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    Plan détaillé Texte intégral 7.1. Perché così pochi ragazzi nelle professioni educative e di cura?7.2. Come si vive come gruppo di minoranza in un ambiente femminile?7.3. Le ragazze sono più portate per i lavori educativi e di cura?7.4. Cosa farò da grande? I progetti attuali e i sogni di bambino7.5. L’immagine del futuro7.6. Parlando di pari opportunità con i ragazzi Notes de bas de page Auteur

    Gabbie di genere

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    7. I ragazzi raccontano: la cura non è solo “roba da donne”

    Irene Biemmi

    p. 169-192

    Texte intégral 7.1. Perché così pochi ragazzi nelle professioni educative e di cura?7.2. Come si vive come gruppo di minoranza in un ambiente femminile?7.3. Le ragazze sono più portate per i lavori educativi e di cura?7.4. Cosa farò da grande? I progetti attuali e i sogni di bambino7.5. L’immagine del futuro7.5.1. «Vorrei diventare un fantastico maestro!»7.5.2. «Una famiglia, un lavoro e una casa: semplicemente»7.6. Parlando di pari opportunità con i ragazzi7.6.1. Discriminazioni nel mondo del lavoro come maschio?7.6.2. L’immaginario di genere nella società e nella famiglia d’origine7.6.3. L’immagine della propria famiglia futura: tra tradizione e cambiamento Notes de bas de page Auteur

    Texte intégral

    Uno tende a riprodurre quello che vede nel contesto sociale. Ciascuno poi singolarmente è libero di fare la scelta che vuole, ma il contesto sociale conta.
    (Giacomo, futuro terapista dell’età evolutiva)
    Io so solo che mi piaceva questa facoltà e son venuto qui, ci sarei venuto anche se fossi stato l’unico uomo in tutta Italia.
    (Matteo, futuro assistente sociale)

    7.1. Perché così pochi ragazzi nelle professioni educative e di cura?

    1Per iniziare a indagare l’immaginario professionale dei ragazzi, in relazione alla discriminante di genere, ho esordito con questa domanda: «Perché secondo lei così pochi ragazzi si iscrivono a questo corso di studio?». Grazie a questo spunto di riflessione i futuri maestri, educatori, assistenti sociali, infermieri, terapisti dell’età evolutiva hanno colto l’occasione per soffermarsi a ragionare su una questione che fino a quel momento avevano affrontato troppo frettolosamente, o che non si erano posti affatto. Come già accaduto con le ragazze di fronte alla domanda speculare ( «Perché così poche ragazze nelle facoltà scientifiche?»), alcuni ragazzi sembrano riflettere per la prima volta sul problema, perché molti di loro hanno fatto la propria scelta senza tenere conto e senza neppure essere pienamente consapevoli del fatto che il corso di studi che stavano scegliendo era frequentano in larga maggioranza da ragazze.

    2Analizzando le risposte, è possibile raggrupparle in alcune grandi categorie. Un primo gruppo di intervistati ritiene che la causa principale della segregazione formativa e occupazionale maschile sia determinata da pregiudizi culturali e famigliari, che hanno una precisa origine storica. In questo filone prettamente culturale sono collocabili le risposte di Francesco, Davide, Edoardo – futuri maestri – che analizzano i retaggi culturali sessisti che avvolgono il mestiere di maestro, facendolo apparire socialmente “inaccettabile” per un uomo:

    Il problema secondo me sta tutto nella politica gentiliana, risale tutto da lì. La maestra come mamma, il sesso femminile come sesso debole, la mamma angelo del focolare domestico… Son tutte cose legate al contesto culturale, soprattutto nel Sud Italia dove ancora c’è questa cultura maschilista dell’uomo capofamiglia – il “sesso forte” – e la moglie che nei piccoli paesi è vista ancora male se va a lavorare, se non sta a casa con i figli. Io la trovo una cosa vergognosa. (Francesco)

    Perché c’è ancora l’idea che il mestiere del maestro non è per l’uomo, è più per la donna. L’uomo è quello che deve fare proprio i lavori duri, queste cose qui. Invece secondo me ci dovrebbe proprio essere la parità di genere perché al bambino serve la figura maschile e la figura femminile. Ci dovrebbero essere proprio più uomini. (Davide)

    Tornando ai ragazzi che non si iscrivono qui secondo me è anche perché fare il maestro non viene visto come un lavoro maschile. Ci sono tanti stereotipi ancora non sorpassati nel nostro paese. Sembra un lavoro da poco, tipo «te vai a fare il maestro per non fare nulla, ti prendi lo stipendio per non fare niente». Quindi per una donna è accettabile ma per un uomo no. (Edoardo)

    3Marco, futuro infermiere, coglie con estrema lucidità la natura appresa dei ruoli di genere che vengono interiorizzati nelle proprie esperienze di vita, in particolare nell’ambiente famigliare:

    E poi non so se ci sia anche un indirizzamento… Non credo tanto alla “natura” del genere, credo piuttosto che uno si costruisca una propria idea dei ruoli maschili e femminili tramite l’esperienza, anche attraverso le esperienze famigliari. Per esempio nella mia famiglia c’è una distinzione dei ruoli di genere in famiglia che vivendola viene assorbita. La mamma si è sempre occupata del bambino fino a una certa età, poi magari subentra di più il babbo. Lo stesso vale per gli anziani. Per esempio è successo che si sono ammalati i nonni da entrambe le parti. Mia madre si è occupata di sua madre, mentre mio padre ha demandato ad altri di occuparsi della madre proprio dell’aspetto fisico, tipo infermieristico, l’ha demandata a una badante. Quindi è un perpetuarsi. Poi magari lentamente persone che fanno scelte diverse ci sono e fungono da modello… (Marco)

    4Anche Matteo, Federico e Giacomo sottolineano con forza i condizionamenti sociali che limitano fortemente le possibilità di scelta individuali:

    Retaggi culturali… Anche a scuola alle superiori ti dicono «a Ingegneria ci vanno i maschi», per cui un ragazzo se è indeciso opta per Ingegneria mentre una ragazza se è indecisa scarta Ingegneria e fa altro, per esempio Scienze del servizio sociale… Non c’è tanta voglia di cambiare in Italia. (Matteo)

    Anche i miei amici mi dicono: «Ma come? Quella non è una cosa di cui si occupano le ragazze?». E io gli spiego che se uno fa bene un lavoro, in maniera efficiente, maschio o femmina non conta. Però per tanti conta. (Federico)

    Secondo me è perché si lavora con i bambini e quindi forse anche per rievocare la figura materna ci sono più ragazze. Tutta la scelta dei percorsi di studio è legata a un contesto sociale: il fisioterapista lo vedi come “il” fisioterapista, non come “la” fisioterapista. L’infermiere lo vedi come una donna nell’immaginario sociale. E si va avanti così: è una cultura che continua. Uno tende a riprodurre quello che vede nel contesto sociale. Ciascuno poi singolarmente è libero di fare la scelta che vuole, ma il contesto sociale conta. (Giacomo)

    5All’interno delle motivazioni di origine culturale rientra anche un insieme di risposte che puntano l’attenzione sullo scarso riconoscimento sociale di certi mestieri – il maestro, l’infermiere, l’assistente sociale.

    Me lo chiedo anch’io… Per me è stato naturale! Chi l’ha detto che insegnare è una professione “da femmine”? È una questione sociale… L’istruzione che si dà alle elementari è un’istruzione appunto “elementare”, per cui la gente può pensare che fare il maestro sia una cosa banale, che può fare chiunque, infatti molti non si sanno neanche spiegare perché serva un’università per fare i maestri. Io invece l’ho sempre vista come una cosa molto importante, molto ricca. Quindi perché un ragazzo non dovrebbe voler fare il maestro? (Gabriele)

    6Lo scarso riconoscimento sociale si lega anche a un pregiudizio diffuso secondo cui svolgere certe attività legate alla cura e all’assistenza alla persona siano “degradanti” per un uomo (mentre, di nuovo, risultano accettabili per una donna).

