Précédent Suivant

La repubblica e la rivolta dei desideri

p. 111-125


Texte intégral

1Fin dal 2011, Jacques-Alain Miller faceva sentire che la politica conta per gli psicanalisti, non tanto in quanto cittadini, ma in quanto psicoanalisti1. Freud ha formalizzato come tale la politica, tramite il suo studio dell’istituzione. Ha affrontato la questione del collettivo attraverso il suo saggio Psicologia delle masse, che abbina, non dimentichiamolo, all’analisi dell’io. Quindi c’è nella psicoanalisi una continuità che va dall’individuale al collettivo, che articola, in termini lacaniani, il soggetto con l’Altro. A partire da quello che gli appariva nella cura analitica stessa, Freud ha messo in evidenza che la risorsa della politica, è l’identificazione. Durante una psicoanalisi, si scopre, o per meglio dire, si finisce coll’individuare, che il soggetto è «determinato da un certo numero di cose, che sono infine delle cose dette. Questi elementi sono determinanti in quanto catturano un soggetto, lo guidano e decidono persino del suo modo di godere»2. Sono gli elementi che Freud chiama identificazioni, mentre Lacan usa il termine significanti-padroni.

2Sulla stessa linea, Lacan osa un passo supplementare, stabilendo un parallelo specifico tra l’inconscio e la politica. Bisogna estrarre, isolare questi significanti-padroni, in una cura analitica, perché sono in qualche modo sotterrati; in politica, quelli che funzionano in quanto tali al contrario sono «esibiti, allo scoperto – l’identificazione vi è messa a nudo». Lacan ha così formalizzato il discorso del padrone, di cui il discorso analitico è il rovescio – si capisce il perché. Le modifiche che subisce il discorso del padrone a livello collettivo hanno delle ripercussioni immediate a livello individuale, al livello stesso, diceva J.-A. Miller, della cura analitica. Ecco perché gli psicoanalisti devono stare al passo, nel modo più prossimo possibile, con gli avvenimenti e i cambiamenti del discorso del padrone – questi ultimi essendo per altro determinanti per le condizioni della loro pratica.

Emergenza dello Stato di diritto e del legicentrismo

3Nel corso dello stesso anno 2011, Blandine Kriegel, teorica e storica del diritto politico, pubblicava il frutto delle sue ricerche nella notevole opera La Repubblica e il principe moderno3. Vera e propria archeologia della figura politica, emergenza della Repubblica, ci fa scoprire che essa, nella sua forma moderna e nel tipo di potere che le è consustanziale, non è, come pensiamo troppo spesso, figlia della Rivoluzione francese e neanche direttamente affiliata alla città antica o alle repubbliche delle città del Rinascimento, ma proviene da un momento di rottura, da un avvenimento che fa da momento di crisi, e fonda una nuova figura del potere e dell’Altra politica: lo Stato di diritto. Non ho il tempo qui di riproporre i lineamenti del resto appassionanti della sua genesi. Faccio presente tuttavia il fatto che la Repubblica, in quanto Stato di diritto, nasce da una rivolta contro un progetto imperiale: l’insurrezione dei Paesi Bassi nella cosiddetta “Guerra delle Fiandre” contro l’impero spagnolo di Filippo II nel xvi secolo, che porterà alla nascita delle Province Unite. Guglielmo d’Orange ne incarna «l’oggetto-causa del desiderio repubblicano», «condensatore dei (suoi) concetti e del (suo) godimento»4. I principi che emergono dall’umanesimo erasmiano, dalla Riforma, dal culto della libertà di coscienza, dall’emergenza di una forma di uguaglianza e d’individualismo, finiranno con l’incarnarsi nel diritto al suffragio universale e nella dimensione del potere rappresentativo, l’insieme appoggiandosi quindi sui diritti dell’Uomo.

4Ne emerge quello che Blandine Kriegel chiama il legicentrismo, dove la legge e il diritto diventano centrali. Un testo di Jean Bodin5, intellettuale francese che sostiene la rivolta, fonda il diritto del popolo a destituire il Principe quando quest’ultimo diventa un tiranno, oltrepassando il diritto che lui stesso impone o non rispettando i suoi impegni. Di colpo propone una nuova figura dell’uomo di potere: colui che accetta di essere lui stesso sottomesso alla legge, al “per ogni” che impone al popolo. Egli si dissacra staccandosi dalla figura del Principe di Machiavelli diventando anche lui soggetto dell’universalismo unificatore della legge, non essendo più l’incarnazione di esso, quanto il depositario di una violenza “legittima” per la durata del suo mandato.

