II. Raccontare l’omofobia sui media italiani
Storia sociale di un neologismo
p. 61-102
Texte intégral
1In questo capitolo ci proponiamo di delineare le coordinate della ricezione culturale del discorso sull’omofobia in Italia, così come delle sue appropriazioni politiche e normative. Lo facciamo a partire dall’analisi del suo progressivo ingresso nel dibattito pubblico attraverso i mass media. A tal fine sono state individuate due testate, “Il Corriere della Sera” e “la Repubblica”, che rappresentano una porzione significativa del discorso mediatico nazionale. La rilevanza di questi due quotidiani è relativa sia alla loro grande diffusione, sia alla predominanza del giornalismo su carta rispetto al web nel periodo storico considerato. La nostra analisi infatti parte dal 1979, anno del primo articolo analizzato, e arriva al 2007, anno in cui il termine acquisisce una decisiva diffusione1. Le domande che guidano questa riflessione sono: quando e come il discorso sull’omofobia entra del dibattito pubblico italiano? Come varia il suo utilizzo? In che modo il concetto viene incorporato nel linguaggio mediatico? Attraverso quali voci dominanti e quali significati d’uso si comincia a parlare di omofobia in Italia?
2L’analisi delle frequenze del lemma per anno permette di tracciare, per ognuna delle due testate giornalistiche, una traiettoria crescente piuttosto simile. In termini quantitativi i due quotidiani sembrano differenziarsi sensibilmente solo dal 2000 in poi. Questa disomogeneità, però, è da riferire esclusivamente agli articoli che compaiono sulle pagine locali o regionali, mentre il numero di articoli raccolti è piuttosto simile se ci si limita a considerare quelli usciti nell’edizione nazionale. Considerando solo questi ultimi si ottiene inoltre un netto ridimensionamento del loro numero totale (-46 per cento; da 1057 a 570) e, appunto, un sostanziale riequilibrio tra le due testate ( “la Repubblica”: 295; “Il Corriere della Sera”: 275). In questo modo, la sostanziale concordanza della traiettoria della parola sulle due testate, compresi i punti di svolta, appare ancora più chiaramente.
3Come dicevamo, il periodo di tempo selezionato è compreso tra il 1979 e il 2007, cioè dalla prima comparsa del lemma, in base alle nostre ricerche2, fino al momento in cui il neologismo entra massicciamente nel gergo giornalistico corrente come parola chiave del dibattito pubblico e politico di quel periodo. Il passaggio del concetto di omofobia da neologismo a parola diffusa riflette anche quello da un uso più specifico del termine, dovuto in buona misura alla voce dei rappresentanti delle grandi organizzazioni omosessuali italiane, a un uso più generalizzato frutto di molteplici appropriazioni da parte della maggioranza eterosessuale. Il focus sulla traiettoria mediatica dell’omofobia, con un lavoro genealogico volto a ripercorrere una parte rilevante della storia culturale di un’idea (cfr. Wickberg 2000), può fornire alcuni spunti di riflessione sugli sviluppi successivi e attuali del discorso pubblico che inquadra il problema dell’ostilità antiomosessuale.
4In Italia come in altri paesi, il concetto di omofobia – e le forze sociali, culturali e politiche che l’hanno sostenuto, istituzionalizzato e reso operativo – ha avuto un’influenza determinante sulla ridefinizione dei codici comuni del discorso pubblico (Santos 2013, 105). Ha permesso di nominare e ridefinire questioni e conflitti sociali e politici già esistenti, producendo un effetto di universalizzazione delle rivendicazioni espresse dall’area di movimento e dai soggetti non eterosessuali. Questo termine (anti) normativo ha portato con sé nella sfera pubblica un carico di significati, e anche di ambivalenze, legati ai particolari modi, attori e questioni a cui si applica. Analizzare un migliaio di articoli in cui compare il lemma omofob* significa quindi ritrovarsi, e perdersi, in una gran varietà di discorsi: per temi, soggetti coinvolti, voci, stili argomentativi, poste in gioco. Per questo motivo non si può parlare di un discorso sull’omofobia. In termini generali possiamo però affermare che il concetto rappresenta al meglio il processo, o almeno il tentativo, di «inversione della questione omosessuale» (Fassin 2005), ovvero il passaggio dalla criminalizzazione dell’omosessuale a quella dell’omofobo (Groombridge 1999; Yvorel 2011). In effetti, nello spazio pubblico e politico europeo il discorso sull’omofobia pare oscillare tra una difficile istituzionalizzazione, in alcuni paesi tra cui l’Italia, e un’istituzionalizzazione portatrice di ambivalenze, come quelle indicate dalla letteratura sul cosiddetto omonazionalismo. Più in generale, l’istituzionalizzazione dell’ (anti) omofobia nel discorso politico ha messo in evidenza i cambi di significato che possono avvenire nel tragitto che intercorre tra la pratica dei movimenti e la sua traduzione in politiche delle istituzioni (Pustianaz 2012).
5Per quanto in Italia siano molto forti le opposizioni all’istituzionalizzazione di politiche antiomofobia, anche qui il rigetto retorico dell’omofobia si è aggiunto a quello del razzismo o del sessismo come requisito «ideale» per la definizione di un sé positivo e moderno posizionato entro i limiti legittimi dell’arena politica democratica e liberale. In altre parole, anche chi si oppone alle politiche pro-lgbt o mantiene una visione negativa dell’omosessualità tende a rifuggire lo stigma che ricade su chi viene additato come «omofobo».
6L’accusa di «omofobia» è diventata negli anni uno strumento efficace di lotta politica. Mentre alcuni punti di conflitto – per esempio attorno alla richiesta del pari riconoscimento di alcuni diritti civili, come l’accesso al matrimonio, all’adozione o alla gestazione per altri – diventano naturali arene di definizione dei confini di ciò che debba o meno definirsi come «omofobia» dal punto di vista dei soggetti implicati nel dibattito. Se le voci esplicitamente omofobe, ovvero che si autodefiniscono tali, sono generalmente squalificate, attorno alle diverse qualificazioni del significato dell’omofobia è possibile tracciare alcune distinzioni tra diverse comunità d’interpretazione, anche all’interno delle stesse comunità lgbt. Per esempio, si può osservare come l’opposizione di alcune autodefinite lesbo-femministe alla pratica della Gpa (gestazione per altri) le abbia rese tacciabili di «omofobia» ad opera di altri soggetti attivi nell’area di movimento, spingendole di fatto ai margini dei movimenti stessi3.
7Sul fronte opposto, anche coloro che in questi anni hanno posto resistenza all’antiomofobia in nome della «difesa della famiglia» rigettano generalmente, almeno sui media ufficiali, lo stigma morale dell’omofobia. Tuttavia, ciò non impedisce che gli stessi soggetti possano portare avanti lotte politiche contro la concessione di determinati diritti alle persone lgbt, in particolare in tema di famiglia, rivendicando la difesa di un ordine sociale minacciato dalle rivendicazioni gay e lesbiche.
8Nel discorso ufficiale prodotto dai media o da rappresentanti delle istituzioni si confrontano quindi un uso generico e consensuale del concetto, riferito per lo più al rigetto dello stigma dell’omofobo4, e un uso più specifico e legittimato solo all’interno di determinate comunità d’interpretazione. Non è solo un problema di incoerenza tra dichiarazioni formali e atteggiamenti sostanziali, o di riproposizioni – più sensibili al «politicamente corretto» – di nuove forme di pregiudizio, come nel caso del «razzismo senza razzismi» (Bonilla Silva 2003). La posta in gioco è infatti più ampia, e riguarda sia l’accesso alle istituzioni eteronormative da parte di uomini e donne omosessuali, sia un processo di ridefinizione delle norme sociali per tutti e per tutte.
9Non ci occupiamo quindi di decostruire o svelare il discorso «omofobico» veicolato dai media, come fatto da altre ricerche (cfr. Clarke 2006; Venzo, Hess 2013), bensì di capire come i media costruiscano di volta in volta il significato pratico di questo concetto, fungendo sia da filtro che da specchio del paese. In altre parole: di cosa si parla esattamente quando si discute di omofobia sui media italiani?
10Prima di procedere con l’analisi, è opportuno fornire qualche dato che permetta un confronto – seppure a grandi linee – tra il discorso mediatico italiano e quello in altri paesi dove il termine si è affermato prima e in modo più pervasivo.
1. La traiettoria mediatica internazionale dell’ «omofobia»
11Come già detto, il 27 giugno 1972 sul “New York Times” compare un articolo in cui si parla del processo in seguito a un pestaggio subito da alcuni attivisti della Gay Activist Alliance5. Davanti al giudice, uno degli attivisti coinvolti nella vicenda apostrofa il suo aggressore con un’espressione allora poco nota, definendolo un «selvaggio omofobo» (homophobic savage). Ricordiamo che l’evento riportato avviene nello stesso anno in cui George Weinberg (1972) consacra il concetto di omofobia nella comunità scientifica grazie al suo libro Society and the Healthy Homosexual. Questa prima comparsa sul “NYT” potrebbe indicare – come già suggerito nel capitolo precedente – una ricezione del termine da parte dell’area dell’attivismo più precoce di quanto sia ipotizzato in letteratura. L’analisi delle frequenze del lemma homophob* in base all’archivio del “New York Times” (cfr. Figura 1) mostra comunque come la sua diffusione rimanga piuttosto trascurabile fino al 1985, quando il tema dell’aids entra prepotentemente nel dibattito pubblico provocando una nuova «ondata di omofobia». Analizzando la frequenze del termine su un altro quotidiano dell’area linguistico-culturale anglosassone, il britannico “The Guardian”, ci troviamo di fronte a un quadro piuttosto simile, seppur con qualche minima asincronia. La parola si presenta per la prima volta nel 1976, e il suo utilizzo rimane marginale fino al 1986, comparendo mediamente in un paio di articoli all’anno.
12Pertanto, sia per il “New York Times” che per “The Guardian”, il termine comincia a divenire di uso più frequente verso la seconda metà degli anni Ottanta, con un ulteriore slancio nel corso degli anni Novanta, quando su entrambe le testate gli articoli in cui compare la parola sono un’ottantina di media all’anno. Per fare un confronto, i giornali italiani presi come riferimento raggiungono frequenze comparabili circa 15 anni dopo.
13Il francese “Le Monde” ci fornisce un ulteriore metro di paragone internazionale. La frequenza del concetto di omofobia nel tempo su questo quotidiano presenta una traiettoria molto simile a quella del “Corriere”: la prima comparsa del termine avviene nel 1979 e l’uso rimane saltuario fino a oltre la metà degli anni Novanta6. Infatti, fino al 1994 non si superano i 6 articoli annui e in alcune annate il termine non compare in alcun articolo. Per quanto riguarda “Le Monde” le frequenze subiscono una decisa accelerazione dal 1998 in poi, in concomitanza con il dibattito sui pacs. La frequenza annuale degli articoli passa così da una media di 12 nel triennio 1995-1997, a una di 61 nel triennio 1999-2001, staccando di molto la media osservabile nel medesimo periodo nei due giornali italiani (attorno agli 8 articoli annui per testata nel periodo 1995-1997; e attorno ai 16 articoli annui per testata nel periodo 1999-2001. Un secondo punto di svolta per il quotidiano francese si può individuare nel 2004 (168 articoli in cui compare homophob*), quando l’omofobia è al centro di una proposta di legge da parte del governo di Jean-Pierre Raffarin.
14Il caso francese permette di riflettere anche sul particolare modo in cui è avvenuta la diffusione del termine nel contesto italiano. In entrambi i paesi, la consacrazione del neologismo si lega al suo ingresso nel dibattito politico nazionale riportato dai media. Tuttavia, mentre in Francia la messa in primo piano della questione «omofobia» si associa al varo di alcuni provvedimenti legislativi (Pacs nel 1999, norme antiomofobia nel 2004), in Italia il discorso sull’omofobia si consacra sulla stampa ma non si istituzionalizza nel campo politico. L’unica eccezione, ovviamente, è il D. Lgs 9 luglio 2003 n. 216 che attua la direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
2. L’omofobia in Italia: dall’importazione ai primi segnali dell’appropriazione mediatica
15Come abbiamo già ricordato, la prima comparsa del termine «omofobia» sul “Il Corriere della Sera” avviene in data 15 ottobre 19797. La parola appare in un trafiletto che riporta la notizia di una «marcia gay» organizzata a Washington per protestare contro «l’omofobia» degli Stati Uniti. Il termine, come accadrà spesso per diversi anni a seguire, compare tra virgolette, così come la parola «gay», restituendo il senso dell’esotismo di un vocabolario che finirà successivamente per imporsi anche in Italia. Bisogna però attendere gli anni 1985-1986 per trovare una prima questione pubblica a cui si lega il termine (cinque articoli; tre sul “Corriere”; due su “Repubblica”). I giornali riportano l’eco del dibattito negli Stati Uniti sull’aids, definito responsabile di una «nuova ondata» di omofobia. Si tratterebbe di una «fobia» antigay che si concentra soprattutto nei confronti della popolazione maschile, vista come responsabile della disseminazione dell’aids, definita una gay plague. Sempre nel 1985 compare anche il primo articolo in cui il rapporto tra «nuova» omofobia e aids è ricondotto al contesto italiano8. L’articolo porta la firma di Angelo Pezzana, che si presenta come attivista del «Movimento di Liberazione omosessuale fuori!»9. L’autore dell’articolo minaccia di querelare alcuni «medici malati di “omofobia”», accusati di strumentalizzare l’allarme sociale provocato dall’aids per stigmatizzare nuovamente gli omosessuali in quanto devianti e malati. L’uso del termine da parte di Pezzana risulta perfettamente in linea con la definizione originale di Weinberg (1972), che critica il discorso medico ribaltando la diagnosi patologica dal soggetto omosessuale a quello omofobo.
16In generale, durante gli anni Ottanta sui due quotidiani italiani si parla di omofobia facendo riferimento per lo più a notizie, avvenimenti e dibattiti che provengono dall’estero. Alcuni di questi dibattiti sono molto significativi e per questo vale la pena riportarli sinteticamente. Nel 1988 sul “Corriere” troviamo per esempio un articolo che riguarda gli Stati Uniti, molto rilevante per il dibattito internazionale sugli hate crimes che seguirà10. In un allarmante rapporto del Consiglio Nazionale delle Organizzazioni Religiose, si parla dei crimini d’odio nei termini di un «cancro» che sta «lentamente distruggendo» il tessuto sociale, le comunità e le istituzioni del paese. Si denuncia, in particolare, una «enorme ondata spontanea di violenza omofobica» e quindi si richiede l’istituzione di una Commissione d’indagine sui crimini d’odio deputata a quantificare le dimensioni del fenomeno11. Questa esperienza paradigmatica, vista dall’Italia, lega il discorso sull’omofobia alla percezione di una realtà sociale, quella degli Stati Uniti, in cui l’avanguardia rappresentata dalle rivendicazioni dei movimenti per i diritti civili si accompagna all’immagine di una società disgregata, ipermoderna e segnata dai crimini d’odio. L’Italia, di riflesso, sembra rappresentarsi come paese meno moderno e al contempo meno esposto a questo tipo di lacerazioni sociali12. L’omofobia degli Stati Uniti, riferita a un mix di bigottismo e ipermodernità, appare quindi con caratteristiche differenti da quelle percepite in Italia, più spesso riferite alla presenza di sacche di arretratezza culturale in tema di sessualità.
