Desideri di democrazia o di altro?
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Texte intégral
1C’è un punto di vista universale donde definire e considerare la democrazia? La mia opinione è che, almeno nelle attuali circostanze storiche, non c’è. Che non ci sia è forse la sua forza, rende più accettabili le sue forme, ma anche la sua debolezza: perché la svuota di contenuti e rende difficile escludere i suoi nemici. Meglio: consente di escludere i nemici che si dichiarano loro stessi non democratici, ma quando i nemici si vestono da democratici, come capita di questi tempi, la democrazia è indifesa. O si rivela un contenitore vuoto. La parola è abusata. E l’abuso è premessa di altri abusi: in primo luogo contro cose cui molti di noi tengono parecchio: la dignità degli esseri umani, per cominciare.
2Non è facile delimitare i confini della democrazia. Non è facile, com’è noto, per la teoria. Non più facile è tracciarli nel mondo reale e nella contesa politica. Secondo Bobbio, occorreva contentarsi di una definizione minimale. La democrazia sarebbe fatta di tre regole: suffragio universale, principio di maggioranza, competizione politica.
3Solo in alcune circostanze storiche l’accordo sulla definizione si allarga e si consolida, ma non più di tanto. Prendiamone una in particolare, dove tutto era chiaro, almeno a prima vista. Le costituzioni del dopoguerra si fondarono sulla terribile esperienza del fascismo. Dichiaravano apertamente che erano costituzioni democratiche e perciò erano intrinsecamente antifasciste. Gli eredi del fascismo erano nemici della democrazia e non avevano cittadinanza, per costituzione, o comunque in ragione di solide norme sociali. Per reazione al fascismo, principi come libertà e uguaglianza erano largamente condivisi. Non mancavano le sfumature. Ma si trattava di accordi politici piuttosto forti, che stabilivano un confine netto almeno sul tema dell’antifascismo.
4Eppure, nel caso italiano, per quanto netto fosse il confine, molto presto mostrò la sua fragilità. Nel 1946 un gruppo di reduci del vecchio regime ricostituirono un partito che si diceva apertamente erede della tradizione fascista, ma che al tempo stesso dichiarava di riconoscere le regole democratiche. Qualcuno protestò, ma gli stessi partiti antifascisti finsero di non vedere. E nessuno mise fuori legge il partito neofascista. Il confine simbolico fu mantenuto, ma non fu confermato quello normativo. Gli avversari lo chiamavano un partito neofascista e ne mettevano in dubbio l’affidabilità democratica. Ma la sola personalità politica che propose la sua esclusione fu il ministro degli interni della Democrazia Cristiana, che però era un uomo pieno di contraddizioni. Emarginato dal fascismo, mentre proponeva di escludere il partito neofascista, lui riabilitava silenziosamente il personale della polizia fascista e proponeva simmetricamente di escludere anche il Partito Comunista, in quanto partito non democratico.
5Non se ne fece nulla. Per prudenza politica, ma forse anche perché i partiti costituzionali si convinsero che è meglio contrastare le idee con la forza delle idee, che non reprimerle con la forza del diritto. Se fosse stato escluso per legge il Movimento Sociale, si sarebbe affermata la possibilità di escludere anche altri partiti. Leggi come quelle contro il negazionismo non fanno bene nemmeno ai nemici del negazionismo. Tranquillizzano le coscienze di chi le propone, li fanno dormire e fanno loro magari guadagnare qualche voto a basso costo, ma sono un segno di debolezza. Né escludono che le idee che si vogliono censurare sopravvivano alle parole e seguitino a svolgere la loro azione intossicante.
6Così i neofascisti seguitarono a far politica, anche se li si chiamava neofascisti, dando per certa la loro inaffidabilità democratica: con loro si parlava molto poco. Erano stigmatizzati ed esclusi. In realtà coi neofascisti ci parlava pure un pochino la Democrazia Cristiana, che nel 1953 immaginò perfino un’alleanza col Movimento Sociale. Poi prevalse l’antifascismo e l’alleanza non si fece, ma si conclusero molte volte accordi sotterranei, nelle amministrazioni locali e perfino in parlamento. Un presidente della Repubblica, forse due, furono eletti coi voti neofascisti.
