrebbero promosse pubblicamente. Promuoverle è un compito che spetterebbe in primo luogo agli stessi soggetti omosessuali: se loro si rendessero visibili come «persone normali» agli occhi di chi li discrimina, i pregiudizi fondati sull’ignoranza di tale normalità potrebbero essere efficacemente contrastati. Naturalmente, non si sorvola sul forte condizionamento sociale che spinge a mantenere il segreto sul proprio orientamento sessuale. Abbiamo infatti già visto come i nostri partecipanti ritengano che questa pressione qualifichi palesemente una forma di ostilità. Resta però il fatto che una porzione sostanziale della responsabilità di lottare contro i pregiudizi antiomosessuali venga attribuita agli stessi soggetti che li subiscono.
42L’insistenza sull’ipotesi della normalità delle persone gay e lesbiche produce tuttavia effetti anche negli usi pratici del concetto di omofobia, delimitando ancora di più il campo della sua applicazione. È nel discorso sulla normalità che lo sguardo delle persone eterosessuali sull’omofobia rivela in modo evidente il suo carattere egemonico. Infatti, se l’aspettativa della normalità non viene assecondata da gay e lesbiche nel modo in cui essa è definita, le vittime dell’ostilità antiomosessuale possono anche risultare «meno meritevoli» di tutela. Nel corso delle interviste e dei focus group sono emerse alcune occasioni in cui il riconoscimento dell’ostilità antiomosessuale in termini di omofobia – cioè di abiezione inammissibile – era condizionato dal modo in cui le ipotetiche vittime si ponevano nella scena pubblica. In un primo caso, le narrazioni e le discussioni chiamavano in causa una distinzione tra i «veri» omosessuali e quelli «falsi». I primi risponderebbero ai criteri di normalizzazione usati per criticare i pregiudizi omofobici; i secondi, invece, sarebbero «falsi» perché trasgrediscono le norme di genere e attraversano dinamicamente i confini tra i due orientamenti sessuali.
Ce ne sono alcuni [gay] che secondo me hanno lo stereotipo del gay e hanno questo modo di porsi… come se prendessero lo stereotipo della ragazza tutta quanta ciccì coccò e lo amplificassero al massimo. Quindi mi chiedo se alcuni di questi ragazzi che si definiscono gay e che si presentano così in realtà vivono la cosa un po’ come mettersi al centro dell’attenzione e farsi vedere diversi [Daniela, 20 anni].
43Il punto interessante è che ai gay e alle lesbiche che trasgrediscono i codici della normalizzazione viene attribuita parte della responsabilità dell’ostilità che eventualmente subiscono. L’ipotesi del «se la sono andata a cercare» non è mai evocata in modo esplicito, nemmeno nelle sue varianti più socialmente accettabili basate sull’idea del superamento dei limiti del consentito ( «si spingono troppo in là»). La loro parte di responsabilità è spiegata dal fatto che essi, non mostrandosi «normali», non combattono i pregiudizi che causano l’ostilità nei loro confronti.
44In altri casi, i nostri partecipanti si sono interrogati sulle reticenze al riconoscimento – prima sociale e poi giuridico – dei «modi di fare famiglia» delle persone gay e lesbiche. Anche qui viene operata una netta distinzione tra ciò che può essere interpretato come una forma di ostilità – ed eventualmente di omofobia – e ciò che invece non può essere condannato. Il nocciolo della questione si può cogliere dal seguente dialogo sul tema della genitorialità omosessuale che coinvolge Federico, Marta e Fabiana:
Marta (22 anni): Per me gli omosessuali sono normali, ma biologicamente non possono avere figli.
Federico (34 anni): Sono d’accordo. Questo limite che io sento significa comunque avere una parte di… omofobia? Cioè, vuol dire che in qualche modo anch’io sono omofobo? O è un limite, come dire, comprensibile perché io non riesco a immaginarmeli questi bambini dentro una coppia con due genitori uomini? Marta: Per me no, non si tratta di omofobia, non sei omofobo.
Fabiana (33 anni): Per me neanche.
45Nel quarto capitolo di questo libro vedremo come le indagini d’opinione condotte in Italia sul riconoscimento delle domande di famiglia delle persone gay e lesbiche disegnino un’opinione pubblica che progressivamente ha maturato un ampio consenso sulla legittimità delle relazioni di coppia tra persone dello stesso sesso. Lo scoglio apparentemente insormontabile, sul quale il consenso è decisamente più basso, è rappresentato dall’ipotesi che esse possano esercitare efficacemente la funzione di genitori6. I nostri partecipanti, qui rappresentati da Federico, Marta e Fabiana, si collocano perfettamente dentro questa cornice. Essi escludono decisamente che la contrarietà alla genitorialità omosessuale possa rientrare nel campo di applicazione del concetto di omofobia, se non addirittura di ostilità antiomosessuale. La questione ricade perciò sul tipo di pretese delle comunità lesbiche e gay, tradotte in rivendicazioni politiche dai movimenti che le rappresentano. Nonostante questi ultimi la nominino esplicitamente come forma di omofobia, la contrarietà della società italiana alle esperienze e alle aspettative di genitorialità viene intesa dai nostri intervistati eterosessuali come una risposta a una rivendicazione eccessiva, che sfida una delle norme basilari della riproduzione sociale.
46La definizione di normalità che fonda l’uso pratico del concetto di omofobia si traduce quindi nell’aspettativa di adesione ai meccanismi fondativi del legame sociale. Tra questi, la differenziazione tra i sessi e la loro complementarietà nella crescita dei nuovi nati occupano un posto centrale.
2. L’omofobia raccontata dalle persone gay e lesbiche
47I partecipanti alla ricerca sui significati dell’omofobia di cui in questo paragrafo analizzeremo le interviste e i focus group sono 13 ragazze e donne che si riconoscono come lesbiche e 23 ragazzi e uomini che si identificano come gay. Le prime hanno un’età compresa tra i 19 e i 46 anni, mentre il range dell’età dei secondi va dai 17 ai 65 anni. In tutti i casi, si tratta di persone residenti in Veneto, accomunate dal fatto di non essere coinvolte in organizzazioni politiche dell’area di movimento lgbt, o di avere con esse un legame molto debole.
48Complessivamente, il gruppo dei gay e delle lesbiche si distingue da quello dei partecipanti eterosessuali del paragrafo precedente per il fatto di includere soggetti di diverse generazioni. La partecipazione di uomini e donne più adulti, i cui punti di vista sono stati messi a confronto con quelli dei più giovani anche all’interno dei focus group, si è rivelato un fattore di grande importanza. Esso ci permette di riflettere su alcune distinzioni cruciali nella lettura dell’ostilità antiomosessuale sulla base dell’età delle persone interpellate (cfr. § 3.2.3) che riprenderemo anche nell’analisi dei racconti degli attivisti con cui chiuderemo il capitolo (cfr. § 3.3).
2.1. Fare esperienza dell’ostilità antiomosessuale
49Non si deve necessariamente fare esperienza diretta della violenza per subirne gli effetti. Come afferma Gail Mason, «è la conoscenza che la violenza incorpora – conoscenza di dolore, paura, pericolo e simili – che opprime gli individui» (2002, 135, nostra traduzione). Non è tuttavia difficile immaginare che la consapevolezza dell’esistenza della violenza e, più in generale, dell’ostilità antiomosessuale produce effetti diversi a seconda dell’identità sessuale in cui ci si riconosce. Nel paragrafo precedente abbiamo considerato le persone eterosessuali che occupano una posizione esterna rispetto ai fenomeni di cui parlano, e che si pensano come osservatori di un problema che le riguarda poco. Possono esprimere solidarietà verso coloro che riconoscono come vittime, senza che ciò le induca a percepirsi esse stesse come potenziali vittime – in ragione dei loro comportamenti non conformi ai modelli di genere egemoni – né tantomeno come autori inconsapevoli.
50La collocazione di sé rispetto al fenomeno dell’ostilità antiomosessuale è sensibilmente diversa per chi si identifica come gay o lesbica. In primo luogo, perché per gay e lesbiche le forme più cruente e lesive che tale ostilità può assumere non sono eventi biografici improbabili. In secondo luogo, perché anche gli episodi più ordinari di squalifica dell’omosessualità producono in chi li subisce effetti di assoggettamento – o di «oppressione», per usare le parole di Mason sopra citate – del tutto simili a quelli prodotti dall’aver subito una violazione della propria incolumità. La vicinanza con le vittime – cioè sentirsi «simili» a loro, anche solo per ciò che riguarda l’espressione della sessualità – è quindi un elemento sufficiente per sviluppare l’idea di condividere i medesimi rischi.
51Nel complesso, possiamo dire che le persone gay e lesbiche che abbiamo coinvolto nella ricerca non hanno una grande familiarità con le forme più cruente dell’ostilità antiomosessuale. Come è lecito attendersi, i (pochi) partecipanti che sono stati vittime di aggressioni fisiche o che si sono trovati in situazioni di estremo pericolo sono facilmente indotti a credere che quello che hanno subito possa accadere di nuovo, in qualsiasi momento. Ciò li porta a sviluppare una disposizione di continua vigilanza verso l’ambiente esterno per intercettare eventuali segnali di pericolo, e di costante sorveglianza di se stessi, di ciò che possono rivelare attraverso il comportamento, l’abbigliamento o addirittura i contesti che frequentano. Lo scopo, naturalmente, è evitare di incorrere nuovamente in episodi analoghi a quelli di cui hanno fatto esperienza diretta e di cui conoscono gli effetti. Il racconto di Martino, un uomo gay di 52 anni, esemplifica gli aspetti che abbiamo appena considerato:
Diciamo che io sono molto poco visibile esternamente, per cui se non lo dico a volte non mi riconoscono nemmeno i gay! […] Ho rischiato grosso una volta, in Croazia, sette anni fa. Per la prima volta sono stato menato da gruppi di etero che venivano apposta [nei luoghi di battuage]. Avevo già corso dei rischi prima di allora. La prima volta avevo 17 anni a [città in cui viveva], poi la seconda a [altra città] a 23 anni. Poi mi ero praticamente dimenticato, verso i 45, che tutto ciò potesse esistere. In Croazia, come dicevo, c’era un battuage pazzesco, era un posto dove andavo ogni anno e non mi era mai capitato nulla. Avevo sentito dire che a qualcuno era successo qualcosa, però di fatto non vedevo nulla. […] Dopo quella volta in Croazia… sono quelle cose che per qualche anno, quando cammini per la strada e senti uno che ti cammina dietro, cominci a guardarti indietro, cosa che generalmente non ho mai fatto, considerata la statura e la stazza che ho. Non ho mai avuto timori di questo tipo. Ma dopo la Croazia è tutto diverso.
52Come già detto, episodi analoghi a quello raccontato da Martino rientrano nell’esperienza diretta di una piccola minoranza dei nostri partecipanti. Più frequentemente, la violenza fisica viene riportata come un fatto che ha segnato la vita di amici gay o amiche lesbiche. Tuttavia, anche la conoscenza della vittimizzazione subita da altri ha ripercussioni importanti, soprattutto sulle persone più adulte. Infatti, la violenza che si impone indirettamente alla loro attenzione porta queste ultime a maturare la consapevolezza della vulnerabilità che – questa sì – le riguarda in modo diretto.