17Gli Ottanta, lo ricordiamo, in Italia sono anche gli anni del cosiddetto «riflusso nel privato». Nell’area dei movimenti omosessuali – prevalentemente in quelli maschili – prende forma la cosiddetta svolta istituzionale, avviata già alla fine degli anni Settanta, e costruita attorno all’obiettivo di introdurre la «questione dei diritti e della lotta per la riscrittura delle norme giuridiche legate alla condizione delle minoranze sessuali» (Prearo 2015, 63). Uno dei capisaldi della nuova politica dell’attivismo è rappresentato dalla nascita di Arcigay nazionale nel 1985: un movimento «meno d’avanguardia» e più «di massa», che cerca il rapporto con le istituzioni, utilizza i mass media e contribuisce alla creazione di una rete commerciale gay (ibidem). La politica istituzionale dei movimenti, quando si parla di omofobia, diviene quindi maggiormente visibile anche sui media. Questa svolta definisce i presupposti per cui già dai primi anni Novanta l’attivismo gay costituisce uno dei canali fondamentali per l’ingresso dell’omofobia nel linguaggio mediatico, a partire dalla voice di Arcigay e in particolare di Franco Grillini, presidente dell’associazione dal 1987 al 1998, che ne propone la stessa declinazione al maschile che abbiamo già visto nel dibattito scientifico internazionale.
18Passando dagli anni Ottanta agli anni Novanta troviamo una lenta e progressiva crescita nell’uso del termine sui giornali italiani. Nell’arco di un decennio (1990-1999) si contano una sessantina di articoli (61 articoli sul “Corriere” e 64 su “Repubblica”), con una media che ruota attorno ai sei articoli l’anno (cfr. Figura 2).
19Ma in quali contesti narrativi si nomina l’omofobia? Focalizzandoci sulle sezioni in cui compare il termine, possiamo osservare come il suo ingresso nel linguaggio giornalistico trovi un canale privilegiato nelle pagine dedicate a spettacoli e cultura (24 articoli su 61 sul “Corriere” e 27 su 64 su “Repubblica”) a fronte di una quasi totale assenza dalle pagine di politica interna. L’omofobia compare anche nella sezione della cronaca (26 per cento su “Repubblica”, 23 sul “Corriere”), eterogenea nei contenuti e che può comprendere argomenti di natura politica, mentre molto raramente si parla di casi concreti di violenza o vittimizzazione. Inoltre, anche nella prima metà degli anni Novanta si continua a citare l’omofobia soprattutto in articoli che trattano notizie dall’estero. Tra il 1991 e il 1993 nove articoli su 16 pubblicati sul “Corriere”, e 15 su 21 su “Repubblica”, riguardano in particolare gli Stati Uniti. Le cose iniziano a cambiare nella seconda metà del decennio, quando si comincia a nominare più frequentemente «l’omofobia» anche dentro il dibattito politico e culturale interno. Eppure, nell’intero decennio solo il 35 per cento delle notizie che compaiono su “Repubblica”, e il 47 per cento sul “Corriere”, interessano fatti o avvenimenti verificatesi in Italia. Ciò mostra come l’uso della parola sia legato all’importazione di un vocabolario ancora considerato alloctono.
20Altro dato interessante, già anticipato, è che l’uso della parola sia addebitabile in maniera significativa a rappresentanti delle grandi organizzazioni omosessuali italiane, dove la voce maschile è senz’altro dominante. Sempre negli anni Novanta, in 12 casi (su 64) su “Repubblica” e in nove casi (su 61) sul “Corriere”, l’uso del termine si deve precisamente a Franco Grillini, il quale risulta essere un attore determinante nel definire in quegli anni le connotazioni del concetto sui media. La sua figura è paradigmatica anche perché sintetizza uno dei tentativi più significativi di far convergere il vocabolario dei movimenti omosessuali con quello della sinistra italiana: tentativo segnalato anche dalla storica vicinanza della rete associativa dell’Arci al Pci prima, al Pds (dal 1991) e ai DS (dal 1998).
2.1. Il discorso sull’omofobia prima del Duemila
21Abbiamo visto come prima del 2000 si parlasse di omofobia soprattutto nelle pagine di cultura e spettacoli o in riferimento a notizie che vengono dall’estero. È comunque possibile selezionare un numero rilevante di articoli che parlano di omofobia nel contesto italiano. Ci soffermeremo in particolare sul discorso prodotto da Arcigay e successivamente su un primo tentativo di appropriazione della parola «da destra».
22Cominciamo proprio considerando l’uso del termine «omofobia» da parte di Grillini e di altre voci variamente posizionate nell’area dell’attivismo. Innanzitutto, la parola «omofobia», o l’accusa diretta a particolari soggetti «omofobi», è utilizzata in azioni comunicative a metà tra la mobilitazione culturale e il lavoro pedagogico. Come vedremo dall’analisi, le retoriche dominanti collegano l’antiomofobia al raggiungimento della maturità culturale del paese, a cui si chiede uno sforzo di modernizzazione dei costumi sessuali. L’omofobia è quindi primariamente una questione di arretratezza culturale, un test di «modernità sessuale» sia per i singoli individui (maschili) che per interi gruppi o cerchie sociali. A favorire questa retorica è una strutturazione del discorso sull’omofobia che si definisce in contrapposizione ad alcuni nemici tradizionali delle organizzazioni omosessuali e di una parte della sinistra italiana: i partiti e i movimenti neofascisti da una parte, e la Chiesa cattolica, con le sue ingerenze nella vita politica del paese, dall’altra.
23Possiamo trovare un esempio di queste retoriche nel modo in cui Grillini commenta l’espulsione di un giovane militante gay dal Movimento sociale italiano. Il partito viene definito come «sessuofobo, omofobo, bacchettone e bigotto»13. Oppure, quando il Moige (Movimento Italiano Genitori) chiede un intervento censorio al Governo «in difesa dei bambini» per un programma televisivo pomeridiano in cui si parla di omosessualità, Grillini parla di «sparata omofobica che viene da un gruppetto clerico-fascista e reazionario»14.
24In commenti come quelli sopra considerati, il vocabolario storico dell’antifascismo laico si sposa con una postura liberale e libertaria del movimento, in un’appropriazione «da sinistra» del discorso sull’omofobia. Il concetto di omofobia permette di sintetizzare un’intera sensibilità politico-culturale, andando oltre il semplice svelamento dell’ostilità antiomosessuale. Chi denuncia l’omofobia lo fa sostenendo l’ideale (maschile) di un soggetto liberale e moderno che si oppone simbolicamente al carattere «oscurantista» della religione e della tradizione.
25Il conflitto con la Chiesa occupa una posizione centrale nell’economia del discorso di Arcigay. Quando nel 1994 papa Giovanni Paolo II commenta alcune direttive dell’Europarlamento, affermando che esse conferiscono «un valore istituzionale a comportamenti non conformi al piano di Dio», proponendo agli europei «il male morale», Franco Grillini risponde parlando di «posizione delirante» e di «razzismo omofobico della gerarchia cattolica e del papa polacco»15. Il termine permette non solo di denunciare l’ostilità antiomosessuale delle gerarchie cattoliche, bensì di (s) qualificare le posizioni della Chiesa cattolica sull’omosessualità connotandole in termini almeno metaforicamente patologici. D’altronde, la Chiesa cattolica non viene accusata di omofobia solo dai rappresentanti dei movimenti italiani. Nel 1992 sul “Corriere” si riporta un dibattito avvenuto durante la conferenza dei vescovi negli Stati Uniti16. Alcuni vescovi statunitensi, tra cui un teologo consulente di New Ways (associazione di gay cattolici americani), attribuiscono al Vaticano un’espressione di «omofobia purissima», in seguito all’invio, da parte della Santa Sede, di un documento in cui si ribadiva che «l’omosessualità» dovesse essere considerata «un disordine oggettivo». Il conflitto tra i movimenti omosessuali italiani, e in particolare di Arcigay, e il Vaticano assume quindi i contorni di una contesa che non riguarda solo l’Italia, ma che semmai vede quest’ultima tra i paesi in prima linea contro una tradizione religiosa ostile verso gli omosessuali.
26È interessante notare come durante gli anni Novanta le squalifiche ufficiali dell’omosessualità operate da esponenti della Chiesa cattolica appaiono ancora poco consapevoli del cambiamento legato ai primi passi dell’istituzionalizzazione, almeno a livello di alcuni paesi e organismi sovranazionali, di un discorso antiomofobia. Riguarda proprio esponenti della Chiesa cattolica uno dei primi casi in cui si parla esplicitamente di omofobia dentro il dibattito politico italiano. L’evento scatenante è costituito dalla celebrazione simbolica di dieci «unioni civili» omosessuali tenutasi il 27 giugno del 1992 a Milano. La cerimonia, priva di valore legale, avviene in un luogo centrale della città, di fronte a Palazzo Marino, sede del comune milanese. L’iniziativa è promossa dal consigliere comunale, giornalista e attivista – ma non esponente di organizzazioni omosessuali – Paolo Hutter (Pds), con il sostegno di Franco Grillini e di Arcigay. Il Cardinale Silvio Oddi definisce la cerimonia un «gesto orripilante» e un «orrore che va ad aggiungersi ad altri orrori della civiltà materialista contemporanea»17. Nello stesso articolo, il promotore dell’evento Paolo Hutter risponde parlando di «reazioni scandalizzate delle solite macchiette dell’omofobia». In questo caso il concetto agisce da potente condensatore di una sensibilità politico-culturale in grado di svelare – e ribaltare – la violenza insita nel discorso della «nostra» tradizione religiosa.
27In altre occasioni spuntano però le prime ambivalenze insite nella riduzione del problema dell’omofobia a un fattore di modernità e maturità culturale. Questa ambivalenza emerge per esempio in un articolo in cui si parla dell’equiparazione tra scuola pubblica e privata18, laddove Franco Grillini, in una dichiarazione congiunta con Titti De Simone (Arcilesbica) afferma:
In Italia scuola privata vuol dire in massima parte scuola confessionale che per ora è solo cattolica ma che potrebbe diventare islamica, mormone, dei testimoni di Geova, confessioni fortemente omofobiche e razziste verso la diversità.
28Questa dichiarazione, seppur possa avere risentito del filtro giornalistico, rappresenta in modo esemplare il discorso praticabile sull’omofobia come fenomeno intrinsecamente legato all’influenza di tradizioni religiose ritenute in contrasto con i valori della modernità. Dieci anni dopo la si sarebbe potuta definire un’espressione retorica di «omonazionalismo» (Puar 2007), seppur operata in un contesto in cui le minoranze gay e lesbiche rimangono scarsamente riconosciute nel discorso sui valori della nazione. Eppure, proprio perché prodotto da una minoranza sessuale, questo discorso assume un significato molto rilevante per la definizione dei confini interni ed esterni della cittadinanza intima. Questo ci mostra, come dicevamo, il senso ambivalente delle retoriche antiomofobia nel momento in cui, per stigmatizzare i propri avversari «interni» (cioè i referenti simbolici della «nostra» omofobia), si può finire per ipostatizzare la premodernità di vari tipi di alterità culturale. Si tratta di un corollario imprevisto di un uso del concetto rivolto a promuovere il «nostro» raggiungimento della modernità. Questa conformazione delle strategie narrative carica l’omofobia di una connotazione universalista intimamente ambivalente, come accade in genere per qualsiasi richiamo alla «civilizzazione».
29L’azione comunicativa e pedagogica di Arcigay tramite i media non si rivolge però solo contro la Chiesa cattolica, o i consueti nemici politici. Si prendono di mira, tacciandole di omofobia, anche le rappresentazioni svilenti dell’omosessualità presenti nelle pubblicità, nelle canzoni o nei programmi televisivi. A essere accusati di omofobia da rappresentanti dei movimenti che accedono allo spazio mediatico sono spesso figure «rassicuranti» della cultura popolare: Mike Bongiorno, per esempio, viene accusato da una Consulta gay di essersi «macchiato di omofobia»19. Lo stesso accade a Renzo Arbore, cui si addebitano «cattiveria subliminale» e «pregiudizi sottili» contro i gay20.
30In termini generali, nel discorso di Arcigay riportato dalla stampa troviamo in questi anni due macroconnotazioni sovrapponibili ma distinte dell’omofobia. Da una parte, la si qualifica come una forma di razzismo, dall’altra come una forma di immaturità culturale. Le due connotazioni, nell’uso pratico del concetto, tendono a sovrapporsi, adattandosi agli obiettivi e ai target politici e dando forma all’argomentazione che associa l’omofobia a un difetto di modernizzazione. In altre parole, la retorica che assimila l’omofobia al razzismo o a forme di sciovinismo culturale, in particolare maschile o (neo) autoritario, si combina con una seconda versione, che abbiamo definito più ambivalente, che dipinge l’omofobia come sintomo di uno stato d’arretratezza culturale, sia individuale che collettivo.
31La cronaca ci restituisce anche le difficoltà incontrate delle organizzazioni omosessuali nell’agire in determinati contesti. Molto significative sono, per esempio, le dichiarazioni con cui Franco Grillini risponde all’aggressione subita da alcuni attivisti di Arcigay impegnati in una campagna di sensibilizzazione in un piccolo paese della Sardegna. Si tratta, in questo caso, di opporsi non a un partito o soggetto politico, bensì a una manifestazione di intolleranza apparentemente spontanea e «dal basso». La reazione del presidente di Arcigay è quindi rivolta a stigmatizzare la cultura «fortemente retrograda e discriminatoria» della Sardegna profonda21:
Questa aggressione dimostra che in alcune zone c’è una cultura fortemente retrograda e discriminatoria. Il razzismo omofobico manifestatosi violentemente ieri è tipico di tutte le società arretrate con cultura machista e matriarcale, come quella, appunto, che sopravvive all’interno della Sardegna. Sapevamo che questa campagna avrebbe comportato dei rischi perfino a Milano, immaginiamoci da altre parti, dove il machismo omofobico non è stato scalfito. È un caso forse se nella Sardegna è alto il numero dei suicidi tra gay, perché sottoposti, soprattutto nelle zone interne, a una pressione «ambientale» enorme?
