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Autoritarismo psicologico latente e pericoli per la democrazia

p. 105-110


Texte intégral

1Da alcuni anni l’Europa e il resto dell’Occidente sono caratterizzati da una crisi generale della democrazia rappresentativa. Crisi che ha molte cause, dalla scarsa rispondenza della classe politica alle legittime esigenze dei cittadini alla sua corruzione e inefficienza, effettive o anche solo percepite; dalla crisi economica e sociale all’aumento della sensazione di marginalità e di esclusione di strati sempre più ampi della cittadinanza; dalla crescente diffusione di immigrati, considerati minacce all’ordine sociale e ai valori dominanti, alla perdita di speranze e di prospettive future di amplissime fasce di popolazione. L’Italia non fa eccezione in questo quadro, con l’aggravante di una rilevante specificità: come ha recentemente notato Orsina1, il fatto che la nostra classe dirigente continui a scontare il senso di superiorità rispetto alla pubblica opinione sviluppato a fine Ottocento, quando ha innescato un processo «ortopedico e pedagogico» volto a portare nella modernità, con le buone o con le cattive, un paese arretrato economicamente, culturalmente e socialmente. L’operazione ha avuto successo, ma il senso di superiorità è rimasto, pur essendo sempre meno giustificato. Questo ha contribuito a favorire la diffusione nell’opinione pubblica delle basi delle idee populiste: l’idea che il popolo sia un’entità omogenea e virtuosa contrapposta all’élite corrotta e autoreferenziale, che la contrapposizione fra destra e sinistra sia ormai irrilevante e che sia desiderabile, quando non indispensabile, affidare il potere a un capo carismatico in grado di soddisfare i bisogni del popolo saltando ogni istituzione intermedia. Vedremo fra poco quali sono i tratti caratteristici del populismo italiano. Per adesso, limitiamoci a notare come il populismo sia solo una di due possibili risposte alla crisi della democrazia rappresentativa tipicamente individuate; a mio parere, potenzialmente la meno inquietante delle due, come argomenterò in seguito.

1. Lo sfondo: la vacillante pregiudiziale pro-democratica

2Dalla Repubblica di Weimar in poi si sa che nelle situazioni di crisi sociale, politica e economica, il potenziale antidemocratico di individui e società si eleva. L’Italia è evidentemente fra i luoghi in cui la crisi sta costituendo il terreno di coltura della “terza ondata” di movimenti antidemocratici, dopo quella fascista e nazista prima, e quella degli anni 1960-1970 poi. Nel nostro paese, fino a non molto tempo fa, la democrazia era data per scontata. Ma il suo supporto era più fragile del previsto, e la «crisi dell’antifascismo», come l’aveva definita Luzzatto, era incipiente. Ormai una quindicina di anni fa, in una ricerca condotta nell’ambito del programma di ricerca Itanes (Italian National Elections Studies), avevamo mostrato che solo il 50 % circa degli italiani si definiva antifascista, e circa il 30 % si definiva anticomunista. Questo quando si permetteva agli intervistati di scegliere tutte le possibili etichette politiche che li potevano descrivere. Quando si faceva scegliere loro la più importante di tali etichette, solo il 2 % circa degli italiani sceglieva una delle due2. Del resto, anche la rimanente porzione di elettorato non doveva rassicurarci. Come sosteneva Cacciari in un’intervista del 2005:

Fascismo e comunismo, secondo le loro formulazioni reali, sono cani morti […] siamo tutti antifascisti […] e quando una parola va bene a tutti vuol dire che ha perso di significato, per forza, ci diciamo “anti” di qualcosa che è morto e sepolto […] le parole si usurano, e l’antifascismo purtroppo è diventato un luogo comune che sta sulla bocca di tutti.

3Se era così una quindicina di anni fa, con ogni probabilità ora lo è ancora di più. Non lo dicono solo le analisi scientifiche: è sufficiente aprire un giornale o accendere una televisione per rendersi conto dell’inquietante recrudescenza delle propensioni all’antidemocrazia di persone apparentemente insospettabili. «Troppa indulgenza, per troppo tempo, verso le manifestazioni di nostalgia – e troppa retorica fondata solo sull’anti-fascismo e non sui principi liberali, democratici e solidali – hanno abbassato le difese immunitarie», come ha scritto Pietro Ignazi su Repubblica nei giorni in cui redigevo questo testo. In questo quadro, si è evidentemente aperto uno spazio per alcune minacce alla democrazia. Quelle su cui si dibatte maggiormente sono quattro: il populismo, il sostegno ai partiti di estrema destra, la tecnocrazia e il rifiuto delle regole della democrazia rappresentativa che proviene da comitati di cittadini che pretendono di prendere parte alle decisioni che riguardano la loro comunità (mi riferisco principalmente ai residenti che si attivano al fine di impedire la costruzione sui loro territori di opere a loro sgradite). In questa sede discuterò le prime due, che sono quelle su cui il dibattito è più intenso.