Ho una cara amica che ha una situazione familiare molto pesante proprio derivata dalla sua omosessualità. E questa penso sia la realtà di violenza più vicina a me. Di come puoi arrivare a un certo punto a scoppiare, a dirlo ai tuoi genitori perché stai male e non ce la fai più. E i tuoi genitori che vivono nel paesino microscopico di provincia che praticamente ti distruggono la camera e ti buttano fuori casa. Subito la reazione è stata quella. Poi per un anno le hanno chiesto di evitare qualsiasi tipo di contatto con le donne e con questo ambiente, perché magari «sai, se le stai lontana guarisci». E, insomma, vedere una persona che è una tua amica che vive tutto questo… capisci che magari la violenza c’è ancora. Anche se personalmente finora fortunatamente non ho mai vissuto qualcosa di così violento, la violenza c’è, non è solo un film. È reale [Clara, 38 anni].
53Nella maggioranza dei casi, i nostri partecipanti raccontano e discutono di aver subito in prima persona episodi di quella che potremmo definire come l’ordinaria e sottile squalifica dell’omosessualità. Lo spettro dei fenomeni che ricadono dentro questa definizione è molto ampio. È però possibile individuare un elemento ricorrente, una sorta di minimo comun denominatore tra tutte le narrazioni. Si tratta della convinzione di venir giudicati come «manchevoli» di qualche capacità normalmente attribuita agli eterosessuali, di non essere considerati «degni» del medesimo rispetto riservato a questi ultimi.
54Spesso, la squalifica di sé in quanto gay o lesbica viene ravvisata in comportamenti non apertamente ostili che tuttavia comunicano l’idea che l’omosessualità, e di conseguenza gli omosessuali, abbiano meno valore dell’eterosessualità e degli eterosessuali. La convinzione di subire un trattamento ingiusto emerge da piccoli frammenti di vita quotidiana, non per forza da fatti eclatanti, in cui sono coinvolte anche persone che apparentemente godono di un ampio sostegno nelle loro cerchie primarie. Claudia, per esempio, è una ragazza lesbica di 25 anni laureata in materie pedagogiche. Le sue amiche eterosessuali sono perfettamente a conoscenza della sua relazione di coppia, ma non per questo il supporto che riceve da loro le appare incondizionato:
Quando si parla dell’argomento dei figli ti dicono che no, non puoi avere un figlio. Cioè non pensano assolutamente e non hanno mai detto che io non possa per esempio insegnare ai bambini. Però effettivamente… cioè non te lo dicono, però lo pensano secondo me. Poi ti dicono che non è mancanza di capacità educative, cioè tu puoi educare, però non è naturale, per cui andresti contro natura. Quindi non è giusto.
55Gli altri esempi che possiamo fare a questo proposito vanno dalle domande falsamente ingenue sulla vita privata al disinteresse verso i legami affettivi, dal disorientamento intercettato nello sguardo degli altri fino all’esclusione dalle cerchie relazionali7.
Al lavoro lo sanno un paio di mie amiche e un collega che secondo me si è interessato e avvicinato per un tipo di curiosità maschile. Hai presente, quella curiosità morbosa che io non sopporto, cioè tipo «ma le lesbiche amano la penetrazione o no? Ma proprio non ti piace? Forse sei stata delusa dal marito?» Cioè, a questi livelli molto volgari. Tu ti senti disarmata, dai delle risposte però non hai esattamente armi per contrastarli a questo livello [Viviana, 45 anni].
Quel grosso punto di domanda che vedi nella faccia delle persone con le quali parli, anche questa secondo me è omofobia. Non occorre che ci siano delle grandi parole o delle grandi offese. Ma quando vedi uno che ti guarda come se fossi un marziano verde, anche questa è omofobia. Eppure non ha detto niente [Alfredo, 48 anni].
Ho una collega che sa di me, non mi chiede mai «cos’hai fatto tu con la tua compagna»? Però alla mia collega che ha il fidanzato lo chiede, eccome [Federica, 38 anni].
Quattro anni fa facevo la baby-sitter a dei bambini mentre studiavo a [nome della città]. Poi, quando ho smesso, andavo a trovarli e c’era un certo rapporto con la madre di questi bambini. In sostanza le ho raccontato cosa mi era successo, anche perché si parlava veramente di tutto, era come fosse una mia amica, era molto giovane. E dalla volta che le ho raccontato di essere lesbica… per dire, dovevamo sentirci, doveva chiamarmi, dovevamo vederci e non mi ha più chiamata [Cesira, 25 anni].
56Altre volte, l’esperienza diretta della squalifica di sé in quanto gay o lesbica chiama in causa episodi in cui l’omosessualità viene esplicitamente utilizzata come polo negativo dell’eterosessualità, anche senza che si ravvisi l’intenzione di offendere un gay o una lesbica in particolare. Ci riferiamo in questo caso alle battute sprezzanti e alle barzellette che quotidianamente arrivano all’orecchio dei nostri partecipanti e che evidentemente non vengono interpretate con benevolenza. Ma si parla anche della diffusione di stereotipi negativi di cui sarebbero responsabili i mass media nazionali.
A volte ci sto male anche quando ci sono per esempio i telegiornali e questi miei colleghi parlano male di lesbiche e gay. Io ci sto malissimo. Perché magari vorrei reagire. Ogni tanto faccio mezzo pensiero, che adesso ho eliminato del tutto, di poter in qualche modo dir loro «anch’io sono lesbica». Ma non ce la faccio,
non mi sento così forte e ci sto malissimo. Perché sento degli apprezzamenti cattivissimi, con parole peggiori di «culattoni» [Viviana, 45 anni].
Donatella (46 anni): C’è come un codice etico da parte degli etero. La maggioranza non si risparmia la banale battuta che ti rompe i coglioni perché ti logora come la goccia continua. C’è comunque, è continua. Perché non c’è l’atteggiamento di dire: «C’è la Donatella, c’è Tizio e c’è Caio, a un certo momento la battuta me la risparmio anche». No, la cosa è gratuita e continuativa!
Nicoletta (44 anni): A che battuta ti riferisci?
Donatella: La battuta nei confronti del mondo omosessuale.
Nicoletta: Posso chiederti nello specifico?
Donatella: Le classiche cagate sui gay, le classiche battutine di quello che ti arriva da dietro e devi stare attento.
È importante che si riconosca che anche noi omosessuali possiamo avere un rapporto di coppia. Che non siamo tutti come ci dipingono certe volte i media, che tutti gli omosessuali devono essere per forza… che siamo solo depravati, che non abbiamo la possibilità di mantenere una storia di coppia, che dopo un mese cambiamo subito rapporto [Javier, 43 anni].
2.2. L’effetto di assoggettamento
57Per le persone gay e lesbiche che abbiamo coinvolto nella ricerca le ripercussioni più rilevanti dell’ostilità antiomosessuale consistono nell’effetto di assoggettamento che essa produce. Aver subito molestie o aggressioni, avere amici che le hanno subite o, più banalmente, essere consapevoli che l’omosessualità non è socialmente considerata un’equivalente dell’eterosessualità sono elementi che comunicano tutti lo stesso messaggio: i gay e le lesbiche vivono in un mondo che è loro ostile. La percezione di questa ostilità – sia essa diretta o indiretta, che si poggi o meno su episodi particolarmente gravi – disegna i contorni di una minoranza vulnerabile, i cui membri sono accomunati dall’essere virtualmente esposti a qualsiasi rischio di vittimizzazione.
58Per usare ancora le parole di Gail Mason, il potere di assoggettamento dell’ostilità antiomosessuale consiste nella sua capacità di «infiltrarsi negli stessi discorsi che costruiscono il significato dell’omosessualità» in modo che «il soggetto pensante e agente attinga [da essi] per rendere intelligibile ciò che vede e sente» (Mason 2002, 10 e 24, nostra traduzione). Ciò non significa che le persone gay e lesbiche si sottomettano passivamente all’inevitabilità dell’ostilità che percepiscono. L’effetto di assoggettamento corrisponde piuttosto alla capacità di tale ostilità di imporre la sua rilevanza nel modellare l’identità sociale delle persone omosessuali8. I gay e le lesbiche che si identificano in questo modello di identità sociale trovano perfettamente sensata la paura che induce un adulto come Martino a guardarsi alle spalle con preoccupazione ogni volta che sente l’avvicinarsi di un estraneo, anche se loro non hanno mai vissuto un’esperienza di violenza paragonabile alla sua. Le parole di Stefania, una donna lesbica di 38 anni che riflette sui cambiamenti nella percezione di sé indotti dall’essersi scoperta lesbica dopo essersi sposata con un uomo, mostrano la pervasività del potere di assoggettamento di quella che lei stessa individua come omofobia:
Io l’omofobia l’ho incontrata perché mi è capitata addosso. Prima, quando ero sposata, l’ho vissuta tramite fatti di cronaca, passati o recenti, comunque legati a situazioni. Ho vissuto esperienze di altre persone, ho fatto letture eccetera. Però averla anche vissuta sulla mia pelle è diverso. Avere iniziato a sentire questo peso è stato molto forte, mi sono resa conto che «cavolo, questo è un grosso problema». […] Per esempio, prima, quando ero sposata con un uomo, potevo andare in centro, abbracciata, sedermi sulla panchina, fare tutte le moine che volevo. Adesso, il fatto che io sia una donna e che tenga per mano un’altra donna dà motivo di scatenare le battute o far girare la gente che ti guarda. Cioè, soltanto per il fatto di tenersi per mano.
59Ma come funziona l’effetto di assoggettamento che è proprio dell’ostilità antiomosessuale e dei racconti che la riguardano? I nostri partecipanti ci aiutano a gettare luce sulla dimensione empirica che appare come la più rilevante, ovvero la gestione della visibilità. Di fronte alle istituzioni dello stato, come la scuola, negli spazi pubblici o nel posto di lavoro si preferisce mantenere il segreto sul proprio orientamento sessuale allo scopo di mettersi al riparo da tutta una serie di problemi – dalla derisione alla marginalizzazione, fino alla perdita del lavoro o alla violenza fisica – che vengono immaginati come altamente probabili. Al massimo, si prova a gestire strategicamente il coming out, rivelandosi solo alle persone più fidate alle quali, naturalmente, si chiede di rispettare la regola del riserbo.
60La consapevolezza dei rischi del coming out può sorgere in seguito all’esperienza diretta di un clima implicito di ostilità verso le persone omosessuali che, come abbiamo visto sopra, si desume anche solo dai commenti che si intercettano. Oppure può derivare da racconti di esperienze negative diffusi mediaticamente o ricevuti da amici. Quest’ultimo è il caso di Sofia, una studentessa universitaria lesbica di 24 anni:
Ci sono persone, per esempio una mia amica che lavora in banca, che assolutamente non vogliono far sapere questa cosa perché temono che si possa compromettere la loro carriera e quindi raccontano di una vita che non c’è, di una storia con un ragazzo. L’idea che mi son fatta del mondo del lavoro deriva dall’esperienza di altre persone, gay ovviamente, che si limitano, che non ne parlano. Anche se magari in quell’ambiente ci sono altre persone gay… Però nonostante questo non si aprono neanche con loro.