    Perché per alcuni è difficile accettare di pulire una persona, o assisterla o svolgere compiti più… inferiori. Io so di alcuni miei amici che volevano fare infermieristica e non l’hanno fatta perché hanno saputo che all’inizio è dura, devi fare mansioni anche un pochino degradanti, un pochino schifose e non l’hanno fatta per questo motivo. Tipo l’idea di pulire la persona o mettere il catetere non li attrae molto… (sorride). E quindi la schifano questa professione. (Andrea)

    Da una parte credo ci sia il livello di dignità della professione, per come è percepita, non per come è realmente. Anche di quanto le mansioni che andrai a fare siano decorose… Alla fine l’immaginario è quello di svuotare padelle! (ride). Secondo me questa cosa può contare molto nell’allontanare i ragazzi da questo settore. (Marco)

    Poi c’è il fatto che certi interventi che deve fare l’assistente sociale sono considerati degradanti, quindi un ragazzo non si sente a proprio agio. Se uno per esempio dice: «Oggi ho assistito un anziano», può darsi che ti guardino come dire «Poveraccio, che ti tocca fare!». (Federico)

    7Un secondo gruppo di intervistati si colloca in una posizione intermedia tra quella culturale e quella che potremmo definire “innatista”, che interpreta certe diverse caratteristiche maschili o femminili come frutto di predisposizioni naturali anziché come la conseguenza di processi culturali. Si tratta di una posizione spesso sfumata, incerta, aperta al dialogo e al dubbio. Lo dimostra il fatto che quando gli intervistati non riescono a venire a capo del ragionamento – sarà frutto di cultura o di natura? – spesso smorzano la tensione con un sorriso che palesa la difficoltà di arrivare a una risposta certa.

    Potrebbe essere spiegabile con qualcosa che ha a che fare con il pregiudizio o preconcetto sociale per cui ci sono professioni più adatte agli uomini e altre più adatte alle donne. Da un altro punto di vista io credo che ci sia anche una predisposizione genetica spontanea, nel senso che in qualche modo un lavoro come l’assistente sociale, di cura, di “darsi” all’altro, sia più connaturato nella donna rispetto all’uomo in cui invece magari è più forte l’aspetto della gestione, più tecnico. È un po’ la differenza tra padre e madre, solo a livello sociale: la madre che si prende cura… Anche se noi, nella mia famiglia, abbiamo sempre aiutato gli altri e non ho differenze nel modello paterno e materno. (Riccardo)

    Io sinceramente anche quando sono andato per ospedali, sono stato anche operato, e di infermieri maschi non ne ho ancora visti. Forse un radiologo, una volta. Poi sempre donne. È una professione femminile, come quella della maestra (…). Secondo me è anche una questione storica, perché se guardiamo quando eravamo in guerra tutti i maschi erano a combattere, c’era più bisogno del maschio sul campo di battaglia, quindi chi era adibito a curare e a guarire erano le donne. Invece il medico di solito è più un maschio. E poi l’assistenza di base del malato sembra più femminile: rifare i letti, l’igiene del malato… Potrebbe essere più femminile… (sorride). Non lo so. (Leonardo)

    Io credo che per la maggior parte vi sono figure femminili qui perché è proprio fin dalla nascita che… come spiegare? Io faccio il confronto con le mie sorelle che le ho sempre viste più portate all’aiuto, alla responsabilizzazione, anche in casa prevalgono, perché nasconderlo? Lo vedo. (…) Invece siamo noi ragazzi a sentirci meno responsabili di fronte a situazioni di disagio. Noi ragazzi pensiamo forse di non essere in grado di intervenire. La figura femminile invece viene vista come una figura paziente. Io li vedo molto timorosi i ragazzi a iscriversi a una facoltà come questa. (Federico)

    Perché in genere l’aiuto, le persone che vogliono dare aiuto, non so perché ma sono principalmente donne. Le donne son più empatiche, più portate sia a chiedere aiuto che a dare aiuto. Secondo me l’uomo ha più lo stereotipo «ce la devo fare da solo e gli altri ce la devono fare da soli». È un mondo privato, quello maschile, basato su se stesso e non sulla collettività. Secondo me invece è giusto che chi ne ha la possibilità aiuti, non c’è differenza tra maschio e femmina. (…) Io penso che ci siano proprio vocazioni personali. Ma non saprei spiegare perché succede che son quasi tutte donne in questo corso e invece son tutti uomini a Ingegneria. Non lo so perché. Io so solo che mi piaceva questa facoltà e son venuto qui, ci sarei venuto anche se fossi stato l’unico uomo in tutta Italia (sorride). (Matteo)

    8Caso esemplare di attività tipicamente femminile è “rifare il letto”. I dialoghi che ho avuto con Andrea, Leonardo e Federico, futuri infermieri e assistenti sociali, fanno emergere le paradossali contraddizioni vissute da questi ragazzi che per lavoro dovranno (anche) rifare i letti, ma non sono abituati a svolgere questa attività nella loro vita privata.

    Penso che per la storia di questa professione, e poi anche per i compiti che ci assegnano – rifare il letto, pulire, igiene – penso che… Non voglio essere maschilista ma penso che io a confronto di una donna sono molto meno capace di rifare un letto! (sorride). Non volendo essere femminista… maschilista… (ride), ma penso di essere molto più disordinato di una donna!
    E lei pensa che questo sia dovuto a un’indole diversa o a che cosa?
    Forse perché noi ce lo facciamo rifare dalla mamma, il letto!
    Lei se lo fa rifare dalla mamma?
    Sì! No, ora no, ma fino a tre, quattro anni fa sì… mentre loro, le ragazze, penso che hanno imparato prima a rifarselo. Mia sorella che ora fa la terza liceo se lo fa da un bel po’ di tempo il letto!
    Ma lei pensa che le ragazze siano più portate a rifarsi il letto e a fare questo tipo di attività?
    Non saprei, però forse penso di sì perché io sono meno portato! (Andrea)

    E poi l’assistenza di base del malato sembra più femminile: rifare i letti, l’igiene del malato… potrebbe essere più femminile, forse… (sorride)
    Lei a casa se lo rifà il letto?
    Ogni tanto sì, un po’ a modo mio (ride). Altrimenti lo rifà la mamma, giustamente (ride). Perché la mattina io mi sveglio presto, alle sei, per venire all’università quindi poi quando siamo andati tutti via mia mamma rifà i letti, però se arrivo a casa e il letto non è rifatto lo rifaccio io, solitamente.
    Quindi a casa lei non rifà il suo letto e poi lo fa agli altri per lavoro?
    In effetti è vero. (Leonardo)

    Ma già da ragazze, per esempio le mie sorelle, si fanno più carico delle responsabilità. Per esempio loro si sono messe a lavorare subito, hanno dato subito un aiuto alla famiglia, io invece, forse anche essendo più piccolino mi son preso più tempo… E poi le faccende di casa… Io ho imparato da due anni, da quando abito qui da solo a fare qualcosa: rifarmi il letto… (sorride). E prima chi glielo rifaceva il letto?
    Mia mamma o le mie sorelle! (ride). (Federico)

    9Sulla stessa linea troviamo le risposte che puntano l’attenzione sul fatto che le donne – oltre a saper rifare meglio i letti degli uomini – sono più portate a occuparsi dei bambini, specialmente se molto piccoli.

    Alla fine stare con i bambini è più una cosa femminile che maschile. Anche all’asilo le maestre son femmine, non ci sono maestri. Sicuramente il lato materno conta… I bambini son sempre più affezionati alle madri che non ai padri. (…) Un ragazzo di diciotto anni non ci pensa proprio a lavorare tutta la vita con i bambini, neanche io ci pensavo, poi ci son capitato e ci sto bene. (Simone)

    Non lo so perché ci sono così pochi iscritti maschi in questo corso. Forse molti dei ragazzi sono spaventati dalla professione, perché per stare con i bambini ci vuole tanta pazienza (ride), però di preciso non lo so. Per me invece è stato naturale immaginarmi come maestro. (Alessandro)

    10Il racconto di Edoardo invece dimostra che il senso di responsabilità e di cura nei confronti dei bambini non ha una connotazione di genere e che non tutte le ragazze sono “portate” a occuparsi dei bambini:

    C’è tanta paura a occuparsi dei bimbi piccoli. Ho molte amiche che mi dicono: «Ma come fai? Io non me la sentirei di occuparmi dei bimbi degli altri, troppa responsabilità». E poi molte ragazze che fanno questo corso dopo il tirocinio si lamentano e dicono: «Ma mi fanno cambiare i pannolini! Ma i bambini piangono! Ma gli devo soffiare il naso! Ma gli devo allacciare le scarpe!» (ride). A me sembrano cose talmente scontate. (Edoardo)

    11Infine, una motivazione molto frequente che potrebbe giustificare la ritrosia dei giovani uomini a scegliere determinati percorsi di studio e di lavoro è semplicemente la mancanza di modelli maschili.

