Dalle narrazioni che ammalano alle narrazioni che curano
Il lavoro clinico con minori stranieri
p. 155-166
Texte intégral
Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi.
William Shakespeare, Macbeth: IV, 3
L’altro da me è il filo che ho perso e che permette di ritrovarmi.
Scritto su un muro della città di Lecce
1Il dialogo con “l’altro” non è mai stato facile né mai lo sarà, specialmente quando l’altro è colui che viene da un paese diverso, da una cultura differente e soprattutto in questo periodo storico, in cui la migrazione viene definita “forzata” e le persone che sono costrette a scappare difficilmente pianificano e strutturano la loro partenza. Natale Losi nel suo libro Guarire la guerra1 si domanda proprio questo: come fare a occuparsi di sofferenze per noi meno conosciute senza rischiare danni a se stessi e agli altri?
2Fondamentale è continuare a porsi domande sul proprio sapere e su quello dell’altro, sulle nostre categorie e sulle loro, creando un luogo di incontro perché se è vero che per me loro sono gli altri, è altrettanto vero che per loro l’altro sono io. Interrogare il proprio sapere per me non ha voluto dire fare un lavoro di decostruzione, accantonare un concetto, ma trovare le motivazioni per farlo valere.
3Rendersi conto che si ha di fronte qualcuno che in quello stesso momento vede e capisce il mondo in modo diverso dal mio è fondamentale per favorire un lavoro terapeutico con i migranti. Affinchè un intervento sia efficace, sottolinea Natale Losi, deve essere compatibile/accettabile dalla cultura del paziente.
4Durante alcuni colloqui dei soggetti possono dichiarare di avere dolori in diverse parti del corpo descritti come “causati” da vermi striscianti che si muovono nelle loro zone doloranti2. Non si tratta mai di un “come se”, nelle loro parole c’è la sicurezza che qualcosa è entrato nel loro corpo e lo sta ammalando. Inutile provare a dare un nome occidentale alle loro malattie, è più importante ascoltarli nei minimi particolari, chiedere cosa avrebbe fatto un medico tradizionale in una situazione come quella che stanno raccontando e programmare «un intervento che, tenendo in grande considerazione la narrazione del paziente, la influenza e la rimodella per offrire la prospettiva di una storia che cura»3.
5Mussa è “guarito” dagli insetti ronzanti che si aggiravano attorno alla sua colonna vertebrale legando ai fianchi un cordino bianco inviatogli da sua madre dal suo paese d’origine e tenendo sempre in tasca un foglietto bianco in cui c’era scritta una frase italiana di buon augurio che avevamo scelto assieme durante la seduta.
6John ha smesso di “sentire” dei vermi strisciare (fra i denti, lungo la colonna vertebrale, vicino alle sue pupille, nel pene) quando assieme abbiamo chiamato il suo medico tradizionale in Nigeria e, con l’aiuto di un mediatore, ho chiesto come poter guarire la persona che avevo di fronte. Una triangolazione che ha permesso all’altro di sentirsi ascoltato, di poter far «emergere non solo storie rimosse, dimenticate o non dette, ma anche storie alle quali semplicemente non aveva pensato prima. Storie che spesso nessuno aveva chiesto di raccontare, che facevano parte di altre storie, storie inimmaginabili. Storie che possono causare dolore e altre che invece creano sollievo e possono curare in profondità le ferite dell’anima»4.
7Da esempi come questi si comprende come non sia facile riuscire a dare risposte che abbiano una ricaduta significativa per il soggetto: spesso bisogna muoversi su un terreno non noto, estraneo a entrambi.
8Molti migranti hanno un concetto di malattia diverso dal nostro, del resto anche «le malattie sono narrazioni di un malessere e ogni cultura le racconta a modo suo»5. Coloro che provengono da alcune zone dell’Africa in cui si osserva il culto dei morti, ritengono che le malattie sia fisiche che mentali siano una conseguenza di omissioni di preghiere o offerte ai loro antenati; altre popolazioni riconoscono i dolori nel corpo come causati da forze provenienti “dall’esterno”. In una società in cui si è convinti che il “male venga da fuori”, non spaventa la malattia ma la sua origine, chi l’ha provocata, perché l’ha fatto e in che modo.