5J.-A. Miller dice che il libro di Blandine Kriegel descrive con precisione la cattura della funzione del padrone da parte della legge. Vi si compiono l’unificazione e la pacificazione del corpo politico tramite il diritto. Si può seguire come emerge la funzione, aggiungo, di un nuovo Uno: l’Uno pacifico, l’Uno universale dove ogni soggetto è soggetto della legge. Vi si trova cancellato l’almeno-uno che non lo sarebbe, l’eccezione, la figura del Principe machiavellico che gode di un dominio senza limiti e aggira il diritto, così come ogni articolazione giuridica e ogni sapere.

6Blandine Kriegel e Isabelle Durant, l’allora Vice-presidente del Parlamento europeo, invitate a partecipare a un dibattito a Bruxelles6 hanno tutte e due sostenuto l’idea che, in quanto siano rispettate le condizioni di questo tipo di potere, si incontrerebbe la garanzia di una comunità umana in cui la guerra non avrebbe più posto.

La questione del godimento

7Psicoanalisi e diritto hanno un punto in comune: la questione del godimento. È il caso anche delle religioni. «Il fondamento del significante-padrone [della legge] risiede in una distribuzione alienata dei godimenti». Senza dubbio il diritto tenta di fissarne una distribuzione senza resto – il che ha potuto dare l’illusione all’Europa, alle sue istanze e ai politici attuali di poter dirigere con una burocrazia delle norme. La psicoanalisi sostiene, con l’insegnamento delle sue cure, che quest’orizzonte è impossibile7. Per questo la psicoanalisi deve operare sull’ideale politico.

8Che non ci sia azzeramento dei godimenti con l’Altro del diritto e l’ordine simbolico, è la tesi e l’orientamento per la psicoanalisi, che Lacan dà fin dal suo Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione. Tutto quello che punta all’Uno dell’unificazione e della pacificazione tramite la legge si imbatte sempre in una resistenza: quella di una «rivolta dei desideri» contro «la routine sociale»8. Permane un inciampo su un ineliminabile, un resto incancellabile e permanente, un più-di-godere instancabile. Questo resto fonda altrettanto la vita stessa dell’essere parlante quanto l’obiezione a ogni idea di fine della Storia o di uscita dall’alienazione.

Dal diritto all’insurrezione

9Il sintomo è il segno di questa rivolta del desiderio. Quello che ha di più reale non si riduce con la legge. Non è solo che si abbia sempre ragione di ribellarsi9, è che, di struttura, qualcosa si rivolta contro ogni volontà di unificazione. Il sintomo è perciò un’insurrezione che segna il ritorno della verità nell’incrinatura del sapere. Segna un diritto all’insurrezione di ogni epoca contro la volontà dell’Uno in essa.

10Per questo alla forma giuridica della Repubblica si deve annodare la democrazia. Le due, l’avrete notato, non si confondono, e ciascuna, sola, non è garante di niente: la Repubblica garantisce lo Stato di diritto, ma si lascia infiltrare dall’aristocrazia dei legislatori e dall’abuso di potere dei corpi burocratici; la democrazia garantisce la voce e il governo del popolo, ma il popolo può anche scegliersi un tiranno e lasciarsi andare a dei godimenti inaccettabili10. È un nodo – in tutti i sensi del termine – che deve conservare la sua articolazione sempre traballante e la sua flessibilità per stringere un impossibile.

L’orientamento dell’analista

11Né conservatore né progressista, l’analista è, al meglio, analista, forte del realismo che ha acquisito dalla propria cura quanto al rapporto del godimento con l’ideale. In questo senso, non può non provare tenerezza per i rivoltosi. Ma egli sa anche, secondo la dimostrazione di Lacan, che il desiderio di rivoluzione può essere un appello a una nuova identificazione, a un nuovo padrone – quando è sorretto dall’illusione di un’ideale di dominio di questo resto ineliminabile. L’analista sa che il sintomo non si regola con la padronanza: s’interpreta e richiede un maneggiamento basato su una strategia, una tattica e una politica11. Il desiderio di democrazia ha origine lì per lo psicanalista: ai giorni nostri la democrazia sembra essere l’unica forma politica, per parafrasare Éric Laurent, che può, nell’ambito dello Stato di diritto, «sopportare tutte queste contraddizioni», «volere il dibattito e la messa in parole dei rapporti di forza» che si giocano nella Storia per superarlo a un livello superiore12. È anche l’unica forma politica che rende d’altronde possibile una pratica analitica vera13, in quanto è di fatto “politica”.