32Si tratta di una dichiarazione che rappresenta piuttosto bene le coordinate del discorso complessivo sull’omofobia come indissolubilmente legato al persistere di modelli tradizionali di maschilità e, più in generale, al ritardo nel processo di modernizzazione culturale.
33Un’ultima connotazione ricorrente nell’uso del concetto di «omofobia», diffuso negli anni Novanta grazie all’influenza della voice dei movimenti, traduce la volgarizzazione di teorie scientifiche che nel tempo l’hanno collegata a un’omosessualità latente o alla paura di scoprire in sé delle pulsioni omosessuali (cfr. supra, capitolo i). L’accusato di omofobia – tipicamente un soggetto di genere maschile – vede operare su di sé una stigmatizzazione che ne denota sia una personalità irrisolta, sia l’interiorizzazione di un sistema di valori ancorato al passato e dunque inadatto al mondo moderno. Si ricorre in questo caso a metafore psicoanalitiche, restituite in modo esemplare da un articolo apparso sul “Corriere” nel 1993 con il titolo Onorevole, si sdrai sul lettino. L’omofobia di AN22, in cui Luigi Manconi (deputato dei Verdi) afferma:
Molti deputati di AN, dall’identità sessuale evidentemente fragile, camuffano la propria impotenza proiettando fuori di sé i propri fantasmi: aggrediscono, dunque, chi ritengono omosessuale perché non possono aggredire se stessi. C’è da preoccuparsi, in primo luogo per loro.
34Finora abbiamo analizzato alcune semantiche del concetto di omofobia riferibili ad attori sociali interessati a promuovere questo termine nella sfera pubblica come strumento di emancipazione per le soggettività gay e lesbiche. È interessante ora spostarci in altre aree dello spazio sociale per osservare come, già dagli anni Novanta, il nesso tra superamento dell’omofobia e raggiungimento della modernità avesse prodotto appropriazioni inaspettate del discorso sull’omofobia. Ci riferiamo in particolare al modo con cui alcuni rappresentanti dell’area politica di destra tentarono di sfruttare le potenzialità offerte dal discorso sull’omofobia per accreditarsi nel dibattito interno.
35Occorre qui aprire una breve parentesi. Nella postfazione alla traduzione italiana del libro Omofobia di Daniel Borrillo, Stefano Fabeni (2009) rinforza l’idea che la matrice fondamentale dell’omofobia nel contesto italiano sia «l’egemonia culturale di una tradizione religiosa» (ivi, 141), ovvero quella della Chiesa cattolica. Lo studioso rileva in maniera molto interessante anche come la fine della Democrazia Cristiana non abbia determinato quella dell’influenza cattolica sulla politica italiana (che comunque aveva visto gli italiani votare contro i precetti del maggiore partito cattolico rispetto a temi che riguardano la politica sessuale, come divorzio e aborto), ma abbia prodotto invece la distribuzione dei cattolici dentro vari soggetti politici, espandendone l’influenza. Fabeni afferma anche che «l’analisi dell’omofobia di destra non è particolarmente interessante» (ivi, 144). In effetti, più che l’omofobia espressa dalla destra, è interessante analizzare il significato attribuito al concetto di omofobia in quell’area politica, specie nel tentativo di rigettarne lo stigma morale. Senza dimenticare che l’interesse per la definizione operativa del concetto di omofobia utilizzata da alcuni partiti di destra o nazionalisti, specie nel Nord Europa, è alla base del dibattito sull’omonazionalismo sviluppatesi a livello internazionale nell’ultimo decennio. In altre parole, è guardando anche ai principali partiti conservatori di un paese (in quegli anni parliamo di Msi diventato poi AN, Forza Italia, Lega Nord, Ppi poi Cdu) che è possibile capire quale sia il grado di inclusione delle soggettività lgbt nel «quadro di famiglia» della nazione.
36Come caso paradigmatico si può assumere il dibattito politico che prende forma, dal 1994 in poi, attorno alla transizione del Movimento Sociale Italiano nel nuovo partito Alleanza Nazionale. L’operazione mira allo sdoganamento politico del partito erede del fascismo, che ora guarda maggiormente a un modello europeo liberal-conservatore. Durante questo processo troviamo una contrapposizione interna tra fautori di una nuova destra «moderna» e i difensori della tradizione politica erede del fascismo. In altre parole, non solo sull’omofobia si costruisce un test di modernità sessuale: questo termine è anche parte integrante del discorso sulla propria modernità. In un articolo apparso sul “Corriere” nel 199523, l’attivista gay Massimo Consoli invita Gianfranco Fini a fare «di Alleanza Nazionale una forza di destra europea, cioè un partito che non discrimina i gay, lasci i giudizi medioevali alle ininfluenti fasce di bigotti religiosi». Tuttavia, dentro lo spazio politico della destra italiana riflesso dai media, questo discorso non pare né consensuale né tantomeno maggioritario. Un esempio di discorso che «resiste» a questa ridefinizione dell’identità politica «modernizzata» ci è fornito nelle dichiarazioni di Francesco Storace (AN) riportate nello stesso articolo. Il politico difende il proprio diritto a utilizzare un linguaggio ridicolizzante verso i maschi omosessuali in nome di un comune sentire popolare ritenuto atavico: «Su cosa scherzano gli italiani? I carabinieri, i preti e i froci. Non per questo li odiano»24. Il discorso sull’omofobia è rigettato da destra come dittatura del politically correct ai danni del carattere spontaneo di un genere «popolare» ipostatizzato nei suoi tratti razzisti. L’evocazione del «popolo», in nome del quale si parla, fonda il rifiuto di una modernizzazione e di una cultura liberale, entrambe viste come esogene e aliene, che invece dell’odio percepiscono una «benevola» irriverenza popolare ( «Non per questo li odiano»).
37Sempre su questo tema, nel 1998 accade un altro fatto significativo. Gianfranco Fini, presidente di Alleanza Nazionale, afferma in televisione che una persona dichiaratamente omosessuale non dovrebbe svolgere la mansione di maestro elementare, alludendo ancora una volta alla matrice maschile – peraltro non dichiarata – del problema. Il “Corriere” dà voce al «filosofo di destra» Armando Plebe che definisce «questo aspetto omofobico» come un tratto «dell’infantilismo» della destra italiana, distinguendo così tra culture e persone «mature» oppure «infantili» e «rozze»25. A differenza che in altri paesi (come Olanda, Francia o Regno Unito), nel contesto italiano l’idea di una destra «moderna» costruita sul rigetto dell’omofobia pare istituirsi con fatica. Ciò non toglie che, anche a destra, emerga la necessità di rappresentarsi come non omofobi.
38Malgrado le notevoli differenze, e le posizioni molto lontane se non opposte, sia nel discorso di Arcigay che nel dibattito politico a destra il rigetto dell’omofobia appare come un banco di prova di modernità. Dopo la caduta del muro di Berlino, negli anni del trionfo dei modelli liberali e di mercato, e di proclamata «fine della storia» (Fukuyama 1992), il riconoscimento delle soggettività lgbt sembra inserirsi tra i risultati attesi, oltre che tra i sintomi, della raggiunta maturità liberale di un paese che possa dirsi finalmente moderno, secolarizzato e «al passo coi tempi». Per i soggetti eterosessuali, l’accusa di omofobia appare tanto più infamante quanto più, in questa fase, essa sembra ancora slegata da questioni politiche destinate a creare profonde contrapposizioni.
39In ultima analisi, negli anni Novanta utilizzare i media italiani per dirsi contro l’omofobia significa in molti casi fare mostra di vaghe prese di posizione gay friendly. La «tolleranza» verso l’omosessualità è infatti espressa genericamente nei confronti di «eccentricità» individuali, come prova del superamento di una cultura sessuofobica e segno di «apertura mentale».
3. Il Duemila anno di svolta
40A cavallo del 2000 si assiste a una trasformazione quali-quantitativa dell’uso della parola «omofobia» nel dibattito pubblico. In questo periodo si può parlare del compimento del passaggio dalla fase di importazione del termine alla sua appropriazione. I caratteri fondamentali di questo passaggio sono due: la crescente diffusione del termine nel discorso giornalistico e il suo ingresso massiccio nel gergo della vita politica nazionale.
41Si tratta di una trasformazione restituita con chiarezza dal suo tendenziale spostamento dalle pagine dedicate a cultura e spettacolo a quelle della politica e delle cronache italiane, con più forza a livello locale. Tra il 1984 e il 1999 le sezioni de “la Repubblica” in cui l’omofobia è nominata più spesso sono nell’ordine: cultura e spettacoli (41 % di cui solo «spettacoli» 30 %), cronaca (26 %) e politica estera (14 %). I dati del “Corriere” mostrano qualcosa di molto simile: cultura e spettacoli (35 %, di cui solo «spettacoli» 26 %), cronaca/cronache italiane (23 %) ed esteri (14 %).
42Se guardiamo invece al periodo 2000-2007 osserviamo come quasi la metà (48 %) degli articoli raccolti appartenga alle pagine locali. A seguire troviamo la politica italiana (13 %), la cronaca (9 %), cultura e spettacoli (9 %) e la politica estera (8 %). Cultura e spettacoli sono in linea generale le uniche sezioni a non vedere crescere l’uso della parola in termini di frequenze assolute, scivolando così in coda alle sezioni per quanto riguarda le frequenze relative. Sul “Corriere” il processo è piuttosto analogo, con la differenza del minor peso delle pagine locali. «Primo piano», sezione dedicata agli eventi del giorno e alla politica, risulta la sezione più rappresentata (28 %), seguita dalle pagine locali (24 %) e da spettacoli e cultura (16,5 %). Infine, se consideriamo il solo anno 2007, e teniamo fuori dal conto le pagine locali che rendono i due quotidiani poco comparabili, osserviamo ancora più chiaramente come l’uso del termine si sposti dalle pagine culturali a quelle dedicate alla cronaca e al dibattito politico nazionale. Il 47 % degli articoli di “la Repubblica” si colloca tra le pagine della politica interna (36 %) o in prima pagina (11 %), mentre il 60 % degli articoli del “Corriere” si situano tra primo piano (51,5 %) e prima pagina (10,5 %). Sia su “la Repubblica” che sul “Corriere”, infine, è molto rilevante il fatto che sull’intero periodo 2000-2007 gli articoli in prima pagina siano rispettivamente il 6 % e il 5 % sul totale. L’inclusione del termine omofobia nel linguaggio giornalistico italiano non è pertanto solo quantitativa, ma coincide anche con una maggiore visibilità e centralità.
43Vediamo quali sono i principali punti di svolta che hanno favorito questo riposizionamento del discorso sull’omofobia all’interno dei due quotidiani considerati.
44In primo luogo, vi è l’avvio di una nuova fase dell’attivismo lgbt. Se la svolta istituzionale dei movimenti viene fatta risalire all’inizio degli anni Ottanta (Prearo 2015), è al volgere del Millennio che i suoi frutti arrivano a piena maturazione, causando nuove contrapposizioni tra assimilazionisti e radicali dentro i movimenti (cfr. Trappolin 2004). Nel maggio del 2001 alla Camera dei Deputati vengono poi eletti per la prima volta (fatta salva la brevissima parentesi di Angelo Pezzana) due rappresentanti delle maggiori associazioni omosessuali italiane, il già ricordato Franco Grillini (DS) e Titti De Simone (Prc)26, espressione diretta delle organizzazioni lgbt italiane (Barbagli, Colombo 2001). Sono elezioni vinte dal centrodestra della «Casa delle Libertà» di Silvio Berlusconi. Bisognerà tuttavia attendere la loro rielezione nel 2006 (quando in Parlamento arriverà anche Vladimir Luxuria per il Prc), e la vittoria dell’ «Ulivo» di Prodi, perché la presenza dei deputati possa avere maggiore influenza sull’agenda politica del governo. Un altro elemento di svolta riguarda il cambio di governo. A Silvio Berlusconi succede, nel maggio del 2006, la coalizione di centrosinistra di Romano Prodi, che include tra le proprie fila, come dicevamo, alcuni rappresentanti delle maggiori organizzazioni lgbt italiane. Un anno prima era invece stato eletto papa Joseph Ratzinger, definito da Franco Grillini «un nemico degli omosessuali»27. Il conflitto culturale e politico italiano attorno all’omofobia nei due anni successivi sarà quindi segnato dalla tensione tra l’emergere del centro-sinistra, più disponibile a far proprie le raccomandazioni delle istituzioni europee sui temi che riguardano genere e orientamento sessuale, e una nuova leadership cattolica decisa a difendere la propria egemonia su temi etici. Addirittura in risposta «all’offensiva omofoba e sessista dell’allora pontefice Benedetto XVI» e del capo della Cei, cardinal Ruini (Prearo 2105, 73), nascono specifiche forme di mobilitazione, come il coordinamento Facciamo Breccia.
45Un rilevante punto di svolta nel fornire le coordinate culturali del significato dell’ «omofobia» nel discorso pubblico nazionale è costituito dal World Gay Pride svoltosi a Roma nel 2000. Dal punto di vista mediatico si comincia a parlare dell’evento almeno dal 1996, quando la proposta viene resa pubblica da Franco Grillini, in aperta polemica con la Chiesa cattolica. L’annuncio viene dato proprio dal Presidente di Arcigay nel contesto dell’ennesimo conflitto con la Chiesa attorno alle unioni omosessuali. Franco Grillini aveva parlato di «ossessione sulle convivenze gay», affermando che «non si era mai raggiunto nella storia della Chiesa un livello di omofobia tanto alto»28. Su “la Repubblica”, è Grillini stesso a dare al World Gay Pride del 2000 un significato fortemente critico verso le confessioni religiose «omofobe». Si legge29:
Sarà l’occasione – si infervora Grillini – per un confronto con e tra le confessioni religiose, per approfondire la riflessione sul rapporto fede ed omosessualità, per affermare la presenza di una soggettività gay lesbica non più disposta a tollerare l’omofobia da parte di nessuno.
46Di Pride si inizia a discutere in un periodo di forte conflittualità interna ai movimenti italiani. Nel 1996 Arcilesbica si rende autonoma da Arcigay, mentre il «caso» dei Pride nazionali nel 1997 divide profondamente le associazioni. Il conflitto ruota soprattutto attorno alla governance del movimento. Da più parti si denuncia la posizione dominante di Arcigay e quindi l’imposizione di una politica gay-maschile top-down (Trappolin 2004; Prearo 2015). La stessa organizzazione del World Gay Pride del 2000 sarà contesa tra Arcigay e il Circolo Mario Mieli di Roma, con quest’ultimo che finirà per avere la meglio guidando l’organizzazione dell’evento. Tuttavia di fronte all’opinione pubblica l’area di movimento sembra ritrovare una relativa coesione, se non altro nel respingere le censure preventive che cercheranno di ostacolare l’avvenimento.