9Non è attraverso un sapere precostituito, un ascolto che incasella in un “già saputo” che si può aiutarli a liberarsi dai jinn6, dai loro persecutori, non immaginari, ma culturalmente reali. Lacan sottolinea che «bisogna partire dal testo»7, quindi la centralità spetta al sapere del soggetto, che si declina attraverso il suo dire, evitando di capire e produrre interpretazioni troppo presto. «Noi comprendiamo sempre troppo presto, specialmente nell’analisi. E il più delle volte ci sbagliamo»8, invito ripetuto tre anni più tardi anche nel Seminario V: «Si tratta di non comprendere troppo rapidamente, poiché, se si comprende troppo rapidamente, non si comprende più nulla»9
10Quando chiedo di «aiutarmi ad aiutarli», spesso il loro primo sguardo è perplesso, dicono di non essere abituati a questa richiesta: che siano loro a indicare la strada. Celestine, giovane ghanese piange, si strappa i vestiti, tenta di battere la testa contro il muro, grida la sua paura di essere vittima di «uno spirito dell’acqua», io apro la finestra e con il suo consenso lo invito ad andarsene, dicendo di non tornare sin a quando la ragazza non sarà di nuovo pronta a reincontrarlo. Lei si calma, il suo respiro diventa più regolare e riesce finalmente a rilassarsi. Ho preso il suo malessere alla lettera e da quel giorno comincia a stare meglio e a parlarmi di altro. Mi dice che sa benissimo che quelli dalla pelle bianca come la mia non credono agli spiriti, ma mi chiede di esserci, di provare a comprendere il suo dolore così come me lo racconta. Quando percepiscono di non poter raccontare chi sono, come sono, per paura di essere giudicati, il rischio è di trovarsi di fronte a una chiusura: ciò che vorrebbero raccontare diventa indicibile e rimane nella loro mente, anzi in tutto il loro corpo come una massa tumorale che cresce e che ammala. Non è in gioco il capire o il sapere, si tratta di “credere” alle loro parole e farsi orientare dal loro dire per cogliere qualcosa del reale del trauma che li ha segnati.
11Appare pertinente la frase che Natale Losi riporta di Tobia Nathan10: «Il sintomo è un testo senza contesto» che, nel caso dei migranti, è un contesto da ritrovare, da ricostruire attraverso una narrazione comune.
12Celestine che, avrei poi scoperto, era stata scelta dalla sua famiglia per continuare il ruolo di marabutto11, mi ha messo alla prova, ha voluto verificare cosa io pensavo del suo modo di soffrire, il mio “saperci fare” con il suo dolore.
13La possibilità di accogliere la malattia in un modello culturale accettato tanto dal paziente, quanto dal suo ambiente d’origine, consente al soggetto di conservare una continuità della sua esistenza anche in una comunità diversa dalla sua.
14Vincent, descrittomi dagli operatori come prepotente, sbruffone, la prima volta che lo incontro ha il cappuccio che gli nasconde quasi tutto il viso. Passano minuti prima che io gli possa vedere gli occhi! Gli chiedo se ha fratelli o sorelle in Liberia, mi racconta che stanno con sua nonna perché sua madre è morta. Colgo nel suo dire un dolore ancora forte, glielo faccio notare, mi guarda per la prima volta e mi chiede se ho dei figli: «Ho incontrato diverse donne italiane sposate senza figli, io questa cosa non la capisco, non mi fido di chi non ha figli».
15Lo straniero spesso chiede di sapere di noi al di là della nostra certificazione professionale, non si tratta di un “oltre” ma di un “altro” livello di competenza, che gli fa sentire quello come il posto giusto per raccontare la sua storia. Da quel momento il ragazzo accetterà di incontrarmi settimanalmente: all’inizio di ogni seduta mi chiederà sempre come stanno i miei figli per poi ritornare subito a parlare di se stesso.
16Cerco di operare un movimento su una catena di significanti che possa essere comprensibile allo straniero: in una situazione di migrazione, le categorie di riferimento non sembrano essere più le stesse, così, partendo da un significante più vicino a loro (in questo caso quello di madre), mi sposto lentamente verso altri significanti (quello di terapeuta), che mi permettono un lavoro clinico in cui lo straniero diventa soggetto del suo dire senza perdere la sua identità culturale.