    Di solito le passioni si tramandano: quella per il calcio per esempio a me l’ha tramandata mio padre, succede così. Incontrare un maestro che ti affascina ti invoglierebbe, quindi secondo me mancano figure positive che ti facciano vedere che è bello insegnare. (…) Io i primi ricordi di professori maschi li ho dal liceo, alle medie avevo solo un professore di educazione tecnica, ma era meglio non averlo avuto… (sorride). Gente che entrava con il giornale in classe, metteva i piedi sulla scrivania e non faceva niente. Gente che se ne frega di te. Io di prof da dire «Cavoli, questo insegna proprio bene!», io non ne ho mai trovati. Di donne qualcuna sì, perché essendo in tante c’è il buono e il meno buono (sorride). Questo è uno dei motivi per cui a un ragazzo non viene in mente di fare il maestro: le figure maschili sono poco presenti dove crescono i giovani. (Luca)

    Fino a poco tempo fa avrei risposto «perché è da donne», come quando ci dicevano alle medie che le magistrali erano da donne (sorride). Ora è più complesso. Io vedo, anche nei bimbi a cui faccio ripetizioni, quelli delle medie, nei ragazzini delle medie proprio io vedo che c’è ignoranza, proprio non si arriva a pensare che quella dell’insegnamento possa essere una prospettiva di lavoro futuro. Non si annovera tra le possibilità. Uno vuole diventare astronauta o pilota, o magari ragioniere come il babbo, ma l’insegnamento proprio non c’è. Non esiste proprio. Tutti dicono: la maestra, la maestra… mai il maestro. (Tommaso)

    Io guarda, al netto delle motivazioni storiche per cui in passato c’era il maestro e poi la maestra, io credo che oggi sia proprio un problema di modelli: mancano modelli maschili adulti a cui ispirarsi. E devo dire che io stesso in quinta superiore non avevo ancora in mente di poter fare il maestro… Pensavo che volevo insegnare e quindi dovevo fare il professore. Tutt’ora quando incontro professori del liceo e dico della mia scelta mi guardano con aria incredula, come se avessi aperto un sexy-shop! (ride). (Diego)

    Per esempio se ti trovi ad avere un maestro maschio alle elementari o un infermiere maschio che si prende cura di te e queste figure le trovi quando sei ancora giovane, può darsi che questi incontri possano influire su di te. Secondo me i modelli di genere vengono costruiti piano piano nella vita, con le esperienze che fai e anche con le esperienze che vivi in casa. Per esempio c’è il caso della famiglia con ruoli divisi, tu esci da quella famiglia e costruisci a tua volta ruoli di genere rigidi e divisi… Secondo me inconsciamente qualcosa entra. Poi io stesso francamente quando mi iscrissi in prima battuta a Medicina non avrei pensato di iscrivermi a Infermieristica. Penso che anch’io a quel tempo la vivessi come una cosa “da donne”. (Marco)

    7.2. Come si vive come gruppo di minoranza in un ambiente femminile?

    12Gli intervistati sembrano trovare buona accoglienza nelle classi femminili e affermano di sentirsi a proprio agio. L’unico elemento di disagio è quello di sentirsi continuamente sotto i riflettori:

    Ma guardi, mi fa sorridere anche perché il fatto che sono l’unico maschio viene continuamente puntualizzato: «Ah, ma lei è l’unico maschio!». (Stefano)

    Io mi trovo bene, l’unico problema è che ci schedano subito, noi maschi! (Federico)

    13L’eccezionalità della presenza maschile viene talvolta sottolineata linguisticamente in aula – nominando i pochi ragazzi presenti per nome – mentre altre volte viene completamente cancellata inglobando linguisticamente il maschile nel femminile. Il problema del sessismo linguistico coinvolge dunque anche i ragazzi:

    Già al liceo socio-psico-pedagogico sono sempre stato trattato o come uno della classe, quindi come uno qualsiasi, oppure addirittura come un membro delle ragazze (sorride). I professori invece che dire “ragazze e ragazzo” oppure “ragazzi” – perché in teoria la concordanza sarebbe al maschile anche con un solo elemento (sorride) – dicevano “ragazze”. Cioè… sono stato inglobato nel femminile, come se non ci fossi! (sorride). (Lorenzo)

    La cosa che mi fa più strano tuttora è che i professori e le professoresse ci salutino con un «benvenute!» (ride). Guardi, io con le donne mi trovo molto meglio, non ho problemi, anzi, le amicizie più profonde le ho al femminile, ma questa cosa qui, di esser inserito nel gruppo delle ragazze a volte è un po’ strana… (Tommaso)

    I professori si rivolgono alla classe al femminile e dicono: «Buongiorno a tutte», che è anche giusto, anche se ci siamo anche noi di mezzo… (sorride). Però conoscono i nomi dei maschi. Noi maschi ci chiamano per nome: Diego, Stefano… (…) Sinceramente è un protagonismo non voluto o anche se è voluto significa comunque essere riconosciuto solo perché appartenente a un genere e non per le proprie capacità… Per cui diciamo che è un riconoscimento “a scatola chiusa” (ride). (Diego)

    14Per quanto riguarda i rapporti con i colleghi di studio alcuni intervistati minimizzano il fatto di trovarsi in un contesto femminilizzato, dichiarando che per loro non fa differenza instaurare rapporti con i maschi o con le femmine:

    Mi trovo bene, io ho amici sia maschi che femmine, nella mia vita intendo (ride). Per me non fa differenza. (Francesco)

    Bene, bene, anche perché non sono l’unico maschio per fortuna, siamo una decina su ottanta, quindi… (sorride). Poi tutti compagni molto simpatici e accoglienti per cui mi trovo bene. Per me è indifferente maschio o femmina: sto con chi sto meglio. (Andrea)

    Io mi ricordo la prima volta che sono entrato in aula e ho visto tutte donne mi son detto: «va beh, bene per me!» (ride). È diverso passare da una classe mista a una dove son quasi tutte donne… Però io mi trovo benissimo, non ho problemi a fare amicizia, né con i maschi né con le femmine. (Alessandro)

    15Altri intervistati sottolineano invece profonde differenze tra la relazione che si insatura tra maschi e quella che può nascere con le femmine: la relazione tra maschi viene definita “semplice”, “superficiale” mentre la relazione con le ragazze è tendenzialmente più “intima” e potenzialmente più ricca.

    Comunque è così: la relazione con i maschi è molto semplice, senza problemi, invece con le femmine devi proprio trovare un modo diverso per comunicare, devi cercare di andare più a fondo. (Gabriele)

    Benissimo, non sono mai stato così bene, ci vengo proprio volentieri all’università. Poi con i maschi parli sempre delle solite tre cose, qui invece puoi parlare di tutto, anche delle materie, della psicologia, di come ti piacerebbe fare il maestro… Poi le ragazze sono proprio diverse dai ragazzi. Con le ragazze puoi parlare di tutto, puoi anche filosofeggiare… Non con tutte ma con qualcuna sì, si può fare! (sorride). (Davide)

    C’è proprio differenza. Con i maschi si parla di piccole questioni quotidiane, con le donne riesco a creare rapporti più profondi, che scalfiscono la superficie, più intimi. Con le donne riesco a parlare di questioni anche personali che anche con un mio amico che conosco magari da quindici anni non riesco ad affrontare. C’è sempre quell’imbarazzo tra uomini… Invece con le donne è più facile, non c’è quell’imbarazzo. (Tommaso)

    Francamente bene, mi ci trovo bene. È vero che non ho neanche grandi esperienze di amicizie maschili, nel senso che, sì, qualcuna ne ho avuta ma ho trovato sempre le persone meno opportune (sorride). Non ho questo ideale dell’amicizia tra uomini, quindi mi trovo bene anche a relazionarmi quotidianamente con le donne. (…) Pensavo al fatto che per l’amicizia tra uomini basta poco: condivisione di interessi o roba del genere. Tutto sommato cose banali. (Marco)

    16Se l’amicizia con le ragazze appare più profonda e appagante, c’è anche un rovescio della medaglia: alcuni “rischi” che si possono correre.

    C’è solo quell’ambiguità lì, sentimentale. Tipo se a certe ragazze gli dico di fare un giro insieme in bicicletta alcune mi dicono che non possono perché hanno il ragazzo. Queste cose qui. (Davide)

    Con la donna è differente, ed è molto più rischioso perché se fai qualche sciocchezza la paghi cara (…). L’amicizia tra donne è più pericolosa perché rispetto a quella tra uomini c’è una maggiore componente emotiva e quindi c’è da stare attenti a come ci si muove perché se fai qualcosa di conflittuale può essere amplificato e poi c’è anche uno schierarsi… (Marco)

    7.3. Le ragazze sono più portate per i lavori educativi e di cura?

    17In una fase avanzata delle interviste ho chiesto ai futuri maestri, educatori, infermieri, assistenti sociali… se a loro parere le ragazze sono più predisposte verso i lavori educativi e di cura. Da un alto c’è chi ritiene assolutamente infondata l’ipotesi di una maggiore predisposizione femminile in questi ambiti sottolineando la natura appresa del maternage, dall’altro c’è chi invece sostiene che in effetti c’è una sorta di “vantaggio” femminile in queste professioni che deriva da una maggiore capacità delle ragazze di rapportarsi con i bambini e di prendersi cura. Si ritorna al dibattito tra natura e cultura.