12L’analista, per via del suo desiderio, non è neutro14. Se non ha nessun valore morale in sé, è orientato da un’etica che dissocia e isola la presa dell’ideale sul godimento. Egli sa difendere e sostenere le forme politiche che fanno posto a questa etica ed è in opposizione, di fatto, con quelle che la ostacolano. In quanto analista, per niente idealista, al servizio di nessun potere, egli conosce anche la natura più specificamente mortifera di certi godimenti, il loro carattere radicalmente inconciliabile con certi valori della vita. Dovrebbe quindi sapersi erigere e combattere ciò che Lacan qualificava come «nemici del genere umano»15, tanto nel suo registro storico quanto nelle sue nuove forme. Il politico ha, per questo, molto bisogno dell’interpretazione dello psicanalista.

Domenico Cosenza

13Volevo chiedere ad Arianna Montorsi, dal punto di vista di una scienziata che si interessa alla politica democratica, cosa è possibile mettere in atto perché le élite tecno-scientifica non diventi qualcosa che sfugge alla dialettica della vita democratica, come potevano essere alcune caste inavvicinabili.

14Rivolgo la domanda, anche a Michele Roccato, in quanto ha toccato anche lui questo tema, individuando in queste élite sia tecno-scientifiche sia burocratiche, uno dei rischi della democrazia contemporanea.

15L’altro aspetto che volevo sottolineare, rivolgendomi a Michele Roccato e a Yves Vanderveken, riguarda la dimensione di ciò che fa opposizione, fa resistenza a questo tentativo di determinazione integrale da parte di un altro che sembra disporre del potere-sapere sulle collettività. Michele Roccato faceva riferimento a due classi eterogenee all’interno dell’analisi del cosiddetto populismo, e che in qualche modo lui salva, a cui dà una dignità politica: la classe degli insoddisfatti e la classe di coloro che mettono in atto delle politiche antisistema o di opposizione. Mi chiedo se laddove è in gioco l’insoddisfazione e l’opposizione antisistema non ci sia modo in qualche misura di recuperare queste posizioni a una dialettica di tipo democratico. Ci sono i margini per fare emergere da queste posizioni qualche cosa che sia dell’ordine di una domanda, se si riesce ad interloquire a livello della parola con questa insoddisfazione e con questa opposizione?

16Chiudo con un riferimento al testo di Yves Vanderveken rispetto a una frase che ho trovato formidabile, la definizione del sintomo, una definizione politica del sintomo: il sintomo è un’insurrezione. La trovo molto interessante perché mostra da un lato che c’è qualcosa nel sintomo che non si lascia ridurre a nessuna presa integrale da parte dell’Altro, e d’altro canto mostra qualcosa su cui abbiamo discusso tutta la giornata, la politicità del sintomo come qualcosa che, se è fatto parlare, può permetterci di introdurre qualcosa di vitale nel gioco democratico. Arianna Montorsi

17La risposta è semplicissima: un algoritmo può fare una scelta? L’algoritmo può fare le scelte che noi lo istruiamo a fare. In particolare le macchine di apprendimento profondo imparano. Imparano a riconoscere un bambino che incrociano per strada molte meglio di noi. Imparano a riconoscere un muro. Faranno quello che noi le istruiamo a fare e questo dipende dall’umano. Se disattiviamo il comando e lasciamo il comando alla macchina, essa sarà guidata da un algoritmo che un altro umano ha fatto. L’algoritmo però non lo ha inventato la macchina, che non è in grado di prendere decisioni non scelte da noi umani.

18Come difenderci dalle élite tecnocratiche? Specifico: tecnocratiche. Non mi piace tecno-scientifiche, perché la scienza è un’altra cosa. Ci difendiamo con le regole della democrazia e a questo proposito vorrei citare ciò che diceva stamattina Gabriele Magrin. Lui si chiedeva se esiste un desiderio di libertà cosi deciso da includere il desiderio di regole per garantirla. Occorrono regole che vanno pensate, soggetti politici in grado di proporle e istituzioni in grado di imporle. Democrazia non vuol dire libertà assoluta, democrazia vuol dire regole.

Miquel Bassols

19Vorrei fare una piccola osservazione in quanto molto interessato dall’interfaccia tra tecnoscienza e soggetto della scienza e dalla questione se, cosa da discutere, un algoritmo può fare una scelta: se un algoritmo può fare un calcolo, dare una risposta, un risultato, questo suppone necessariamente che questa sia una scelta? E se è così, se pensiamo che un algoritmo può fare una scelta nel senso soggettivo della parola, perché sarebbe necessaria la luce interiore di Simone Weil, che è una certezza su una scelta? Infatti, per riprendere ciò che dice Marie-Hélène Brousse, la luce interiore di Simone Weil come decisione politica non è una credenza, è una scelta, che non si basa sulla credenza, ma su una certezza, su cosa è il reale. In questo senso, come diceva Jacques-Alain Miller, Simone Weil è un’eretica. Un eretico etimologicamente è sempre qualcuno che fa una scelta. Un risultato fatto da un algoritmo, anche di una macchina molto complessa, possiamo dire che fa una scelta nel senso soggettivo della parola? È una questione importante, perché giustamente la democrazia implica sempre una scelta non automatica. Arianna Montorsi