61Non è qui importante stabilire da dove e come abbiano origine questi rischi, né se siano reali o se riflettano paure infondate9. È invece rilevante sottolineare come la percezione della loro esistenza induca molti dei nostri partecipanti a un costante e minuzioso lavoro di disciplinamento del sé e di sorveglianza del contesto allo scopo di evitarli. Sono questi i tratti caratteristici del potere dell’ostilità antiomosessuale di assoggettare coloro che si riconoscono – a torto o a ragione – come potenziali vittime. I gesti, gli argomenti di cui si parla o che si evitano, gli abiti che si indossano e i posti che si frequentano vengono tutti valutati in relazione ai rischi che si vogliono evitare. Più in generale, le scelte di vita quotidiana e le decisioni relative alla costruzione del proprio futuro (dove vado a vivere, dove vado a studiare o a lavorare) rispondono in gran parte a questa logica d’azione. A questo proposito sono significative le parole di Anna, una donna di 42 anni che ha fatto importanti esperienze lavorative all’estero:
C’è parecchia differenza tra gli stranieri, gli anglosassoni in particolare, e noi italiani. Ho fatto qualche colloquio con datori di lavoro italiani e mi è stato chiesto se ero sposata, se avevo intenzione di avere figli. Cose che invece all’estero non chiedono assolutamente. Cioè, non mi hanno neanche mai chiesto con chi vado in vacanza per esempio. […] Qui in Italia a volte mi faccio io dei problemi. Per esempio, adesso ho in ballo una proposta, però non so se si attuerà perché dipende da come vanno le cose in azienda. Il mio capo mi aveva proposto di andare per un periodo a Londra, perché lui è inglese. E io dovrei seguirlo visto che lui probabilmente tornerà là. Quando proposte come questa vengono fatte a dei miei colleghi eterosessuali… ho tanti esempi di persone che si sono trasferite qui da Milano, e l’azienda gli è andata incontro dando l’appartamento per marito e moglie. Io qui mi pongo il problema: cosa faccio se la mia compagna decide di seguirmi e abbiamo bisogno di un appartamento? Cosa faccio? In questo caso non è che lui mi ha discriminata, sono io che mi faccio dei problemi sul dirlo o non dirlo, cioè espormi così tanto con lui.
62Per un verso queste strategie di mascheramento permettono di tenere sotto controllo i rischi e l’ansia che deriva dal timore di doverli affrontare. Per altro verso, la disciplina richiesta e il «lavoro» che si deve compiere per passare inosservati sono a loro volta fonte di stress, così come lo è la condizione di parziale isolamento che deriva dalla separazione delle diverse cerchie sociali in cui si vive.
Mi sento chiaramente discriminato sul lavoro, anche se non è successo niente perché non l’ho detto. Però il fatto che non lo dica è assolutamente… mentre i miei colleghi, banalmente, dicono se hanno una ragazza o viceversa se hanno un ragazzo, o se sono sposati eccetera, io non mi fido a dirlo. Magari è più una premura eccessiva. Però anche no. E questa è una forma di discriminazione magari autoinflitta, ma che comunque deriva dall’esterno [Alessandro, 34 anni].
Stefano (41 anni): Io ho colleghi internazionali e vedo che in Italia siamo molto indietro. Se c’è un party aziendale, per quanto io non venga discriminato in base al mio orientamento sessuale, non mi sento così libero di portare un mio eventuale compagno come fa il mio collega inglese o quello francese. In questi termini io parlo di omofobia, cioè per lo meno la percepisco come omofobia, ossia come vissuto emotivo da parte dei miei colleghi che non mi metterebbero dei bastoni fra le ruote, non mi prenderebbero neanche in giro, però so che potrei creare un disagio comportamentale.
Giulio (20 anni): Ma se tu avessi un compagno lo porteresti a un party aziendale? Stefano: Io probabilmente sì. O probabilmente no, non lo so, dipende dal contesto sinceramente. Non mi verrebbe da portarlo forse in determinate situazioni. Magari se fosse una cosa con solo i miei colleghi italiani no. Se ci fossero anche i colleghi stranieri probabilmente sì perché allora ci sarebbe, come dire, un travaso culturale che mi farebbe sentire più a mio agio e più tranquillo.
63Come mostrano i frammenti sopra riportati, i nostri partecipanti si mostrano perfettamente consapevoli dell’alto prezzo che la gestione della visibilità richiede. Ciò nonostante, l’assoggettamento cui sono sottoposti dall’ostilità che intercettano e che si attendono non lascia loro altra scelta se non quella di nascondere la propria omosessualità alla vista degli altri.
2.3. Il «problema» di essere giovani
64Essere gay o lesbica e avere 20 anni nel 2011 – anno in cui abbiamo raccolto le interviste e realizzato i focus group – e avere avuto la stessa età negli anni Ottanta o Novanta del secolo scorso qualificano modi di fare esperienza della propria omosessualità che sono difficilmente comparabili. Infatti, osservando la progressiva normalizzazione dell’omosessualità nelle società occidentali, alcuni studiosi hanno parlato di un «mondo che si è capovolto» (The World Turned, cfr. D’Emilio 2002) o di un mondo in cui i gay e le lesbiche «hanno vinto» (The World We Have Won, cfr. Weeks 2007).
65Le differenze generazionali tra queste diverse coorti si manifestano anche nel modo in cui si racconta l’omofobia e l’ostilità antiomosessuale. Seguendo il dibattito internazionale sulle «nuove generazioni gay» (Seidman 2002; Savin-Williams 2005; Hegna 2007), in altri lavori abbiamo avuto l’occasione di mettere in luce come, anche in Italia, il racconto di sé prodotto dai gay e dalle lesbiche più giovani si discosti sensibilmente da quello prodotto dalle generazioni che li hanno preceduti (Trappolin 2011, 158-160). Il punto più rilevante è che, per i primi, l’esperienza dell’uscita allo scoperto – con tutto quello che implica in termini di liberazione di sé in un mondo ostile – riveste un ruolo marginale nella ricostruzione narrativa della propria traiettoria biografica. La metafora della «doppia vita», che rimanda all’obbligo di nascondersi alla vista degli altri, trova poco spazio nei loro racconti. Allo stesso modo, il tema del mascheramento della propria «verità», quando compare, è narrato come frutto di una scelta ponderata e limitata a contesti e situazioni specifiche. In altri termini, i gay e le lesbiche più giovani guardano con occhi diversi all’ostilità del mondo in cui vivono, tendendo a sminuirne l’impatto nella costruzione del sé.
66I nostri partecipanti più giovani sembrano seguire questa linea, il che rende il punto di vista dei gay e delle lesbiche sull’ostilità antiomosessuale meno compatto di quello espresso dal gruppo delle persone eterosessuali. Da un lato, le persone più adulte risultano largamente concordi con affermazioni come quella espressa qui da Arturo, un uomo gay di 49 anni secondo il quale è «quasi impossibile che non ti capiti una situazione in cui bene o male senti di essere discriminato». Dall’altro lato, i più giovani possono essere rappresentati da ciò che Diana, una studentessa lesbica di 19 anni, afferma durante un’intervista e nello scambio di battute con Nicoletta nel corso di un focus group:
Diana (19 anni): L’unico caso penso eclatante che mi è capitato è stato quando ci sono state le elezioni d’istituto quest’inverno, dove ho fatto il mio discorso di presentazione. Avevo presentato la mia lista e dopo un altro, davanti a tutta la scuola, ha cominciato a dire: «Ma cosa volete votare quella lesbica di merda?» Tutto quando io me ne ero già andata, senza che lo sapessi. E mi ha sparato un sacco di merda. Poi sono stata eletta quindi… con molto orgoglio direi che questa discriminazione non ha avuto alcun risvolto. Anzi, in classe mia per esempio lo sanno, son tutti felicissimi, proprio. Vabbè, mi prendono in giro bonariamente, nel senso che è una cosa tranquilla. Quindi non ho mai avuto esperienze di discriminazione. Magari quando ero per mano con una ragazza ci urlavano dietro «lesbiche», però mai nessuna cattiveria, nessun atto di violenza, assolutamente niente.
Nicoletta (44 anni): Ma posso farti una domanda? Per quel che sai tu, si può dire che i diciannovenni, in cui nutro una grande speranza, possano essere in qualche modo un poco più aperti e disponibili? Cioè, tu conosci anche altri coetanei che non facciano parte del tuo ambiente e potresti anche dire che in linea di massima la tua generazione ha un taglio diverso, almeno un pochino? Diana (19 anni): Sì. Nella mia generazione… io dai miei coetanei non ho mai avuto discriminazioni, né ho mai sentito di altre persone che da nostri coetanei abbiano ricevuto discriminazioni forti. Cioè, battute pesanti magari sì, però li guardano abbastanza come casi isolati.
67Diversamente da quello che raccontano i partecipanti più adulti, la mancata esperienza diretta della vittimizzazione – in qualunque forma la si intenda – è un elemento che rafforza l’idea che l’ostilità sia tutto sommato un fenomeno residuale e che possa essere affrontato con successo. Quando vengono messi a confronto con le narrazioni degli adulti, come quella di Arturo poche righe sopra, l’orientamento prevalente è di interpretarle come reliquie di un passato che non esiste più. Le convinzioni delle generazioni precedenti, cioè, sono considerate il risultato di codici culturali che potevano essere sensati fino a qualche decina di anni fa, ma che oggi si rivelano più dannosi che utili.
68Per certi versi, quindi, i gay e le lesbiche più giovani si rivelano simili agli eterosessuali di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Analoga è la loro tendenza a minimizzare, che in certi casi porta a non riconoscere determinati comportamenti come forme sistematiche di squalifica ai danni delle persone omosessuali. Analoga è la loro convinzione che gli eventuali ostacoli si possano abbattere con l’accettazione di se stessi e la visibilità. Non sorprende che gli adulti reagiscano con un senso di disorientamento talvolta mal celato. Così si esprime Massimo, un insegnante gay di 47 anni:
Uno non vive di solo amore o di pane e acqua. Per cui prima o poi arriverà un momento che, finiti gli studi, dovrà andare incontro al mondo del lavoro e quando ci sbatterà contro vedrà che non sono poi così tutte rose e fiori e che uno magari ti dice di no solo perché il suo orientamento non è come il tuo. E allora saranno cavoli amari. Faccio un altro esempio. Finché sei a scuola puoi andare vestito come ti pare e piace, non è importante. Però se tu vai a un colloquio di lavoro vestito in un determinato modo, non fa bello. Cioè, l’impressione è la prima cosa che conta là. Secondo me non è saggio sbandierarlo ai quattro venti, come dicono quelli che sono giovani. Probabilmente non hanno ancora un’esperienza matura. Avranno tutto il tempo poi per ricredersi. Non glielo auguro, sia chiaro. Però, stando a come vanno le cose, non mi sembra che sarà diverso da così.