    18Di fronte alla domanda «Ritiene che ci sia una maggiore predisposizione delle ragazze a fare questo mestiere?», molti studenti rispondono in maniera scettica, talvolta decisamente negativa:

    Mah… qui le ragazze son quasi tutte catechiste (sorride), quindi hanno già provato a stare con i bambini e lo fanno per questo motivo qui. Poi altre perché non hanno voglia di studiare quindi vengono qui, perché è più facile rispetto a Medicina o Ingegneria. Quindi molte lo fanno perché devono fare qualcosa, poche hanno la vocazione in questa facoltà. Molte ragazze vengono perché devono dire ai genitori che vanno all’università. Però la passione io non la vedo. (Davide)

    Mah, non saprei… Magari se penso che la donna partorisce, forse proprio a livello di differenza sessuale ci può essere qualche differenza ma secondo me non conta molto. Questo ovviamente non vuol dire che le femmine siano tutte più portate e i maschi meno. Un maschio, per esempio, può avere l’empatia: io per esempio, me la sento, più di tante ragazze. (Gabriele)

    Assolutamente no. Secondo me la maggior parte delle ragazze che frequentano questo corso lo fanno perché non sono state prese ad altri corsi a numero chiuso e son finite qui. Tante poi pensavano fosse proprio un’altra cosa: magari più di coordinamento della struttura, cioè di non avere a che fare direttamente con i bambini. Conosco tante ragazze che dicono «Io odio i bambini! (ride). Quando piangono non li posso sentire!». A me questa cosa mi sgomenta. (Edoardo)

    Io non escludo che ci sia magari una componente “naturale” – che francamente non conosco e non capisco – magari risposte ormonali a determinate immagini, tipo il bambino, questo non lo so. Non me l’hanno insegnato quindi non ho basi né per dire che c’è né per escluderlo. Però sinceramente nella mia esperienza c’è un forte indirizzamento culturale. (Marco)

    19Sul fronte opposto c’è chi richiama alcune attitudini femminili – l’empatia, la pazienza – che faciliterebbero le ragazze nelle professioni di cura:

    Secondo me le donne sanno meglio come prendersi cura di una persona, sanno confortarla meglio, sanno come trattarla in maniera migliore, mentre noi maschi forse siamo un pochino più rudi. Anche con le parole le donne sono molto più competenti e più confortevoli. Hanno più calma, di organizzarsi per bene le cose, mentre noi maschi siamo più disorganizzati e abbiamo sempre furia. (Andrea)

    I bambini soprattutto nei primi mesi di vita hanno bisogno della figura materna, poi più avanti anche di quella paterna. Quindi partono un po’ avvantaggiate le ragazze… Però mi hanno detto che in certe situazioni bisogna mantenere “il pugno di ferro”, per esempio con quei bambini che hanno disturbi comportamentali o dell’attenzione. E sotto questo punto di vista credo che noi maschi partiamo un pochino più avvantaggiati, soprattutto quando sono un pochino più grandi, i ragazzi. Ma forse questa è solo una mia idea. Penso però che quando si parla dei bambini molto piccoli la figura materna è fondamentale. (Giacomo)

    Io credo che un essere umano in quanto tale dovrebbe avere un interesse verso l’altro, una predisposizione all’ascolto…, però nella pratica è un aspetto più femminile che maschile. L’uomo fa molta più difficoltà a parlare di sé, a mettersi in discussione, a parlare anche di cose intime. Entrare in relazione, entrare in empatia sembra un aspetto che viene fuori più facilmente nella donna che non nell’uomo: sembra una cosa più spontanea per la donna. Io credo che ci sia una predisposizione mentale diversa, anche nel tipo di atteggiamento: noi uomini siamo più diretti nelle relazioni ma anche più semplici, mentre la donna tocca una serie di altri aspetti che all’uomo non viene spontaneo toccare. Ci sono delle caratteristiche particolari dell’uomo e della donna che poi influenzano quello che poi loro vanno a fare. (Riccardo)

    20Come al solito, quando si tocca la questione natura/cultura, e quindi quanto è innato e quanto è appreso nella differenza tra i sessi, non esistono risposte sicure e definitive e spesso si rimane sospesi nel dubbio, come dimostra questo breve dialogo con Stefano:

    Probabilmente, senza cadere in sessismi vari (ride), i corsi più “pedagogici” che ci sono anche qui, tipo logopedia, terapia infantile…, sono frequentati soprattutto dalle ragazze. Ecco, forse c’è tutto questo lato empatico che magari riesce meglio alle ragazze…
    Lei trova che le ragazze mediamente siano più sentimentali ed empatiche dei ragazzi?
    Beh, non tutte, non sempre… In effetti conosco tante ragazze che sono tutt’altro che empatiche! (ride). (Stefano)

    7.4. Cosa farò da grande? I progetti attuali e i sogni di bambino

    21Gli intervistati sono chiamati a pensare al loro futuro lavoro: come lo immaginano e come vorrebbero che fosse. Per sollecitarli in questa riflessione in prima battuta ho chiesto loro quali sono le doti e le competenze necessarie per diventare un buon maestro/educatore/ infermiere/assistente sociale/terapista dell’età evolutiva e, a seguire, ho domandato se ritengono di possedere queste caratteristiche.

    22Le doti più importanti risultano essere la pazienza, la capacità di ascolto, l’altruismo, l’empatia, la capacità di mettersi al servizio degli altri. Alcuni intervistati si riconoscono alcune di queste prerogative/capacità, mentre altri – la maggior parte – non hanno difficoltà a palesare le proprie insicurezze e paure. Ecco alcuni dialoghi:

    Quali doti dovrebbe avere un assistente sociale?
    La capacità di ascoltare come prima cosa. Poi il rispetto dell’altro come persona. Poi la disponibilità a mettersi in discussione e la capacità di mettersi al servizio dell’altro. (Riccardo)

    Quali doti dovrebbe avere un buon maestro?
    Secondo me bisogna appassionarsi alla questione del far imparare… Dopodiché un maestro deve ovviamente amare stare con i bambini per parecchio tempo e avere una concezione della società un pochino diversa e dare colpettini in quella direzione: verso il cambiamento.
    E lei quali tra queste doti pensa di possedere?
    Io sono paziente con i bimbi, anche troppo (sorride). (Diego)

    Quali doti dovrebbe avere un bravo assistente sociale?
    Per prima cosa deve saper mantenere i nervi i saldi di fronte anche alle situazioni più estreme e avere la sicurezza nei propri mezzi. Ovviamente lo studio alle spalle ci deve essere. Semplicemente mettere in pratica quello che si è studiato e di volta in volta ragionare con la persona, viverci a contatto e non sentirsi come medici che vedono solo il problema: noi bisogna vedere la persona oltre al problema.
    E lei pensa di avere questa capacità?
    Quando ho iniziato non ce l’avevo per niente. Invece mano a mano mi sta venendo, cioè mi accorgo che riesco a vedere anche oltre il problema, anche quando si fanno le simulazioni in classe… All’inizio è difficile poi mano a mano cominci a capire la vera ottica dell’assistente sociale, cominci a capire come funziona la vera relazione d’aiuto, che non è volontariato. Devi avere competenze psicologiche, giuridiche… (Matteo)

    Quali doti dovrebbe avere un bravo assistente sociale?
    Essere umili. Umili di fronte alla persona che ti esterna il suo disagio. Bisogna essere umili, non porsi come “io so tutto”, ma cercare di capire qual è il bisogno di questa persona e iniziare a vedere se si può fare un percorso per ricondurre questa persona alla sua dignità. Poi ci vuole senz’altro empatia per capire la situazione emotiva della persona che chiede aiuto. Perché poi alla fine la soddisfazione non deve essere nostra, ma del beneficiario finale.
    E lei si sente portato per questo mestiere?
    A me piace molto ascoltare e parlare con le persone. (Federico)

    Quali sono secondo lei le caratteristiche più importanti che deve avere un infermiere?
    Gentilezza, altruismo e carattere.
    E lei pensa di avere queste capacità?
    Lo spero, si vedrà tutto con il tirocinio se sarò capace. (…) Noi già dal primo anno, durante il tirocinio in ospedale andiamo a fare queste esperienze. La selezione la fai dal momento che entri in ospedale: da lì secondo me capisci se è un lavoro adatto a te o non sei fatto per questo lavoro. Secondo me appena entri in ospedale capisci se vorrai fare questo nella vita o vorrai fare altro. (Andrea)

    23Molti intervistati manifestano dubbi circa la propria futura capacità di fare bene il proprio mestiere. Per Giacomo e Simone, futuri terapisti dell’età evolutiva, l’insicurezza deriva dal fatto di non avere ancora un’adeguata esperienza con i bambini. Ecco i nostri dialoghi:

    Il mio lavoro consisterà nell’osservare bambini che hanno diverse disfunzioni di tipo motorio. Bambini dai primi mesi fino a diciotto anni: l’età evolutiva. Anche nel tirocinio io vado a fare delle osservazioni, attraverso una serie di tecniche particolari, come per esempio osservare il cammino di un paziente, come utilizza determinati oggetti…, tutto questo in un setting che sia il più possibile favorevole al paziente. Quindi il discorso è di individuare le varie disfunzioni motorie e poi di collegarle a un problema neurologico del bambino. E il fatto che questi “pazienti” siano bambini le piace?
    Da una parte sì, dall’altra non lo so… Mi piace perché i bambini hanno tutta una prospettiva davanti per cui hai proprio un grande stimolo ad aiutarli: gli puoi cambiare davvero la vita. Dall’altra un po’ mi spaventa perché nella mia vita quotidiana io sono abituato a interfacciarmi con adulti e non ho idea di come farò a rapportarmi con i bambini. Magari ci sono alcuni miei colleghi che hanno già fatto esperienza con i bambini nei campi estivi e all’asilo mentre io come esperienza posso portare solo quella con i miei nipotini. Insomma, sono alle prime armi.
    Però si sente a suo agio a pensare di stare con i bambini?
    Sì, io sì, ma bisogna veder se il mio modo di stare con loro è utile a loro, perché io son chiamato a risolvere dei problemi a questi bimbi e bisogna vedere se ci riesco. (Giacomo)

    Si trova bene in questo corso di laurea?
    All’inizio avevo un po’ paura per il discorso dei bambini, avevo paura a rapportarmici. Ma dopo il tirocinio che abbiamo fatto alla Stella Maris1 in cui sono entrato in contatto con bambini e ragazzini dalla scuola d’infanzia alle scuole medie mi sono un pochino tranquillizzato. Insomma… Poi io non sono molto espansivo, però magari bimbi che vedono solo figure femminili quando arriva un maschio forse c’è un po’ più feeling, secondo me.
    Intende con i bambini maschi?
    Ma anche con le femmine: lo vedi che ti vengono a cercare un po’ di più. Abituati a vedere dalle elementari alle medie solo maestre femmine quando arrivo io, maschio, vedo che sono contenti.
    Quindi ha cominciato a fare un po’ di gavetta…
    Sì, all’inizio è stata dura perché proprio non sapevo di cosa parlare con i bimbi (sorride). (Simone)

    24Anche Marco e Leonardo, futuri infermieri, assumono una posizione critica rispetto alle proprie capacità:

    Come si immagina nella relazione con il paziente?
    Non lo prendo per niente sottogamba perché già nelle cose più semplici sono abbastanza impacciato (sorride). Però penso che con il tempo possa arrivare a fare qualcosa di buono. Mi piacerebbe. (Marco)

    Ci si vede nelle vesti dell’infermiere?
    Eh, ancora non lo so, lo vedrò dopo il tirocinio (sorride). Però mi piace, anche come ambiente lavorativo, dovrebbe essere interessante, stimolante. Speriamo… Dopo il tirocinio vediamo. (Leonardo)

    25Tutte queste testimonianze mettono in luce, da un lato, l’estrema importanza che gli intervistati attribuiscono alla propria professione, dall’altro l’umiltà degli stessi di sperimentarsi in ambiti poco famigliari per il proprio genere di appartenenza. Ne è una dimostrazione esemplare la testimonianza di Gabriele che conferisce al mestiere di maestro un valore estremamente alto e che sogna di essere all’altezza di diventare un giorno un maestro davvero “in gamba”:

    Ho avuto piccole esperienze all’oratorio, poi ho fatto ripetizioni… Mi piace, anche se non so se ci sono portato. Per me il fatto di arrivare a essere un “maestro” è una cosa molto difficile. Però mi ci sto impegnando. (…) La paura che mi sento è che sia un mestiere usurante e non son certo che ce la farò. Anche a livello disciplinare: io devo avere una cultura talmente ampia per poter fare collegamenti tra i temi in classe e non è per niente facile, devo ancora studiare molto. E se magari mi impegno posso anche diventare in gamba: me lo sento come mestiere. (Gabriele)

    26Indagando più a fondo il tema del lavoro ho chiesto ai giovani intervistati cos’è che piace della professione che andranno a svolgere. Molti sono attratti dall’idea di svolgere un lavoro socialmente utile, improntato sulle relazioni.

    A me piacerebbe poi fare pedagogia clinica, quindi lavorare con ragazzini che hanno problemi, come disturbi della personalità o Sindrome di Down. Mi piacerebbe operare attraverso progetti educativi per questi ragazzi, perché mi sentirei, ecco, felice di fare questo, avrei una piena soddisfazione interiore. Felice proprio. Si tratta proprio di felicità perché non esiste niente di più bello che fare qualcosa di utile per chi è in una posizione di svantaggio. (…) Mi piacerebbe lavorare proprio con i bambini piccoli perché è lì che si crea l’autostima di questi bambini e la loro personalità. Perché sappiamo che in fondo il compito dell’educatore è proprio questo: quello di formare quella personalità che permetterà anche in futuro al ragazzo di resistere a tutte le contraddizioni che incontrerà nel corso della sua vita. È un progetto mica da poco! Però mi affascina (ride). (Francesco)

    Fare l’infermiere è proprio un bel lavoro. Oltre a capacità tecniche ci vogliono anche molta sensibilità, poi fai del bene alle persone… Insomma, è un bel lavoro. (Leonardo)

    Mi piacerebbe per esempio lavorare con i minori. Ho avuto esperienza con un ragazzino che aveva entrambi i genitori drogati, una bruttissima situazione, e se ne occupò un’assistente sociale che poi l’ha adottato. Conosco il ragazzino e anche l’assistente sociale, una donna, e poi conosco un’altra assistente sociale bravissima. Vorrei diventare come loro. (Matteo)

    E poi c’è un piccolo sogno: mi piacerebbe fare il pedagogista clinico, in parallelo al maestro. Ci sono due ragioni per cui adoro fare questo mestiere: una egoistica è perché io quando sto con i bimbi riesco a essere me stesso, e questa per me è stata un’illuminazione. (…) L’altra è poterli aiutare, poter riuscire a vedere come vivono loro la loro età, quali sono le loro paure, perché secondo me dipendono molto da questo i problemi dei bimbi e delle bimbe: dalle paure. E allora lì mi piacerebbe poter fare qualcosa e penso che diventare maestro mi aiuti proprio in questo, e il pedagogista clinico potrebbe essere un tassello in più: analizzare i disegni dei bambini, provare a capire qualcosa, fare una diagnosi, e poi parlare con le famiglie. Questo mi piacerebbe. (Tommaso)

    Questo fatto di mettersi a disposizione di altri che hanno bisogno mi pare proprio una buona cosa. (Federico)

    27Infine, cosa sognavano di fare da grandi gli intervistati, quando erano bambini? I sogni erano i più disparati: il calciatore, l’informatico, il giornalista, l’archeologo, l’entomologo, il dentista.

    Il calciatore! (Luca)

    Avevo due cose in mente: o l’archeologo, perché mi piaceva molto la storia ma anche gli scavi, oppure il giornalista, più avanti, alle medie. (Giacomo)

    Quando ero piccino piccino ero fissato con il pallone per cui sognavo di diventare il più grande calciatore del mondo! (ride). Poi sogni più realistici, tipo il dentista (ride). Avevo già programmato tutto alle elementari: che avrei fatto lo scientifico per poi studiare per fare il dentista (ride). (Simone) Io ho avuto tante professioni in mente, tantissime, volevo fare tutto! (ride). Allora… Ho cominciato con il cassiere, perché mi ricordo che vedevo i cassieri che maneggiavano soldi, per cui… Poi il pizzaiolo e più tardi, verso la fine delle elementari, l’entomologo. Questo discorso degli insetti mi interessava davvero, anche fino alle medie. (Stefano)

    Da piccolino volevo fare il calciatore, poi c’è stata la parentesi informatica ma quello non era un sogno, era più un adattarsi. Poi, questo fatto del maestro, che è maturato dopo… (Davide)

    28Soltanto Diego e Edoardo fin da piccoli sognavano di fare il “maestro”:

    Il fatto è che io ho sempre voluto fare l’insegnante, già dalle elementari. Alle medie volevo fare il professore delle medie, al liceo il professore di liceo, all’università invece ho pensato «Il professore all’università mai e poi mai!» (ride). (Diego)

    Il fioraio! C’è l’ho scritto su un tema… (sorride). Quando tutti volevano fare il pompiere o il carabiniere io volevo fare il fioraio. Poi andando più avanti ho sempre detto che volevo fare l’insegnante: o il maestro delle elementari, o l’insegnante al liceo. (Edoardo)

    7.5. L’immagine del futuro

    29«Come immagina la sua vita in un “futuro breve”, in un arco di tempo che va da cinque a dieci anni?», questa è una delle domande poste ai ragazzi nella parte conclusiva dell’intervista. Le risposte maschili non si discostano molto da quelle femminili: gli obiettivi prioritari intorno a cui ruota la progettualità maschile sono il lavoro e la costruzione di una famiglia. Mentre nelle risposte femminili assumeva un ruolo centrale anche il tema del viaggio, nelle risposte dei ragazzi questo tema viene invece raramente toccato e viene interpretato più come una necessità che non come una opportunità.