47L’annuncio anticipato del primo World Gay Pride da tenersi nell’anno del Giubileo contribuisce quindi ad anticiparne la visibilità sulla stampa. Nel 1996 su “la Repubblica” la notizia viene data con un titolo roboante: «Siamo tre milioni». Il gay power marcia verso il giubileo30. Si enfatizza da subito anche il carattere internazionale dell’ «offensiva». In un articolo uscito nel marzo del 1998 sulle pagine romane del “Corriere” ritroviamo retoriche molto simili, seppur richiamando numeri meno ambiziosi: I gay: «Saremo un milione nel Duemila a invadere Roma»31. L’uso di metafore a effetto, peraltro comuni quando si parla di manifestazioni di piazza, incorniciano l’evento sui media come una prova di forza del movimento gay e lesbico, pronto a occupare per qualche giorno lo spazio pubblico. Nello stesso articolo del “Corriere”, nelle dichiarazioni degli organizzatori la provocazione al Giubileo viene messa in secondo piano. Al giornalista che chiede se si tratti di «un contro-Giubileo degli omosessuali dopo le recenti polemiche del movimento sull’ “omofobia” del Vaticano», Renato Sabbadini, portavoce del coordinamento dell’evento, risponde che non si cerca «alcuno scontro con la Chiesa cattolica»32. In gioco vi sono gli accordi istituzionali, anche a livello locale, necessari a promuovere l’iniziativa. Nello stesso articolo compare il commento di Francesco Rutelli, sindaco di Roma, che fin qui parla di «rispetto assoluto e disponibilità di dialogo da parte dei nostri concittadini».
48All’indomani dell’evento il dibattito si sposta invece sui modelli di rappresentazione pubblica messi in scena dai movimenti, ora autodefinitesi lgbt. Su questi si divide anche l’opinione pubblica left liberal di “Repubblica”. In un articolo apparso in prima pagina con il titolo: Quei gay delusi dal Gay Pride33, si parla di «americanizzazione», «spettacolo alla Walt Disney», «stereotipi della mossetta, e del travestito». Il dibattito sulla rappresentazione pubblica delle identità sessuali sembra, almeno a livello mediatico, prevalere sul piano della discussione propriamente politica e riguardante il riconoscimento di determinati diritti di cittadinanza.
49Malgrado di Pride se ne facessero da più di un decennio, l’evento di Roma del 2000 contribuisce a mettere in discussione i modelli di deferenza verso le istituzioni che dominano l’accesso legittimo allo spazio pubblico. Tuttavia, se l’obiettivo politico della visibilità di soggettività e di corpi che eccedono le norme eterosessuali viene raggiunto, si registra anche un parziale (in) successo sul terreno della legittimità dei tratti culturali di un movimento gay «globalista» e west-centred (Altman 1997). Con l’orgoglio omosessuale si afferma un’autorappresentazione cosmopolita e ipermoderna delle soggettività lgbt, contrapposta al provincialismo e all’arretratezza dei suoi «nemici», che costruisce in parte il discorso sulla maschilità disfunzionale degli omofobi, visti come maschi sessualmente irrisolti e mossi da pulsioni irrazionali. Anche all’interno dei movimenti c’è chi denuncia un processo di «normalizzazione», soprattutto laddove le richieste di riconoscimento si inseriscono in un ideale neoliberale di cittadinanza (Duggan 2003). Quest’immagine ambivalente dei Pride avrà effetti duraturi sulla rappresentazione «ufficiale» dei movimenti e sui suoi posizionamenti interni, imponendosi anche ai gruppi minoritari.
3.1. Lo sviluppo del significato dell’omofobia nell’anno del Giubileo
50La fine degli anni Novanta sembra quindi segnata sia dalle fratture dentro i movimenti lgbt che dalle ricomposizioni favorite, paradossalmente, proprio dalle posizioni ostracizzanti della Chiesa cattolica. Malgrado, come abbiamo visto, in alcune occasioni si eviti un conflitto frontale, il discorso sull’omofobia dei rappresentanti delle grandi organizzazioni omosessuali rimane focalizzato in modo rilevante sulla Chiesa. Nel 1998, a distanza di una settimana, si trovano due articoli sulle pagine di Roma di “la Repubblica” che ripropongono questo scontro. Nel primo Franco Grillini denuncia «l’oscurantismo» della Chiesa e in particolare parla di «moralismo ecclesiastico» e di «omofobia» espressa dalle sue gerarchie, come cause «della drammatica violenza sugli omosessuali»34. Nel secondo, lo stesso Grillini annuncia una manifestazione durante la visita del pontefice in Campidoglio per protestare contro «l’atteggiamento omofobo della Chiesa nei confronti degli omosessuali e delle violenze di cui sempre più sono vittime»35.
51L’ingaggio di una lotta politica con poste in gioco sempre più concrete attorno al tema dell’omofobia fa sì che si sottolineino maggiormente i legami tra la squalifica culturale e morale promossa dalle istituzioni religiose e la violenza vissuta dai soggetti non eterosessuali (soprattutto maschili) nella loro vita quotidiana. Con l’intensificarsi del conflitto politico, quindi, nei discorsi sull’omofobia si comincia a nominare la violenza e a collegare la vittimizzazione – vista nei suoi effetti più estremi – con il discorso legittimo, promosso dall’alto, delle gerarchie religiose.
52Il conflitto tra movimenti e cattolici taglia in modo trasversale gli schieramenti della politica istituzionale. In occasione del World Gay Pride del 2000 si rendono evidenti le prime fratture all’interno della coalizione di centrosinistra al governo, espressa esemplarmente dalla posizione del presidente del consiglio Giuliano Amato che, a poche settimane dalla manifestazione, qualifica come «inopportuna» la parata nell’anno del Giubileo36. Circa una settimana dopo arriva il ritiro del patrocinio del comune di Roma deciso dal sindaco Francesco Rutelli.
53Altri Pride europei nel frattempo danno grande risalto alle mobilitazioni contro l’omofobia, la quale diventa sempre più una parola chiave del vocabolario dell’attivismo globale mainstream. Nel 1999, riferendosi al Pride di Parigi, “la Repubblica” titola: L’Europa è dei gay. Cortei per 500 00037. Si descrive quindi un evento in cui «il centro della città ha visto sfilare centomila persone in una manifestazione dedicata alla battaglia contro l’omofobia».
54In continuità con quanto detto rispetto al discorso sull’omofobia dominante negli anni Novanta, l’imminente World Pride romano si prepara a essere, anche e soprattutto tramite queste anticipazioni, una prova di modernità e di europeità per il paese, a cui viene chiesto di rigettare la propria «omofobia». Questo palcoscenico internazionale crea le condizioni per una fondamentale internazionalizzazione dei movimenti italiani, realizzatasi, come è stato scritto, nell’immaginario di una «galvanizzata era della globalizzazione» (Prearo 2015, 34). La posta in gioco mediatica sembra essere non solo la promozione dell’agenda politica lgbt, quanto l’autorappresentazione dell’Italia e della sua «maturità» democratica agli occhi del resto del mondo occidentale.
55Nella lunga fase di trattative che hanno preceduto l’evento, le organizzazioni lgbt coinvolte utilizzano l’accusa di omofobia per stigmatizzare ipotesti di rinvio o di ghettizzazione dell’evento in spazi periferici della città. Sono accuse che ricadono anche sul presidente di un piccolo circolo Arcigay di Roma, accusato, dal circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, di usare «le parole della peggiore destra omofoba»38. Entrano qui in conflitto due ideali di democrazia. Il primo, fondato sul principio liberale del rispetto delle differenze, promosso anche dall’Unione Europea; il secondo, basato sul consenso e la sensibilità della maggioranza che, in questo caso, corrispondono a quelle della Roma cattolica nell’anno del Giubileo.
56Questa seconda versione dell’ideale democratico qualifica un punto importante del significato dell’omofobia sui media, la cui estensione è limitata dal rispetto dell’egemonia culturale, della «sensibilità diffusa». Essa viene utilizzata retoricamente soprattutto da coloro che non sono in sintonia con la manifestazione, e che chiamano in causa il rispetto di una maggioranza vittimizzata, evocando il «vilipendio», se non il «dileggio», della sensibilità popolare. Il sindaco di Roma Rutelli, per giustificare la decisione di ritirare il patrocinio del comune alla manifestazione (seppur non il finanziamento di 300 milioni di lire), afferma di non poter «chiedere di mettere il “timbro” della città su iniziative che possono ferire larga parte dei romani, oltre che la Chiesa. Perché il sindaco di Roma è il sindaco di tutti»39. Il timore verso «l’esibizionismo» e «l’indecenza» della manifestazione comincia a diventare sui media l’argomento principale di chi vuole censurare l’avvenimento.
57Si assiste anche a curiosi détournement delle retoriche politiche. Quando Storace (AN) chiede di rinviare il Pride, Imma Battaglia – presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli organizzatore dell’evento – parla infatti di superamento del «limite della decenza», accusando la destra di sfruttare la religione «per nascondere la sua vera ideologia razzista e omofoba»40. Nominando l’omofobia si ribalta lo stigma della decenza «pubblica» proiettato dalla maggioranza sulle «minoranze» sessuali, trasformandolo nell’accusa di mancato rispetto della decenza «morale» che una minoranza marginalizzata lancia contro la maggioranza.
58Con la manifestazione, a cui partecipano circa 500 000 persone, i movimenti cercano e ottengono una consacrazione basata sulla loro capacità di occupare lo spazio pubblico, mostrando un nuovo movimento di massa di fronte alla stampa locale e nazionale. Roma e l’Italia diventano anche l’oggetto dello sguardo orientalizzante dell’opinione pubblica internazionale. L’immagine di un’Italia arretrata, schiacciata da un’immagine «da macchietta» per i suoi conflitti culturali, viene giocata a proprio favore dagli stessi organizzatori. Sul “Corriere”, la direttrice del Pride Deborah Oakley-Melvin parla di «opportunità offerta dal Giubileo della Chiesa Cattolica», e altri membri del coordinamento internazionale sottolineano l’occasione insperata di «aprire un dibattito sulla religione e l’omofobia»41. Nello stesso articolo «i capi delle comunità omosessuali» concludono che non avrebbero «mai sognato tutta la pubblicità» che hanno regalato loro «il Vaticano e il sindaco di Roma». Tuttavia, il «ritardo» italiano tende a produrre anche l’autorientalizzazione dell’Italia, favorita dagli stessi movimenti, di fronte a un altro Occidente, più avanzato, in cui questi diritti sarebbero frutto di un consenso generalizzato e non problematico.
59A conti fatti, nel 2000 gli articoli in cui compare omofob* e che parlano direttamente della manifestazione sono soltanto otto: quattro compaiono sul “Corriere” e quattro su “la Repubblica”. Tuttavia è indubbio che la visibilità dell’evento abbia trainato l’ingresso della parola nel dibattito pubblico, come dimostra l’analisi delle frequenze.
60In entrambe le testate il conflitto simbolico pare costruirsi su due frame dominanti: da una parte si discute sul giudizio etico-estetico da dare alla manifestazione, da più parti accusata di mancanza di «rispetto» (per il Giubileo) e di indecenza ed esibizionismo, e quindi di aver portato un’eccessiva sessualizzazione dello spazio pubblico. Dall’altra, di fronte «al mondo che guarda», si fa prova di modernità ribaltando l’accusa di cattivo gusto su coloro cui si attribuisce lo «spregio omofobo» contro la manifestazione42.
61In occasione del World Pride del 2000 prendono forma anche i primi compiuti discorsi di coloro che rigettano l’accusa di omofobia pur opponendosi alle politiche della sessualità promosse dai movimenti lgbt. L’esempio, già citato, è quello della «maggioranza vittimizzata», non «omofoba», ma semmai offesa dalla spudoratezza e dall’esibizionismo delle «minoranze sessuali». Come dicevamo, i contro-discorsi sull’omofobia usano retoriche della decenza culturale per definire il grado di legittimità dei modelli di queerness (Trappolin 2004; 2009; 2015). Non è la prima volta che ciò accade, ma in questo caso il carattere internazionale della manifestazione spinge la Chiesa a utilizzare con più evidenza una retorica da «colonizzati», che ritroveremo in seguito nei movimenti antigender. Questa definizione del conflitto, in cui il discorso sull’omofobia trova i propri limiti nella valutazione degli habitus meritevoli, si ritrova in una notizia non particolarmente rilevante, ma significativa per restituire il clima del dibattito. Si tratta del coming out del ministro dell’agricoltura Pecoraro Scanio, dichiaratosi bisessuale in un’intervista sulle pagine di “Panorama”43. Il Ministro per le Politiche comunitarie Patrizia Toia (Ppi), si legge sul “Corriere”, risponde cercando di «schivare qualsiasi accusa di omofobia». Pone invece la questione sul piano del «senso della posizione» istituzionale di Pecoraro Scanio, ammonendolo sul fatto che la politica non possa diventare «una telenovela a luci rosse». Il coming out viene interpretato come caduta di stile, mancanza di «riservatezza», «esibizione della propria sessualità […] sconsigliabile per un personaggio politico». Il richiamo alla sobrietà e alla decenza agisce da strumento retorico con cui si cerca di rigettare l’accusa di omofobia e al contempo mantenere nel placard le soggettività non eterosessuali appellandosi al comune senso del pudore, in questo caso istituzionale.
4. Visioni dall’Europa
62A seguito dell’elezione di Silvio Berlusconi (Forza Italia), dal 2001 al 2005 l’attivismo pro-lgbt – ostacolato dalla presenza di un governo ostile – sembra cercare nuove vie istituzionali a livello sovranazionale. Sono anni in cui il governo italiano entra più volte in collisione con le istituzioni europee proprio a causa delle dichiarazioni «omofobe» di alcuni suoi esponenti. Lo spazio politico europeo sembra invece promettere spazi di manovra ben più ampi, laddove l’omofobia è già tradotta nel linguaggio giuridico di trattati e raccomandazioni. In questo periodo possiamo distinguere due tipi di fenomeni. Da una parte, soprattutto durante il governo Berlusconi, l’Italia è vista dall’Europa non solo come un paese «omofobo» ma più in generale come un paese in cui si presenta il rischio di una deriva autoritaria. Dall’altra, oltre alle raccomandazioni provenienti dalle istituzioni europee, arrivano in Italia gli echi di dibattiti che avvengono in paesi culturalmente vicini, come Spagna e Francia, attorno ai quali si ridefinisce il posizionamento europeo dell’Italia in tema di politiche della sessualità.