4Sulla tecnocrazia, mi limiterò a dire che trovo effettivamente inquietante la crescente delega delle scelte politiche a istituzioni non elettive o davvero poco rappresentative. Anche se aderiamo a una concezione minimalista di democrazia alla Bobbio, secondo cui il buono di questo regime è che favorisce la rotazione del potere, impedendo che posizioni di comando siano mantenute in maniera esclusiva e per lungo tempo da pochi individui o gruppi, il fatto che decisioni impegnative e strategiche siano prese da persone e istituzioni che non rispondono a nessun elettorato dovrebbe inquietarci profondamente. Sui comitati di cittadini, ho espresso più ampiamente in un’altra sede qual è il mio pensiero3. Qui mi limito a ribadire che certo, anche i comitati di cittadini mettono in questione i principi e i cardini della democrazia rappresentativa, attribuendosi il diritto e, perché no, il dovere, di intervenire direttamente nelle questioni che ritengono li riguardino, indipendentemente dalle scelte politiche effettuate a livello centrale. Tuttavia, essi rappresentano il precipitato del tentativo di partecipare, di fare politica, di muoversi in un territorio o su tematiche che le istituzioni trascurano, restando nella logica e nei principi della democrazia (diretta, non rappresentativa). D’altro canto, i comitati di cittadini hanno la funzione, assai positiva, di riportare (o almeno di provare a farlo) le decisioni tecniche al tavolo che davvero compete loro, che è prima di tutto politico. La legittima richiesta di iniettare robuste dosi di democrazia diretta nei meccanismi un po’ asfittici della democrazia rappresentativa mi pare insomma di tutt’altra natura rispetto alle minacce che provengono dal potenziale fascismo e da almeno una parte del populismo.

2. Il ritorno del potenziale fascismo

5Piuttosto inquietanti mi sembrano infatti le minacce più tradizionali alla democrazia, quelle che provengono dalla diffusione su larga scala di preferenze repressive e di chiusura, quando non addirittura dalla potenziale adesione a partiti e movimenti di estrema destra. Secondo i primi studi condotti sul tema, il potenziale antidemocratico sarebbe insito in specifici gruppi di persone patologiche e diverse da noi, che apparteniamo alla classe dei “sinceramente democratici”. In quell’ottica, per allevare un futuro potenziale fuhrer o un suo seguace, sarebbe necessario ricorrere a modelli educativi freddi, repressivi, punitivi; servirebbero famiglie caratterizzate da un padre castrante e una madre assente, più interessati allo status che all’affetto, all’obbedienza cieca più che alla libera espressione di sé4. L’esito sarebbe una sindrome autoritaria francamente psicopatologica, radicata profondamente nel carattere o nella personalità, da affrontare con gli strumenti della clinica applicati su larga scala.

6Dagli anni Venti del xx secolo gli stili educativi sono profondamente cambiati, ma basta uscire per un attimo dalla limitatissima porzione di mondo privilegiato in cui usualmente ci muoviamo per rendersi conto che il pericolo non è scampato. In effetti gli studi contemporanei confermano che le persone già predisposte all’antidemocrazia sono evidentemente un pericolo. Ma il potenziale antidemocratico dei singoli non è stabile e indipendente dal contesto: le persone “sinceramente democratiche” sono infatti propense a togliere il loro sostegno alla democrazia nelle condizioni di minaccia politica, economica e sociale, e ogniqualvolta sentano di stare vivendo alla mercé di un mondo che faticano a comprendere e a sentire di poter controllare5. Come mostrano i recenti risultati elettorali di paesi una volta insospettabili, dunque, da questo punto di vista il pericolo non è intorno a noi: il pericolo siamo noi.