7Il confine col fascismo cadrà definitivamente quando il Movimento Sociale Italiano cambierà nome e simbolo e si chiamerà Alleanza Nazionale, riconoscendo apertamente di essere stato un partito neofascista. Naturalmente il dubbio resterà, a vedere tanti ex-fascisti che si redimevano e si convertivano alla democrazia. Provò a fugare ogni dubbio, nel 1996, il Presidente della Camera nel suo discorso d’insediamento, che invitò alla comprensione per i “ragazzi di Salò”: non avevano coltivato un buon ideale, ma un ideale è sempre un ideale. Ma l’esito fu modesto.
8Il confine era del resto caduto anche su scala continentale quando è comparso all’orizzonte il Front National francese. Anche quello era un partito fascista bell’e buono, quantunque si dicesse democratico: era un partito erede del regime di Vichy e dell’OAS. Solo che in quel caso la replica si fece in due mosse, alquanto malaccorte. La mossa più importante fu quella di non sottolineare le matrici fasciste e antidemocratiche del nuovo partito. Fa parte della storia francese del secondo dopoguerra sostenere che la Francia non era mai stata fascista, che Vichy non era fascismo, ma fu un incidente. E quindi Vichy non poteva avere eredi. Il Front National fu perciò banalizzato: invece di chiamarlo fascista, lo si chiamò populista. Il Front National dunque non era il diavolo, democraticamente incompatibile. Era un “altrove”, un luogo remoto e inesplorato della vita democratica, dove era sconsigliato avventurarsi. La seconda mossa la fece Mitterrand nel 1986 cambiando la legge elettorale proprio per permettere al Front National di entrare in parlamento e di erodere una parte dell’elettorato gollista. La legge sarebbe stata poi cambiata. Ma la banalizzazione democratica – la de-diabolisation, accortamente promossa da ultimo da madame Le Pen – ci fu da subito ed è a lungo andare diventata banalizzazione continentale, forse planetaria. La natura diabolica, anche se non fascista, del FN è riscoperta unicamente al momento delle elezioni.
9Da allora la politica europea si è riempita di attori che sono razzisti, antisemiti (o islamofobi), plebiscitari, che però hanno l’astuzia di rispettare le forme della democrazia. Per accordo piuttosto generale li si chiama populisti e non col nome che più spetterebbe loro: sono fascisti mutati, adattati al xxi secolo. Essi si definiscono democratici, hanno iscritto la volontà popolare sulle loro insegne e ci si accontenta. La Lega Nord in Italia, malgrado il suo esplicito razzismo, è stata un partito di governo e nessuno si è ribellato allorché Berlusconi – che ha anche lui un rapporto molto dubbio con principi democratici non secondari come la separazione dei poteri e il rispetto delle minoranze – è diventato capo del governo e ha nominato ministri della Lega: uno addirittura alle riforme istituzionali.
10Il confine è insomma divenuto evanescente, in Italia e in Europa occidentale. Dell’est Europa non è nemmeno il caso di parlare. Le forze politiche democratiche si preoccupano più del rischio elettorale che non di quello culturale e morale. Non senza tuttavia confermare che la parola e il concetto di democrazia non offrono indicazioni indiscutibili. Che la democrazia non ha contenuti, ma solo forme. O che i suoi contenuti sono le sue forme. Si cerca di congelare e consacrare le forme parlando di diritti fondamentali. Visto però che in ultima istanza i contenuti sono affidati ai verdetti elettorali, l’incertezza persiste.
11L’antifascismo, che sembrava fermissimo, è svanito senza sofferenze. Figurarsi se non sarebbero più facilmente svaniti i cosiddetti “diritti sociali”. Dopotutto, le costituzioni degli anni Quaranta più che dettarli, li denunciavano. Non c’è così da sorprendersi del dibattito sul trattamento da riservare ai migranti. Vi sono alcuni, che si autodefiniscono sinceri democratici, che considerano l’immigrazione un pericolo per l’ordinata convivenza delle società democratiche. I respingimenti saranno pur dolorosi, ma sono democraticamente compatibili. Altri pensano che la democrazia è assolutamente incompatibile coi respingimenti. Da che parte sta la ragione e da quale il torto? Le forme della democrazia non ce lo dicono. Le policies, sollecitate da calcoli elettorali, tendono a adottare il primo punto di vista.