63Vediamo quindi quali sono gli avvenimenti principali attorno ai quali si focalizza il dibattito sull’omofobia. Il primo episodio di risonanza europea riguarda l’attacco subito dal sindaco di Parigi Dolanoe, che nel 2002 viene accoltellato. L’aggressore è un cittadino francese di origine algerina che gli si sarebbe avventato contro «con un pugnale a lama ricurva» e avrebbe dichiarato agli agenti che lo hanno arrestato di odiare «i poliziotti e gli omosessuali»44. In quel periodo il dibattito francese sull’omofobia si interseca sempre più con quello del fallimento dell’integrazione degli immigrati di origine extraeuropea, nonché dei loro figli e nipoti, nella società francese. In continuità con l’idea che sull’omofobia si definisca un conflitto tra modernità e arretratezza, comincia a delinearsi il confine tra l’auto-rappresentazione di una cultura nord-europea libera da pregiudizi sessuali e le culture dei migranti, soprattutto musulmani, ritenute portatrici di un alto grado di omofobia.
64Un altro episodio rilevante, di cui si discute anche in Italia, avviene in Olanda. Si tratta dell’omicidio di Pym Fortuyn, un uomo politico che difendeva «gli intoccabili (in Olanda) diritti dei gay, minacciati dall’omofobia di molti musulmani»45. Malgrado l’omicida risulti essere un attivista ambientalista assolutamente «bianco» e di origine autoctona, l’episodio viene letto come un segno che l’Olanda, in seguito alla pressioni migratorie, non sia più una «società aperta e tollerante», ma invece un paese dall’ «ingenuità perduta».
65Questi episodi segnano un passaggio fondamentale nella ridefinizione del significato pratico dell’omofobia nel dibattito pubblico europeo e internazionale. Si «scopre» che l’omofobia può servire a stigmatizzare, e non solo definire, le culture «non-moderne» e illiberali degli immigrati, che in Europa costituiscono ormai una fetta rilevante delle classi sociali meno agiate. Dall’Italia si scopre, in particolare, che il discorso ufficiale contro l’omofobia in Francia raccoglie un consenso politico trasversale. Esso si rappresenta come valore della maggioranza messo in pericolo dalla «degradazione dello spirito civile e repubblicano» (Patrick Bloche, gruppo socialista Consiglio di Parigi)46. Quando si parla di «rimuovere da Parigi e dall’Europa la macchia dell’omofobia»47, la distinzione tra un «noi» liberale, moderno e democratico, e gli hateful others (Haritaworn 2015) che fungono da immagine inversa di questa auto-rappresentazione è già parte integrante della costruzione dell’identità europea.
66L’accorata reazione dell’opinione pubblica italiana a questi episodi stride però con le resistenze che, a livello dei singoli stati nazionali, tra cui l’Italia, vengono poste all’implementazione delle direttive contenute nel trattato di Amsterdam del 1997, in cui si invitano gli stati membri ad attuare politiche e leggi contro la discriminazione per orientamento sessuale.
67Che la difesa degli omosessuali sia entrata nelle questioni di politica internazionale si vede anche in occasione della guerra in Iraq del 2003. Paolo Mieli, sul “Corriere”, parla di contraddizione per coloro che, ponendosi contro la guerra in Iraq, sostengono un dittatore che opprime le minoranze. Sergio Lo Giudice, presidente di Arcigay e quindi parte del fronte contrario all’intervento militare in Iraq, risponde rivendicando l’appartenenza all’Ilga, «l’associazione internazionale di gay e lesbiche» tramite la quale, afferma, «monitoriamo e denunciamo ogni anno le persecuzioni omofobe, a partire dalle condanne a morte in paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita o lo Yemen, degni eredi degli orrori degli stermini nazisti dei “triangoli rosa” o delle persecuzioni sovietiche»48. A pochi giorni di distanza viene pubblicata sul “Corriere” un’altra lettera49, in cui si parla di «benevolenza gay nei confronti dei persecutori», e si criticano gli atteggiamenti della sinistra e di Arcigay. Si reclama invece la legittimità di guerre portate avanti «per le libertà di tutti, contro le dittature di destra e di sinistra, contro omofobia, antisemitismo, misoginia». Interviene infine sulle stesse pagine anche un altro attivista omosessuale, Angelo Pezzana, il quale, criticando l’affiliazione politica a sinistra del movimento gay, sottolinea l’errore «di credere che essere rappresentati in un movimento avrebbe risolto tutti i loro [si riferisce ai soggetti lgbt] problemi»50. L’omofobia in questi anni diventa quindi sempre più questione di indirizzo del dibattito sulla politica internazionale. Nello stesso articolo, Pezzana elogia la democrazia di Israele, «unico paese del Medio Oriente in cui gay e lesbiche non sono discriminati dalle forze armate», nonché «il solo che offre programmi televisivi su gay, lesbiche e persone transessuali» e che «accoglie i gay palestinesi che fuggono dalla persecuzione omofoba nei territori occupati». In gioco, nelle parole di Paolo Mieli che seguono a commento, non c’è soltanto l’omosessualità, ma «la libertà e la democrazia».
68Nelle pagine della politica estera del “Corriere” troviamo altre due cronache rilevanti per la ridefinizione del discorso sull’omofobia nello spazio politico europeo, che invece mettono in luce le fratture sulle politiche pro- lgbt. La prima riguarda ancora la Francia, e in particolare il dibattito sulla legge antiomofobia del 2004; la seconda si riferisce alle leggi approvate dal governo Zapatero in Spagna nel corso del 2005. In Francia il governo di centrodestra guidato da Jean-Pierre Raffarin propone un progetto di legge contro le dichiarazioni discriminatorie sulla base del sesso o dell’orientamento sessuale. Il primo ministro dichiara di voler dare «un giro di vite nei confronti di una piaga sempre più allarmante: l’omofobia»51, pur dicendosi imbarazzato dal dibattito sul matrimonio omosessuale, rispetto al quale si dichiara decisamente contrario. L’idea è quella di varare una legge che modifichi «in senso restrittivo le norme – in vigore dal luglio 1881 – sulla libertà di espressione e di stampa» all’allargando all’omofobia le sanzioni già previste contro il razzismo. La politica del governo del primo ministro Raffarin, secondo il giornalista del “Corriere”, mirerebbe a un obiettivo più ampio52:
Rispondere alle recenti sollecitazioni del movimento gay e nello stesso tempo perseguire reati a carattere sessista commessi in nome di concezioni culturali o religiose. A questo proposito, l’assemblea nazionale vuole facilitare le espulsioni di immigrati considerati pericolosi per l’ordine pubblico.
69In Francia, come abbiamo già visto, si parla di omofobia in relazione al dibattito che riguarda il fallimento dell’ipotesi di in una società multiculturale53. L’appropriazione culturale dell’antiomofobia da parte della destra francese è restituita anche da un articolo molto significativo in cui si scrive che «la sinistra non ha più il monopolio della trasgressione e della rivendicazione», e «la destra non vuole più identificarsi con la conservazione dei valori, il buon senso dei benpensanti o peggio con il “machismo”»54.
70Anche in questo caso, ad alimentare il dibattito contribuisce un fatto di cronaca che crea una situazione di panico morale, in questo caso scatenato da una presunta aggressione omofoba. Il fatto in sede giudiziaria si concluderà con un «non luogo a procedere» per il sospetto che si sia trattato di un tentato suicidio per immolazione. Tuttavia l’affaire Nouchet, questo è il nome della presunta vittima, scuote fortemente e a lungo l’opinione pubblica, provocando manifestazioni e dibattiti. Malgrado questo clima politico, la norma antiomofobia viene ritirata perché in conflitto con i principi costituzionali di libertà d’opinione. Si vara invece un emendamento contro le discriminazioni per orientamento sessuale e si istituisce l’ «Alta autorità per la lotta a tutte le discriminazioni»55.
71La traduzione italiana del dibattito francese, e in particolare sull’opportunità di una legge antiomofobia che limiti la libertà d’espressione, si focalizza in gran parte sulla questione della censura dei discorsi considerati omofobi, tema che tocca da vicino la legittimità delle posizioni «maggioritarie» espresse anche dalla Chiesa cattolica. L’idea che la politica antiomofobia possa costituire uno strumento utile a regolare i rapporti tra una supposta maggioranza «bianca» e «tollerante» e le minoranze culturali «omofobe» figlie dell’immigrazione passa invece in secondo piano. Quando la legge inizialmente voluta da Raffarin viene bocciata, Ernesto Galli della Loggia dalla prima pagina del “Corriere” parla di «vittoria del buonsenso liberale»56. Secondo il giornalista, punire «un proposito discriminatorio a carattere sessista od omofobico può rivelarsi assai pericoloso per la libertà d’espressione». Questa presa di posizione, in un paese che punisce con la Legge Mancino l’hate speech razzista o religioso, si capisce meglio se inquadrata rispetto a un altro tema che inizia a entrare nel dibattito, ovvero quello del riconoscimento delle unioni civili e delle famiglie gay e lesbiche. Attorno al discorso sull’omofobia emergono più chiaramente delle fratture. Per esempio, la posizione di “Repubblica” rispetto alla medesima vicenda politica è piuttosto distante da quella del “Corriere”. Si appoggia infatti la proposta francese richiamando le responsabilità della «Chiesa, la destra e i benpensanti» rispetto al suo fallimento57.
72Il discorso sull’omofobia ha dunque permesso di definire una comune identità politica e culturale Occidentale, così come il dibattito sulle leggi e le politiche ha successivamente creato diversi schieramenti dentro specifici contesti nazionali. Per esempio nel 2004 alcuni esponenti del governo italiano e della Chiesa cattolica vengono accusati, in ambito europeo, di aver pronunciato frasi «omofobe», aggravate dalla loro posizione istituzionale. Il “Corriere” riporta, in piccolo, la prima pagina di “Libération” con il titolo «Le papiste fait de la résistance» dedicata a Rocco Buttiglione, che viene bocciato alla carica di Commissario alle Libertà pubbliche dal parlamento europeo per le sue frasi sull’omosessualità ( «è un peccato») e sul matrimonio ( «serve a far procreare la donna»)58. In seguito alla bocciatura di Rocco Buttiglione il ministro per gli Italiani nel Mondo, Mirko Tremaglia, rispolvera il tradizionale machismo della destra affermando: «Purtroppo Buttiglione ha perso. Povera Europa: i culattoni sono in maggioranza»59. Paradossalmente, mentre l’opinione pubblica italiana sembra riconoscersi nello spazio di un Occidente che ha fatto i conti con la propria omofobia, l’Italia entra nel novero dei paesi omofobi d’Europa.
5. La «controriforma» cattolica e la difesa della famiglia
73Nei primi anni del nuovo Millennio, con la progressiva visibilità dei movimenti lgbt e con l’importante influenza della politica europea (Bertone 2009; Grigolo and Jorgens 2010; Santos 2013), anche alla Chiesa sembra imporsi l’esigenza di appropriarsi, nei propri termini e in coerenza con le proprie posizioni storiche, del discorso sull’omofobia. In altre parole, pur ribadendo la propria contrarietà alle maggiori rivendicazioni dei movimenti lgbt, l’agire comunicativo dei rappresentanti ecclesiastici sulla stampa comincia a tener conto della necessità di rigettare l’accusa di omofobia.
74Il discorso mediatico di esponenti della Chiesa o di politici cattolici sembra basarsi su un doppio frame. Da una parte, l’agenda politica europea su alcuni temi etici, tra cui quelli riguardanti il riconoscimento delle coppie omosessuali, viene etichettata come «laicista», irrispettosa del consenso popolare e delle culture radicate nei paesi europei. Dall’altra, si fa propria una definizione minima di omofobia limitata alla salvaguardia, e all’accoglienza, delle persone non eterosessuali, che certamente non devono subire violenze e discriminazioni, ma la cui condizione rimane racchiusa nell’idea di una condizione morale di «disordine oggettivo». Queste due strategie discorsive, variamente presenti nelle dichiarazioni sui media, convergono nella rappresentazione dei movimenti lgbt come aggressivi, esibizionisti, offensivi del comune senso del decoro e pericolosi rispetto alla difesa dei minori. Tale pericolosità per la crescita dei minori viene argomentata ricorrendo a due retoriche di grande impatto: la presunta inadeguatezza dei genitori omosessuali e l’equiparazione – mai del tutto scomparsa – tra omosessualità e pedofilia.
75Mentre i movimenti lgbt continuano a lamentare la sudditanza dello stato italiano nei confronti dall’ingerenza della Chiesa in tema di famiglia e sessualità, alcuni esponenti delle gerarchie cattoliche italiane si lamentano di quella che a loro dire costituisce «un’imperante ondata di relativismo etico» proveniente dalle istituzioni europee60. La Chiesa contribuisce quindi a politicizzare ulteriormente il tema dell’omofobia facendone una questione di rapporti tra paesi e istituzioni sovranazionali. In tre articoli apparsi il 27 aprile 2007 relativi a una risoluzione europea «contro l’omofobia» (uno su “Repubblica” e due sul “Corriere”) si parla di misure che toccano da vicino le gerarchie cattoliche. Malgrado la risoluzione sia rivolta principalmente al governo polacco, fino all’ultimo, secondo alcune voci riportate dai giornali, questa sembrava contenere una censura esplicita e diretta all’indirizzo del presidente della cei Angelo Bagnasco per le sue posizioni contrarie alla legalizzazione delle unioni civili61. La proposta, sempre secondo la ricostruzione giornalistica, proveniva da tre eurodeputati italiani. In seguito a questo episodio, Rocco Buttiglione – già penalizzato un paio di anni prima in sede politica europea per le proprie dichiarazioni sull’omosessualità – e il Cardinale Ruini fanno proprio il motto «meglio Roma che Strasburgo»62. La denuncia della delegittimazione dei valori cattolici, addebitata alla sinistra, svela un conflitto tra aspiranti universalismi, quello liberale promosso dall’Unione Europea e quello cattolico che si pensa ancora dominante in Italia. Nel medesimo articolo, Rocco Buttiglione richiama il referendum fallito sulla fecondazione assistita, che non aveva raggiunto il quorum dei votanti. «Lì si è capito – afferma – che gli italiani non seguivano l’imperante ondata di relativismo etico». E conclude significativamente dicendo che «nessuno è a favore dell’omofobia ma non si può confondere l’omofobia con l’opposizione ragionata ai matrimoni omosessuali».
76Proprio perché l’opposizione cattolica alle politiche pro-lgbt deve porsi dentro una cornice retoricamente universalistica, diversamente da quanto avviene per le rivendicazioni di sciovinismo nazionale antiomosessuale, si rende necessario tracciare un confine tra usi ritenuti legittimi o illegittimi dell’accusa di omofobia. In altre parole, si rende necessaria un’appropriazione del concetto coerente con i dettami della dottrina, come si evince dalla seguente dichiarazione di Monsignor Luigi Bettazzi, teologo e vescovo di Ivrea, a commento del pestaggio di un attivista gay63:
Gli omosessuali non sono malati, ma diversi. L’omofobia è frutto di pregiudizio e ignoranza. La Chiesa non può autorizzare le unioni tra omosessuali, ma può accoglierli e rispettarli nella loro diversità. Pace è anche non mettere se stessi al di sopra di tutto, avere rispetto degli altri, anche degli emarginati e dei «diversi».