    7.5.1. «Vorrei diventare un fantastico maestro!»

    30L’obiettivo primario degli intervistati – propedeutico agli altri – è trovare un lavoro, se possibile coerente con gli studi intrapresi. Questo obiettivo non pare assolutamente scontato da raggiungere.

    La vedo nera (ride)… Spero comunque di trovare un lavoro inerente al corso di laurea, in ambito ospedaliero. Dopo che uno spende anni e soldi per studiare è giusto che trovi un lavoro inerente a quello per cui ha studiato. (Leonardo)

    Per adesso credo che la mia vita non professionale dipenda dalla mia vita professionale. Certo, ho trentadue anni, una famiglia c’è nei miei pensieri, ma prima devo sistemare un po’ di cose, sul lavoro, visto che ho perso un po’ di tempo. (Tommaso)

    31L’ambizione non è quella di trovare un lavoro qualunque, che permetta semplicemente di mantenersi economicamente, ma è quella di trovare un lavoro appagante, denso di soddisfazioni umane e professionali:

    Io penso che alla fine l’importante sia andare a lavoro e dire: «Questa cosa che faccio mi piace». Sentire meno il peso del lavoro e alla fine anche dei problemi che possono sopraggiungere a causa di mancanza di soldi, magari. (Lorenzo)

    Il mio concetto di felicità è di non avere cose fisse nel futuro, quindi anche il prossimo anno io farò un Erasmus per ampliare un po’ l’orizzonte, e quindi non so cosa farò tra cinque anni. Il futuro più lontano sarebbe di fare il professore universitario, o anche preside scolastico, ma prima vorrei fare il maestro per capire un po’ di cose e perché mi piace insegnare ai bambini. Quindi non si sa come andrà a finire. (Davide)

    32Gabriele e Simone vogliono anche loro investire al massimo nel lavoro per diventare, rispettivamente, “un fantastico maestro” e “un buon fisioterapista”:

    Tra realtà e ideale c’è un po’ conflitto. Dal punto di vista delle passioni vorrei aver trovato qualcosa e averla arricchita: se fossi maestro, per esempio, vorrei essere un fantastico maestro! Cioè fare quella cosa al massimo livello. Mi piacerebbe fare tante esperienze, non una cosa sola, anche per fare il maestro credo che aver fatto tante esperienze, aver vissuto, sia fondamentale. Dopo che avrò vissuto tante cose potrò essere un maestro migliore. Non è che nel futuro penso che dovrò fare chissà che, ma fare bene quello che farò. Per esempio, uno può essere un maestro che va avanti per inerzia o invece un maestro bravo, che ci sa fare, che sa prendere le decisioni, che ha un bagaglio culturale forte. Io penso di avere le potenzialità per fare delle cose “in grande”, non deve rimanere solo una mia fantasia, ce la posso fare. A fare il maestro, ma in grande. (Gabriele)

    Tanto vorrei essermi laureato e poi spero di fare carriera in questo ambito. Vorrei diventare un buon terapista e lavorare nelle migliori strutture. Per esempio se arrivassi a lavorare alla Stella Maris che è un centro conosciuto e stimato in tutta Italia e anche all’estero, per me sarebbe una grande soddisfazione. (Simone)

    33L’ipotesi di doversi spostare per trovare lavoro o per specializzarsi negli studi non viene vissuta in maniera positiva ma viene letta come un’alternativa obbligata nel caso non si riesca a trovare lavoro vicino a casa:

    E poi immagino non sarà facile anche trovare un posto per esempio da queste parti… Non so se mi toccherà sfruttare mia sorella, a Londra, per lanciarmi (sorride). Preferirei rimanere, ma se qui devo fare l’elemosina allora me ne vado da un’altra parte! (Marco)

    Eh, se c’è necessità sì, dovrò spostarmi… Chiaramente preferirei rimanere in Italia e se possibile in Toscana, vicino alle mie zone, vediamo. Poi se c’è bisogno si va dove c’è da andare, anche perché non si può stare all’infinito sulle spalle dei genitori. (Simone)

    Non lo so, ci devo pensare bene perché la specialistica sarebbe a Pisa o a Firenze, non c’è qui a Siena e io nei posti nuovi ho seri problemi di orientamento (ride). Mi perderei anche nel mio paese se non conoscessi a memoria le strade! (ride). Poi queste città più grandi… Poi son più lontane dal mio paese quindi… Io ho tanti impegni nel mio paese: ho due squadre di calcio, ho gli amici lì con cui esco volentieri il sabato sera, ho radici profonde con il mio paese e già con Siena c’è stato il distacco, ma l’ho sentito meno. (Matteo)

    7.5.2. «Una famiglia, un lavoro e una casa: semplicemente»

    34Dato per assodato che il lavoro è l’elemento propedeutico a tutti gli altri progetti di vita, la maggior parte delle risposte maschili si orienta su un’immagine futura basata su tre pilastri: la famiglia, il lavoro e una casa. Stupisce la semplicità e al tempo stesso la forza con cui i ragazzi esprimono una progettualità che potrebbe essere definita “tradizionale”, e apparentemente poco ambiziosa.

    Avere una famiglia, un lavoro e una casa, semplicemente. Spero che questa professione mi permetta di supportare la mia futura moglie e i miei futuri figli, se ne avrò, per permettere loro di avere libera scelta come l’ho avuta io, di permettergli di fare quello che vogliono fare. (Andrea)

    Spero di essere uscito con una buona media e quindi di avere le credenziali per trovare un buon posto di lavoro, possibilmente nel pubblico, anche se sarà molto difficile. Poi spero di avere uno stipendio decente, se non altro per fare un po’ di progetti: figli, casa, autonomia, trovare la persona giusta, metter su famiglia. (Marco)

    Io mi vedrei con un lavoro, uno stipendio, una casa mia, diciamo un piccolo appartamentino (sorride). E poi, al momento non ho nessuno ma se incontrassi una ragazza potrei a quell’età cominciare a pensare di mettere su un qualcosa di serio con lei e magari a trent’anni cominciare a pensare insieme a come vorremmo che fosse la nostra vita a quarant’anni. (Giacomo)

    Io ho il desiderio di pormi degli obiettivi ma di non pormi dei limiti. A breve termine sto già lavorando con altri ragazzi per costituire un’associazione di promozione sociale. (…) Comunque io non ho mai desiderato essere una persona in carriera, mi basta essere impegnato socialmente, per determinate cose. Il problema arriverà quando vorrò avere famiglia. La famiglia rientra sicuramente nei miei progetti, la carriera no. (Federico)

    35Fa riflettere anche il fatto che alcuni di questi giovani uomini, appena ventenni, palesino già un futuro desiderio di paternità.

    E poi ovviamente il mio sogno è quello di diventare padre, un giorno. Però ora mi sembra troppo presto, poi non si sa mai quel che viene fuori… (sorride). (Davide)

    Certo che vorrei avere figli! E magari con la mia professione partirei anche avvantaggiato! Magari sarei più portato a fare il padre, forse, lo spero… Perché comunque alla fine imparerei a gestirli, perché non è mica facile gestire un bambino! (ride). (Giacomo)

    36Per Edoardo questo sogno non appare facilmente realizzabile: dipenderà dalla possibilità di adottare un figlio all’interno di una famiglia omogenitoriale.

    E spero, ma di qui a cinque anni non credo sarà possibile, nella possibilità di un’adozione, un affidamento. Ho una relazione stabile e anch’io vorrei metter su famiglia (sorride). Questo sarebbe un progetto primario. Se la legislazione lo consentirà. (Edoardo)

    7.6. Parlando di pari opportunità con i ragazzi

    37Nel corso delle interviste maschili si sono create diverse occasioni di confronto e discussione sui temi legati alle pari opportunità, declinati in vari sottotemi: le discriminazioni sessiste nei luoghi di lavoro, l’immaginario di genere nella società e nella famiglia di origine, la concezione dei ruoli maschili e femminili all’interno della propria futura famiglia. Le posizioni dei giovani uomini – come quelli delle loro coetanee sugli stessi temi – sono talvolta contraddittorie: si passa dall’affermazione decisa dei principi di parità alla riproposizione inconsapevole di retaggi sessisti.