17Per Lacan quello che conta nell’ascolto analitico non è la raccolta di informazioni obiettive, ma il modo soggettivo con il quale a determinati sintomi o eventi viene attribuito un senso. L’ascolto, quindi, non si appiattisce sui sintomi ma su quei significanti unici che hanno orientato e continuano a orientare il soggetto nel mondo. Autorizzarli a raccontare la loro storia significa anche permettere loro di “ascoltarsi”, come quando nell’interpretazione analitica si ripete una frase pronunciata dal paziente e questo ha un effetto di apertura per il paziente stesso. Alcuni sembrano farlo per la prima volta, sorprendendosi di avere ricordi o emozioni di cui non avevano idea prima.
18Mi capita di ricevere ragazzi che dalla legislazione italiana vengono definiti «minori stranieri non accompagnati», che vivono in comunità sino al compimento dei 18 anni. Non è difficile sentirmi dire: «Mi piace venire qui perché mi permetti di parlare nella mia lingua. Io so che l’italiano è importante, ma quando nel centro dove abito vengono inseriti ragazzi della mia stessa nazionalità ho voglia di condividere con loro alcuni miei pensieri nella nostra lingua. Gli operatori quando ci sentono continuano a ripeterci: parlate in italiano! Ma perché?». Lacan sottolineava come tutti siamo intaccati dalla dimensione del linguaggio, ma ancora di più da ciò che definisce lalingua, che «designa ciò che per ciascuno è affar suo, lalingua chiamata, e non a caso, materna […] Siamo affetti da lalingua innanzitutto in quanto essa comporta degli effetti che sono affetti»12. Si tratta qui della dimensione assolutamente singolare di ciascuno da cui non si può prescindere e da cui non si può che partire per un lavoro di elaborazione.
19Sorrido pensando che io stessa, in questi anni, ho dovuto “imparare” a vivere la frustrazione di rimanere a aspettare che il paziente straniero e il mediatore si parlassero fra loro. A volte una mia semplice frase richiede tempo per la traduzione e io rimango in attesa con il timore di perdere la gestione del colloquio. Ho imparato, invece, a apprezzare il lavoro dei mediatori, crescendo insieme a loro, formandoci a vicenda, triangolando con loro, rendendo così sempre presente nei miei colloqui una alterità che rimbalza fra tutti i presenti. Permettere ai pazienti di utilizzare la loro lingua madre, consentire al paziente di esprimersi, di dire le cose con le sue parole, significa ridargli la stima in se stesso. Per un migrante in difficoltà, trovare in un paese straniero persone che lo ascoltano con rispetto, interesse e partecipazione, rappresenta di per sé un potente fattore terapeutico.
I minori stranieri
Quando uno emigra da adulto, ha il tempo di portare via tutto nella mente,
e può far rivivere questa cose quando vuole, dove vuole. Per un bambino è diverso.
Lui non ha avuto il tempo di preparare i bagagli, ha preso quello che ha potuto, in fretta, alla svelta, in un fagottino.
Il resto se lo deve inventare.
Per forza.
Maya Nahum, Un weekend a Parigi
20I minori stranieri appartengono a un gruppo “a rischio” soprattutto in tre momenti importanti della loro crescita: quella postnatale, in cui il neonato e sua madre devono adattarsi uno all’altro; nella fase dei primi apprendimenti scolastici e in quella dell’adolescenza, momento in cui si pone la questione della filiazione e dell’appartenenza.
21Avere a che fare con adolescenti stranieri, siano essi assieme ai genitori (partiti con loro o raggiunti dopo), soli (come i minori stranieri non accompagnati), ma anche figli adottati di coppie italiane, significa tenere sempre presente che ciò che c’è in gioco è la questione dell’identità trasmessa, una “doppia trasmissione”: interna (filiazione) e esterna (affiliazione). L’intreccio fra filiazione – trasmissione all’interno della famiglia, su un asse verticale, cosciente e “inconscia” – e affiliazione – trasmissione interna alla famiglia e trasmissione esterna, assicurata dai gruppi di appartenenza che si incontrano nelle diverse fasi della vita, è più complesso. Dalla qualità della prima dipenderà il futuro della seconda.