77Per quanto riguarda gli interventi di personalità del mondo cattolico sulla stampa, un’altra strategia retorica rilevata in riferimento all’omofobia è il tentativo di gestire e mantenere l’egemonia culturale cercando di enfatizzare la coincidenza tra le proprie posizioni e quelle espresse «spontaneamente» dagli italiani. Le retoriche universaliste di una Chiesa che «accoglie tutti» si legano così, per coincidenza degli opposti, alla difesa di un particolarismo culturale, quello italiano, che ha diritto di salvaguardarsi di fronte alle ingerenze sovranazionali ed europee. Leggiamo su “Repubblica”64:
Scola ha sottolineato che ogni giorno fedeli, preti e vescovi si occupano dei bisogni di tutti senza discriminazioni. E comunque, ha aggiunto, sul matrimonio e la famiglia il popolo italiano la pensa diversamente da francesi, tedeschi e inglesi. L’ex presidente della Cei, il cardinal Vicario Ruini, ha reagito con una frecciata rivolta alle maggioranze parlamentari di Strasburgo: «In Italia possiamo essere ottimisti, perché buona parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica sono consapevoli dei valori degli italiani».
78Il discorso dei rappresentanti della Chiesa non è ovviamente sempre coerente né monolitico, oscillando tra retoriche e pratiche di accoglienza e decise e dure squalifiche dell’omosessualità. La sintesi che se ne è fatta, sicuramente parziale, vuole semplicemente mettere in luce come il discorso sull’omofobia che troviamo sui media, quando interessa la Chiesa cattolica, si intreccia tanto con il tema della modernità quanto con quello del rapporto tra universalismi e particolarismi dentro uno scenario di globalizzazione politico-culturale.
79In effetti, sull’omofobia si definiscono fratture e prese di posizione, per quanto minoritarie, dentro la Chiesa stessa. Anche grazie alla spinta di associazioni gay e lesbiche cattoliche, si organizzano sedute collettive di preghiera per «le vittime di omofobia» o, come abbiamo visto, si promuove il rispetto per le diversità. Vi sono anche casi come quello che vede il Centro studi teologici di Milano reagire alle dichiarazioni del senatore di AN Ettore Bucciero, che nel 2002 si oppone all’idea di un Gay Pride a Bari, la propria città, in nome del «limite del buon senso e della soglia minima del pudore»65. I teologi milanesi si appellano all’Arcivescovo di Bari, Francesco Cacucci, e invitano gay, lesbiche e transessuali di Bari a denunciare alla magistratura l’esponente di Alleanza Nazionale poiché, dicono, «le sue espressioni, falsamente morali, costituiscono un vulnus pericolosissimo per la convivenza civile, poiché diffondono l’omofobia e il pregiudizio». Il Centro Studi, definito erroneamente da “Repubblica” «diretta emanazione della Curia meneghina», è in realtà un Centro Ecumenico, autonomo dalla Curia, che si occupa dell’inserimento sociale delle persone omosessuali. Tuttavia, queste posizioni di apertura provenienti da aree marginali delle istituzioni cattoliche non sembrano modificare la posizione dominante della Chiesa, preoccupata soprattutto dalla possibilità che le coppie omosessuali possano accedere al matrimonio. In gioco, assieme alla difesa di un ordine sociale e «naturale» sacralizzato, c’è ovviamente anche la legittimazione culturale di chi lo difende. Non si tratta solamente di opporsi a una modernità andata «troppo in là». Come pare evidente dai tentativi degli esponenti cattolici di appropriarsi del discorso sull’omofobia, si tratta anche di non subire «l’inversione della questione omosessuale» (Fassin 2005) che rigetta la delegittimazione morale dell’omosessuale proiettandola sull’omofobo.
80È sul tema della famiglia che si definiscono le poste in gioco fondamentali di questo conflitto. Ed è soprattutto rispetto alle posizioni su questo tema che anche le proposte che vorrebbero allargare alla discriminazione per orientamento sessuale la legge italiana su hate crime ed hate speech (la cosiddetta Legge Mancino) vengono osteggiate da coloro che sono preoccupati che le proprie posizioni – ad esempio contro il matrimonio tra persone omosessuali – possano essere censurate o sanzionate per legge come espressioni di «odio» omofobico. Dal momento in cui il rigetto dell’omofobia non riguarda più solamente un atto individuale segno di «modernità sessuale», e si costruisce su questioni vicine e «vischiose» (l’accesso al matrimonio, all’adozione, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita) che dividono l’opinione pubblica e sfidano il senso comune, l’uso del concetto tende a diventare più controverso, e paradossalmente anche molto più frequente.
5.1. Omofobia e unioni civili
81Le stesse rivendicazioni etiche possono ricoprire significati sociali, culturali e simbolici piuttosto differenti, sia entrando in sistemi comunicativi diversi come il diritto, la politica, la religione o l’informazione (King 2004), sia situandosi in diversi contesti storici e geografici. Éric Fassin (1998a) ha mostrato per esempio come, negli Stati Uniti, l’ingresso della questione del matrimonio delle coppie omosessuali nel sistema giuridico ne abbia parzialmente ridefinito il senso. La prima sentenza che lo ha reso possibile aveva ravvisato un problema di uguaglianza di genere, e non di discriminazione in base all’orientamento sessuale, basandosi sull’analogia con il problema della discriminazione razziale. In questa fase, sul piano politico e del dibattito pubblico, l’accesso al matrimonio per le coppie dello stesso sesso negli Stati Uniti si configura sia come rispetto del principio di eguaglianza fondamentale di ogni cittadino nella ricerca della felicità66, sia come soluzione liberal-conservatrice volta a regolare la sessualità degli omosessuali (soprattutto maschi) e combattere la diffusione dell’Aids (ibidem). Fassin ravvisa quindi come, diversamente dal caso americano, nel dibattito francese il matrimonio pour tous si configuri come questione di uguaglianza legata all’aggiornamento della tradizione laica e repubblicana. Tanto che, nel contesto intellettuale francese, si è iniziato a parlare di «eterosessismo differenzialista» (Borrillo 2001, 23) per delegittimare le posizioni che si oppongono ai «pari diritti», tra eterosessuali e omosessuali, in tema di matrimonio, adozione o procreazione assistita. Si tratta di un discorso che si ritrova, secondo Éric Fassin, soprattutto nell’opposizione dei socialisti al matrimonio delle coppie omosessuali (Fassin 1998b).
82Anche dentro il dibattito italiano che si svolge nell’area dell’attivismo lgbt, la rivendicazione del matrimonio è vista con sguardo ambivalente, seppur per tutt’altri motivi. Da una parte viene considerato come cedimento alla normalizzazione del movimento, dall’altra come principio di pieno accesso alle forme della cittadinanza intima fin qui monopolizzate dall’eterosessualità. Se le varie soggettività che compongono l’area di movimento possono dividersi rispetto alla priorità e al significato del matrimonio, la retorica dei diritti si rivela però estremamente efficace nel definire poste in gioco comuni su cui mobilitarsi in quanto minoranze misconosciute e oppresse.
83In Italia la proposta di allargare il matrimonio alle coppie omosessuali, inizialmente pensata come provocazione posta all’ordine eterosessuale, si configura già sul finire degli anni Settanta come ipotetica causa comune della mobilitazione (Prearo 2015). Sarà però a partire dagli anni Novanta che la questione diventerà una priorità delle lotte omosessuali a livello internazionale prima, e italiano poi. Un punto di svolta, per il dibattito politico, è rappresentato dalla «Risoluzione sulla protezione delle minoranze e le politiche contro la discriminazione nell’Europa allargata», la quale invita «la Commissione a presentare una comunicazione sugli ostacoli alla libera circolazione nell’Unione delle coppie omosessuali sposate o legalmente riconosciute». Il provvedimento viene immediatamente interpretato dai media come «un implicito invito a ridefinire il concetto di famiglia»67.
84Il 2005 è anche l’anno in cui vengono varate dal governo Zapatero in Spagna alcune importanti riforme in tema di cittadinanza sessuale, tra cui quella che allarga l’accesso al matrimonio alle coppie omosessuali. Il dibattito che ne segue permette di evidenziare come le definizioni di cosa possa essere o meno considerato come «opinione omofobica» sia variabile non solo all’interno di un contesto sociale, ma anche muovendosi da un paese europeo all’altro. Il caso spagnolo è particolarmente significativo perché, riguardando un paese simile all’Italia in quanto a carattere culturale e religioso, mette ulteriormente in luce il pluralismo delle definizioni operative del concetto di omofobia dentro lo spazio europeo, in particolare in relazione al tema del matrimonio e delle unioni civili. Il giornalista del “Corriere” incaricato di fare la cronaca della marcia delle famiglie a Madrid contro «le nozze gay», sottolinea un punto che riflette perfettamente le differenze dei due paesi cattolici e mediterranei. In maniera analoga a quanto potrebbe accadere in Italia, gli organizzatori della marcia rigettano retoricamente l’accusa di omofobia, seppur ammettendo che tra i partecipanti ci possa essere «qualcuno della minoranza omofoba di estrema destra»68. Ma l’aspetto più interessante è il fatto che essi si dicano favorevoli «all’equiparazione con le coppie di fatto», mentre ritengono offensivo «parlare di matrimonio», lasciando intendere un’apertura ai diritti delle persone lgbt impensabile per l’Italia e, quindi, una maggiore estensione del concetto di omofobia.
85Molto significativo, a questo proposito, è anche l’intervento del neo eletto presidente della regione Puglia, Nichi Vendola (Sel) a commento di quanto avvenuto in Spagna. Vendola, che parla in quanto omosessuale che fa politica e non in quanto rappresentante di organizzazioni lgbt, definisce la diversità italiana rispetto alla Spagna in termini di egemonia popolare e consenso politico-culturale. Come altri esponenti di sinistra nello stesso periodo, afferma69:
C’è un vincolo costituzionale che va rispettato; c’è una norma e una forma giuridica che fotografa una storia millenaria, la Costituzione italiana fissa nel matrimonio una tipologia di relazione, quella che lega un uomo a una donna.
86Vendola respinge l’ipotesi della sudditanza alle gerarchie cattoliche, e configura invece un problema di sensibilità culturale «da rispettare». Il suo discorso, che certamente va considerato anche in base a ragioni di opportunità politica, riflette la percezione dei limiti del discorso sull’omofobia nel dibattito pubblico italiano in quel dato momento storico. Per esempio, nel Pride nazionale svoltosi nel 2002 nella città di Padova, in una rete televisiva locale il portavoce della manifestazione bollava come inopportuna la richiesta politica di accesso all’adozione in un contesto che fa ancora fatica a confrontarsi con la questione omosessuale (Trappolin 2004, 212).
87Come vedremo, complici gli avvenimenti parlamentari e il forte interventismo della Chiesa, con esponenti cattolici sparsi in vari schieramenti politici e in tempi di cosiddetto «Ruinismo», su “Repubblica” la questione del riconoscimento formale delle coppie omosessuali viene letta nei termini di un conflitto che oppone i laici e i secolarizzati alle posizioni «omofobiche» espresse dalla Chiesa e da parte del mondo cattolico. La stampa, in particolare, dà ampio spazio al conflitto dentro la maggioranza di governo di centrosinistra, che contiene al proprio interno un’importante componente cattolica. Si rende popolare anche un neologismo, «teo-dem», per definire questa corrente di cattolici di sinistra.
88Nel 2006 Gasparri (AN), pur non appartenendo certamente all’area politica del centrosinistra, in un’intervista sul “Corriere” offre una rappresentazione esemplare delle retoriche che apparivano sui media di quel periodo70:
Mi metto nei panni di un operaio comunista che si ammazza di lavoro, che ha il suo codice di valori, e si vede candidare come capolista il simbolo del consumismo estremo, il consumo del corpo. […] I Pacs sono il cavallo di Troia del matrimonio gay. Cui noi ci opponiamo.
89Come abbiamo visto nell’analisi del racconto sui media del World Pride di Roma del 2000, la questione delle unioni di fatto e del matrimonio tra coppie omosessuali viene rimandato a un dibattito sulla legittimità culturale delle forme etico-estetiche dei movimenti. Uno degli effetti dell’opposizione simbolica ai movimenti lgbt, costruita sul rigetto dei loro stili di autorappresentazione, è anche quello di aver reso piuttosto invisibile sui media la parte di discorso liberale e di destra favorevole al riconoscimento dei diritti civili. Basti ricordare che la recente Legge Cirinnà sulle unioni civili è stata favorita, se non resa necessaria, proprio dal ricorso presentato da un esponente di GayLib, associazione gay liberale e di centro destra, alla Corte Europea per i Diritti Umani, ovvero il caso «Enrico Oliari e altri contro Italia»71.
6. Omofobia, emergenza bullismo e violenza urbana
90Abbiamo parlato finora di come l’omofobia sia entrata in diversi ordini del discorso situati tra l’arena politica e culturale. Vediamo ora come e quando si cominci a parlare di omofobia facendo riferimento a episodi concreti di aggressione, discriminazione o violenza. Un aspetto piuttosto curioso emerso da questa analisi dei media, infatti, riguarda la lentezza con cui il termine entra a far parte del vocabolario della cronaca, grossomodo a partire dalla fine degli anni Novanta.
91Sul “Corriere” è solo in un articolo del maggio 1996 che si trovano i primi casi di cronaca nera o di aggressioni ricondotti all’omofobia, dopo oltre quindici anni dalla prima comparsa della parola sulla stessa testata72. La denuncia della violenza omofoba avviene per voce del circolo di cultura omosessuale Mario Mieli di Roma che, in seguito a due omicidi registrati nella capitale in una settimana, denuncia una situazione di insicurezza e riferisce di decine di casi di «aggressioni, ferimenti, delitti feroci compiuti quasi sempre in una stanza da letto e senza uno straccio di testimone». La violenza che si vuole svelare è quindi quella, in gran parte nascosta, che segna gli ambiti del battuage e delle «marchette» e che dunque riguarda l’omofobia subita dai maschi omosessuali. Dopo queste morti violente che «hanno profondamente scosso la comunità gay della capitale» si chiede un incontro al questore per riproporre con forza il problema-sicurezza e cercare forme di collaborazione. Si cita anche un poco fortunato telefono verde, attivato due anni prima e sospeso «per mancanza di chiamate». Contestualmente, il Mario Mieli organizza una manifestazione per protestare «contro la violenza omofobica».
92Sui giornali si comincia perciò a parlare di politiche e servizi antiomofobia. Ciò avviene soprattutto sulle pagine locali delle due testate considerate, e in particolare su “Repubblica”. Qui il discorso politico e socio-culturale sull’omofobia trova ampia copertura e si arricchisce del tema delle fenomenologie della violenza, oltre che dare visibilità alle varie iniziative promosse da organizzazioni lgbt.
