Leopardi: attraversamento dell’illusione e ritorno
p. 47-52
Plan détaillé
Texte intégral
Il poeta deve illudere, e illudendo imitar la natura, e imitando dilettare1.
1Come Lacan, Leopardi non fu un progressista. Non credeva al progresso, ai miraggi dell’età della tecnica di cui fu il primo pensatore: così lo ha definito Emanuele Severino2. Leopardi vide, egli dice, «L’approssimarsi dell’età della tecnica e l’inevitabilità del suo fallimento». Le «magnifiche sorti e progressive» con cui ne La Ginestra versa il suo veleno caustico sui falsi miraggi del progresso, indicano il fondo della sua filosofia e impegno civile in una sorta di restaurazione innovativa, ritorno con invenzione, che è stato anche, se vogliamo, di Lacan, nel tornare e allontanarsi quasi in uno stesso movimento da Freud.
2Per lui si tratta di un ritorno all’antichità, al mondo greco e alla latinità contro la frenesia dei lumi e della credenza a una politica che abolisse le contraddizioni, tacitasse i conflitti in nome di una forma di Stato trasparente, ricomposto nella forma di una legge regolatrice e supposta appianatrice degli odi. In un primo momento egli appoggiò e incoraggiò con la sua penna i sussulti indipendentisti dell’Italia, per poi distanziarsene nella misura in cui aumentava in lui la consapevolezza che erano animati dall’idea di un futuro promettente la libertà dalla natura, tutta trasformata nella trasparenza della ragione. Si tratta, per gli italiani, dice, di «diventare antichi che pensassero alla moderna». Il recupero del mondo greco e della latinità non costituiva un’inversione reazionaria e conservatrice del corso della storia, ma una particolare torsione del tempo, avvicinabile al passato lacaniano che parla al futuro anteriore. Il suo era un invito a ispirarsi innanzitutto alla democrazia ateniese, in cui l’attenzione all’individuo concorreva al bene dello Stato, in una sorta di soddisfazione individuale che va con la soddisfazione di tutti, del Lacan di Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi3.
3L’egoismo individuale si conciliava con il collettivo, laddove invece il moderno piega l’egoismo alla rivalità, all’odio, alle diverse fazioni, alla fin fine contro lo Stato. Utopia sì, ma da interpretare alla luce della sua filosofia e della forma di militanza che ha come arma, di offesa e di difesa, la poesia, il dire poetico. È da lì che partono i suoi proiettili contro l’idea del moderno pervertito dalla tecnica e dal trionfo del sapere. La poesia è il rifugio contro la filosofia rinsecchita dalla ragione, dai deleteri lumi, ma è anche la tensione verso qualcosa.
4Leopardi, nonostante il suo cosiddetto pessimismo cosmico, costruiva ipotesi, esplorava dubbi, progettava mentalmente: insomma, sapeva fare un uso intellettuale, e non ossessivo, dell’impossibile. Sulla politica e il suo deleterio connubio con la tecnica e il progresso, dice nella lettera a Pietro Giordani del luglio 1828:
Massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità de’ popoli si può dare senza la felicità degl’individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso: e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili, e la letteratura utile più veramente e certamente di tutte queste discipline secchissime; le quali anche ottenendo i loro fini, gioverebbero pochissimo alla felicità vera degli uomini, che sono individui e non popoli.
5Antipolitica la sua? No, nella misura in cui la poesia lo tiene fuori da ogni populismo e idea fumosa di massa.
6Il film che Mario Martone ha dedicato a Leopardi ha un titolo quanto mai pertinente: Il giovane favoloso. La fanciullezza indica in lui il registro, quasi mozartiano, dell’illusione antica, antica nella storia individuale e antica nella storia dei popoli, ma per lui l’illusione più autentica, il modo che ha l’umano, l’unico, per far fronte al reale intrattabile dalla tecnica, il modo di intrattenersi autenticamente tra il nulla da cui proveniamo e quello verso cui torneremo. È un tra due morti in cui l’umano, tra la prima e l’attesa della seconda non cade negli abbagli dell’utile e del sapere tutto, ma lo decompleta con il diletto, il puro divertirsi. L’intellettuale per lui è un girandolone, un girovago. Trionfo della contingenza.
7Severino lo definisce un filosofo poeta. Per Leopardi, dice, il vero e perfetto filosofo è sommo e perfetto poeta. E lo cita così: «Non per ragionar da poeta; anzi per esaminare da freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo ardentissimo poeta può conoscere». È nell’ «ardentissimo» che abita il fanciullo rigettato dalla tecnica per sostituirgli un bambolotto romantico e alienato dalle illusioni falsificate, residui della tecnica, suo rovescio. Così, Leopardi stesso definisce la sua una «mezza filosofia».