22Josè, dominicano, arrivato in Italia con un ricongiungimento, nota candidamente come «le botte che mia madre mi dava a Santo Domingo le accettavo, ma qui non le capisco, non capisco cosa vuole».
23Può succedere che i ragazzi dopo qualche colloquio mi comunichino che, più il tempo passa, più cominciano a sentirsi stranieri anche rispetto alla propria madre e alla propria famiglia.
24La madre migrante si può trovare in una situazione ambigua, oppressa da esigenze contraddittorie: il dover interiorizzare i valori della società d’accoglienza, trasmettendo al tempo stesso quelli tradizionali13. Per lei è problematico acquisire una nuova modalità di “aver cura” che non le è stata trasmessa in modo tradizionale.
25Spesso le difficoltà dei figli nascono proprio da rotture nella trasmissione fra generazioni, in quanto i genitori sono portati a non raccontare di sé, della loro storia, della loro cultura, per proteggerli dal dolore, dalla nostalgia e, a volte, dalla vergogna. Quando incontro i familiari spiego loro quanto sia importante che rendano partecipi i propri figli della loro storia, del perché delle decisioni prese. La prima generazione, costituita dagli adulti, continua a nutrire sentimenti di appartenenza verso la cultura di origine. Al contrario, la seconda generazione non possiede riferimenti così chiari, così ben radicati: non ha partecipato alla decisione di emigrare e, generalmente, non capisce le motivazioni degli adulti per giustificare la loro scelta. Inoltre, una volta arrivata, deve affrontare non solo il lutto che la tocca personalmente, ma anche quello dei familiari, in un momento in cui l’ambiente in cui si trova non è in grado di farsi completamente carico del senso di perdita e spaesamento del bambino. Diversi ragazzi mi pongono interrogativi rimasti senza risposta: «Perché mio padre mi ha fatto venire in Italia per vivere in una casa senza neanche un armadio, stavo così bene assieme ai nonni. Una volta ho seguito mio padre di nascosto mentre stava andando a lavorare, ho scoperto che faceva il posteggiatore abusivo, questo non è mica un lavoro! Ho dovuto anche vederlo minacciato e picchiato da alcune persone arrivate prima di lui solo perché non se ne voleva andare, io ero nascosto in un angolo, sono così arrabbiato: perché abbiamo lasciato il Marocco? Per venire qui e essere insultati per un lavoro che non è neanche un lavoro?».
26Quello che mi confessano questi ragazzi è ciò che ha riportato con rabbia, disincanto, in modo duro e appassionato, nel suo libro Disintegrati14 lo scrittore Ahmed Djouder.
Hanno [i genitori] tutti sempre paura, sono pieni di paure. Anche noi bambini abbiamo ereditato queste paure […] I nostri genitori sono prigionieri del divario culturale. Sono in fondo a un baratro e non hanno gli strumenti, i mezzi per scalare le sue pareti verticali. Se guardaste negli occhi i nostri genitori, vedreste la loro disperazione, la loro paura di vivere […] i nostri genitori ci intristiscono. Non hanno nessun orgoglio15.
27È da genitore, invece, che lo scrittore Tahar Ben Jelloun, parlando alla figlia Nadia, scrive:
Non dimenticare mai questo: ovunque tu vada, qualsiasi cosa tu faccia, qualunque cosa tu dica, sarai sempre rimandata alle tue radici. Sei kabila, ti prenderanno per un’araba, anche se sei una cittadina francese. Francese non lo sarai mai. La nostra terra ci ricopre la pelle e ci maschera la faccia. […] Tutto ciò che i media e gli specialisti sono riusciti a trovare è stato di dare un numero a questa generazione: la seconda. Così classificati, eravamo partiti male per forza. Non siamo immigrati. Non abbiamo fatto il viaggio. Non abbiamo attraversato il Mediterraneo. Siamo nati qui, in questa terra francese, con facce da arabi, in periferie abitate da arabi, con problemi da arabi e un avvenire da arabi […] Siamo i figli di città in transito, siamo arrivati senza che nessuno sia stato avvertito, senza che nessuno ci attendesse. Ci troviamo qui con facce quasi umane, con un linguaggio quasi civile, con dei modi di fare quasi francesi; siamo qui a chiederci perché siamo qui e cosa ci stiamo a fare? […] Perché qualcuno si ricordi di noi, dobbiamo a nostra volta ricordare le nostre origini, ci vuole una memoria, un pezzetto di memoria, un pezzo di tessuto benedetto dove asciugheremo le lacrime16.