20Vorrei essere in grado di rispondere in maniera più profonda, ma non lo sono. Rispondo dal punto di vista scientifico. L’algoritmo fa una scelta nel senso che quando riconosce un oggetto per strada, come un bambino, sceglie che è un bambino piuttosto che un palo della luce. In quel senso fa una scelta. In una scelta di quel tipo, vale a dire nel riconoscere se è un bambino piuttosto che un palo, è garantito che quell’apparato che c’è a bordo della nostra auto commette molti meno errori degli umani. L’algoritmo è più certo di riconoscere correttamente. Questo è il livello dell’apprendere che implica anche di fidarsi del fatto che l’algoritmo fa meno sbagli. Ci sono poi altre implicazioni. Una volta che l’algoritmo ha realizzato questo primo processo di riconoscere qualcosa, deve decidere cosa fare. In questa seconda fase, solo l’umano può intervenire, al momento attuale.

21Su la luce interiore di Simone Weil, la mia preoccupazione è che la nostra parte inconscia reagisce a degli input esterni in maniera automatica. Se questi input esterni vengono forzati per falsificare la realtà che vediamo in modo da costringere il nostro inconscio a reagire in maniera sbagliata, la luce interiore può non bastare. Ci vuole la parte consapevole che confronta l’input sbagliato con delle conoscenze, per esempio il fatto che quell’input è sbagliato perché qualcuno ha voluto forzare il nostro inconscio. Non basta fidarsi del nostro inconscio perché può essere manipolato. Posto che io non so cos’è l’inconscio. Miquel Bassols

22Grazie a Arianna Montorsi che ha toccato un punto molto importante: l’inconscio infatti è questo punto che è sempre implicato nella soggettività di una decisione, di una scelta.

Michele Roccato

23Anch’io tendo a non accettare questa idea dell’élite tecno-scientifica, perché sono d’accordo che la logica della politica è diversa dalla logica della scienza. C’è un libro divulgativo appena uscito, un’opera di Burioni, uno degli scienziati più impegnati a discutere le tesi anti-vaccinali di alcune frange di popolazione, che ha come sottotitolo Perché la scienza non può essere democratica. La scienza non è democratica. Piero Angela lo diceva in maniera molto spiritosa: la velocità della luce non si decide per alzata di mano. Parliamo quindi dell’opposizione all’élite tecnocratica perché la scienza ha una logica diversa da quella della democrazia. L’idea fondamentale è di prendere ogni spunto possibile per riportare il dibattito dal tavolo “tecno” al tavolo politico che gli compete. Questo si collega con una delle cose che dicevo prima: questi movimenti a cui ho fatto cenno che si oppongono all’uso, a loro sgradito, del loro territorio, in realtà molto spesso hanno come effetto collaterale quello di provare a riportare il dibattito sul tavolo politico. Decidere se costruire un’opera, decidere come e dove costruirla, rappresentano tutta una serie di cose che fanno riferimento a questioni politiche, ma rispetto a cui le decisioni molto spesso vengono demandate ai tecnici. Queste opposizioni molto spesso insopportabili, molto spesso dogmatiche, hanno come effetto collaterale di indicare alla politica che la decisione è politica e non tecnica. Questa è una delle cose più importanti che ci consentono di sviluppare. Come diceva Luigi Bobbio in un libro di qualche anno fa, alla crisi della democrazia rappresentativa si risponde con delle iniezioni di democrazia, essenzialmente accettando ai tavoli decisionali quelli che si sentono in diritto di, per certi lati, o anche in dovere di intervenire, forse anche in dovere di cambiare certe volte le regole del gioco. Dal mio punto di vista l’alternativa non esiste. Così come, per quanto riguarda alcune delle istanze populiste, se segnalano come sembrano dimostrare dati empirici che c’è un problema di rappresentazione, se queste sono istanze di proteste, si tratta di prendere il buono da esse. Altrimenti si rischia che da una fase di protesta si passi a una fase di uscita dalla politica o qualcosa di più inquietante, che purtroppo si è già visto in passato in Italia e anche all’estero.