69Ai loro interlocutori più giovani, gli adulti arrivano a imputare una mancanza di maturità dovuta alla scarsa esperienza del mondo o – come vedremo più nel dettaglio nei discorsi degli attivisti – alla debole socializzazione al linguaggio politico della comunità lgbt.
2.4. Le definizioni operative dell’omofobia e le trappole della visibilità
70Al netto di queste importanti distinzioni intergenerazionali, le varie forme dell’ostilità antiomosessuale che vengono riconosciute dai nostri partecipanti non vengono «pesate» secondo diversi livelli di gravità, come invece avviene nel gruppo degli eterosessuali. Questi ultimi utilizzano l’etichetta di omofobia per nominare quelle espressioni dell’ostilità che ritengono inaccettabili senza alcuna riserva. Inoltre, tendono a giustificare ciò che non rientra nel campo di applicazione del concetto di omofobia, negando l’esistenza di ogni legame tra i comportamenti ritenuti non problematici e quelli considerati più gravi. Dal punto di vista dei gay e delle lesbiche che abbiamo coinvolto, l’uso pratico del concetto di omofobia si presta a considerazioni nettamente diverse. Ciò non significa che esso venga usato da tutti con più disinvoltura. Infatti, per più di qualche gay e lesbica il termine «omofobia» ha una collocazione tutto sommato marginale nel linguaggio della vita quotidiana. Piuttosto, il suo uso pratico tende a essere diverso qualitativamente da quello degli eterosessuali.
71Se per questi ultimi la ritrosia nel suo uso è legata al significato di «abiezione assoluta» che esso incorpora, per i nostri partecipanti omosessuali l’utilizzo a tratti contenuto del concetto di omofobia si giustifica dal fatto che esso non connota una forma di ostilità particolare, più grave delle altre. La sensazione prevalente è che, tutto sommato, non sia di per sé importante disquisire se un determinato fatto possa o meno essere definito come omofobia. Usare o non usare questo termine non determina un cambiamento nel giudizio attribuito al caso di cui si sta parlando, né cambia la relazione che si individua tra il caso specifico e le altre forme di ostilità riconosciute come tali. Nel rapporto con l’intervistatore o nel corso dei focus group anche i partecipanti più restii arrivano ad ammettere che quello di omofobia può essere un termine adeguato. Tuttavia, quello che a loro preme di più è sottolineare l’esistenza di un legame profondo tra la violenza agita fisicamente e le barzellette sui gay, tra la svalutazione dei legami affettivi e la discriminazione nell’accesso alle risorse sociali o la paura di esserne vittime.
72Tale legame è individuato nel fatto che tutte le forme di squalifica dell’omosessualità sono il risultato del modo in cui funziona «normalmente» la società. Esse stanno dentro le logiche di riproduzione delle istituzioni eterosessuali e dei sistemi culturali che le sostengono. Per usare un’efficace metafora proposta in uno dei focus group, l’omofobia – o comunque la si voglia chiamare – è «l’aria che si respira», che si impara a respirare in famiglia, a scuola, al lavoro, uscendo con gli amici. Gli scambi di battute e le narrazioni che riportiamo di seguito esemplificano bene il modo in cui il racconto dell’omofobia è prodotto dalle persone gay e lesbiche.
Stefano (36 anni): Per me l’omofobia è qualcosa di culturale, è qualcosa che è radicato in un modo di vedere e di interpretare l’omosessualità e le persone omosessuali, prima ancora di essere il gesto concreto di violenza e di discriminazione. Marco (47 anni): Sì, non ha un nome e cognome, non c’è un nome e cognome. È una mentalità. Se io avessi accolto la sfida, non mi mancavano le possibilità di farlo, se io avessi dichiarato apertamente quello che sono, chi sono, cosa faccio e con chi lo faccio, credo che ci sarebbero stati problemi per il mio lavoro.
Sono secoli e secoli che l’omosessuale viene minimizzato, denigrato. Non so come dirlo, è una categoria di persone, una fascia di persone che comunque sono sempre state trattate male. Se parlo male di un nazista […] parlo male di una sua abitudine politica, di una sua esplicita aggressività. Però può essere un gran signore o una gran signora. Ma se parlo male di un omosessuale, è come parlare di un paria nella società indiana, i paria che muoiono lungo la strada perché sono di una categoria inferiore. È una cosa simile all’essere omosessuale, è una classificazione che ti rende inferiore, che non ti nobilita davanti a tua madre, tuo nonno, tuo zio, il tuo vicino di casa, il sindaco, il dottore eccetera. Questo è il problema, che ci si sente già offesi [Donatella, 46 anni].
Ho pensato di essere sbagliata soprattutto studiando determinate cose. Studi effettivamente che ci vuole per forza l’una e l’altra figura, l’uomo e la donna per fare una famiglia. E quindi, per la concezione che avevo io dell’educazione, forse pensavo che non sarei stata sufficiente o che comunque due donne non potessero essere sufficienti [Sofia, 24 anni].
A me capita tutti i giorni. Sono in laboratorio, a scuola, mi giro e uno studente fa con l’altro: «Alberto culattone!» E lo mette sul salvaschermo del computer e tutti ridono. Si prendono in giro. […] Io ho sempre insegnato in istituti tecnici dove l’ambiente è molto maschile. E queste cose che si dicono i ragazzi tra di loro mi fanno venire in mente quello che ho passato io alle superiori. Ora forse ci ho fatto l’abitudine, è una cosa che succede. Ma preferirei che non succedesse. Tutto parte da lì [Javier, 43 anni].
73Nell’uso pratico, quindi, questo concetto non è limitato a forme intenzionali di ostilità causate da un bias dell’agente, come invece tendevano a pensare le persone eterosessuali che abbiamo coinvolto. Ciò non implica che i gay e le lesbiche non siano in grado di distinguere tra forme di ostilità intenzionali e altre modalità che connotano squalifiche più ingenue. Come non va negato che i gay e le lesbiche più giovani tendano a dare più importanza degli adulti al tema dell’intenzionalità, ritenendo meno meritevoli di attenzione le modalità di squalifica agite inconsapevolmente. Ma la condanna generale delle azioni non intenzionali è netta, soprattutto da parte degli adulti. Ciò che conta è il danno che esse producono in chi si sente coinvolto. È dunque dalla sofferenza sociale esperita che si traccia il confine di quello che un gay o una lesbica possono accettare.
74Certamente, vengono operate delle differenziazioni per stigmatizzare quei comportamenti che «fanno più male» perché comunicano più direttamente – e intenzionalmente – il disprezzo nei confronti del ricevente. Tuttavia, l’idea che anche i fatti più banali abbiano il potere di assoggettare le persone omosessuali attraverso la sofferenza che producono permette di leggere l’omofobia in termini di struttura sociale, lettura che risulta condivisa in larga parte anche da chi è meno incline a usare il termine «omofobia». Come ci dice Arturo (49 anni):
Ci sono degli apici, delle punte dell’iceberg che sono le persone che vogliono farti del male. Ma sotto queste punte c’è una mentalità diffusa, anche nella politica.
75Dal punto di vista dei gay e delle lesbiche, soprattutto se adulti, l’uso del concetto di omofobia nel discorso non sembra svolgere la funzione che svolgeva nei racconti degli e delle eterosessuali. Per i primi l’omofobia – o comunque la si voglia chiamare – esiste non solo e non tanto per l’ignoranza degli omofobi, ignoranza di cui gli stessi nostri partecipanti parlano come uno degli aspetti del problema. L’omofobia esiste perché a essa si viene socializzati interiorizzando le norme che supportano l’egemonia eterosessuale. Questa interpretazione favorisce anche un cambio di segno rispetto al modo in cui si parla della qualifica prevalentemente maschile dell’omofobia, tema già sollevato dal gruppo di eterosessuali. Consideriamo qui le parole di Fabio (30 anni) e di Elena (19 anni).
Io non ero un bambino che di fronte all’aggressione era in grado di rispondere. Io morivo e basta, rimanevo lì così e subivo qualunque cosa dovessi subire, non avevo proprio delle difese per questo […]. A quell’età i meccanismi di relazione tra maschi sono tutti fatti in un modo tale per cui io non rientravo in nessuna delle categorie previste. Quindi [essere insultato e minacciato] era un po’ una cosa quasi naturale che avvenisse, in effetti. Io avrei preferito essere ignorato. Però non venivo ignorato.
L’omofobia è molto più forte nei confronti dell’uomo che nei confronti della ragazza. Per esempio, io anche in classe ho un ragazzo che si è definito gay e lui ha creato molti più problemi rispetto a me. Perché nell’immaginario collettivo due ragazze bene o male… da una parte eccita l’idea di due ragazze insieme, dall’altra si è abituati a vedere due ragazze che vanno in giro per mano, che magari stanno insieme alla sera, che dormono insieme. Nei confronti dei maschi c’è molta più violenza e sicuramente è omofobia, non si discute.
76I nostri partecipanti sono decisamente meno propensi degli eterosessuali a giustificare i «rituali» che vengono agiti nel gruppo maschile dei pari. Per loro, si tratta di fenomeni decisamente da condannare perché – per usare le parole di Javier già citate – «tutto parte da lì». Lo sviluppo di uno sguardo critico che lega l’omofobia alla costruzione del genere favorisce anche il tentativo di una lettura «al femminile» di tale ostilità. Alcune nostre partecipanti, infatti, sottolineano la specificità della vittimizzazione delle lesbiche e il silenzio che la circonda. Al tempo stesso, esse rintracciano i segnali dell’egemonia maschile anche nel discorso ufficiale sull’omofobia. Come afferma Stefania (38 anni): «in Italia di omosessuali molto spesso si parla solo al maschile. […] Tante donne lesbiche vengono violentate, questo è un fatto».
77Infine, l’interpretazione dell’omofobia come struttura sociale produce una messa in discussione del valore risolutivo della visibilità. Ai nostri partecipanti non sfugge che attorno al coming out si siano venute a formare delle aspettative importanti anche da parte delle persone eterosessuali. L’eventuale conoscenza dell’identità sessuale del proprio interlocutore permetterebbe a questi ultimi di usare toni più rispettosi – o politicamente corretti – almeno nelle interazioni face-to-face, il che eviterebbe loro di interrogarsi sulle proprie abitudini e sulle conseguenze dell’egemonia che detengono. Ma non sfugge nemmeno che esporsi allo sguardo dell’altro, di un altro più potente, possa tradursi nel rischio di subire categorizzazioni stereotipate che appiattiscono le qualità individuali dentro i confini di un «personaggio».
Io molto spesso non lo dico alle persone non tanto perché credo che rifiuterebbero me come persona. Penso di no insomma. Quello che odierei profondamente è che loro applicassero su di me modelli di omosessualità che non sono i miei, quelli che imparano al Grande Fratello o nelle sitcom americane. Questo mi starebbe sulle palle pesantemente, perché non sono così [Flavio, 44 anni].
Linda (46 anni): Non voglio fare la minoranza delle minoranze.
Giulia (44 anni): Già mi dà fastidio che ci sia una minoranza.
Clara (38 anni): Sinceramente mi pare di farmi autoghettizzare un altro po’: «Vi prego consideratemi la povera lesbica disperata che tutti picchiano». No, io no. Io non voglio questo.