12Le cose umane sono spesso ambigue. L’ambiguità e l’elasticità delle definizioni della democrazia, delle sue forme e dei suoi contenuti è una debolezza, ma forse è anche un motivo di forza. È un motivo di forza perché rende più facile accettarla, quantunque sia un motivo di debolezza giacché troppe cose rimangono incerte. Sono incerte perfino le forme, le regole, e sono sempre e comunque un fatto politico. L’interpretazione e l’applicazione delle forme – delle regole di Bobbio – è storicamente contingente: avvantaggia alcuni e danneggia altri.
13Il dissidio tra Spagna e Catalogna mostra bene quante cose possano succedere quando la democrazia è definita come insieme di regole. Mariano Rajoy ha difeso a suo dire la Costituzione, quindi le regole – con scarsissima prudenza politica – con l’aiuto della sua corte costituzionale e pure del suo re. In realtà ha usato una questione di regole per fare politica: per eccitare il nazionalismo degli spagnoli e per riguadagnare un po’ di popolarità, oscurando i sacrifici pretesi dall’austerity. Ma con le regole hanno fatto politica pure gli indipendentisti catalani: che hanno invocato le regole, quelle che si sono fatte loro, e quelle che hanno interpretato a modo loro, per stabilire l’indipendenza e guadagnare pure loro un po’ di popolarità. Tutti hanno parlato di democrazia e di regole democratiche, ma la democrazia è la politica che piace a loro. C’è così la democrazia dei catalani, quella dei nazionalisti spagnoli, come quella di Trump, di Berlusconi, di Renzi, e via seguitando. Il confine in grado di separare una volta per tutte la democrazia autentica da quella adulterata non esiste.
14Qualcuno ha detto nei testi che ho avuto il piacere di leggere che solo la forma democratica di governo fa spazio al suo interno al dissenso, al non assimilabile, e questa è la sua specificità. Tenderei a dire che la democrazia pacifica la lotta politica. Sono due affermazioni che fanno bon ménage e anche di ottimo aspetto. Sono pronto a sottoscriverle. Ma stabiliscono appunto regole e non risolvono la questione dei confini, o dei contenuti. Anche enunciate in questi termini, le regole si prestano a essere variamente interpretate. La democrazia fa spazio al dissenso più di altre forme di governo, ma di volta in volta chi governa i regimi democratici, e quindi la lotta politica, traccia dei confini su cosa è consentito dire e perfino pensare (oltre che intorno a cosa e come fare/non fare).
15Perfino i confini tra cosa è pacifico e cosa non lo è, è tracciato dalla lotta politica: contro gli indipendentisti catalani il governo di Madrid ha usato la coercizione. Per molti di noi una richiesta di indipendenza la si doveva trattare pacificamente. Qualcuno ha invece pensato che era democraticamente legittimo ricorrere alle maniere forti perché gli indipendentisti mettevano a rischio la convivenza democratica. Perseguivano il loro obiettivo pacificamente, ma non volevano sentire ragioni…
16Nel mondo, molto incerto e molto scomodo, in cui vivono gli umani, ognuno ha le sue ragioni e si batte, contro altri, per farle valere. Cioè lotta per il potere. Le regole e i principi democratici pacificano la lotta per il potere, ma sono anch’essi una posta di lotte di potere. Nel potere non c’è motivo di scandalo. Lottano per il potere pure coloro che vogliono circoscriverlo, che vogliono proteggere gli esseri umani con un solido scudo di garanzie, e perfino i più ambiziosi, coloro che immaginano un mondo liberato da qualsiasi relazione di potere, lottano per il potere. Possono lottare con la non violenza, con le idee e non con le armi. Ma sempre di lotta per il potere si tratta. La domanda da porsi mi pare perciò la seguente: alla luce di tanta incertezza definitoria, ha senso in questo momento storico chiamare democrazia cose che possono essere democratiche per me e che non lo sono per il mio vicino, o è meglio concentrarsi su un’altra posta?