    7.6.1. Discriminazioni nel mondo del lavoro come maschio?

    38Se, come abbiamo visto, le ragazze contemplano la possibilità di essere discriminate in lavori maschili “in quanto donne”, i ragazzi non hanno analoghi timori: non solo pensano di avere pari opportunità di inserirsi efficacemente in contesti professionali femminilizzati ma in certi casi – è il caso dei maestri – hanno la netta percezione che saranno addirittura accolti a braccia aperte. Di fronte alla domanda: «Pensa che in quanto uomo potrà avere maggiori difficoltà a inserirsi efficacemente in contesti professionali altamente femminilizzati?», le risposte sono tutte negative.

    No, io penso proprio di no! Per esempio al liceo avevo metà professoresse e metà professori maschi. Magari trovo che, sì è vero, la figura femminile è vista come una figura che “deve fare” la maestra, una figura accudente, ma è superata ormai questa definizione. Però educare, insomma, non è una questione femminile, è un ruolo che storicamente è stato soprattutto maschile. I più grandi pedagogisti sono stati uomini. (Francesco)

    Io penso di avere pari opportunità! (ride) Anche i professori che insegnano qui all’università son tutti maschi per cui vuol dire che anche loro hanno scelto i nostri corsi di studio. Io l’ho scelto perché mi piace, cioè io ho scelto questa facoltà non così, tanto per fare, ma per fare una cosa che mi piaceva ma che fosse anche utile per il mio futuro (ride). (Alessandro)

    E poi scatta subito la frase tipica: «Ah, bello, lei vuol fare il maestro! Che bello, ce n’è bisogno!». Guardi io mi son trovato di fronte a una scena… Per fare il tirocinio come maestro chiesero a un preside e in teoria non c’era posto in quella scuola ma quando ha saputo che ero un ragazzo ha detto: «Ah, è un maschio, mandatemelo subito!». C’è quest’idea ormai diffusa a scuola per cui la vulgata è: la scuola è troppo femminilizzata e i bambini – maschi e femmine – hanno bisogno anche di figure maschili. Per cui io sono sempre benvoluto (ride) però, ripeto, a scatola chiusa, che non è una cosa molto bella. (Diego)

    No, no, per niente. Adesso sia maschi che femmine lo possono fare, anche perché quando io vado in ospedale vedo infermieri sia maschi che femmine competenti nel loro lavoro. Se sei bravo e se ti piace quello che fai nessuno ti crea problemi. (Andrea)

    7.6.2. L’immaginario di genere nella società e nella famiglia d’origine

    39Sollecitati a esprimersi genericamente sull’immaginario di genere presente nella nostra società e, in particolare, nella propria famiglia di origine, i ragazzi intervistati hanno messo a fuoco lucidamente tutta una serie di pratiche e retaggi sessisti che ancora permangono, prendendone le distanze. La testimonianza di Diego è esemplare:

    Io faccio delle litigate con il mio gruppo dei pari, ma proprio con il coltello tra i denti, sul ruolo delle rispettive ragazze, sulle eventuali figlie… Ragazzi della mia età che dicono: «Se avrò un figlio bene che esca, se è una figlia alle dieci e mezzo a casa». E io mi ci arrabbio! Poi io ho avuto una ragazza tedesca, di Berlino, per cui ho una certa mentalità… Lì dicono tutti: «Cari ragazzi, care ragazze», proprio di default! Ho visitato delle scuole berlinesi dove le femmine hanno tutte i capelli corti e i maschi tutti i capelli lunghi, lì ormai hanno proprio scollinato! (ride) Però rispetto al cambiamento possibile che dicevo prima, io vedo che la scuola fa proprio il contrario di quello che dovrebbe fare. Ho fatto ora tirocinio all’asilo e mi sono appassionato un sacco a stare con questi bimbi di quattro anni e comunque le maestre mi dicevano: fai meno ore tanto non è che tu puoi stare a lavorare all’asilo! E nel gioco dei travestimenti comunque se un bimbo si mette una gonna si sente dire: «Oh Tommaso, che fai, la femminuccia? Mettiamola alla Giada e poi prendetevi per mano e andate a fare il viaggio di nozze!» E vai! (ride). La strada è ancora lunga… (Diego)

    40I ragazzi vedono dei grandi cambiamenti in atto nella società e sottolineano la separazione netta nella concezione dei ruoli di genere tra la propria generazione e quella immediatamente precedente: «Siamo a cavallo tra due epoche», come dice Lorenzo.

    Io penso che da parte di molte famiglie ci sia ancora un certo condizionamento psicologico sui ragazzi ovvero il fatto di condizionare il ragazzo a fargli pensare che deve diventare presto un “uomo”, qualcuno che comunque sia deve campare una famiglia. Mentre per quanto riguarda le ragazze può essere più tranquilla la situazione anche perché poi alla fine come da logica deve essere poi l’uomo a mantenerle… Per cui possono prendersi un po’ più di tempo per studiare… Ma oggi non è più così! È il passaggio da una situazione del passato a una situazione moderna: siamo a cavallo tra due epoche. C’è ancora l’idea tradizionale della vecchia generazione secondo cui il padre è colui che deve mantenere la famiglia, la moglie e il nucleo famigliare e l’idea della nuova generazione secondo cui anche il maschio può avere la libertà, la possibilità di decidere cosa fare, senza pressioni. Io credo che questa difficoltà qui, da parte del maschio, nella generazione prossima non ci sarà più, al di là dei problemi economici…, questo problema non ci sarà più. Invece oggi nei ragazzi c’è ancora un pochino di pressione psicologica in più da questo punto di vista. (Lorenzo)

    Mio padre è proprio il contrario di me: sessista, razzista (sorride). Poi lui d’altra parte è cresciuto in un contesto, in Sicilia… L’anno scorso sono andato a trovare mia nonna in Sicilia e mentre guardava le notizie sul femminicidio in tv diceva: «Eh, se fosse stata più attenta…». Loro sono ancora così. Mio padre è cresciuto in quel contesto, poverino, non è colpa sua. (Davide)

    Se uno parte da una visione classica della famiglia per cui la mamma sta a casa con i bambini e il padre che va a lavorare… Ma è sbagliato! Ormai nella società in cui viviamo oggi questa cosa è completamente superata! Io, per dirle, ho mia papà che è in pensione e mia mamma che lavora. Oggi ci sono famiglie in cui lavorano sia la moglie che il marito, ci sono momenti in cui il padre deve stare a casa con il bambino e momenti in cui ci deve stare la madre. La società è cambiata, non è più come una volta, bisogna dirlo! (ride). (Francesco)

    7.6.3. L’immagine della propria famiglia futura: tra tradizione e cambiamento

    41Nel paragrafo precedente abbiamo visto che i giovani uomini protagonisti della ricerca prendono nettamente le distanze da modelli famigliari tradizionali in cui esiste una distinzione dei ruoli maschili e femminili. Come immaginano allora i ruoli di genere all’interno della propria famiglia futura?

    42Un gruppo di intervistati rimarca con assoluta naturalezza il fatto che anche le donne devono lavorare e che i ruoli famigliari devono essere equamente suddivisi nella coppia. Il lavoro non è visto soltanto come uno strumento necessario per il sostentamento economico della famiglia, ma è interpretato da molti intervistati come un qualcosa che arricchisce le persone, sia gli uomini che le donne. È «uno stimolo a diventare una persona migliore», come dice Marco. Ecco alcuni dei dialoghi più significativi:

    E rispetto all’immagine di famiglia e di coppia, come si immagina il rapporto uomo-donna? Si immagina per esempio una compagna che lavora?
    Non considerando orari e difficoltà varie sarei per la condivisione dei compiti, nel senso che ci terrei anch’io a prendermi cura dei figli da subito, e ovviamente mi auguro, cioè, non è che mi auguro, io mi aspetto che la mia compagna lavori! (ride). È normale. Non è che voglia obbligare, per carità, (sorride) però già io farò l’infermiere, che voglio dire non è che porti uno stipendio alto, e per far famiglia e vivere in modo dignitoso penso che un altro stipendio potrebbe far comodo. Poi secondo me lavorare dà un apporto diverso alla persona, nel senso che fare la casalinga secondo me priva di esperienze, anche di una certa apertura mentale. (…) E poi c’è bisogno di staccare! Io non mi ci immaginerei mai a casa fisso, morirei. Per una persona lavorare fuori casa tendenzialmente è uno stimolo a diventare una persona migliore. Poi però gli orari… chissà… Lei magari farà i turni di notte e io di giorno: chissà se ci incroceremo qualche volta! (ride). (Marco)