3. Il discorso degli attivisti
78Discutere di omofobia con attivisti impegnati da tempo nell’area di movimento lgbt è un’operazione che solleva una serie piuttosto vasta di questioni. Queste si possono raggruppare all’interno di quattro grandi aree tematiche che si intersecano reciprocamente: i cambiamenti che hanno interessato recentemente l’area di movimento; le trasformazioni delle singole associazioni; i mutamenti nelle comunità di gay e lesbiche; le «nuove» forme con cui l’ostilità antiomosessuale si manifesta oggi nella società italiana. Tuttavia, se si focalizza l’attenzione sul significato che l’omofobia – o, meglio, la lotta contro l’omofobia – assume in termini di strategie di azione politica, è possibile circoscrivere uno spazio di narrazione più limitato. In questo paragrafo ci dedicheremo all’analisi dei diversi discorsi che il tema dell’omofobia sollecita negli attivisti che abbiamo intervistato. Successivamente, procederemo a identificare il modo in cui alcuni elementi presenti in tali discorsi producono la narrazione di una forma di mobilitazione specifica.
79Prima di procedere è necessario fornire qualche informazione sui soggetti che abbiamo coinvolto attraverso interviste individuali, così come sui contesti locali in cui essi agiscono. Queste informazioni consentono di ancorare le loro narrazioni alle rispettive biografie politiche e al territorio su cui essi si propongono di intervenire.
80Le interviste sono state raccolte tra i mesi di marzo e aprile del 2017 e hanno coinvolto complessivamente 7 persone. Cinque di queste fanno politica – o hanno fatto politica – all’interno di altrettante importanti organizzazioni lgbt del Friuli Venezia-Giulia e del Veneto. Si tratta di quattro attivisti – tre uomini e una donna – dai 36 ai 54 anni con una lunga storia di movimento alle spalle vissuta in posizioni di leadership che, per i soggetti di sesso maschile, è tutt’ora in corso. Il quinto è un giovane di 30 anni che ha da poco «ereditato» la dirigenza dell’associazione in cui è impegnato. Infine, altre due interviste sono state raccolte con attivisti trentenni che lavorano in reti nazionali di supporto giuridico alle persone lgbt, con un punto di osservazione privilegiato sulle dinamiche del contesto del Nordest dell’Italia.
81La cornice generale dentro cui i nostri intervistati si muovono è quella del passaggio «dalla liberazione omosessuale alla politica dei diritti» (Prearo 2015). Si tratta di un passaggio maturato verso la metà degli anni Settanta e che oggi può dirsi ampiamente acquisito nell’area di movimento lgbt dei diversi paesi occidentali, Italia compresa (cfr. Adam, Duyvendak, Krouwel 1999; Trappolin 2004). Dentro questa cornice – con cui anche le organizzazioni antagoniste più lontane dai gruppi mainstream devono fare i conti (Haritaworn 2015; Bacchetta, Fantone 2015) – prende forma una distinzione piuttosto netta tra una dimensione non-politica della sessualità e una che invece si può tradurre in rivendicazione pubblica. La rivendicazione di forme di cittadinanza attraverso il rapporto con le istituzioni obbliga infatti a differenziare uno spazio di sessualità agito dai soggetti dentro le cerchie della comunità lgbt e nelle specifiche subculture che la compongono da una sfera di mobilitazione pubblica in cui si lotta per raggiungere l’inclusione nei diritti di cui già beneficiano le persone eterosessuali. Seppure in determinati momenti – come i Pride – il confine tra la sfera degli «stili sessuali» e quella della lotta politica può risultare sfumato (cfr. Trappolin 2009), i codici culturali che orientano i comportamenti sessuali dentro la comunità non assumono di per sé un significato politico. La mobilitazione, soprattutto quella delle organizzazioni mainstream, si sviluppa piuttosto seguendo l’approccio della «normalità» delle persone gay e lesbiche. Ciò implica che il contenuto delle rivendicazioni tende ad assecondare le norme sociali del pudore o, quantomeno, che il senso della protesta non riguarda la messa in discussione di tali norme.
82La lotta contro l’omofobia è uno spazio d’azione molto esposto alla necessità strategica di selezionare ciò che può essere efficacemente tradotto in lotta politica. Questa evidenza emerge anche dalle interviste che abbiamo raccolto, sebbene non tutti i partecipanti agiscano in organizzazioni mainstream e condividano il medesimo entusiasmo verso l’ipotesi della normalità delle persone omosessuali. I racconti degli anni in cui la violenza di cui ci si occupava era prevalentemente quella agita attorno ai luoghi maschili dello scambio sessuale (battuage) mostrano bene come la mobilitazione non puntasse a problematizzare la norma sociale che limitava certe pratiche sessuali all’interno di contesti specifici. Come ci dicono Mirko e Carlo, l’azione politica mirava a salvaguardare la sicurezza di tali contesti.
Mirko (30 anni): Per esempio, qui a [nome della città] è iniziato tutto con [nome dell’attivista] denunciando le aggressioni che la polizia commetteva contro le persone che erano nel battuage di là. La gente arrivava e le picchiava, tanto queste persone non potevano dire niente o denunciare perché erano tutte invisibili. Intervistatore: Quindi è nato da lì…
Mirko: Sì. E lui metteva un tavolino in piazza per denunciare che succedeva questo. Al tempo lo scopo era quello, rendere visibile il problema e dire: «Guarda che ci siamo». Si è creata una zona grigia che ancora c’è un po’ in quella zona. Ti viene detto: «Nella tua vita privata fai quello che vuoi, hai una certa libertà, non sei perseguitato del tutto, mentre vivi nell’ombra puoi vivere tranquillo». Carlo (54 anni): È capitato che si sia accompagnato qualcuno in questura, ma molto raramente. Sono molti di più i casi che ci sono stati segnalati nei luoghi di battuage. Cioè, se devo prendere e andare dal questore ci vado! Lì il canale c’è. Purtroppo abbiamo un questore un po’ così, abbiamo un prefetto un po’ così, però, come dire, negli anni avendo maturato questo rapporto loro sanno chi sono, e sanno che abbiamo anche un peso politico.
[…]
Intervistatore: E può capitare che siano loro a chiamarti?
Carlo: Sì, loro ci hanno chiamato proprio in un caso di lamentele dei vicini di un battuage, molto vicino alle case. C’era un campo lì intorno e le persone, i frequentatori del battuage, insomma, stavano distruggendo le colture. A quel punto lì ci han detto: «Guardate ragazzi, noi non vorremmo intervenire, intervenite voi prima come associazione, andate là e parlategli, mettete dei cartelli». E così abbiamo fatto.
83Un secondo elemento di contesto che occorre tener presente per analizzare i racconti dei nostri intervistati è legato alla specificità del territorio nel quale le loro associazioni intervengono. Consideriamo le parole di Matteo (36 anni):
Faccio un ragionamento generale, molto breve. Se noi guardiamo all’omofobia come violenza, questa la vediamo principalmente in città molto grandi. Arcigay Roma, Arcigay Milano o anche Arcigay Torino lavorano – soprattutto a Roma – su casistiche di aggressioni violente a omosessuali molto più frequentemente di noi. A [nome della città] questo tipo di situazioni per adesso a me risulta che non ci siano. Abbiamo aggressioni e violenze in luoghi di prostituzione. Quelle che capitavano con una frequenza molto relativa, tipo una volta all’anno, lungo gli argini. Però quelli sono posti che si stanno molto spopolando. Nel senso che la maggior delle persone preferisce avere un luogo di incontro al chiuso, come nelle saune, nei locali, cose di questo genere. Per cui anche quel tipo di violenza in qualche misura si sta affievolendo perché comunque nei locali la violenza non capita.
84In Veneto e in Friuli - Venezia Giulia non ci sono realtà metropolitane paragonabili a quelle delle grandi città italiane citate da Matteo, alle quali naturalmente se ne possono aggiungere altre. Nei grossi centri urbani le comunità lgbt sono più visibili e organizzate, anche nei rapporti con le varie istituzioni. Essendo più visibili, tali comunità sono certamente più esposte a episodi di violenza anche cruenti che colpiscono chi le frequenta. Ma, al tempo stesso, la loro maggiore organizzazione permette almeno ai fatti più eclatanti di venire a galla più facilmente, di trasformarsi in discorso pubblico e quindi di tradursi in motivo di rivendicazione. Nei contesti territoriali periferici l’invisibilità delle forme di violenza più identificabili obbliga gli attivisti a definire forme e contenuti di lotta politica in cui l’omofobia, prima di essere contrastata, deve essere «stanata», resa visibile.
3.1. I cambiamenti nell’area di movimento
85La lotta all’omofobia, in termini di mobilitazione pubblica, di strategie di prevenzione e di offerta di servizi di supporto alle vittime, richiede molte risorse. È perciò inevitabile per i nostri intervistati sollevare il problema della mancanza di risorse sufficienti, siano esse legate alla disponibilità di fondi, di tempo o di sostegno da parte delle istituzioni territoriali.
86Questo problema è discusso soprattutto per come condiziona la capacità di intercettare gli episodi di ostilità e di violenza ai danni di persone gay e lesbiche. L’attivazione di linee telefoniche gratuite è un’esperienza tipica delle associazioni lgbt del territorio in esame, seppure essa abbia segnato di più i periodi che hanno preceduto l’uso massiccio del web prima, e dei social network poi. Tuttavia, si tratta di esperienze che hanno avuto – e hanno tutt’ora, almeno nei casi in cui sono ancora attive – un’efficacia molto limitata. Oltre al fenomeno dell’under-reporting di cui parleremo più avanti, va considerato il carattere episodico, frammentario e «carsico» di queste iniziative da parte delle associazioni che se ne sono dotate. Per essere efficaci, le cosiddette help line devono essere ben visibili nei canali di comunicazione della comunità di riferimento. Soprattutto, esse devono risultare effettivamente fruibili, devono cioè avere alle spalle un’organizzazione minima di personale che risponda alle eventuali richieste di aiuto.
87Naturalmente, la visibilità delle help line, così come la disponibilità di operatori qualificati in grado di accogliere la sofferenza delle vittime, decodificarne i bisogni e indirizzarle ai giusti referenti territoriali sono aspetti che richiedono un investimento di risorse non indifferente. Non è un caso infatti che a essere più efficaci – anche se in misura comunque limitata – siano i servizi che coprono porzioni di territorio più ampie, gestiti da soggetti che beneficiano di sostegni finanziari di tipo strutturale provenienti da regioni, province o comuni. Come ci dice ancora Matteo (36 anni):
Diciamo che delle segnalazioni ci arrivano anche da alcuni amici che sono attivi sul territorio. Per dire, c’è una Gay help line che ha sede a Roma che ci reindirizza i casi. Però sono casi più che altro sporadici, o magari di persone che hanno bisogno di un’informazione sul servizio […]. Ci sono diversi numeri di telefono attivi. Uno ha sede a [nome di una città vicina], uno ha sede a Roma. Quello che ha più pubblicità è quello di Roma, è un servizio finanziato principalmente dalla Regione Lazio. Se cerchi Gay help line nel web, sono loro. Il numero di telefono di quelli di [nome dell’altra città] non riesco a trovarlo neanche io quasi. A Roma hanno appunto questo servizio di aiuto telefonico e hanno tutti gli indirizzi delle varie sedi di associazioni. E a volte ci reindirizzano i casi per competenza territoriale […]. Noi stessi indirizziamo alla Gay help line, ma anche ad altri servizi come quello di Bologna. Il nostro sito penso che abbia come contatto il numero di Bologna addirittura. Però anche se uno scrive o telefona alla sede nazionale, poi i casi vengono spostati a livello locale, a noi. Se uno di [nome della città in cui vive Matteo] scrive o telefona all’Arcigay nazionale, loro prendono i dati e li girano a noi.