17Quali ambizioni di potere, e quali progetti di convivenza, si nascondono allora dietro i “desideri di democrazia”, che mi paiono più che apprezzabili, inscritti nel titolo del vostro Forum? Quali desideri di democrazia nutrono gli esseri umani? Poiché nulla è scontato, i desideri di democrazia sono storicamente situati e determinati. Se avessimo chiesto a un italiano quale democrazia desiderasse negli anni Quaranta, negli anni Sessanta e negli anni Ottanta, avrebbero risposto cose molto diverse. Oggi, è possibile, che se gli chiedessimo cosa desidera, magari ci direbbe che desidera, fra le altre cose, che sia arrestato l’afflusso d’immigrati dall’altra sponda del Mediterraneo, in quanto minaccia la nostra convivenza democratica. Ne è davvero persuaso, o è stato persuaso da qualcun altro, che fa della paura un’arma elettorale? Non importa: importa sapere che questo è attualmente per alcuni il desiderio di democrazia.
18Se mi è permesso citare – non lo faccio mai – un’esperienza personale, il mio desiderio di democrazia è un altro, ovviamente alla luce della mia banalissima esperienza di vita, quella di un baby-boomer, che ha ricevuto un’educazione tollerante, anche se non permissiva, che ha avuto qualche frequentazione col cattolicesimo democratico, che negli anni dell’università ha simpatizzato con la sinistra, che ha creduto sinceramente in quelli che riteneva i valori dell’antifascismo, della Resistenza e della Costituzione e nel welfare state. Con simili precedenti è piuttosto ovvio che sia portato a pensare che in quel piccolo pezzo di mondo che possiamo chiamare l’occidente, la democrazia si identifichi con una vita al sicuro dalla miseria, dalla malattia, dall’ignoranza, dalla violenza, almeno per quella quota che si può umanamente evitare. Penso anche che gli esseri umani desiderino essere coinvolti in qualche modo nelle scelte collettive, o essere almeno ascoltati dalle autorità pubbliche. Quanto però questo mio desiderio di democrazia è condiviso? A leggere i vostri scritti, e ascoltare le persone che frequento, mi sono convinto di non essere solo. Molte delle persone che mi capita di incontrare mi pare desiderino più o meno queste cose. Il problema è che non siamo affatto tutti. Anzi.
19Basta allora l’accordo tra noi a concludere che la democrazia è questa cosa? Proprio per questa ragione il mio suggerimento è di accantonare, almeno in questa fase storica, la vaghezza del termine democrazia e riconoscere le differenze nei nostri desideri di democrazia. Accantoniamo pure altri concetti come giustizia, uguaglianza, autonomia, legalità, e via di seguito, che anch’essi si prestano a ambiguità e fraintendimenti. Visto che non c’è un’idea di democrazia, o di giustizia, universalmente condivisa, scendiamo a un livello di astrazione più modesto. Se per farci capire dicessimo con chiarezza quel che desideriamo? Per voi e per me: la libertà di pensiero, di parola, ma pure l’occupazione, la scuola pubblica, l’equità fiscale, la redistribuzione della ricchezza, la partecipazione democratica, la riduzione delle spese militari, le politiche di accoglienza…
20Anche queste, ne sono consapevole, sono formule che si possono variamente interpretare. Ma sono almeno più concrete. Diciamo pure apertamente quel che non vogliamo. E combattiamo, pacificamente, ma strenuamente per le cose che vogliamo e che non vogliamo. La lotta per il potere si combatte anche intorno al vocabolario e bisogna attrezzarsi per perseguire i nostri fini. La democrazia, poveretta, è anch’essa una vittima della lotta per il potere, che non risparmia le parole, che la sballotta qua e là e che non ha rispetto per nessuno e per niente. Almeno per un po’ di tempo lasciamola riposare.