93Come abbiamo anticipato all’inizio di questo capitolo, dal punto di vista quantitativo le pagine locali costituiscono un ambito molto rilevante di ingresso del concetto di omofobia nel linguaggio giornalistico. Nel 2007, per esempio, il 53 % degli articoli raccolti da “Repubblica” riguardano le edizioni locali, riguardanti soprattutto le aree di Bologna (21 %), Milano (21 %) e Roma (16 %). È quindi prevalentemente a livello locale che emergono tensioni e casi di violenza politica, come a Bologna e a Firenze. Esemplare è il caso di Piazza Bellini a Napoli. In gioco vi è l’appropriazione di spazi di visibilità e di luoghi di socialità da parte della comunità lgbt locale, minacciata in questo caso da azioni e raid di gruppi organizzati delle tifoserie calcistiche. L’ambito locale, di fatto, è anche quello a cui hanno accesso altre voci dei movimenti, oltre ad Arcigay, e permette talvolta di cogliere più sfumature, e anche qualche conflitto, in merito per esempio alla gestione di un servizio antiviolenza conteso da diverse organizzazioni73.
94L’utilizzo dei fatti di cronaca per portare l’attenzione sull’omofobia, declinata in termini di violenza fisica e sessuale fino all’omicidio, diventerà solo a partire dagli anni 2000 un modus operandi ricorrente. L’esposizione delle vittime, anche tramite report più o meno ufficiali, diventa un modo efficace per conquistare spazio mediatico, rendere visibile un problema e giustificare la necessità di intervento. Entrare nelle logiche della comunicazione di massa significa però perdere, almeno in parte, la padronanza del discorso prodotto e inseguire le logiche di efficacia proprie del sistema dell’informazione che in parte sono estranee ai movimenti. Il palcoscenico mediatico agisce secondo le proprie logiche pratiche, e la visibilità dell’ «omofobia» dipende anche dal suo sapersi accordare con determinati copioni narrativi giornalistici consolidati. In questo caso la visibilità dell’ostilità antiomosessuale è funzionale alla causa dei movimenti che chiedono una legge antiomofobia, politiche locali, istituzione di servizi, e tende a configurarsi, per raggiungere una maggiore efficacia mediatica, come problema di insicurezza urbana o, più raramente, di bullismo.
95I casi più paradigmatici, nel periodo 2000-2007, rientrano proprio in queste due categorie di fatti. Il primo è l’omicidio di Paolo Seganti, compiuto in un parco pubblico di Roma nel 2005. Il secondo è il suicidio di un giovane ragazzo di Torino nel 2007 che era oggetto di prese in giro e di vessazioni da parte dei compagni di scuola. Oltre a questi due casi drammatici ve ne sono altri, come la violenza sessuale compiuta ai danni di una ragazza lesbica a Torre del Lago che porta l’attenzione anche sull’omofobia subita dalle donne. Questi e altri episodi, talvolta resi noti dalle stesse associazioni specie quando si tratta di violenza politica, sono utilizzati anche per creare un nesso tra l’ostilità antiomosessuale riprodotta dal discorso delle istituzioni italiane, e della Chiesa, e le «emergenze omofobia» raccontante dai media in riferimento ai casi di violenza più eclatanti accaduti nel biennio 2006-2007.
96Il successo di queste campagne dei movimenti si può ritrovare probabilmente anche nei risultati di diverse indagini (cfr. infra capitolo iv) che, negli ultimi dieci anni, hanno descritto l’Italia come uno dei paesi in cui la percezione della discriminazione e della violenza subite dalla comunità lgbt è più acuta. Inevitabilmente, però, le figure degli «omofobi» esemplari diventano persone, spesso marginali, al centro della cronaca nera.
97La continuità tra l’emergenza omofobia e la questione della sicurezza urbana produce così un parziale ribaltamento di quanto avveniva negli anni Novanta, dove sotto accusa erano prevalentemente i rappresentanti dell’ordine sociale e simbolico, spesso persone bene in vista, e dove si parlava di omofobia soprattutto come problema simbolico e culturale della «maggioranza». Gli autori di violenza sono infatti – citiamo da diversi articoli del “Corriere” – «giovani violenti», «sbandati», «clochard rumeni», «minorenni», «una banda di periferia», «un gruppo di teppisti», «balordi»74. Anche la violenza politica di alcuni «gruppi fascisti» sui media tende a essere incorniciata come problema di ordine pubblico causato da pochi estremisti facinorosi. Le logiche mediatiche del sensazionalismo e del richiamo all’insicurezza urbana sembrano quindi favorire un particolare tipo di visibilità e di attenzione sull’omofobia. Da una parte si rendono maggiormente evidenti alcune forme di vittimizzazione – almeno le più estreme – subite dalle persone lgbt (soprattutto di genere maschile) nella quotidianità. Dall’altra si tende a rimuovere l’ostilità strutturalmente presente nella società, malgrado i tentativi di collegare gli episodi di violenza all’omofobia delle istituzioni.
98Dopo il drammatico episodio di Torre del Lago, e a pochi giorni da una seconda aggressione subita da due giovani bolognesi per mano di «un albanese con precedenti per droga», al Viminale viene ricevuta una delegazione di parlamentari guidata da Titti de Simone (Prc). La richiesta è quella di «estendere gli effetti della Legge Mancino, che punisce la discriminazione razziale, etnica e religiosa, ai reati di omofobia»75. È rilevante ricordare che, pochi mesi prima, ovvero il 18 gennaio 2006, il Parlamento Europeo aveva votato, anche con i voti di parte del partito popolare, una risoluzione in cui omofobia e transfobia erano paragonate al razzismo. De Simone parla di «un’escalation di violenza che si registra ormai da mesi e non deve essere sottovalutata», mentre Rosalba Cesini, deputata dei Comunisti Italiani, aggiunge:
È sconcertante dover constatare che anche nella Bologna democratica si verifichino casi di intolleranza e violenza contro gay. L’ultimo episodio pone seri interrogativi sul preoccupante aumento di violenze ai danni della comunità omosessuale. Bisogna alzare la guardia contro quei gruppi e movimenti che fanno della discriminazione la loro bandiera politica, individuando non solo i responsabili degli atti criminosi, ma anche i loro mandanti.
99Questa narrazione restituisce il tentativo, «da sinistra», di far confluire il racconto sull’omofobia come violenza urbana – che si focalizza sulla figura di «omofobi» spesso socialmente marginali – in quello sull’omofobia come violenza politica, potendo così riportare l’attenzione sui «mandanti», ovvero le forze politiche e sociali ritenute ostili agli omosessuali. Anche le prese di posizione di esponenti della sinistra al governo, interessati a promuovere un clima favorevole al varo di una norma antiomofobia, sembrano dover far proprio il frame securitario, coniugando la retorica dell’antifascismo con quella della tutela dei gruppi sociali vittimizzati. In altre parole, grazie al discorso sull’omofobia è possibile dare al tema sicurezza una nuova colorazione politica. Questa strategia troverà il suo coronamento, e immediato fallimento, sul finire del 2007, con la bocciatura di una norma detta proprio «antiomofobia», inserita per volontà dei parlamentari dell’ala sinistra della maggioranza nel cosiddetto «decreto sicurezza».
7. Anno 2007: dall’emergenza omofobia alla consacrazione del termine
100In politica, e sui media, la definizione delle questioni urgenti è condizione essenziale perché se ne discuta. È quindi particolarmente significativo il modo in cui, nel maggio del 2007, il Cardinale Angelo Bagnasco elogi il Family Day e al contempo richiami i dati di Caritas e Fondazione Zancan sui «veri» problemi, per esempio l’ «allarme per i disoccupati ultraquarantenni, per la depressione e l’alcolismo»76. Prima che sulla definizione del problema, quello sull’omofobia è un conflitto che riguarda la sua stessa rilevanza sociale, ovvero sul fatto che se ne parli e venga nominata sui media. Si tratta di un aspetto, quello della visibilità dell’ostilità antiomosessuale e della sua rilevanza che, come vedremo approfonditamente nel capitolo iv, ha alimentato la produzione di dati in grado di delineare e quantificare le dimensioni effettive del fenomeno. Tramite le «cifre» della vittimizzazione – comprese quelle estremamente basse registrate da organi del Ministero dell’Interno – diversi soggetti politici cercano di imporre una propria rappresentazione «oggettiva» della diffusione e della rilevanza dell’omofobia. Le vittime e i loro corpi visibili permettono quindi alle associazioni lgbt di attirare l’attenzione sul problema e di renderlo evidente, portando casi esemplari o producendo report nazionali e internazionali77, alla luce del citato mancato monitoraggio da parte delle istituzioni dello stato.
101Oltre sul conflitto sui numeri che divide chi vuole mostrare la rilevanza del problema da chi al contrario la vuole negare, il dibattito sulla proposta di una norma antiomofobia si focalizza sulla sua pericolosità per la libertà d’opinione, specialmente quando si tocca il tema del riconoscimento delle coppie omosessuali. Come abbiamo già visto, chi vi si oppone teme che una legge che sanzioni i discorsi «omofobici» possa finire per essere applicata all’espressione di tale dissenso.
102Malgrado sul finire dell’anno si possa osservare un’impennata delle presenze della parola sui due quotidiani, e in particolare a dicembre, il punto di svolta più significativo per la visibilità del concetto di omofobia sulla stampa è situabile tra aprile e maggio 2007. In effetti, nei primi sei mesi del 2007 su “Repubblica” sono già 148 gli articoli che contengono omofob*, ben oltre, per intenderci, gli 87 totali dell’anno precedente. La stessa cosa si può dire per il “Corriere”, con i suoi 80 articoli, già oltre i 63 dell’intero anno precedente78. Possiamo ritenere che l’impennata di frequenze fatta registrare a dicembre rappresenti semplicemente il risultato della consacrazione del termine nel dibattito pubblico avvenuta nei mesi precedenti. La parola ricorre frequentemente da febbraio del 2007, nel momento in cui il dibattito politico è focalizzato sulla proposta dei Dico79. Un picco rilevante di frequenze si registra, inoltre, tra aprile e maggio in relazione al dibattito politico seguito al suicidio del giovane studente di Torino, e in occasione del Family Day del 12 maggio 2007. Nello stesso periodo giunge eco sui giornali anche di una nuova risoluzione delle istituzioni europee, che invita l’Italia a prendere provvedimenti contro l’omofobia. L’aumento delle frequenze registrato a dicembre, certamente la più rilevante dal punto di vista quantitativo di tutto il periodo storico considerato, è quindi dovuta al fatto che una norma inserita nel cosiddetto «decreto sicurezza» venga soprannominata «antiomofobia».
103Il titolo del Ddl cui facciamo riferimento è «Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza» (DL 181/2007). Un quinto degli articoli dell’intero 2007 dell’edizione nazionale di “Repubblica”, nonché l’8,7% del totale (periodo 1985-2007) in cui compare il lemma omofob*, esce in queste tre settimane. Sul “Corriere” l’impatto quantitativo è ancora maggiore: con il 30 % degli articoli del 2007 e il 14,5 % sul totale. A dicembre quindi il termine valica i confini della discussione politico-culturale, per entrare nel gergo mediatico riferito al dibattito parlamentare e delle istituzioni. Il testo comprendente la sopracitata norma viene approvato il 6 dicembre 2007, con ricorso al voto di fiducia e con una maggioranza risicata al Senato, dove decisivi saranno i voti dei Senatori a vita. Ed è in questa occasione che, all’interno della maggioranza di centro-sinistra, si pone la questione del dissenso di alcuni cattolici, e in particolare della Senatrice della Margherita Paola Binetti, psichiatra, che rischia di far cadere il governo votando contro quel provvedimento in nome della libertà di coscienza su temi etici.
104Un articolo del Corriere offre una rappresentazione plausibile di come l’omofobia sia entrata nel «mercato» politico80. Il giornalista ritiene che Paolo Ferrero (Prc) volesse che il «decreto sicurezza», considerato come un provvedimento di destra, contenesse degli elementi che impedissero al centrodestra di votarlo. Si ipotizza che Barbara Pollastrini (DS), Ministra per le pari opportunità, avesse a propria volta voluto levarsi «il problema» della legge antiomofobia, inserita nel Decreto, per poter far procedere più rapidamente la legge sullo stalking. L’aspetto più interessante, per quanto riguarda quest’analisi delle modalità d’uso del concetto di omofobia sui media, e delle sue appropriazioni politiche, riguarda però il conflitto, che ha ampio spazio sulle pagine dei giornali, tra cattolici e laici della maggioranza. La questione politica viene risolta dall’intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale segnala la presenza di un errore nella stesura del testo che lo rende irricevibile81. Alla voce storica e istituzionale dei movimenti, Franco Grillini, non resta che commentare dicendo che «una manina» avrebbe redatto il testo in modo «volutamente sbagliato». I titoli sul “Corriere” rendono evidente come il problema dell’omofobia si traduca in una questione di equilibri politici dovuta alle difficoltà del governo nel gestire il consenso dei cattolici: Maggioranza in difficoltà (8 dicembre, senza firma), PD, ai cattolici non basta una stanza (9 dicembre, Roberto Zuccolini). Il fallimento del provvedimento viene accolto quasi con sollievo: I Troppi Pasticci (18 dicembre, Massimo Franco), Sicurezza, addio al decreto «sbagliato» (19 dicembre, Maria Anonietta Calabrò). La vicenda sembra infatti concludersi con un ritorno al «buon senso», secondo la narrazione del “Corriere”, dove la mancata approvazione della norma in questione diventa occasione per ribadire il dovuto rispetto alla sensibilità dei cattolici rispetto al tema omofobia82. Piuttosto diverso, ancora una volta, il racconto di “Repubblica”, che mostra maggiore empatia per le sorti del decreto, e del governo83. Il ritiro dell’emendamento segna quindi la conclusione di questa vicenda mentre, un po’ paradossalmente, la consacrazione definitiva del termine «omofobia» nel linguaggio mediatico coincide con il suo primo esplicito fallimento politico. Fallisce al contempo il tentativo di mettere in relazione la lotta all’eteronormatività delle istituzioni – da tutelare spesso in nome della libertà d’espressione – con l’omofobia visibile, agita con la violenza e da reprimere con gli strumenti ordinari del controllo sociale. In conclusione, l’istituzionalizzazione del discorso dell’omofobia sui media si concretizza in definizioni d’uso limitate alle fenomenologie della violenza, senza intaccare le basi simboliche dell’egemonia della «maggioranza».