88Ai nostri intervistati non sfugge che la scarsa efficacia delle help line sia anche legata al fatto che il telefono è stato ormai ampiamente sostituito da altri mezzi di comunicazione, come i social network. Sono pochi infatti coloro che lo usano ancora per rapportarsi con le associazioni lgbt. Soprattutto, si tratta di una popolazione selezionata sulla base dell’età. Ma anche gestire la comunicazione via Facebook o WhatsApp richiede risorse ingenti.
89Poco produttive, in termini di contatto con le possibili vittime dell’ostilità antiomosessuale, sono anche le iniziative di prevenzione che hanno più possibilità di ricevere il supporto economico e organizzativo delle istituzioni del territorio. Un esempio ricorrente è riferito all’intervento delle associazioni nei contesti scolastici. Specialmente in Friuli - Venezia Giulia, questa strategia ha goduto e gode tutt’ora di un forte sostegno da parte della Regione, delle Università e dell’Ufficio Scolastico Regionale. Ciò ha permesso di dar vita a una rete di collaborazione con le scuole che ha pochissimi equivalenti nel territorio nazionale.
90È opinione comune dei nostri intervistati che il mondo scolastico sia una formidabile fucina di atteggiamenti e comportamenti omofobi e dunque denso di rischi per studenti e studentesse omosessuali. Ma è altrettanto condiviso il fatto che il lavoro nelle scuole non si traduce automaticamente in un aumento dell’ostilità denunciata. Infatti, gli atti di ostilità subiti da studenti e studentesse di cui si raccoglie qualche segnale non vengono denunciati come tali né alle organizzazioni lgbt, né alle autorità scolastiche. Le prevaricazioni rimangono sullo sfondo, indipendentemente dalla loro gravità per chi le subisce. Al massimo, la presenza di attivisti e attiviste nelle scuole induce qualche studente a uscire allo scoperto e dar voce al malessere che avverte, senza che ciò lo induca a compiere il passo successivo. I casi di denunce vere e proprie sono talmente rari da essere vividamente presenti nella memoria degli attivisti, come nel caso di Diego (45 anni):
Ricordo il caso di due mamme, in particolare ne ricordo una, perché nell’altro caso è stata più l’insegnante a farci la segnalazione. Questa mamma era venuta qui e ci aveva contattato, e aveva il figlio in un istituto professionale, nella scuola professionale. I compagni di classe proprio tormentavano il figlio di questi genitori. La situazione era quella classica, proprio da manuale. C’erano queste ripetute prese in giro, sfottò, insulti. Così, a un certo punto… il ragazzo era un tipo che reagiva anche, non subiva solamente. Però la viveva molto male, e allora sua mamma si era rivolta a noi. In quel caso ho incontrato io la madre, abbiamo parlato un po’, il ragazzo era venuto a una nostra iniziativa. Quella volta c’era anche l’associazione quella dei genitori, l’agedo. Sono venuti anche loro, e c’era un evento pubblico, era venuto anche il ragazzo, quindi avevo avuto modo di conoscerlo. Dopo di che avevo parlato con il responsabile della scuola […] l’ho incontrato e abbiamo parlato. Io penso che sia servito. Dopo non abbiamo più avuto notizie, la madre non si è più rivolta a noi.
91A rendere ancora più improbabile l’emersione dell’ostilità subita dagli studenti e dalle studentesse è il fatto che, a detta dei nostri intervistati, la maggior parte dei segnali che si riescono a cogliere entrando nelle scuole riguardano situazioni di isolamento nell’ambito familiare. La problematicità di queste situazioni risulta evidente dalle parole di Mirko (30 anni):
Il problema sono i casi estremi di violenza in famiglia, dove i figli vengono rinchiusi in camera e gli si toglie il telefono, il computer, qualsiasi possibilità di comunicazione. Pochi si sono rivolti a noi per dire che non sapevano cosa farne di questa situazione, che non ne potevano più. Noi tentiamo di muovere le cose, ma il problema è che non possiamo, soprattutto quando sono minori, non possiamo, abbiamo le mani legate. Non possiamo fare niente se questa persona non vuole denunciare. Noi lasciamo sempre la possibilità, ma non ai minori ovviamente. Abbiamo tentato di fare segnalazioni, ma dopo queste persone sono sparite, non rispondevano ai contatti. Queste situazioni sono sempre strane e non riusciamo ad arrivare, non abbiamo gli strumenti.
92La difficoltà degli attivisti di intercettare le vittime dell’ostilità antiomosessuale è tuttavia più ampia. Essa riguarda da vicino il cambiamento subito dalle organizzazioni lgbt nel rapporto con i membri della variegata comunità della quale rappresentano le istanze. Gli ultimi trent’anni hanno visto un notevole sviluppo delle possibilità di incontro tra persone dello stesso sesso, non solo nei grandi centri urbani. Ciò è avvenuto sia grazie all’offerta di spazi di socializzazione inediti e di servizi dedicati di carattere professionale (sostegno psicologico e tutela legale), sia in seguito al massiccio utilizzo delle risorse del web. In entrambi i casi, l’effetto che si è prodotto è stato l’indebolimento della centralità delle organizzazioni lgbt nella costruzione dei legami comunitari e dei modelli di identità sociale da promuovere. A questo proposito, il racconto dei primi anni di attivismo politico da parte di Carlo (54 anni) mostra l’importanza che le organizzazioni avevano nei confronti della base sociale a cui si riferivano:
Io sono arrivato in associazione nel 1993. Ho cominciato a fare delle cose e probabilmente la faccenda ha cominciato a interessarmi. Allora avevamo una sede in un appartamento, si faceva molta aggregazione, erano secondo me anni in cui le associazioni erano ancora forse l’unico spazio per le persone gay e lesbiche. Quelle transgender sono arrivate dopo. C’era la possibilità di potersi incontrare. Io ricordo che in realtà tutti in quegli anni aspettavano la serata in cui l’associazione era aperta, perché lì potevi incontrare, parlare, progettare. Erano serate molto partecipate, con molte anime. E si progettavano molte iniziative.
93Le interviste che abbiamo raccolto indicano che questa centralità oggi non esiste più, e che la moltiplicazione degli spazi e dei modi per incontrarsi e per risolvere le difficoltà individuali gioca a sfavore della possibilità delle organizzazioni lgbt di intercettare le vittime dell’ostilità antiomosessuale.
94Per un verso, accanto al noto problema della distanza tra centro e periferia che ostacolava – e continua a ostacolare – il contatto con la popolazione omosessuale più periferica, nel tempo si è venuta a sedimentare una distanza tra i luoghi dell’attivismo e quelli della socialità e dell’incontro dedicati alle persone gay e lesbiche. Si tratta di uno dei molti esempi della distinzione tra la sfera della rivendicazione pubblica e quella degli stili di vita in cui si esprimono le soggettività omosessuali, distinzione di cui abbiamo già parlato in apertura di questo paragrafo. Pur configurando una caratteristica centrale della problematica costruzione della comunità lgbt italiana (cfr. Rossi Barilli 1999), in anni recenti questa separazione ha raggiunto livelli particolarmente accentuati. A partire dal 2012, infatti, la gestione dei luoghi di leisure dedicati alle persone omosessuali si è formalmente resa indipendente dalle reti di mobilitazione politica e di attivismo culturale – Arcigay su tutte – all’interno delle quali tali luoghi avevano avuto origine10. Oltre a un minor gettito di fondi derivanti dal tesseramento ai circoli più frequentati, la separazione tra leisure e attivismo politico ha amplificato notevolmente le difficoltà nel rapporto con i (vasti) segmenti di popolazione meno inclini a fare emergere gli eventuali abusi subiti. Ci riferiamo qui sia ai gay e alle lesbiche che per ragioni varie non desiderano rivelare il proprio orientamento sessuale al di fuori della comunità lgbt, sia a coloro che vivono apertamente la propria omosessualità ma non intendono fare di ciò un motivo di rivendicazione politica. Matteo (36 anni) coglie bene questo punto:
[Dopo la nascita di Anddos] Arcigay si è trovata il bilancio assolutamente decurtato dei due terzi, anzi di più, molto di più. Questo ha creato grosse difficoltà dal punto di vista economico. Ma la difficoltà economica è solo parte del problema, perché questo fatto ha sganciato completamente Arcigay da tutta una fetta di persone omosessuali che solo nei locali ricreativi entravano in contatto con noi. Il risultato è che noi a una certa fetta di popolazione non riusciamo più a parlare da un po’ di anni. O riusciamo a parlare solo nella misura in cui collaboriamo con quei circoli.
95Nonostante la presenza di spazi e servizi, nei centri urbani di media grandezza risulta assai improbabile riuscire a strutturare specifiche strategie di aiuto alle vittime. L’esiguo numero dei casi che vengono alla luce non permette alle associazioni di legittimarsi come partner significativi all’interno delle reti locali deputate al controllo del territorio o alla tutela della salute. Piuttosto, si sceglie di stringere accordi con figure professionali alle quali indirizzare le poche richieste di aiuto psicologico o legale che vengono intercettate. Ciò alimenta quel processo di professionalizzazione del contrasto all’ostilità antiomosessuale che già segnava i servizi offerti nella comunità lgbt, e che si traduce – in modo forse inaspettato – in una ulteriore marginalizzazione delle organizzazioni lgbt rispetto al tema. A questo riguardo, il punto di osservazione di Giulio, un attivista trentenne che lavora in una delle reti nazionali di tutela legale per le persone omosessuali, porta allo scoperto due aspetti rilevanti di questa marginalizzazione. Il primo ha a che fare con il ricorso diretto ai professionisti da parte delle vittime, le quali scavalcano il ruolo delle organizzazioni.
Qualche anno fa ci arrivavano le richieste di aiuto tramite associazioni. Adesso questo non avviene più perché magari le persone conoscono noi e quindi vengono direttamente. Prima, mi ricordo, qualche anno fa, arrivava l’e-mail da Arcigay che diceva «c’è questa persona che ha questo problema e quindi ve lo giriamo per la presa in carico». Adesso non accade più.
96Un analogo fenomeno è narrato anche quando le organizzazioni lgbt scelgono di avvalersi della collaborazione di centri per il contrasto della violenza contro le donne. Per esempio, tra i pochissimi casi di ostilità che si riescono a intercettare, quelli che colpiscono le ragazze e le donne lesbiche sono narrati come particolarmente rari. Un’ipotesi che ci è stata consegnata è che la loro eventuale richiesta di aiuto verrebbe preferibilmente indirizzata ai centri antiviolenza del territorio.