28Molti hanno a che fare, e noi con loro, con genitori che rischiano di apparire sempre più lontani, meno significativi, addirittura inesistenti se non invisibili, procurando ai ragazzi in questione il vissuto di essere orfani. L’incapacità di poter capire cosa sta succedendo loro, di comprendere la confusione dei loro vissuti ha come conseguenza una serie di tentativi difensivi che, secondo loro, dovrebbero aiutarli a non soffrire, ma che in realtà li imprigionano a quello stesso dolore da cui cercano di sfuggire e a una identità negativa incapace di dare equilibrio e senso alle emozioni e alle reazioni conseguenti.
29Omar, uno dei ragazzi precedentemente citati, non accettava che qualcuno si informasse sulla sua vita. Una vita fatta di risse e di denunce: abbandonato dalla madre, si è dovuto far largo nel mondo da solo. Il lavoro di terapia gli ha permesso di pensare e dare un nome a ciò che stava facendo e stava, soprattutto, agendo. Parlando assieme del suo dolore di «non essere di nessuno, di non permettersi di appartenere a nessuno», ha potuto affrontarlo in presenza di qualcuno che lo ha aiutato a pensarsi in maniera nuova e differente.
30Questi ragazzi vivono immersi in un controsenso angosciante: l’essere lontani dai loro genitori (sia fisicamente che culturalmente) a volte li esalta, li fa sentire così indipendenti da pensare di non dovere render conto di niente a nessuno, senza debiti e doveri, in una sorta di delirio di onnipotenza.
31A chi interagisce con loro (educatori, operatori, terapeuti) risulta chiaro come la situazione che stanno affrontando non abbia niente a che fare con ciò che si aspettavano. Se riescono a non soccombere, entrano in crisi chiudendosi a un mondo che non capiscono o, all’opposto, reagendo con aggressività a ogni tentativo di relazione. Vivono in bilico, persi in quella che Abdelmalek Sayad definisce come «doppia assenza»: assenti nel luogo d’origine (che può essere anche la famiglia con cui sono emigrati) e nel luogo di arrivo. Sayad lo sottolinea più e più volte nel suo libro: «La sorte dell’emigrato è di continuare a essere presente sebbene assente là dove si è assenti; al tempo stesso il paradosso dell’immigrato è di non essere totalmente presente là dove si è presenti»17. Si può immaginare quanto per l’adolescente straniero la domanda «chi sono io?» sia doppiamente una questione cardine per la propria identità. Compito del terapeuta è farsi strumento, prestarsi a un lavoro che medi fra il soggetto e il suo mondo interiore, ma anche fra il soggetto e ciò che non riesce a intendere del mondo esterno e, ancora, fra ciò che gli sembra di non comprendere più della sua cultura familiare.
32Una sera vengo chiamata perché Jasmina è ricoverata in ospedale, ha tentato il suicido. Quando mi permettono di incontrarla prova a spiegarmi cosa le è successo: suo padre non le permetteva di frequentare il corso di italiano che i progetti organizzano per i loro beneficiari. A bassa voce mi confessa che, se fosse stata in Turchia, non si sarebbe mai opposta al volere dei genitori, ma qui in Italia, le ragazze vanno a scuola; per lei il «no» ricevuto non ha più senso ma, contemporaneamente, non ha ancora chiaro come opporsi, se non annullandosi, sottraendosi al divieto a scapito della vita.
33Mentre alcuni ragazzi sembrano inseguire un sogno che a volte li lascia senza fiato, avendo preso un ritmo che non dà loro tregua e che spesso sembra più vicino a un vortice, a una folle corsa verso il nulla, altri, più numerosi, dopo un periodo adrenalinico cadono in un’apatia totale.