Yves Vanderveken

24Rispondo a ciò che Domenico Cosenza indicava come definizione politica del sintomo. Già Freud intendeva il sintomo come insurrezione, quando lo considerava come protesta della pulsione che, tramite il sintomo, si soddisfa in maniera sostitutiva, andando contro ciò che spinge alla sua normalizzazione tramite gli ideali e le identificazioni. Motivo per cui come analisti potremmo riconoscerci nelle due classi evocate degli insoddisfatti e degli anti-sistema. Jacques-Alain Miller diceva a Bruxelles, suppongo sotto forma di provocazione, che era populista. Detto questo, l’insoddisfazione e l’opposizione antisistema possono nutrirsi di un ideale nascosto di soppressione o di sradicamento di questo desiderio cattivo, secondo l’espressione usata da Éric Laurent, che abita ciascuno e che porta spesso a domandare un’analisi. L’ideale di soppressione può a volte produrre un’analisi in cui, invece di sradicare il desiderio cattivo, si attua una riconciliazione, come si diceva questa mattina, una specie di nuova alleanza con tale desiderio, probabilmente altro dalle soluzioni proposte dalle classi populiste degli insoddisfatti e delle opposizioni anti-sistema.

Miquel Bassols

25Vorrei porre una questione sul suo intervento molto interessante. Lei ha messo in rilievo i momenti storici che Blandine Kriegel segnala come vera nascita della Repubblica. Lei però ha aggiunto che ci vuole questo slancio repubblicano, poi una democrazia, per tentare di portare avanti la conversazione continua che richiama alla fine. Pensa che sia possibile una democrazia psicoanalitica, nel senso di continuare una conversazione salvaguardando sempre il posto della singolarità dell’altro come soggetto della parola e di un godimento, dove il soggetto può essere preso sempre al di là di qualsiasi movimento di identificazione globale? Cosa molto difficile perché di solito nel campo politico si tratta piuttosto di fare gruppo, di trovare un’omogeneità con l’altro. Una conversazione analitica è fondata piuttosto sulla differenza, trovare la differenza della singolarità del soggetto. Crede sia possibile pensare una democrazia psicoanalitica in questo senso, al di là del dispositivo analitico stesso, cioè una conversazione che rigetti sempre l’inerzia dell’identificazione? Si può portare l’esperienza psicoanalitica al di là del suo dispositivo, in questo momento in cui la psicoanalisi entra, seguendo la logica Zadig, in una conversazione politica generalizzata? Yves Vanderveken

26Non sono sicuro di saper rispondere a questa domanda molto complicata. Una democrazia psicoanalitica? Può darsi. All’inizio di questa sessione pomeridiana del Forum, lei, Miquel Bassols, ha posto una domanda che ha attraversato tutta la sequenza, vale a dire se il desiderio e il godimento siano democratici.

Miquel Bassols

27Il godimento è sempre democratico.

Yves Vanderveken

28Una democrazia psicoanalitica? Nel campo della politica? Penso che, anche se Lacan ha sviluppato una continuità tra l’inconscio e la politica, il campo d’azione dell’analista nella politica è quello dell’interpretazione, non quello del servizio.

Domanda dal pubblico

29Una domanda per Arianna Montorsi il cui intervento è quello che si è di più focalizzato sul problema del fatto che la tecnologia ha un’influenza enorme sul funzionamento delle nostre democrazie attuali. Lei metteva in luce il grande disequilibrio che si crea nei poteri delle decisioni. Gli algoritmi sono conosciuti e vengono decisi da piccole élite tecnocratiche sulle spalle di noi, molti, che li utilizziamo. Questo è l’aspetto quantitativo, che effettivamente è importante, riduce il campo della decisione. Secondo me c’è un altro aspetto che è utile e importante mettere in risalto, che è quello che la tecnologia attuale sgancia dal territorio, non ha bisogno di un territorio. I flussi passano in modo globale e ciò li rende incontrollabili. Se io scelgo un libro su Amazon e mi arrivano i consigli – potrebbe piacerti anche questo e questo – non si tratta di consigli, suggerimenti o imposizioni mascherate che mi vengono dal governo dello Stato a cui appartengo, ma non si sa da dove. Siamo in una situazione in cui le decisioni non sono più legate a un territorio. Quello che si rievocava, ricordando gli interventi di questa mattina, sulla necessità di regole e di istituzioni, quindi un richiamo di nuovo alla politica, ci riporta alla necessità di un territorio. Regole, istituzioni politica sono tutte legate al territorio. Come possiamo riportare queste funzioni, che sono in crisi – oggi lo stato sovrano è in crisi – al governo, in una dimensione diversa, che sfugge questa possibilità? Credo il problema sia, come diceva Christiane Alberti questa mattina, di cercare un nuovo uso del significante padrone, un nuovo uso della politica che non sia più la vecchia politica, che non è semplicemente una classe decaduta, ma non ha più le leve necessarie per intervenire.