Miquel Bassols
21C’è un punto comune in questi quattro interventi, la debolezza della democrazia. Abbiamo appena ascoltato la democrazia come vuota di contenuti, un contenitore vuoto. Una debolezza che va accompagnata dalla riduzione della democrazia alle regole, alla legalità paterna, in quanto indebolimento del padre come tale. Alexandre Kojève, maestro di Lacan, diceva sempre che «la legalità è il cadavere dell’autorità». Dove l’autorità è debole, arriva il regno della legge. Troviamo in queste parole la situazione in Spagna con la Catalogna. Lo Stato spagnolo ha perso l’autorità in una parte del suo territorio, e l’assenza dell’autorità politica implica l’uso della legge, l’uso della forza, la repressione come tale. Io sono catalano e vorrei dire soltanto una parola sulla Catalogna. La forza politica che aveva il 10 % dei consensi, cioè il Partito Popolare, governa adesso in tutta la Catalogna, senza avere fatto nessuna elezione. Il Partito Popolare che ha incluso nella sua storia il Fronte Popular spagnolo, che si è sciolto e si è integrato nel Partito Popolare, Fronte Popular (che era il Front Populaire di Le Pen in Francia) e che adesso si colloca all’interno del PPE, governa nella Catalogna con il 10 %, in nome della democrazia. È stata una transizione senza elezioni democratiche.
Domenico Cosenza
22Mi limito a fare qualche domanda a coloro che sono intervenuti, tenendo come filo rosso dei vari interventi la debolezza della democrazia emersa finora in tutti gli interventi. Come intendere questa debolezza e cosa fare rispetto a questa debolezza? C’è una costatazione comune della debolezza della democrazia, ma c’è una lettura un po’ diversa di come intenderla e come muoversi rispetto ad essa.
23Partendo dal primo intervento politico di Monica Cerruti, che si interroga dal punto di vista di qualcuno che è direttamente implicato nella pratica politica, emergono alcune questioni molto utili per il nostro dibattito. Il primo aspetto riguarda il fatto che c’è un riferimento alla dimensione micro e alla dimensione macro della politica: c’è un riferimento alle politiche che possono avvenire all’interno della città, la città come laboratorio, come dimensione nella quale è possibile facilitare delle forme di aggregazione che introducono qualcosa di nuovo, un legame creativo all’interno della cittadinanza. C’è anche una dimensione macro nella sua riflessione, interessante, che ci permette di interrogare l’Europa come questione. Fare dell’Europa una questione è qualcosa che per il momento non ha ancora acquisito, se non a livello burocratico e monetario, una sua fisionomia ben precisa. Quello che tutti constatano è il vuoto attorno alla dimensione politico-ideale dell’Europa. Il filo conduttore del nostro interrogativo, visto che si parla di Desideri decisi di democrazia in Europa, è che cosa intendiamo per Europa.
24L’altro punto interessante è la valorizzazione di coloro che, all’interno del discorso sociale e cittadino, sono in una posizione di esclusione o di marginalità. Mi sembra un punto interessante che sottopongo a Monica Cerutti, anche riprendendo uno spunto di Marie-Hélène Brousse, che, citando Lacan, metteva in evidenza come il cambiamento sociale faccia leva precisamente su coloro che vengono messi in una posizione di esclusione o di scarto all’interno della società.
25Monica Cerutti faceva riferimento ai giovani, alle donne e agli immigrati, tre modalità in cui si presenta nel contemporaneo la questione dell’esclusione. La domanda che vorrei porle è come può l’amministratore, il politico, mettere in campo degli atti, delle pratiche, delle decisioni che possono permettere di facilitare in qualche modo l’inclusione di queste soggettività al margine, all’interno del processo creativo, all’interno della vita democratica di una città, o di una comunità. Come fare in modo che colui che è escluso possa trovare in un funzionamento democratico, per certi aspetti animato da desideri, un posto, senza rimanere in una condizione di marginalità.
26L’ultimo punto è una domanda che circola e che pongo un po’ a tutti: mi sembra che siamo nella condizione di ripensare la funzione della verità in politica. Come si può parlare oggi della verità in politica nonostante la crisi delle grandi narrazioni, la crisi della metafisica, la crisi intorno ai grandi valori? Che senso ha oggi per noi parlare della centralità della verità in politica?