34Julia Kristeva sottolinea come «l’indifferenza sia il carapace dello straniero»18. Si deve saper aspettare, dare il tempo a questi ragazzi di fare ordine nei loro sentimenti. Devono riprendere possesso del loro odio e del loro amore cosi da non rischiare di rimanere neutri troppo a lungo e di non riconoscere più le proprie emozioni, spendendole in modo inadeguato. Essere in attesa che lo straniero si “rifaccia” soggetto significa aiutarlo a esprimere le proprie domande con la consapevolezza che qualcuno le accoglierà e gli darà un senso.
35Le questioni del tempo e della distanza sono importanti: saperli rispettare significa dare dignità alla persona che non si sentirà più costretta a tenersi lontano da tutto e da tutti, che non si vivrà unicamente come chi ha abbandonato e chi è stata, contemporaneamente, abbandonata. La loro confusione è spesso palpabile: da un lato vorrebbero compiere o proseguire un cammino di emancipazione già iniziato con la migrazione, dall’altro temono di tradire la cultura d’origine, di rompere i legami con la famiglia, soprattutto con la madre. Devono integrare le componenti pulsionali del loro progetto di vita in un equilibrio instabile tra attaccamento e distacco, tra interno e esterno, e devono farlo in modo accettabile per loro e per la loro famiglia.
36Ahmed ha deciso da subito che vuole integrarsi e farlo il più in fretta possibile: rinnega il suo paese, l’Afghanistan, e la sua religione, l’islam. Gli operatori sono preoccupati, in più di una supervisione si è discusso il problema di quei ragazzi che decidono di recidere con velocità e fermezza le proprie radici, nella convinzione di agevolare l’integrazione. Ahmed, fragile, emotivamente instabile, crolla a una festa afgana, quando inizia a sentire la musica del suo paese: si spoglia dei vestiti, cerca di tagliarsi con un coltello, si rotola a terra in preda a urla e pianti, spaventa i suoi amici che chiamano un’ambulanza. Convinti che non avere più legami familiari, religiosi, culturali significhi essere liberi, si accorgono troppo tardi che «liberato da tutto, lo straniero non ha nulla, non è nulla»19.
37È come se gli adolescenti avessero bisogno di una “doppia autorizzazione”. Da un lato i genitori devono consentire al figlio di essere diverso da loro, essere solo in parte “straniero”, scendere a patti con le loro aspettative e permettergli di crescere meno attaccato alle origini e di assomigliare di più ai suoi coetanei. Dall’altro, la società deve riuscire a valorizzare e legittimare le appartenenze, i saperi, le competenze di questi ragazzi.
38Queste persone riprendono a dare forma alla loro vita partendo dal dolore, si tratta di sapere come servirsene senza trasformarlo in una disperazione impotente.
39Spesso alcuni operatori mi raccontano di soggetti che sembrano assenti, confusi, stravolti, incapaci di organizzarsi o di compiere tutte quelle azioni che, nel loro paese di origine, erano la normalità; tanto da chiedersi se sono gli stessi che hanno attraversato territori pericolosi, sono stati incarcerati, hanno rischiato di perdere la vita, che si sono nascosti, che sono rimasti per giorni senza cibo e acqua, dimostrando una forza che ora sembra impensabile. La forza, a volte sovrumana, che li ha sostenuti nel loro “viaggio della speranza” pare svanita, il loro stesso corpo diventa vittima di dolori e disturbi in un contesto che si presenta invece senza le privazioni provate precedentemente. Devono passare da un momento in cui la forza fisica e la perseveranza sono essenziali per affrontare gli ostacoli esterni e gli eventuali pericoli, a un altro in cui il soggetto con tutte le sue capacità deve riuscire a trovare un equilibrio fra le proprie emozioni, recuperando le proprie capacità.
40Come sostiene Slavoj Žižek: «Si diventa a pieno titolo membri di una comunità, non quando ci si identifica con la sua tradizione simbolica esplicita, ma quando se ne assume la dimensione spettrale soggiacente, i fantasmi non-morti che ossessionano i viventi, la storia segreta delle fantasie traumatiche trasmessa fra le righe, attraverso le lacune e le distorsioni della tradizione simbolica manifesta»20.