Arianna Montorsi

30Sono d’accordo sull’analisi che lei fa, è un fenomeno transnazionale, però è facile identificarlo. Ieri al Politecnico ho sentito una tesi di dottorato di un ragazzo che aveva fatto tutto da solo una ricostruzione. Sapete che quando andiamo su un sito compare il messaggio: «Accettate voi l’uso dei cookies?». Praticamente se accettate, loro possono raccogliere i dati di come navigate in rete. Ora lui è riuscito a ricostituire su circa 20.000 siti europei che hanno questo tipo di procedure quali, in seguito al diniego, effettivamente non raccolgono i dati, e quali invece continuano a raccoglierli. Più del 50 % di grosse istituzioni, quando si clicca “No”, continuano a raccogliere i dati perché si nascondono dietro al fatto che li usano loro ma non li trasmetto a altri partner. Sicuramente in questo contesto il livello nazionale è assolutamente obsoleto. Quello che diceva qualcuno, una politica delle regioni e una politica transnazionale, sembrano un contesto molto più adatto. Domanda dal pubblico

31Una domanda per tutti, ma in particolare per il prof. Mastropaolo. Mi sembra che con ciò che Lei ha indicato in relazione alla caduta del muro di Berlino, ci troviamo in un paradosso. La domanda è: come possiamo interpretare, o analizzare che, dopo la caduta del muro di Berlino, altri muri siano stati eretti? Parlo, personalmente, a partire da ciò che sta accadendo nel mio paese, il Messico, rispetto alla costruzione di un muro da parte degli Stati Uniti. Vorrebbe dire che si sta producendo un rafforzamento più brutale della democrazia ideale? Alfio Mastropaolo

32In linea generale sono piuttosto d’accordo sul tipo di società che desideriamo. Quello che contrasto è la banalizzazione della parola democrazia perché la usano tutti: democratico è il Papa, democratico è Berlusconi, il presidente del Messico, Donald Trump…? Questo è un vizio, un’inflazione della parola, non significa più niente. Se tutti sono democratici semplicemente perché sono eletti a maggioranza, questo significa che qualcosa non funziona e ciò si vede da una generale sfiducia nelle istituzioni democratiche di cui qualcuno ha parlato. Assistiamo oggi a una condizione di ammutinamento generalizzato degli elettori, di diserzione dell’elettorato, di obiezione di coscienze elettorali. In Francia il presidente francese è stato eletto da meno della metà (se si contano anche le schede nulle) degli elettori che hanno votato. Quindi non rappresenta niente nella società francese. Michele Roccato diceva che c’è un problema di rappresentanza. Secondo me non c’è soltanto un problema di rappresentanza, ma anche un problema di ascolto. Cosa vuole la gente? Cosa vogliono gli esseri umani in questo momento? Vogliono essere ascoltati e non solo per il piacere di essere ascoltati o di parlare, vogliono delle cose molto concrete: vogliono occupazione, dignità nelle relazioni sociali, vogliono che le donne siano trattate decentemente. Non cerchiamo di parlare di democrazia attraverso le quote femminili in parlamento, cerchiamo di rispondere a questi problemi attraverso gli asili nidi, l’assistenza per ragazze madri, la protezione delle donne nei confronti degli uomini… Mi sembra che diamo delle risposte formali a dei problemi che sono sostanziali.

Marie-Hélène Brousse

33Nel dibattito e negli interventi, più volte la questione della rappresentazione, quasi strutturale, nella democrazia è stata ripresa sul versante di una evoluzione o di una debolezza vieppiù grande dell’ideale della rappresentazione. Dal punto di vista psicoanalitico si coglie a differenti livelli e caratterizza, secondo me, un tratto della nostra contemporaneità, la cancellazione della rappresentazione a vantaggio della presentazione. Tutti i social network, di fatto, sono dal lato della presentazione piuttosto che della rappresentazione. Assistiamo a una decadenza progressiva o a un disinvestimento libidico della rappresentazione a vantaggio della presentazione che tocca uno degli aspetti fondamentali del governo democratico.

34L’altro punto concerne qualcosa che Vanderveken riprendeva del mio intervento, in relazione allo scambio tra lui e Miquel Bassols. Nel mio intervento, risultato di un anno di lavoro, ho richiamato la questione delle minoranze che avevo colto negli Stati Uniti, dove avevo domandato a qualcuno quale fosse il maggior problema attuale, e mi aveva risposto: minority politics. Perciò ho lavorato sulla questione delle minoranze, in particolare negli Stati Uniti. È dunque dal punto di vista della maggioranza – la maggioranza e le minoranze sono fondamenti della democrazia – che ho messo nel mio lavoro l’orientamento di Lacan sulle minoranze, che sono connesse sia alla perversione sia alla sublimazione, che in Lacan sono relativamente prossime l’una all’altra.