3. Le minacce del populismo

7Il populismo è tipicamente considerato una delle minacce più inquietanti alla democrazia. È davvero così? È certamente vero che il populismo implica una visione illiberale della democrazia, per tre motivi: perché rifiuta i tradizionali pesi e contrappesi della politica liberale, perché è ostile a ogni istituzione (prima di tutto i partiti, ma non solo), che medi la relazione fra leader e popolo, e perché si fonda su una visione monolitica e unanime della volontà popolare, che non lascia spazio al pluralismo. È altrettanto vero che il populismo si sviluppa quasi invariabilmente dove le istituzioni politiche sono deboli, specie nei contesti caratterizzati da crisi politica, culturale ed economica. Ciò detto, non tutti i populismi sono uguali. Attualmente nel nostro paese il focus principale delle analisi è costituito dall’elettorato grillino (anche se la Lega Nord, Forza Italia e il Pd renziano hanno indubbiamente rilevanti tratti populisti). Ebbene, credo che in Italia le cose siano più complesse di come parrebbe.

8Attualmente ci sono due tesi dominanti sulle origini del populismo. Secondo la prima, sono propense al populismo soprattutto le vittime culturali della modernizazione, che si sentono sempre più straniere a casa propria, non solo perché la sentono invasa dagli immigrati, ma anche per l’accresciuta centralità di nuove questioni valoriali legate ai diritti civili (matrimonio fra persone omosessuali, interventi legislativi per liberalizzare il fine vita, ius soli…), che considerano una intollerabile sfida ai loro valori e ai loro costumi. La seconda tesi sostiene che sono spinte al populismo soprattutto le vittime economiche della modernizzazione: disoccupati, sotto-occupati, precari…

9Corbetta ha recentemente mostrato che queste tesi non valgono per l’elettorato grillino6, che risulta trasversale ai ceti, ai territori e alle idee politiche, caratterizzandosi soprattutto per il desiderio di innovazione e di rinnovamento in politica. Più che di fronte all’abbandono della democrazia, sembreremmo insomma di fronte a una protesta che continua a essere giocata nell’ambito delle regole del gioco democratico. È un tratto comune anche a altri populismi (non a tutti, certamente). Analisi condotte sull’elettorato pro brexit mostrano, per esempio, che l’uscita è stata sancita da una porzione di elettorato molto più identificata con Inghilterra e Galles che con Gran Bretagna ed Europa, insoddisfatta per il funzionamento della democrazia e per l’eccesso di interventismo delle istituzioni dell’UE. Opinioni non necessariamente inquietanti, ma anzi rispettabili e legittime anche per chi non le condivide.

4. In conclusione

10In conclusione, dei due potenziali pericoli per la democrazia sui cui mi sono concentrato, mi inquieta profondamente il tradizionale rischio di deriva di estrema destra, soprattutto perché declinato nell’accezione moderna secondo cui nelle condizioni di crisi economica e sociale anche le persone sinceramente democratiche possono costituire un rilevante rischio per la democrazia. Mi inquieta a maggior ragione perché il potere di intervento delle istituzioni democratiche e elettive nei confronti delle sfide sociali, politiche e economiche che angustiano larghe fette della cittadinanza è sempre più risicato. Mi pare invece che il populismo sia un’entità più sfaccettata. Esistono infatti movimenti e leader populisti profondamente inquietanti: penso ovviamente a Trump e a Le Pen all’estero e alla Lega Nord in Italia. Tuttavia quasi tutti i partiti italiani o sono francamente populisti o hanno introdotto tratti populisti nella loro politica. Non per questo tutti mettono inevitabilmente in crisi la democrazia. E il populismo grillino mi pare, almeno in alcune delle sue componenti, più l’esito di un sensato, legittimo e realistico desiderio di rinnovamento della politica e di riavvicinamento della classe dirigente alle istanze della cittadinanza, che una minaccia alla democrazia. In questo senso, andrebbe considerato un benemerito strumento per tenere addentro al gioco della democrazia persone che altrimenti se ne chiamerebbero fuori. L’esperienza ci dirà come il movimento grillino saprà resistere allo scoglio del confronto con l’amministrazione della cosa pubblica: ora alcune grandi città del paese, compresa quella in cui sto scrivendo, domani chissà.

Notes de bas de page

1 G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 2013.

2 P. Corbetta, M. Roccato, Autodefinizioni, in Itanes. Sinistra e destra, Bologna, il Mulino, 2006.

3 M. Roccato, T. Mannarini, Non nel mio giardino, Bologna, il Mulino, 2012.

4 W. Reich, Die Massenpsychologie des Faschismus, Copenhagen, Verlag für Sexual-politik, 1933.

5 A. Mirisola et al., Societal threat to safety, compensatory control, and right-wing authoritarianism, “Political Psychology”, 35.

6 P. Corbetta, M5s: Come cambia il partito di Grillo, Bologna, il Mulino, 2017.

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