Notes de bas de page
1 Gli articoli sono stati raccolti sulla base della presenza del lemma omofob*. Si sono così potuti raccogliere tutti gli articoli in cui compaiono le parole: omofobia, omofobo/i/a/e; omofobico/i/a/he. Ne è risultata una collezione di 1057 articoli – 420 per il “Il Corriere della Sera” (1979-2007) e 637 per “la Repubblica” (1985-2007) – che rappresenta l’intera popolazione degli articoli di giornale pubblicati su queste due testate in cui viene citato il concetto di omofobia nelle sue diverse declinazioni come sostantivo e aggettivo.
2 La prima comparsa rilevata è frutto della consultazione dell’archivio digitale online del “Il Corriere della Sera”. L’archivio online de “la Repubblica” è reso disponibile solo dal 1984. Ricordiamo che “la Repubblica”, fondato nel 1976, è un giornale molto più giovane de “Il Corriere della Sera”, e solo verso la metà degli anni Ottanta diventa uno dei principali quotidiani italiani per tiratura e diffusione (Dati Accertamenti Diffusione Stampa consultabili su www.adsnotizie.it).
3 Si vedano le numerose e durissime reazioni, da parte di diversi esponenti nei movimenti lgbt, all’appello «di 50 lesbiche contro l’utero in affitto» pubblicato su “la Repubblica” il 26 settembre del 2016. Alcune di queste reazioni si possono ritrovare pubblicate sul blog «Eretica» collegato al sito de “Il Fatto Quotidiano”, in un pezzo dal titolo Maternità surrogate, anche le lesbo-femministe possono essere omofobe (www.ilfattoquotidiano.it).
4 Anche se non sono mancati casi esemplari di utilizzo di un linguaggio apertamente denigratorio persino da parte di esponenti politici e di governo: i più eclatanti, per il periodo considerato in questa analisi, sono avvenuti durante il secondo governo Berlusconi (2001-2005).
5 L. Fosburgh, Court Told Maye Beat Homosexual. Witness Describes Kicking Scene at Hilton Hotel, “New York Times”, 27 giugno 1972.
6 In questo caso facciamo riferimento esclusivamente a “Il Corriere della Sera” in quanto l’archivio de “la Repubblica” disponibile online non permette di risalire al periodo precedente al 1984.
7 Per la precisione, il trafiletto compare sul “Corriere d’Informazione”, un foglio pomeridiano collegato a “Il Corriere della Sera”, con il titolo: Cinquantamila «gay» marciano su Washington, 15 ottobre 1979 (senza firma).
8 A. Pezzana, Essere omosessuale negli anni dell’Aids, “Il Corriere della Sera”, 30 agosto 1985.
9 A.a Pezzana, occorre ricordarlo, ha svolto un ruolo molto significativo nella storia della mobilitazione omosessuale in Italia (cfr. Rossi Barilli 1999; Trappolin 2004).
10 A. Farkas, Quei «criminali dell’odio» che angosciano l’America, “Il Corriere della Sera”, 21 gennaio 1988.
11 Dopo due anni, nel 1990, verrà approvato, sotto la presidenza di George Bush, l’Hate Crime Statistics Act (28 U.S.C. § 534) che, seppur non nomini l’omofobia, include tra i crimini d’odio da monitorare anche quelli legati all’orientamento sessuale, proponendosi di tutelare in modo speculare le forme di «consensual homosexuality or heterosexuality».
12 Possiamo trovare un esempio paradigmatico di questa percezione in un articolo in cui si commenta la vicenda di un seviziatore e killer seriale (il caso Jeffrey Dahmer). Si parla di «brutalità» ma anche di «razzismo» e «omofobia» che interessano una città (Milwaukee) considerata «paradigma dell’intera società americana». Una società che, scrive il giornalista, «mentre si compiace di guidare il ventesimo secolo, ne riassume anche l’agghiacciante e caotica configurazione psico-deviante». Cfr. R. Giacchetti, Quando le donne piacciono a pezzi, “La Repubblica”, 16 ottobre 1991.
13 T. Visentini, Il camerata gay è stato cacciato dai giovani del Msi», “Il Corriere della Sera”, 12 gennaio 1993.
14 Programmi sui gay: genitori contro Italia 1, “Il Corriere della Sera”, 9 maggio 1998 (senza firma).
15 C. Muscau, È un messaggio che semina intolleranza, “Il Corriere della Sera”, 21 febbraio 1994.
16 R.R., Gay, scoppia la polemica tra il Vaticano e gli Usa, “Il Corriere della Sera”, 18 luglio 1992.
17 C. Brambilla, Il matrimonio delle coppie gay va contro la dignità umana, “la Repubblica”, 27 giugno 1992.
18 R. Zuccolini, La parità scolastica spacca il Pds, “Il Corriere della Sera”, 20 luglio 1997.
19 Busi: una canzone per Loredana Bertè, “Il Corriere della Sera”, 23 febbraio 1993 (senza firma).
20 M.Io, Gay contro lo spot di Arbore: ci ha offesi, boicottiamo quel caffè, “Il Corriere della Sera”, 9 marzo 1996.
21 C. Muscau, Grillini: machismo omofobico. L’antropologo: contraddizioni isolane, “Il Corriere della Sera”, 18 maggio 1996.
22 L. Manconi, 23 ottobre 1994.
23 L. Annunziata, AN, dimenticare le leggi razziali, “Il Corriere della Sera”, 27 gennaio 1995.
24 Vedi nota precedente.
25 F. Saulino, Plebe: macché incidente, è una sparata per recuperare i suoi elettori, “Il Corriere della Sera”, 10 aprile 1998.
26 Titti De Simone è stata anche una figura cruciale nel processo che, nel 1996, ha portato alla costituzione di Arcilesbica come soggetto autonomo, staccato da Arcigay.
27 Grillini: «Gay delusi è un nemico degli omosessuali», “Il Corriere della Sera”, 20 aprile 2005 (senza firma).
28 D. Chiappini, La Chiesa condanna le unioni gay a Roma, “la Repubblica”, 4 ottobre 1996.
29 M. Marozzi, «Siamo tre milioni». Il gay power marcia verso il Giubileo», “la Repubblica”, 28 ottobre 1996.
30 Vedi nota precedente.
31 R. Della Rovere, I gay: «Saremo un milione nel Duemila a invadere Roma», “Il Corriere della Sera (Corriere Roma)”, 17 marzo 1998.
32 Vedi nota precedente.
33 N. Aspesi, Quei gay delusi dal Gay Prid, ” la Repubblica”, 5 luglio 2000.
34 Vediamoci in sala da tè e noi gay saremo sicuri, “la Repubblica” (Repubblica Roma), 10 gennaio 1998 (senza firma).
35 M. Bisso, Ma i gay si mobilitano. «Chiesa, chiedi perdono», “la Repubblica” (Repubblica Roma), 15 gennaio 1998.
36 C. Maltese, Il dottor Purtroppo, “la Repubblica”, 25 maggio 2000. Secondo lo stesso articolo Amato si disse impossibilitato, da presidente del Consiglio, a impedire lo svolgimento del Pride, affermando: «Purtroppo dobbiamo adattarci a una situazione nella quale vi è una Costituzione che ci impone vincoli e costituisce diritti».
37 L’Europa è dei gay. Cortei per 500 000, “la Repubblica”, 27 giugno 1999 (senza firma).
38 «Storace ha ragione». Ed è polemica tra i gay romani, “Il Corriere della Sera” (Corriere Roma), 26 aprile 2000 (senza firma).
39 Gay Pride, Rutelli ritira l’appoggio, “la Repubblica”, 30 maggio 2000 (senza firma).
40 M.N. De Luca, Gay, crociata di Storace. «Amato, ferma il raduno», “la Repubblica”, 19 maggio 2000.
41 G. Buccini, Clinton: giugno mese dell’orgoglio omosessuale, “Il Corriere della Sera”, 4 giugno 2000.
42 M. Serra, Panico giubilare, “la Repubblica”, 30 maggio 2000.
43 F. Sa, Il ministro Toia contro Pecoraro Scanio: «Era meglio il silenzio», “Il Corriere della Sera”, 4 giugno 2000.
44 M. Nava, Una coltellata al sindaco di Parigi: «Odio i gay», “Il Corriere della Sera”, 7 ottobre 2002.
45 F. Battistini, «Non guardate a noi islamici, questo è un affare fra europei», “Il Corriere della Sera”, 8 maggio 2002.
46 Vedi nota 44.
47 S. Montefiori, Politici e omosessualità fra consensi e pregiudizio, “Il Corriere della Sera”, 7 ottobre 2002.
48 S. Lo Giudice, Le persecuzioni, “Il Corriere della Sera” (Lettere al Corriere), 8 maggio 2003.
49 G. Nuvoletti Libertà da tutelare. Benevolenza gay nei confronti dei persecutori, “Il Corriere della Sera” (Lettere al Corriere), 10 maggio 2003.
50 A. Pezzana e risposta di P. Mieli Ma in medio oriente chi difende i diritti dei gay?, “Il Corriere della Sera” (Lettere al Corriere), 12 maggio 2003.
51 Insulti «sessisti”. Fino a un anno di carcere, “Il Corriere della Sera”, 10 giugno 2004 (senza firma).
52 A. Grandesso, «Incitò all’odio razziale». Condannata la Bardot, “Il Corriere della Sera”, 11 giugno 2004.
53 M. Nava, La Francia e gli immigrati. «L’integrazione è fallita», “Il Corriere della Sera”, 26 giugno 2004.
54 Id., La destra francese sul carro del Gay Pride, “Il Corriere della Sera”, 27 giugno 2004.
55 Id., La Francia e le trappole della legge per la tutela dei gay. Ritirato il piano contro l’omofobia: minava la libertà di opinione. Proposta un’authority antidiscriminazioni, “Il Corriere della Sera”, 25 novembre 2004.
56 E. Galli della Loggia, Quei tribunali contro le idee. Leggi contestate: omofobia e diritti civili, “Il Corriere della Sera”, 29 giugno 2004.
57 Troppe proteste della destra, salta la legge sull’omofobia, “la Repubblica”, 24 novembre 2004 (senza firma).
58 G. Sarcina, Caso Buttiglione, sfida del Pse a Barroso, “la Repubblica”, 15 ottobre 2004.
59 Tremaglia sul «no» a Buttiglione: «Europa a maggioranza gay», “la Repubblica”, 12 ottobre 2004 (senza firma). L’episodio è riportato anche da Fabeni nella postfazione del volume di Daniel Borrillo (2001).
60 L. Salvia, Buttiglione: è vero, lì è peggio che in Italia, “Il Corriere della Sera”, 27 aprile 2007.
61 M. Politi, Il Vaticano attacca la UE. La Chiesa non è omofobica, “la Repubblica”, 17 aprile 2007.
62 Cfr. nota 58.
63 Monsignor Bettazzi: «Accogliamo i diversi», “la Repubblica”, 3 marzo 2003 (senza firma).
64 Cfr. nota 59.
65 R. Lorusso, Bucciero, un’onta per Bari razzista sugli omosessuali, “la Repubblica”, 7 luglio 2002.
66 Nella sua concezione del liberalismo, Hannah Arendt considera il matrimonio come un diritto primario (prima del diritto di voto) connesso al diritto più generale alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Le sue posizioni, espresse in Reflections on little Rock (1959) sono discusse da Didier Eribon in Réflexions sur la question gay (1999).
67 Risoluzione europea: va ridefinita la famiglia, “Il Corriere della Sera”, 20 giugno 2005 (senza firma).
68 M. Vignolo, Madrid, la marcia delle famiglie: no alle nozze gay, “Il Corriere della Sera”, 19 giugno 2005.
69 G. Casadio, Siamo diversi dalla Spagna, puntiamo alle unioni di fatto, “la Repubblica”, 23 aprile 2005.
70 A. Cazzullo, Gasparri: basta attacchi a Luxuria, non è uno sciocco, “Il Corriere della Sera”, 15 febbraio 2006.
71 Ricorsi n. 18766/11 e n. 36030/11.
72 F. Peronaci, Dieci delitti senza colpevole. Paura nella comunità gay. «Intervenga il questore», “Il Corriere della Sera” (Corriere Roma), 11 maggio 1996.
73 E. Sassi, Gay contro gay per il «telefono amico», “Il Corriere della Sera” (Corriere Roma), 28 settembre 2007.
74 Nell’ordine i titoli e la data di pubblicazione dei corrispettivi articoli del “Il Corriere della Sera”: L’ultima paura di Londra, le bande antigay, 8 novembre 2004; L’ex sarto ucciso, caccia a due sbandati, 25 ottobre 2001; Delitto gay, una fiaccolata nel nome di Paolo, 14 luglio 2005; I ragazzini che aggredivano gay e disabili, 23 dicembre 2004; Il risveglio amaro di Sébastien, il gay a cui una banda diede fuoco, 16 gennaio 2005; Coppia di gay italiani aggredita in Dalmazia, 11 settembre 2007; Insulti e botte, aggrediti tre gay, 3 novembre 2007.
75 R.R., «Violenze sui gay, pene più severe». Delegazione di deputati da Amato, “Il Corriere della Sera”, 9 settembre 2006.
76 M. Politi, Bagnasco esalta il Family Day e lancia l’allarme povertà, “la Repubblica”, 22 maggio 2007.
77 Vedi, a partire dal 2006, i report Arcigay basati sulla rassegna stampa dei giornali italiani, i quali producono una curiosa circolarità tra la violenza mediatizzata e quella oggettivata dal report stesso.
78 Si considerano in questo caso anche le pagine locali, aspetto su cui “Repubblica” si differenzia in maniera sensibile.
79 Dico sta per «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi», una proposta di legge presentata e discussa nel 2007 durante il secondo governo Prodi.
80 F. Verderami, Governo, la paura dell’effetto Natale, “Il Corriere della Sera”, 18 dicembre 2007.
81 Nel testo l’omofobia non viene nominata. Si chiede però, nell’articolo 1-bis comma 1 lettera a), di punire «con la reclusione fino a tre anni chiunque incita a commettere o commette atti di discriminazione di cui all’articolo 13, n. 1, del Trattato di Amsterdam». Il riferimento al Trattato risulta errato.
82 Cfr. V. Piccolillo, Bertone e il PD: «I cattolici non vengano mortificati», “Il Corriere della Sera”, 30 dicembre 2007; R. Zuccolini, Veltroni lo ascolti, la deriva laicista è un vero rischio, “Il Corriere della Sera”, 30 dicembre 2007 ().
83 Cfr. M. Serra, Se il PD non combatte l’omofobia, “la Repubblica”, 9 dicembre 2007; E. Scalfari, Cade, non cade, magari ce la fa, “la Repubblica” (prima pagina), 9 dicembre 2007; I. Marino, Perché è giusto punire l’omofobia, “la Repubblica”, 11 dicembre 2007; o E. Scalfari, È difficile essere laici nel paese delle chiese, “la Repubblica” (prima pagina), 16 dicembre 2007.
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