41Stare al fianco di un soggetto straniero, significa vegliare sul tempo e lo spazio dei suoi vissuti: se in quel momento lui non è più in grado di dare un senso alle sue esperienze, sarà il terapeuta ad aiutarlo a soggettivarsi, permettendogli di recuperare valori, identità, parole perse o sopite. Questo potrà essere il primo passo per “autorizzarlo” ad attivare le capacità di recupero smarrite.
42Freud sosteneva che colui che ha subito un trauma, una grave umiliazione, pensa di avere già pagato abbastanza e di non dovere più niente. La cura analitica, invece, può progredire solo se il soggetto accetta di “pagare” ancora. Marie Rose Moro conclude uno dei suoi interessanti libri scrivendo: «Devo mettere al centro della mia attenzione l’Altro nella sua alterità, nella sua vulnerabilità, ma anche nel suo diritto di esercitare il suo potere linguistico»21.
43I migranti che ho conosciuto mi hanno insegnato che sono pronti a narrare il loro trauma se il terapeuta non si accontenta di incontrare l’altro, di accoglierlo e parlargli, ma se ne assume anche la responsabilità.
44Le parole del poeta Franco Arminio mi aiutano a descrivere il processo di cambiamento quando riusciamo ad assolvere al nostro compito ogni giorno: «Infine sono venuto al mondo. È successo da poco. Non ho capito come. Ma se mi sfiorate una gamba sento cosa hanno da dirsi stelle molto lontane. Se mi puntate un dito sul petto sento il buio senza colpa che pascola nell’universo. Se mi abbandonate io passeggio sull’orlo del vostro silenzio. Guardo. Scrivo. Festeggio ogni giorno il mio arrivo nel mondo. Non ci credevo. Non era certo»22.
Notes de bas de page
1 N. Losi, Guarire la guerra. Storie che curano le ferite dell’anima. Esperienze di uno psicoterapeuta, Torino, L’Harmattan, 2015.
2 Alcuni psichiatri la definiscono “sindrome da camminamento sottocutaneo”.
3 N. Losi, Guarire la guerra cit., p. 57.
4 Ivi, p. 58.
5 M.G. Mazzucco, Io sono con te, storia di Brigitte, Torino, Einaudi, 2016, p. 107.
6 Il termine jinn è di origine araba, può essere tradotta come genio, folletto, e indica un’entità soprannaturale che ha carattere quasi sempre maligno.
7 J. Lacan, Il Seminario, Libro I, Gli scritti teorici di Freud [1953-1954], Torino, Einaudi, 1978, p. 197.
8 Id., Il Seminario, Libro II, L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi [1954-1955], Torino, Einaudi, 2006, p. 120.
9 Id., Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio [1957-1958], Torino, Einaudi, 2004, p. 26.
10 N. Losi, Vite altrove, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 169.
11 Un marabutto è un personaggio cui si attribuiscono molteplici poteri in grado di agire sulla salute e sull’ordine sociale.
12 J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora [1972-1973], Torino, Einaudi, 2011, pp. 132-133.
13 Cfr. M.R. Moro, Maternità in esilio, Milano, Raffaello Cortina, 2010.
14 A. Djouder, Disintegrati. Storia corale di una generazione di immigrati, Milano, il Saggiatore, 2007.
15 Ivi, pp. 13-16.
16 T.B. Jelloun, Nadia, Milano, Bompani, 1996, pp. 16, 55, 85, 89.
17 A. Sayad, La doppia assenza, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 84.
18 J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Milano, Feltrinelli, 1990, p 14.
19 Ivi, p. 17.
20 S. Žižek, L’Islam e la modernità, Milano, Salani, 2015, p. 50.
21 M.R. Moro, Bambini di qui venuti d’altrove, Milano, FrancoAngeli, 2005, p. 141.
22 F. Arminio, Infine sono venuto al mondo (https://es-la.facebook.com/francoarminio/app/45439413586).
Auteur
Psicologa, psicoterapeuta, partecipante Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, cooperativa sociale Il Lievito, supervisore presso le comunità per minori e mamma-bambino delle Opere Riunite Buon Pastore, collabora come supervisore d’équipe con diversi Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e Cas (Centri d’accoglienza straordinaria) del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia, docente della Scuola di Specializzazione Etnopsi Etno-Sistemico-Narrativa di Roma.

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