97Il secondo aspetto è legato all’effetto di individualizzazione del problema – così come della sua soluzione – che la tutela legale offerta da un professionista può contribuire a creare. Consideriamo la testimonianza di Giulio:
Giulio (31 anni): Il punto è distinguere la politica e i diritti del singolo. Nel senso che per la politica, diciamo, potrebbe esser rilevante che si tratti di una questione omofobica, perché si pone attenzione su questo problema. Invece, se devo difendere i diritti di una persona individuale devo pensare ai diritti della persona individuale […]. A livello poi giuridico, appunto, rileva fino a un certo punto se l’episodio è a sfondo omofobico o meno […]. Il ruolo dell’avvocato da questo punto di vista è un ruolo particolare, perché è un ruolo camaleontico che cambia di situazione in situazione. Cioè, [nome dell’associazione di tutela legale] porta avanti una politica di un certo tipo, ma l’avvocato deve difendere i diritti della persona che ha davanti. E quindi a seconda della situazione di questa persona, l’avvocato accentuerà o non accentuerà una serie di aspetti. […] Nella misura in cui io sono avvocato di Giovanni, devo valutare la situazione di Giovanni, devo fare un ragionamento da avvocato. Se Giovanni è stato cacciato fuori dal locale perché gli hanno dato del frocio, in Tribunale magari dirò questa cosa se ha una certa valenza, se so che mi può giocare a favore.
Intervistatore: E se Giovanni è disposto.
Giulio: Chiaro, se Giovanni è disposto. Se invece, voglio dire, c’è una situazione per la quale ottengo di più perché mi hanno spinto fuori con la violenza, allora accentuo di più altri aspetti.
98Per quanto gli avvocati possano essere sensibili alla matrice sociale dell’ostilità antiomosessuale e alla necessità di contrastarla attraverso un’azione politica e culturale, la loro funzione è diversa da quella delle organizzazioni lgbt. Queste ultime sono interessante a rendere visibile e riconoscibile tale ostilità, mentre l’avvocato al quale ci si rivolge può anche decidere di metterla in secondo piano o escluderla del tutto dalla ricostruzione del caso, a seconda delle maggiori o minori possibilità di successo che si prospettano.
3.2. Vecchie e nuove soggettività, vecchia e nuova omofobia
99Nel paragrafo precedente abbiamo considerato come il racconto dell’omofobia induca gli attivisti a mettere l’accento sulle trasformazioni dell’area di movimento e delle loro organizzazioni che più contribuiscono a diminuire le loro capacità di intercettare le vittime. Qui ci occuperemo di un altro lato della difficoltà a incontrare le vittime, quello che ruota attorno al fenomeno dell’under-reporting.
100Per chi è impegnato nell’attivismo lgbt, la mancata denuncia di un abuso, di una violenza o di una disparità subita a causa del proprio orientamento sessuale è naturalmente legata al problema della sottomissione a ciò che potremmo definire «invisibilità forzata». Il riferimento è agli uomini e alle donne che preferiscono subire episodi di ostilità in silenzio piuttosto che pagare il prezzo conseguente al rendersi visibili come vittime e dunque come omosessuali. Si tratta pertanto di un problema assai noto nelle sue forme tradizionali, sulla cui lotta le organizzazioni lgbt hanno da sempre fondato il senso della loro azione. Ma i nostri attivisti individuano anche i segnali di alcune trasformazioni che aggravano il fenomeno dell’under-reporting e che, al tempo stesso, ne mostrano una faccia diversa.
101Da un lato, essi chiamano in causa il problema della depoliticizzazione dei membri della comunità; dall’altro, quello della diffusione di «nuove» forme di omofobia nascoste dietro atteggiamenti di apparente accettazione.
102Il primo aspetto, l’indifferenza di gay e lesbiche verso le diverse forme di attivismo e di mobilitazione politica, fa riferimento a fenomeni che da qualche tempo risultano centrali nel dibattito scientifico internazionale. Come abbiamo già considerato nei capitoli precedenti, a partire dal lavoro di Lisa Duggan è consuetudine riferirsi a tali fenomeni attraverso il concetto di «omonormatività». L’omonormatività sarebbe il prodotto di un tipo di politica sessuale di stampo neoliberale che promuove l’idea di un «elettorato gay demobilitato e di una cultura gay depoliticizzata e privatizzata, centrata sulla vita domestica e sul consumo» (Duggan 2003, 50, nostra traduzione). Da questo punto di vista, la mancanza di interesse verso l’attivismo sarebbe motivata dalla diffusione di un modello di omosessualità intesa come stile di vita privo di risvolti politici, vissuto dagli uomini e dalle donne all’interno dei legami primari e dei servizi di leisure resi disponibili dal mercato, accettando e riproducendo le regole del gioco della società eterosessuale. A questo proposito, gli attivisti che abbiamo interpellato interpretano l’under-reporting – almeno quello che coinvolge le loro organizzazioni – anche come effetto dell’indisponibilità delle vittime ad attribuire al proprio orientamento sessuale una valenza di critica sociale. Al massimo, la depoliticizzazione porta i soggetti a richiedere forme di riparazione individuali che consentano di vivere al meglio la propria condizione all’interno del sistema di diritti prestabilito.
103Anna (50 anni) ci dice che «il problema è che Arcigay e Arcilesbica sono equiparate al fare politica. Le persone dicono no, io non voglio essere politicizzato». Sulla stessa linea argomentativa si colloca anche Mirko (30 anni), per il quale il problema individuato dalle parole di Anna colpisce soprattutto le giovani generazioni di gay e lesbiche, più interessati al linguaggio del leisure che a quello dell’attivismo politico.
Tutto si muove in cene nelle case, in feste private e nessuno si fa vedere neanche alle feste ufficiali, e dopo li trovi tutti nelle dating app […]. Ma non si fanno vedere agli eventi lgbt perché identificano le associazioni come dei rompicoglioni che si stanno sempre a lamentare di qualcosa, e pensano che questo dia un’immagine negativa della popolazione lgbt.
104Dai frammenti sopra citati risulta chiaro che l’under-reporting non è motivato solo dal timore di risultare visibili come gay o lesbiche in seguito alla denuncia della vittimizzazione subita. Il problema non è esclusivamente l’omofobia interiorizzata delle vittime, concetto utilizzato da più di qualche intervistato. Le parole di Carlo (54 anni) mettono in luce in modo esemplare come il problema sia più complesso perché riguarda anche l’addomesticamento dei movimenti e la diffusione nelle comunità di un vasto consenso verso i meccanismi invisibili della norma eterosessuale:
Secondo me ci siamo normalizzati, nel senso che il movimento si è normalizzato, cioè ha perso la sua carica rivoluzionaria che aveva negli anni Settanta […]. Secondo me ha vinto la faccia ufficiale, hanno vinto quelli che hanno piazzato i gay nelle telenovela, nelle pubblicità a vendere mutande. [Lo stereotipo] è quello di un target economico […]. Esiste un bisogno, una voglia assoluta di, come dire, confondersi, di essere normali.
105Nel racconto degli attivisti, anche il secondo aspetto – quello delle «nuove» forme mascherate di omofobia – si lega ai processi di normalizzazione dell’omosessualità nella società eteronormativa. Se la «vecchia» omofobia si manifestava attraverso un’ostilità agita in modo esplicito, quella «nuova» riguarda modalità di squalifica più sfumate, dove l’ostilità è celata dietro esplicite dichiarazioni di accettazione che producono però il medesimo effetto di esclusione. Diego (45 anni) – parlando del suo lavoro di prevenzione e contrasto dell’omofobia nelle scuole – e poi Mirko (30 anni) toccano questo punto:
Emerge una forma di omofobia anche subdola. Non ti diranno mai che sono contrari, non ci sarà mai uno che si alza e che ti dice di essere contro gli omosessuali. Nel momento storico in cui siamo, in Italia è socialmente considerato non appropriato l’essere omofobo. Allora anche le amministrazioni più conservatrici e più fasciste negano proprio di essere omofobe. Anche se dopo questa negazione arrivano affermazioni assolutamente omofobe.
106Come sosteneva Anna Marie Smith (1994) in uno dei primi lavori sul fenomeno, la «nuova» omofobia è veicolata dagli oppositori politici delle organizzazioni lgbt che articolano il proprio dissenso usando argomentazioni «politicamente corrette». I nostri intervistati ci confermano che la retorica della «nuova» omofobia si rivela particolarmente efficace nei contesti territoriali dove solo molto raramente gli episodi di violenza cruenta contro le persone gay e lesbiche riescono a venire a galla. L’effetto che si produce è di diminuire le possibilità di riconoscimento dell’omofobia, imputando le eventuali cause a fattori contingenti che non hanno nulla a che fare con il «normale funzionamento» della società e delle sue istituzioni. Le esclusioni sistematiche vengono proposte come trattamenti equi che rispondono a logiche di funzionamento del sistema. Al tempo stesso, l’ostilità di cui gay e lesbiche fanno esperienza tende a essere inquadrata come problema individuale che colpisce solo chi ne è in quel caso vittima, in ragione di variabili diverse dal suo orientamento sessuale o – negli episodi più eclatanti – come conseguenza di un bias specifico del soggetto ostile.
3.3. Combattere l’omofobia: definire uno spazio per l’azione politica
107Dalle sezioni precedenti risulta evidente che l’obiettivo di contrastare l’omofobia pone diverse sfide alle organizzazioni lgbt. Alcune di esse segnano da tempo lo sviluppo e i contenuti della mobilitazione omosessuale non solo nei contesti del Nordest dell’Italia. Altre, invece, lanciano interrogativi inediti che inducono gli attivisti a ripensare il senso della loro presenza nel territorio. Da questo punto di vista, il racconto dell’omofobia e delle strategie per contrastarla riflette non solo la necessità di mettere in campo strumenti più efficaci per intercettare le vittime. In gioco c’è il tentativo di definire nuovi scenari di attivismo politico che permettano alle organizzazioni lgbt di legittimarsi come attore collettivo in un campo dove il consenso è percepito in fase di erosione.
108Detto con una metafora, gli attivisti avvertono la necessità di farsi spazio all’interno di una strettoia prodotta dall’intervento combinato di alcuni fattori che limitano le loro possibilità di azione. Le forme tradizionali di under-reporting contro cui le organizzazioni hanno sempre combattuto – rendendo visibile l’omofobia e promuovendo il coming out come strategia politica – continuano a rappresentare un ostacolo cruciale. Nel tempo, tuttavia, se ne sono aggiunti degli altri. Da un lato, la violenza omofobica su cui le organizzazioni intervenivano – come quella sui luoghi del battuage – è sempre meno visibile e difficilmente si fa tradurre in azione politica. Occorre quindi tenere in considerazione il fatto che l’ostilità antiomosessuale ha mutato le sue forme e si è fatta meno esplicita. Le retoriche del «politicamente corretto» con cui si argomenta il diverso trattamento delle persone omosessuali nascondono l’ostilità agli occhi dell’opinione pubblica e delle stesse persone gay e lesbiche, puntando a legittimare un’accettazione parziale e condizionata della differenza omosessuale. Dall’altro lato, le stesse persone gay e lesbiche si mostrano sempre meno propense a rivestire di un significato politico la propria omosessualità, preferendo la realizzazione di sé nelle sfere private dei legami primari e del leisure, e scavalcando le organizzazioni lgbt qualora dovessero chiedere aiuto per risolvere i problemi di vita quotidiana.