    Che immagine ha della coppia? Si immagina una compagna che lavora?
    Ma sì, sì, anche perché vedo mia mamma in casa e secondo me le avrebbe fatto meglio lavorare. Anche perché uno poi stando in casa sembra che… invecchi quasi prima! Invece lavorando si hanno più stimoli, più input, ci si muove, ci si sveglia! Sarebbe meglio lavorasse la mia compagna. Secondo me è importante che lavorino sia uomini che donne.
    E con i figli come facciamo?
    Mia mamma mi ha sempre detto che è vero che lei non lavorava però almeno quando noi eravamo malati ci seguiva, stava con noi… Però io conosco molti che hanno entrambi i genitori che lavorano e ce la fanno comunque… Se c’è la nonna è meglio! Nel nostro caso, noi siamo originari del Sud, non avevamo famigliari per cui in effetti se anche mia madre avesse lavorato sarebbe stato un problema e quindi quello è stato anche un buon motivo per rimanere a casa: perché eravamo soli. Se invece ci fossero stati i nonni forse anche mia madre avrebbe fatto scelte diverse.
    Quindi lei si vede bene come papà che si prende cura dei propri figli?
    Va beh, certo, mi piacerebbe, mi divertirei anche, credo. Poi però bisogna vedere i turni perché l’infermiere fa spesso i turni di notte quindi si dovrebbe vedere che mestiere farà la mia futura moglie. Poi comunque se mia moglie sarà della zona saremo avvantaggiati perché ci saranno i nonni, la famiglia, mentre noi eravamo proprio soli, lontani da tutto e da tutti, senza appoggi. (Leonardo)

    Come se la immagina questa sua compagna? Lavorerà?
    Lavora, certo. Poi sai non è che io tutti i giorni penso a cosa farò a trent’anni! (ride) Io vivo alla giornata, al massimo “alla settimana”, e poi si vedrà.
    Comunque immagina una coppia in cui ci si dividono anche i lavori di cura…?
    Eh certo! Se andiamo verso un progresso: andiamo verso una famiglia moderna! (sorride) Io del resto ho avuto questo modello qui: mia madre e mio padre lavoravano entrambi. (Giacomo)

    E la famiglia?
    Penso che se entro i trent’anni fossi economicamente indipendente la farei una famiglia.
    Come se la immagina la sua compagna: lavora?
    Penso che lavorerà anche lei.
    Quindi vi dividerete i compiti, sarete una coppia moderna?
    Certo! (ride). No, io non sono di quelle menti chiuse: le donne stanno a casa a guardare i figli… Se tutti e due si lavora tutti e due si guarda ai figli e alla casa. Spero che sarà così. (Simone)

    43Come si evince dalle testimonianze questo primo gruppo di intervistati non minimizza affatto il problema dell’organizzazione della vita famigliare e della cura dei figli in un contesto in cui sia la mamma che il papà lavorano ma nonostante tutto afferma con convinzione che «è importante che lavorino sia uomini che donne». L’idea che la donna rinunci a lavorare per occuparsi della casa e dei figli non viene neppure contemplata.

    44Un secondo gruppo di intervistati assume una posizione differente: pur non negando l’eventualità che la donna lavori, ritiene che sarebbe preferibile che la futura moglie o compagna potesse scegliere se lavorare o meno. In sostanza la soluzione ottimale per questi ragazzi, futuri padri di famiglia, sarebbe di riuscire a guadagnare a sufficienza da poter mantenere sia la moglie che i figli. Il lavoro femminile viene interpretato soltanto come un peso per le donne, in particolare quando diventano madri: una sorta di male necessario quando la situazione economica della famiglia non è sostenibile con il solo stipendio maschile. È un punto di vista completamente opposto a quello del primo gruppo: l’idea che le donne preferiscano lavorare, anche in presenza di figli, per avere una soddisfazione personale, non viene considerata. Il problema è che le professioni scelte dagli intervistati – maestro, infermiere, assistente sociale… – non offrono stipendi sufficienti a mantenere un’intera famiglia con figli, e gli intervistati ne sono pienamente consapevoli. Da questa constatazione nasce una crisi che porta a risposte combattute e contraddittorie, come si evince da questi dialoghi:

    Come vede la relazione di coppia? La moglie lavorerà?
    Mio babbo e mia mamma lavorano entrambi eppure hanno trovato tempo per stare con me, oppure io stavo con mia nonna. Se mai avrò una moglie, se vorrà lavorare o no per me è indifferente.
    Indifferente o meglio che lavori?
    Meglio che lavori così ci son più soldi, però se vuole stare a casa a guardare il bambino è meglio. Non è meglio, è uguale! Io son sempre stato abituato a vedere mia mamma che esce la mattina e torna la sera perché è andata a lavoro, quindi per me è normale che le donne lavorino. E poi quando avevo bisogno c’era sempre per cui: niente da obiettare (sorride). (Andrea)

    Famiglia? Figli?
    Sì.
    La compagna che farà? Lavorerà o no?
    Farà quello che vorrà fare. Se vorrà lavorare lavorerà poi nel momento in cui avrà un figlio e desidererà stare a casa ad accudirlo lo potrà fare, credo sia necessario. Se lo sente come desiderio penso sia giusto, anche per i figli.
    Quindi lei con uno stipendio da maestro potrebbe mantenere moglie e figli?
    Eh, lo so che lo stipendio è basso, infatti se la moglie portasse anche lei uno stipendio a casa non sarebbe male. (Luca)

    E la sua futura compagna lavorerà?
    Beh, sì, però magari spero che di qui a quando avrò trent’anni magari potrò creare una situazione in cui non sarà necessario far lavorare mia moglie. Anche perché vedo mio padre e mia madre: lui ha lavorato, lei si è occupata della famiglia. Però non so, magari anche la mia compagna dovrà lavorare… Se non ce ne sarà bisogno, tanto meglio.
    Quindi la situazione ottimale sarebbe per lei guadagnare a sufficienza per fare in modo che non sia necessario che lavori anche sua moglie…
    Beh, sì, a meno che anche lei non voglia lavorare. Se anche lei vuole lavorare per soddisfazione personale magari per non sentirsi magari inattiva, passiva, allora ben venga. Però, come soddisfazione mia, mi piacerebbe costruirmi una famiglia e non fargli mancare niente. Arrivare a condurre una vita serena e dignitosa. (Federico)

    45Come si può conciliare questa posizione che interpreta il lavoro femminile come un “male necessario” e quella delle giovani donne intervistate che interpretano il lavoro come un tassello irrinunciabile della propria progettualità futura? Riprenderemo il discorso nelle riflessioni conclusive.

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    1 L’Istituto Stella Maris di Pisa è una struttura d’avanguardia per l’assistenza, per il recupero e per la ricerca sulle devianze dello sviluppo e sulle disabilità dell’infanzia e dell’adolescenza.

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    Irene Biemmi

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    • Biemmi, Irene. (2018) Genere e segregazione formativa. Una ricerca su percorsi accademici "atipici". EDUCATIONAL REFLECTIVE PRACTICES. DOI: 10.3280/ERP2018-001012
    • Perla, Loredana. Sara Agrati, Laura. (2018) Educate the respect of differences. A research on school curriculum. EDUCATIONAL REFLECTIVE PRACTICES. DOI: 10.3280/ERP2018-001003
    • Guerrini, Valentina. (2018) Gender Equality Charter Mark. Uno strumento per certificare le buone pratiche contro gli stereotipi di genere nella scuola in Europa. EDUCATIONAL REFLECTIVE PRACTICES. DOI: 10.3280/ERP2018-001009

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    Biemmi, I. (2016). 7. I ragazzi raccontano: la cura non è solo “roba da donne”. In I. Biemmi & S. Leonelli (éds.), Gabbie di genere (1‑). Rosenberg & Sellier. https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/books.res.4848
    Biemmi, Irene. « 7. I ragazzi raccontano: la cura non è solo “roba da donne” ». In Gabbie di genere, édité par Irene Biemmi et Silvia Leonelli. Torino: Rosenberg & Sellier, 2016. https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/books.res.4848.
    Biemmi, Irene. « 7. I ragazzi raccontano: la cura non è solo “roba da donne” ». Gabbie di genere, édité par Irene Biemmi et Silvia Leonelli, Rosenberg & Sellier, 2016, https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/books.res.4848.

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    Biemmi, I., & Leonelli, S. (éds.). (2016). Gabbie di genere (1‑). Rosenberg & Sellier. https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/books.res.4758
    Biemmi, Irene, et Silvia Leonelli, éd. Gabbie di genere. Torino: Rosenberg & Sellier, 2016. https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/books.res.4758.
    Biemmi, Irene, et Silvia Leonelli, éditeurs. Gabbie di genere. Rosenberg & Sellier, 2016, https://0-doi-org.catalogue.libraries.london.ac.uk/10.4000/books.res.4758.
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