8L’illusione leopardiana è l’entusiasmo della forzatura della prigionia del limite. Perché prigionia? E qui veniamo all’assoggettamento al padre che il ribellismo leopardiano lascia intatto. La biblioteca è il luogo del sapere che il padre gli ha predisposto, ma alle sue condizioni, ovvero che il padre stesso ne avesse le chiavi, suddivise a seconda dei sottoinsiemi, scaffali e stanze, tutte ricondotte alla chiave che conteneva tutte le altre. Sorta di Altro dell’Altro. E tuttavia la soggezione di Giacomo al padre, il quale rimane al di là e non lascia mai il posto al buco che ne è la verità, non va senza una grande via d’uscita, un saperci fare, diremmo noi. Lo stile di Leopardi trova questo modo nel trionfo della metonimia, che vedrei come contrappeso alla tutta metafora, alla chiave metafora di Monaldo. Lo Zibaldone è, infatti, non un’opera tutta sistematica, ma uno zibaldone, appunto, una congerie di riflessioni tra saggio e diario, metonimica nell’impostazione. Il libro che per Monaldo sarebbe stato inconcepibile, ciò che per il padre della metafora che apre tutto era impensato. Forse è per questo che Joyce lo studiò molto, lo chiamò il leopardo, che cangia, cambia, duttile, flessibile, imprendibile, ma al contempo invariabile, che non perderà mai le proprie macchie. Forse, chissà, è la soluzione della metonimia leopardiana come alternativa, tacito ribellismo al padre, che lo affascinò.
9Egli sperimenta tutti gli stili, sorta di antesignano di Queneau, attraversa varie lingue come a cercarne una composta di tante, utilizza artifici retorici, per esempio l’iperbato, con cui inverte le parole, taglia l’articolazione di una frase posponendone gli elementi, li salta e li direziona altrimenti, incastra l’una nell’altra le inversioni. E al contempo s’ispira all’ideale della chiarezza. Vera incarnazione della contraddizione che attraversa in modo fecondo e moderno tutto il suo essere.
10Per concludere sulla modernità di Leopardi sul sapere: «Io sapeva perché oggidì non si può non sapere, ma quasi come non sapessi, e così mi sarei regolato nella vita». Il non sapere è la dimensione dell’apertura a un certo Infinito, appunto, che non è tanto il rigetto forclusivo di ogni legge, quanto il recupero della passione dell’ignoranza infantile, la spinta propulsiva alla creatività progettuale. Apertura alla contingenza, di cui credo egli sia stato uno dei migliori interpreti.
11Politicamente, è della letteratura che si serve. Quando dice, per esempio, che leggere è contemporaneamente scrivere, è una dimensione attiva, un po’ evocativa di Lacan. Leggendo, per Leopardi, autenticamente, ovvero quasi divenendo ciò che si legge, abbandonandosi alla feconda illusione, produciamo in noi la più alta delle attività, la scrittura, diventiamo ciò che la lettera fa di noi per poi trovare l’invenzione che ci porta a divenire scrittori. Il vero lettore mentre legge scrive. Annodamento borromeico o perlomeno möebico dell’atto.
12Ciò non è solo illustrativo della contraddizione che lo abita fin nelle fibre più recondite, ma anche del dove per lui nasce la poesia, la poiesi, il fare poetico. Il fare parte per lui dal leggere, dal calarsi nella fantasia, nell’illusione, nel senza perché. «Pensier mi fingo», dice. Non è da intendersi come fingere, far finta, simulare, ma, secondo l’antica etimologia latina, plasmare, modellare: mi faccio, modello il mio essere come cosa pensante. È la natura recuperata come pensiero, illusione, dopo l’attraversamento dalla cultura, dalla falsa civiltà che, da sola, è più oscurantismo che pretesi lumi. Da lì, la critica verso la religione come una delle forme peggiori e più passivizzanti dell’illusione: non è quella del fanciullo, ma del rifiuto del corpo e del rimando dell’azione nell’aldilà. E la critica verso le forme movimentiste, politiche di aggregazioni velleitarie perché propositrici di una forma di Stato illuso di risolvere la conflittualità di fondo di ogni aggregazione umana, che non va cancellata e sublimata in una forma statale, ma sussunta in modo plurale e dialettico, esattamente come era per lui nell’antichità.
13Stato di diritto, al di là della «secchissima», egli direbbe, legislazione? Presa in conto dell’individuale nel collettivo rispettando le solitudini e la dimensione tragica dell’esistenza. Questo per lui era possibile pensando modernamente l’antico. Avrebbe potuto essere un preziosissimo collaboratore di un’Accademia del contesto Zadig.
Dibattito
Jacques-Alain Miller
14Leopardi è fondamentalmente l’inizio della fabbrica del si impersonale. Una domanda che mi sono sempre posto rispetto a Leopardi è in che misura la sua configurazione clinica saturi la sua poesia e la sua politica. Parla di se stesso in un modo talmente patetico e descrive un essere così patologico che ci si chiede come da questo essere sia venuto fuori un discorso che parla a tutti. Come da una tale particolarità clinica sia scaturito un discorso universale. Ho trovato molto illuminante il discorso che lei ha fatto sulla metonimia e il richiamo al fatto che Joyce ha molto praticato Leopardi. Mi piacerebbe sapere quale posto lei dà alla melanconia quale diagnosi che viene attribuita a Leopardi.