109Da questo punto di vista, i confini angusti dentro cui gli attivisti cercano di ritrovare il senso del loro essere movimento sono determinati dalle diverse facce di quella che, parafrasando Cirus Rinaldi (2013), possiamo definire «omofobia normalizzata». Qui, il concetto di normalizzazione allude sia alla difficoltà di sollevare il velo su forme di vittimizzazione ritenute ingiuste, sia all’interiorizzazione da parte delle persone gay e lesbiche delle condizioni che la società eterosessuale stabilisce per poter essere riconosciute.
110Al quadro che ritrae i limiti dello spazio d’azione politica in questo campo occorre aggiungere un ultimo elemento che abbiamo raccolto dalle interviste. L’approvazione nel 2016 della legge sulle unioni civili ha generato un diffuso malcontento tra le persone lesbiche e gay rispetto alle loro esperienze e aspirazioni di genitorialità. Alle coppie dello stesso sesso, infatti, non è riconosciuto l’accesso alle tutele e ai servizi previsti per i genitori eterosessuali (o agli aspiranti tali). Ciò si è tradotto in una moltiplicazione dei casi di «genitorialità misconosciuta» che le reti di supporto legale attive nella comunità lgbt hanno portato all’attenzione dei tribunali, e in specifiche piattaforme di mobilitazione elaborate dalle organizzazioni. Ma l’attenzione sul tema della genitorialità ha relegato ai margini della ribalta politica quella sul contrasto dell’omofobia attraverso gli strumenti penali e l’aiuto alle vittime nel quale le organizzazioni lgbt si erano impegnate negli ultimi anni. In sintesi, dal 2016 di omofobia si tende a parlare di meno, come ci dice Giulio (31 anni):
diciamo che con questa questione della famiglia, delle unioni civili, è passata un po’ in secondo piano la questione della legge penale contro l’omofobia e dell’hate crime, completamente.
111A fronte di tutto ciò, quali prospettive di senso emergono dal racconto della lotta contro l’omofobia prodotto dai nostri intervistati? La lettura del contesto che questi ultimi elaborano li induce a identificare nello «smascheramento» dell’omofobia l’obiettivo da perseguire per mantenere la propria centralità nel territorio. Nelle interviste l’uso del verbo «smascherare» è frequente, come lo è quello del verbo «stanare» riferito agli omofobi. L’elemento attorno al quale ruota il senso dell’azione politica è quindi l’idea di «rendere visibile quello che non si vede», senza illudersi di poterlo fare attraverso l’uscita allo scoperto delle vittime. «Quello che non si vede» non è solo l’ostilità che viene subita da chi non ha la forza o gli strumenti per denunciarla. La mobilitazione non è perciò rivolta solo a portare a galla la diffusione di episodi di squalificazione che sono già riconoscibili come tali dall’opinione pubblica e dalle istituzioni. «Quello che non si vede» è soprattutto l’esistenza – prima che la diffusione – di logiche di funzionamento dei rapporti sociali che sistematicamente generano svantaggi ai danni delle persone gay e lesbiche, ma che riescono a non farsi percepire come ostili. La mobilitazione per contrastare l’omofobia si gioca qui sull’idea di smascherare le trappole del «politicamente corretto», di rendere esplicite le limitazioni al riconoscimento che riproducono la disparità strutturale tra eterosessuali e omosessuali. Raccontando la realizzazione di una recente campagna di sensibilizzazione, le parole di Anna (50 anni) e di Mirko (30 anni) esprimono molto chiaramente questa parte di «lavoro da fare»:
L’intento di quella campagna lì era in realtà far venire fuori l’omofobia, quella della gente per bene. Quella che ti dice «io ho tanti amici gay, non sono omofobo perché ho tanti amici gay», però da qui a dire che gli omosessuali hanno dei diritti ne passa… Quindi l’intenzione di quella campagna in realtà era far venire fuori l’omofobia degli onesti. […] E appunto dalle polemiche sulla campagna è venuta fuori l’omofobia degli onesti. Nel senso che anche chi ci difendeva in realtà ci stava dicendo cazzate. La campagna mostrava un bacio, si trattava di un bacio. E questi pubblicamente dicevano… dicevano che sì, erano per i diritti e tutto quanto, ma che insomma il manifesto era un po’ oltraggioso. Offendeva il pudore. Ma tu allora cosa devi dire? Scusa un attimo, ci sono foto pornografiche di donne nude da tutte le parti, e per un bacio casto dici queste cose? Lì erano venute fuori tutte le contraddizioni, tutti quelli che dicevano «sì, ma vabbè, perché dovete mostrare il bacio? Siete degli esibizionisti».
Quella campagna è stata il primo tentativo, penso, di fare quello che stiamo tentando di fare oggi anche con i Pride. Cioè mettere davanti alla faccia delle persone queste tematiche e dir loro che questo esiste. Se siamo un territorio molto aperto, che non giudica le differenze, che è inclusivo… allora dimostratecelo, no? […] Noi vogliamo smascherare la falsa tolleranza, la farsa che si nasconde dietro al silenzio.
112Non si tratta certamente di obiettivi e temi nuovi per l’area di movimento lgbt. Ma la progressiva diffusione di spazi di riconoscimento sociale e formale, così come lo sviluppo di stili di vita «normalizzati» basati sul valore dell’intimità e sul consumo, danno nuovi impulsi a queste forme di azione politica.
113Far vedere che l’omofobia c’è anche se non si vede è un obiettivo cruciale per aspirare a una piena cittadinanza. Ciò è possibile mostrando come giudicare «eccessive» certe pretese di inclusione produca la stessa sofferenza e la stessa subordinazione che segnano i casi di violenza agita fisicamente. Parlando dei progetti di intervento nelle scuole, Diego (45 anni) coglie chiaramente questo punto:
Una delle situazioni più sgradevoli è quando abbiamo fatto gli incontri con i genitori. Noi facciamo intervenire i volontari e allora ti arriva il ragazzo che racconta di sé, di quello che ha vissuto a scuola. E di solito, quando uno racconta, cerca anche di dire «ce l’ho fatta, sono qui, parlo». Per cui quello che ascolta dice «beh, insomma, non ti è mica andata così male». C’è questa operazione di minimizzare, ed è una cosa terribile. Questo è uno degli aspetti più brutti dell’omofobia, cioè il fatto che tu sminuisci l’esperienza vissuta solo perché non hai ricevuto l’insulto, non sei stato picchiato. […] Per cui i genitori ti dicono «sì, va bene, ma perché fate il progetto se in realtà i casi che portate non sono così gravi?»
114Ma sollevare il velo che nasconde l’omofobia meno riconoscibile è importante anche per tentare di contrastare la depoliticizzazione dei gay e delle lesbiche. Parlando dei gay che «vivono comodi, non dicendolo e tenendolo privato», Mirko (30 anni) esplicita quale sia il target della lotta politica contro l’omofobia:
Il peggior tipo di omofobia con cui abbiamo a che fare è l’omofobia interiorizzata. È convincere tutte queste persone che quello che stiamo facendo è perché loro possano avere una vita migliore. Se adesso possono dire di essere omosessuali ai colleghi di lavoro è grazie a tutte le battaglie che sono state fatte.
115Il senso della lotta contro l’omofobia si gioca su questi due fronti, tra loro collegati. Dalla prospettiva degli attivisti che abbiamo intervistato, l’omofobia corrisponde a una realtà che riesce a nascondersi sia agli occhi dell’opinione pubblica, sia a quelli di una parte della comunità lgbt. La sua capacità di mascherarsi e nascondersi indebolisce la funzione politica e sociale dei movimenti che invocano la necessità di contrastarla. Questi ultimi rischiano seriamente di essere relegati ai margini del dibattito politico e di scomparire anche dall’orizzonte di senso delle persone gay e lesbiche. Da questo punto di vista, il racconto dell’omofobia degli attivisti individua uno spazio di mobilitazione cruciale su cui si gioca la permanenza in vita delle loro organizzazioni.
Notes de bas de page
1 Per maggiori informazioni sulle scelte metodologiche di questa ricerca, cfr. Trappolin, Motterle (2012).
2 Gli studenti di scuola secondaria di secondo grado sono cinque, le studentesse dello stesso ordine scolastico sono quattro. Gli studenti universitari iscritti a corsi di laurea o dottorati attinenti alle scienze dell’educazione, a materie umanistiche o psicologiche sono cinque, mentre le loro colleghe studentesse sono 22.
3 Tutti i nomi che compaiono in questo capitolo sono di fantasia.
4 L’odio è invece una reazione emotiva che risulta centrale nella letteratura scientifica e nel discorso pubblico, specialmente nelle versioni che ruotano attorno al paradigma degli hate crimes.
5 L’ipotesi che i rituali dell’omofobia tendano a scomparire una volta entrati nell’età adulta si trova anche in alcune analisi sociologiche. Un esempio è il lavoro di David Plummer (1999) che a questo proposito parla di homophobic passage.
6 L’esistenza di questo limite è stata ribadita – e per certi versi alimentata – dalla recente legge sulle unioni civili che non dà una copertura sistematica alla genitorialità già esercitata o attesa dai membri dei nuclei.
7 Tra gli esempi che qui proponiamo mancano gli episodi di squalifica implicita che probabilmente sono dotati della più alta capacità di assoggettamento, ovvero quelli agiti dalle istituzioni. Tra i nostri partecipanti, come vedremo più avanti, l’esperienza largamente più diffusa è il mascheramento della propria omosessualità di fronte alle istituzioni dello stato e negli ambienti di lavoro. Si tratta di una strategia che permette loro di evitare i rischi che vengono immaginati come altamente probabili.
8 La stessa Mason (2002, 96-117) distingue tra l’efficacia della violenza omofobica nel definire «cosa» siano gli omosessuali e la sua impossibilità di prescrivere «chi» essi siano, cioè come reagiranno alla violenza che li rende percepibili come collettività vulnerabile.
9 Il tema della percezione di rischi infondati è stato discusso in alcune ricerche italiane sulle scelte di coming out in famiglia da parte di madri lesbiche (cfr. Danna 2009) e sulle strategie di svelamento negli ambienti di lavoro (cfr. Lelleri 2011).
10 L’istituzionalizzazione del network di locali, saune e discoteche afferenti all’Associazione Nazionale contro le Discriminazioni da Orientamento Sessuale (Anddos) e la loro distinzione dai luoghi e dai servizi di Arcigay si è imposta all’opinione pubblica italiana nel febbraio del 2017, quando un reportage di una nota emittente televisiva privata ha messo in dubbio la legittimità dei finanziamenti pubblici ricevuti da un circolo Anddos. La questione ha avuto una forte eco politica e ha determinato le dimissioni dell’allora direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar) – Francesco Spano – che aveva elargito i fondi.
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