27L’intervento di Ugo Perone, è molto centrato sulla sfida della democrazia nell’attenzione tra istituzioni e società civile. Ne fa un attraversamento e mostra che siamo in una condizione di società frantumata e di crisi tanto delle istituzioni quanto della società civile. Il problema che si pone è come riuscire a introdurre qualcosa nella condizione politica contemporanea che rianimi una dialettica possibile tra queste dimensioni che sono in una condizione di degrado. La questione che volevo porre sostanzialmente a lui e magari anche a altri è come rendere possibile oggi una nuova dialettica tra le istituzioni e la società civile, tenendo conto che l’istituzione non può animarsi senza assorbire dalla società civile delle istanze vitali desideranti. Nello stesso tempo la società civile senza l’orientamento istituzionale rischia di andare verso derive con il fiato corto dal punto di vista della stabilizzazione politica.
28Rispetto a Marie-Hélène Brousse, la prima questione riprende il problema della verità di cui parlavo prima. La porrei in questi termini: com’è possibile pensare una democrazia non-tutta, al femminile, e sperimentarla nell’epoca contemporanea, dopo la crisi della funzione simbolica, la crisi della società fondata sul padre? L’altra questione è la centralità del godimento all’interno di questo nuovo orizzonte: lei, riprendendo Jacques-Alain Miller, sottolineava come in fondo nel discorso ultramoderno della contemporaneità l’oggetto di godimento prenda il posto dominante. Il problema che ci si pone, a livello anche dell’azione politica, è come trattare con questo oggetto nel posto dominante. Questo interessa a noi come psicoanalisti nella nostra pratica clinica, ma anche ai politici. Abbiamo visto che non basta l’intervento normativizzante perché esso non riesce a trattare questa dimensione che non si lascia riassorbire all’interno di un’azione puramente normativa. Ogni volta cede all’intervento normativo. Come fare rispetto a questa dimensione?
29Ultima domanda a Marie-Hélène Brousse. Ha ripreso le due posizioni indicate da Miller da cui si può occupare un posto enunciativo a partire da un ideale: quello della psicologia delle masse, massificante che si gioca sull’antitesi noi-voi, amico-nemico, nella forma più estrema di Carl Schmitt. E quello della democrazia desegregativa. Può dirci qualcosa di questa nozione interessante di democrazia desegregativa?
30Per quanto riguarda Alfio Mastropaolo, il suo intervento faceva riferimento al fatto che ci fossero altre esperienze possibili al di là di quella democratica: ce ne può dire ancora qualcosa? Inoltre sarebbe d’accordo di definire come uso perverso della democrazia quella esperienza di partiti o movimenti antidemocratici che, utilizzando gli strumenti, le vie della democrazia, si impadroniscono del potere con un sembiante democratico, con un’apparenza formale democratica, per poi mettere in atto delle modalità d’azione che sono antidemocratiche? Monica Cerutti
31Come potere fare partecipare alla vita democratica coloro che si tende a non includere? È un interrogativo complesso: una risposta può essere con un lavoro progressivo di relazione, di trasparenza, di recupero, di riconoscimento reciproco, a partire da un lavoro graduale delle istituzioni, che non sia limitato solo al momento elettorale. Nella campagna elettorale si cerca la relazione e poi la si dimentica quando si governa. Un altro aspetto importante: non basta fare bene, bisogna provare a costruire relazioni e a comunicarle nel modo opportuno affinché qualcosa venga riconosciuto e ci sia la possibilità di proseguire il lavoro. Il problema della comunicazione è una questione centrale. Siamo spesso in una comunicazione che viene semplificata, banalizzata, molto veloce, esattamente l’opposto di quello che la politica dovrebbe fare: affrontare la complessità. Non esiste la soluzione immediata a tutti i problemi, ma c’è bisogno di costruire un percorso comune: questo richiede fatica, lavoro progressivo, costruzione, con continuità. Purtroppo invece assistiamo all’opposto, a cercare di capitalizzare subito quello a cui la politica aspira, che è il consenso attraverso vie più veloci. Solo percorrendo un’altra strada si riesce forse a mettersi in relazione anche con coloro che sono esclusi o che si tende a escludere. L’astensionismo rende manifesta la non fiducia nelle istituzioni, nel fatto di poter portare un contributo alla comunità nella quale viviamo. È necessario un recupero di autorità, di legalità, ma soprattutto di autorevolezza in politica.