35Se prendiamo per esempio la lotta dei gay negli Stati Uniti, vediamo che sono riusciti a uscire dal DSM in quanto perversione e progressivamente, con tutto un lavoro democratico, hanno preso posto e si sono imposti. Possiamo dire effettivamente che le minoranze sono dal lato della perversione e della sublimazione. Soltanto un analista può dire questo, poiché non c’è in psicoanalisi alcun giudizio di valore rispetto alla perversione, soltanto l’idea che ogni fantasma è perverso. Quello che si presenta a noi oggi è un’alternativa possibile: o le minoranze faranno avanzare di più la democrazia dal lato della sua struttura del “per tutti”, o promuoveranno una auto-segregazione, come vediamo all’opera negli Stati Uniti, con un concetto come quello di appropriazione culturale, in cui, se ci si mette un copricapo indiano in una sfilata di moda, si viene accusati di sottrarre la proprietà culturale di una minoranza. Siamo a un incrocio: o questo sarà lo sgabello di una democrazia che ne uscirà più forte perché multipla, oppure andremo verso una segregazione, a partire dai modi di godimento, sempre più forti.

Domanda dal pubblico

36Rispetto alla questione che mi è sembrata molto interessante posta da Yves Vanderveken e ripresa anche da Marie-Hélène Brousse, che si lega al fatto che l’analista è orientato da un’etica che dissocia e isola la presa dell’ideale sul godimento, nel suo intervento lei mette in rilievo che il desiderio di rivoluzione, se è sostenuto dall’ideale di poter governare questo resto inevitabile di godimento, fa appello a un altro padrone. Questo mi interroga molto rispetto a quelli che sono stati negli anni, non solo in Italia ma a più livelli nel mondo, i movimenti che hanno cercato, a partire da questioni che riguardano un certo modo di godere, di trovare un loro modo di inclusione, ma d’altra parte, effettivamente, spinti sempre a cercare un nuovo padrone.

Domanda dal pubblico

37Volevo fare una domanda al prof. Michele Roccato. Mi ha colpito molto il concetto di insoddisfazione. Un’insoddisfazione che va al di là di ciò che possono essere le rivendicazioni economiche o sul piano dei valori. È un’insoddisfazione verso la democrazia che mira a qualcosa di diverso, a qualcosa che va al di là. Mi viene in mente un riferimento che lei ha fatto. Anch’io ho amici nel Movimento 5 Stelle. Sono persone che non avrebbero nessun motivo di insoddisfazione. Però se si chiede loro perché votino Movimento 5 Stelle, rispondono: «Perché, tu sei soddisfatto di questa democrazia?». D’altra parte mi viene in mente la Catalogna: non è l’Andalusia che ha chiesto di separarsi dalla Spagna, ma una regione che è la più ricca di Spagna, quindi non c’è una motivazione economica. Immagino che ci sia nel catalano un’insoddisfazione che va al di là della questione economica. Il rapporto del soggetto con la democrazia in termini di insoddisfazione è un punto fondamentale.

Yves Vanderveken

38La questione del desiderio di rivoluzione come ricerca di un nuovo padrone è l’interpretazione di Lacan del Maggio Sessantotto. Per rispondere però alla sua domanda: o le insurrezioni contro la normalizzazione delle singolarità dei modi di godere sfociano nel riconoscimento di un desiderio, ma di un desiderio come intendiamo in psicoanalisi, quindi in quanto in esso non ci si riconosce, in quanto divide il soggetto, o si finirà per fare di tale riconoscimento un nuovo ideale e delle nuove identificazioni, quindi, come diceva Marie-Hélène Brousse, una nuova auto-segregazione.