Paola Francesconi
15Anzitutto è vero che fu il primo che ha avuto a che fare con il si impersonale, di cui ebbe orrore; ebbe orrore del si fuso con la massa e contrappose a questo una concezione collettiva che ha trovato e ha continuato a trovare, forse melanconicamente, solo nell’antichità. Si può effettivamente ritrovare la melanconia dell’oggetto perduto per sempre, anche se Francesco De Sanctis, se mi ricordo bene, disse che Leopardi era vissuto poco – morì nel 1837 – e che se fosse vissuto nel 1848, dove il movimento di aspirazione verso la libertà fu più consistente e oscurò il gruppalismo, si sarebbe schierato nonostante la sua posizione scettica e caustica verso la politica in quanto aggregazione, in quanto cristallizzazione gruppale o movimentistica. De Sanctis dice che secondo lui avremmo avuto esperienza di un Leopardi attivo, di un Leopardi che non disdegna il fare.
16Per quanto riguarda la melanconia: credo che effettivamente «pessimismo cosmico» gli calzi a pennello, come gli calza a pennello «il giovane favoloso». Direi che il suo pessimismo cosmico lo portò a teorizzare poeticamente il peggio; come alternativa al padre per lui non c’era che il peggio, e la scotomizzazione. Quello che non vide è legato al fatto che per lui il peggio era il presente in relazione al pervertimento della tecnica. Fece dei discorsi molto moderni quando parlava del fatto che il progresso avrebbe preso tutto il campo, che ci sarebbe stato il prevalere della logica del profitto, del mercato. Del capitalismo, in fondo. Vedeva le cose lucidamente come il melanconico sa fare, come dice Freud. Teorizzò il peggio, ma il peggio per lui era il presente contingente, il peggio come strutturalmente del presente, il presente in quanto è inevitabile parteciparvisi con il proprio corpo e con la propria vita. Allora dove c’è vita c’è peggio perché c’è qualcosa che sfugge alla tutta-simbolizzazione del Padre, alla mortificazione del ricorso al Padre.
17C’è una frase in cui dice che, a differenza degli uccellini, l’uomo più è vitale più è disperato, mentre gli uccellini più sono vitali, più si muovono, sono vivaci, sono felici. Per lui quindi il peggiore dei mondi possibili in cui viviamo non è tale per le coordinate storiche che indicano l’evoluzione della tecnica verso il peggio, ma lo è per via della sua partecipazione col suo corpo, col suo reale corrotto, con la sua natura corrotta, poiché ciò che sfugge al Padre è corrotto ed è il peggio.
18Leopardi è un melanconico che però ha dei picchi di satira e di umorismo che trafiggono l’attualità in modo estremamente lucido. Per esempio ne I prolegomeni alla Batracomeomachia, dove battezza con i nomi degli animali gli austriaci e i liberali napoletani, ai quali in un primo momento strizzava l’occhio, e diceva loro di fare uno sforzo verso l’eroismo. Per lui l’eroismo era la liberazione dalle catene, ma quelle del corpo e del vissuto. Vide che poi che i liberali napoletani ci mettevano il corpo, ci mettevano la vita, e tendevano a cristallizzare il loro movimento. Allora si separò anche da loro e li battezzò con il nome di topi, mentre le rane erano gli austriaci. La sua melanconia non fu un fattore di inaridimento ma fu un fattore di teorizzazione del peggio. Penso che nell’occidente ci siano pochi che hanno teorizzato il peggio come lui.
19Mi sembra che si possa fare il paragone con Joyce grazie a questa comune disgrazia del Nome del Padre. Per Joyce si è trattato di trovare in un altro nome l’uscita dal carcere del Nome del Padre, invece per Leopardi non c’è uscita possibile. In un certo senso anche lui ha scritto le Lettere dal carcere: le lettere che lui scrive sono tutte dal carcere, dalla biblioteca del padre. Per lui si è trattato di sfuggire al Padre attraverso questa metonimia carica di significazioni e di allusioni poetiche.
20Trovo molto interessante Severino quando dice che per lui la filosofia era finita e che questo è il modo per lui di far andare avanti la filosofia in modo che riconosca di non essere completa. Scrive infatti: «Leopardi è un filosofo-poeta», e lo scrive col trattino, quindi come una parola unica.
21Ci sono innumerevoli punti di contatto con Lacan, tra cui anche questo: Leopardi fa fare alla filosofia uno sforzo di poesia. Lacan diceva «Non sono assai poeta». Poteva dirlo anche Leopardi. Cercava sempre l’infino, l’al di là del limite, e la poesia forza questo limite, il carcere del limite verso qualcosa.
Notes de bas de page
1 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica [1818].
2 E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990.
3 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi [1953], in Scritti, vol. 1, Torino, Einaudi, 2002.
Auteur
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