Ugo Perone
32Rispetto alla domanda sul come riattualizzare la dialettica tra istituzioni e società civile, parlavo della dialettica tra il “per me” e il “per tutti”. Penso che dobbiamo fare una netta distinzione tra etica e politica. Nell’etica si tratta di questioni di valore assoluto, nella politica ne va di una mediazione tra due prospettive che sono tra di loro potenzialmente in conflitto. L’interesse individuale, di gruppo e l’interesse generale non sono in armonia pacifica, anzi in prima battuta sembrano essere in opposizione, e lo sono per certi aspetti. L’arte politica consiste nella capacità di mostrare che i vantaggi del “per me” sono contingenti, non garantiti, se non iscritti in una prospettiva anche globale e condivisa. Si tratta di operare una mediazione tra questi due elementi. Se questa mediazione riesce, c’è un progetto politico che può essere anche moralmente sostenuto, può avere dietro delle ragioni morali, ma non può usare le ragioni morali come argomento. Ci sono le ragioni politiche di prospettive, ciò che si deve fare. Una buona politica riesce a realizzare se contempla il “per me” e il “per tutti” in orizzonti adeguati. Per esempio, la comunità locale, la città, è una comunità tendenzialmente avvertita, dove il rapporto tra “per me” e “per tutti”, il parcheggiare in seconda fila e la fluidità del traffico, possono essere compresi. Naturalmente più allargo questa prospettiva, più diventa difficile comprenderlo. L’Europa può diventare un orizzonte prospettico e politico di grande attualità. Siamo sempre più consapevoli che grandi decisioni avvengono in orizzonti così lontani dalla nostra possibilità, che nemmeno ce ne accorgiamo. Le multinazionali decidono in molti casi questioni molto più forti che i governi. È probabile che noi non riusciamo a intervenire su queste cose perché lo strumento d’intervento che si chiama politica, o regione o stato, è in realtà troppo debole. Avremmo bisogno di uno strumento unitario come l’Europa, di carattere estremamente più forte. Oggi noi, politicamente, dovremmo puntare su poteri locali più forti, su poteri nazionali enormemente più deboli e su poteri europei enormemente più forti. Questo ci renderebbe partecipi di una dialettica in cui noi vediamo la vicinanza e la lontananza tra il “per noi” e il “per tutti” e siamo partecipi di un disegno complessivo. Tutto ciò non è né facile né immediato. È un lavoro non solo politico, ma culturale.
Marie-Hélène Brousse
33L’esperienza analitica dimostra che la verità è legata alla credenza, e che quello a cui crediamo, lo crediamo perché ne godiamo. Quindi una verità produce una credenza centrata in un godimento.
Alfio Mastropaolo
34La mia proposta è quella di archiviare o di usare con molta parsimonia il termine democrazia. La democrazia è una tecnica, niente di più. Lo è stata fino alla caduta del muro di Berlino, poi la democrazia è diventata un ideale. È stata costruita una letteratura, sono stati scritti sulla democrazia dei libri, dopo il 1970 in una quantità colossale, mentre prima se ne scriveva pochissimo. Prima tra le tante parole che si usavano c’era la parola socialismo, adesso è avvenuto uno scambio e si parla di democrazia. Dobbiamo restituire alle parole il loro significato. La democrazia è una tecnica. Bobbio aveva ragione su questo. Perone ha detto delle cose condivisibili, anche se non ho la stessa fiducia nell’Europa. Penso che sarebbe fondamentale avere delle idee in comune. Oggi non abbiamo un progetto di società, non pensiamo la società in nessun modo, viviamo tutti alla giornata. O si ricostituisce un nostro modo di pensare, un modo comune e condiviso di pensare la società, o non si va lontano. Anche le idee formano le istituzioni. Una forza delle idee, tante persone che pensano la stessa cosa, è un’istituzione. Naturalmente poi, come tutte le istituzioni si degradano. Le cose umane sono imperfette.
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Desideri decisi di democrazia in Europa
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