Michele Roccato

39Lei domanda insoddisfazione per che cosa. Sicuramente per come funziona la democrazia, per come funzionano le istituzioni. Ma è anche qualcosa di più, insoddisfazione almeno in parte per il fatto che si sente che la cosa pubblica non è gestita adeguatamente. In ambito psicologico sociale i meccanismi di questo genere sono diffusissimi. Per esempio una delle cose più interessanti che ho scoperto, in uno degli altri ambiti di studi di cui mi occupo, che è la paura del crimine, è che la paura del crimine è tendenzialmente la paura di qualcos’altro travestita da paura del crimine. Questo si vede molto bene mettendo insieme dati contestuali su come funzionano il welfare state, la democrazia e così via, nei vari paesi, con l’esperienza di essere stati vittime di un crimine, come questi si riverberano da soli in un’interazione sulla paura del crimine. Quello che si vede è che l’insoddisfazione per il funzionamento dello stato della democrazia, del sistema sociale, molto spesso tende a essere travisata dalle persone, la trasformano in un’altra paura. Perché? Perché questa è nominabile mentre l’altra è molto più complessa da vedere. Per cui insoddisfazione per questo essenzialmente, che poi assume le proprie declinazioni anche in funzione di quello che c’è, per esempio, nel mercato della politica. Diceva Mastropaolo che manca l’ascolto, e sicuramente manca. Una cosa molto interessante è che quando si pensa alle vittime economiche della mondializzazione, della modernizzazione, in realtà ci si concentra forse troppo sull’aspetto effettivo, su coloro che davvero sono a rischio. In realtà quello che i nostri dati ci mostrano è che, più che essere effettivamente a rischio, conta il sentirsi a rischio. È un altro livello che deriva ancora una volta da dinamiche che sono sicuramente, sociali, politiche, economiche, oltre che dinamiche della vita quotidiana delle singole persone. Nel 2013 si vedeva che gli elettori dei Grillini erano quelli che erano più a rischio dal punto di vista economico. Nei dati dei sondaggi, nel 2016-2017, non è più così. La mia idea è che il partito di Grillo sia una specie di test proiettivo su cui ognuno butta dentro quello che crede che ci possa essere, sulla base delle proprie aspettative. È difficile trovare un profilo unico al Movimento 5 Stelle. Il problema mi pare che sia che, finché noi reagiamo a quello che non capiamo con la stigmatizzazione, sicuramente non andremo da nessuna parte.

Miquel Bassols

40Per concludere richiamerò soltanto un’idea espressa da Gabriele Magrin, quando ricordava quello che scrive Platone, che l’uomo democratico vuole fare ciò che vuole, ma non sa cosa vuole. Questo è l’inconscio, non sapere quello che uno vuole. Però adesso qualcuno ha dato una risposta, l’uomo democratico, vuole soprattutto essere ascoltato.

Notes de bas de page

1 Durante la sua introduzione a un incontro, organizzato dall’ECF con “La Règle du Jeux” al Cinema Saint-Germain-des-Prés il 21 novembre 2011, insieme a Bernard-Henri Lévy intorno al suo libro Guerre sans l’aimer, Paris, Grasset, 2011. Appunti dell’autore.

2 Ibidem.

3 B. Kriegel, La République et le Prince moderne, Paris, PUF, 2011.

4 J.-A. Miller, Blandine Kriegel et l’archéologie de la République, “Lacan Quotidien”, 100, http://www.lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2011/11/LQ-1001.pdf, trad. nostra

5 Cfr. Jean Bodin, Vindiciae contra Tyrannos [1576], citato, studiato e analizzato in Kriegel B., La République et le Prince Moderne cit.

6 La figura moderna del potere, incontro con B. Kriegel, intorno al suo libro La République et le Prince moderne, e I. Durand, vice-presidente del Parlamento europeo, organizzato dall’Association de la Cause freudienne in Belgio e il Kring voor Psychoanalyse il 31 gennaio 2012 a Bruxelles.

7 E. Laurent, Le Prince caché, “Lacan Quotidien”, 113, http://www.lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2011/12/LQ-113.pdf.

8 J.-A. Miller, L’Autre sans l’Autre, “Mental”, 30, trad. nostra.

9 Cfr. Mao, citato da J.-A. Miller, Enfants violents, in D. Roy e L. Dupont (a cura di), Aprés l’enfance, Paris, Navarin, 2017.

10 P. Prost, Le moment républicain, “Lacan Quotidien”, 107, http://www.lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2011/12/LQ-1071.pdf.

11 J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere [1958], in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, vol. 2, pp. 580-642.

12 E. Laurent, Nuove incarnazioni del desiderio di democrazia in Europa, in questo volume.

13 J. Lacan, La psicoanalisi vera e la falsa [1958], in Altri Scritti, Torino, Einaudi, 1974, pp.165-174.

14 J.-A.Miller, Le point de capiton, Corso di psicoanalisi del 24 giugno 2017, lacan-tv.fr.

15 J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica [1946], in Scritti, Torino, Einaudi, 1966, vol. 1, p. 151.

Précédent Suivant

Le texte seul est utilisable sous licence Creative Commons - Attribution - Pas d'Utilisation Commerciale - Pas de Modification 4.0 International - CC BY-NC-ND 4.0. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.