Il capitale fiduciario: un desiderio non anonimo
p. 91-100
Texte intégral
Sono fatta così. Non riesco ad avvicinarmi veramente a nessuno. È un dato di fatto. È come se mi mancasse quella parte di anima che si incastra negli altri, come nel Lego. Che si unisce veramente a qualcuno. Alla fine tutto cade a pezzi. Famiglia, amici. Non resta più niente1.
Una tragica e paradossale verità
1Una giovanissima ospite accolta in comunità con diagnosi di «schizofrenia a rischio suicidario», dimostra di incominciare a cavarsela quando scopre di «poter camminare insieme». Camminare insieme significa stare vicini. Là dove maggiore è l’urgenza, la necessità, il desiderio di avvicinarsi a qualcuno per imparare a essere nel mondo, proprio lì si annida la follia che lo impedisce. Follia perché blocca il processo identificatorio lasciando, paradossalmente, il soggetto, in balia del suo Altro dispotico e immaginario. La ragazza oggi ha 27 anni, lavora, ha comperato casa e macchina, ha trovato un suo modo per riannodare simbolicamente la sua vita con gli abitanti del paese in cui abita.
2Dalla follia quindi si può guarire? Si può guarire dalla schizofrenia a rischio suicidario? Non troviamo una risposta certa a una domanda così precisa. Una delle opzioni che forse conviene non trascurare è che la Neuropsichiatria infantile dell’Università, che ha formulato la diagnosi, si sia sbagliata. Questo vorrebbe dire che, se la cura stabilita dalla diagnosi non riesce a svincolarsi e mettere in evidenza una speranza del soggetto di potercela fare, allora, una condanna di cronicità psichiatrica è, spesso, assicurata.
3È nota la difficoltà di stabilire una diagnosi con i minori e gli adolescenti. Questo fatto deve suggerirci di mettere sistematicamente sotto la campana del dubbio progettuale i protocolli terapeutico-riabilitativi che ne deriverebbero. Il rischio che si corre è quello in cui è scivolata la psichiatria quando ha deciso di diventare il braccio medico-sanitario della giustizia penale per rassicurare la società. L’effetto ottenuto è esattamente quello che si voleva evitare. Nell’ambito della salute mentale dei minori ci sono ancora molte dichiarazioni di principio2. Non si concepisce ancora, nella pratica, che la miglior personalizzazione del protocollo terapeutico che riguarda il soggetto sia stabilita dal soggetto stesso e non dagli specialisti. Tutta la storia della psichiatria e della neuropsichiatria lo insegna con dovizia di particolari nella continua oscillazione tra esaltazione e diffidenza, a un tempo, verso le teorie terapeutiche che si avvicendano. Esaltazione e diffidenza che mostrano il gioco narcisistico dei professionisti più che i risultati dei progetti che vengono realizzati. La letteratura che riguarda gli autistici è di insegnamento. Sono loro a testimoniare, con la loro competenza artistica, poetica e scientifica, quello che sanno, con i libri che scrivono. Il libro dello psicotico più famoso della letteratura, Daniel Paul Schreber3, è stato da subito un best-seller per chi voleva e vuole capire qualche cosa di più della psicosi. Tutti, psichiatri e psicoanalisti, infatti, si sono misurati con il suo testo Memorie di un malato di nervi per incominciare a addentrarsi nel mondo psichico e nel linguaggio degli psicotici. L’evidenza di tali constatazioni non ha alcun peso nelle prescrizioni di chi controlla il lavoro delle istituzioni sanitarie che si occupano di tali malati.
4Sulla follia umana si sono scritte le pagine più retoriche e inutili ma anche quelle più poetiche e umane. Umane proprio perché fatali e tragiche in quanto effetto della verità dell’essere parlante. Se l’esistenza umana fosse il luogo della completa soddisfazione, non ci sarebbe nessuna necessità di incontrare alcuna verità. «Non esisterebbe nemmeno la tragedia, perché un mondo di soddisfazione non avrebbe niente a che fare con la verità. L’orientamento della psicoanalisi verso il reale si produce grazie alla verità, nodo tra la psicoanalisi e la tragedia. La tragedia implica una sofferenza incontrollata»4.
5In Italia i manicomi si chiudono, sostanzialmente, nel 20005. I manicomi giudiziari nel 2016. Facciamo riferimento agli adulti anche se ci occupiamo di minori e di adolescenti, dal momento che i sistemi di cura per minori e adolescenti seguono la scia della cura istituzionale per adulti. Non è una storia edificante. L’obiettivo dell’intervento sanitario, previsto dalle leggi custodialistiche, come la n. 36 del 14/02/1904, era quello di accogliere chi era «pericoloso a sé o agli altri o di pubblico scandalo». Era sufficiente che qualcuno pronunciasse questa formula o diagnosi sociale, che magicamente il malcapitato diagnosticato si trovava rinchiuso in manicomio. Come essere rassicurati, allora, dalle istituzioni che curano la follia? La storia delle istituzioni per minori non è immune dai rischi noti dei manicomi e il termine “terricomio” è famoso già prima della proposta Basaglia.
6In effetti, davanti ai funzionari regionali che dovevano decidere l’autorizzazione all’accreditamento sanitario per la nostra comunità, mi fu chiesto esplicitamente di giurare che non avremmo aperto un manicomio per i minori. Fui sorpreso ma, ingenuamente, ben lieto di tale richiesta. Quando mi trovai a firmare il contratto che stabiliva la retta per il lavoro terapeutico, mi resi conto, però, di essere caduto in un classico tranello burocratico, semplicemente tragico. Da un lato ci chiedevano di non fare manicomi per minori, dall’altro dovevamo firmare un documento che ci imponeva di realizzare un’istituzione chiusa come i manicomi. Il riconoscimento del lavoro clinico richiedeva il ricoverato del minore tutti i giorni, per ventiquattro ore al giorno. Una prescrizione di reclusione di minori. È impossibile dimettere gli ospiti accolti senza poter organizzare la loro vita anche sul loro territorio e nella loro casa, per osservare le dinamiche che li portano al ricovero. L’esperienza di tanti anni ci ha dimostrato che il vero lavoro clinico è proprio con le famiglie, eppure il contratto non lo prevedeva assolutamente, anzi lo negava. Le norme burocratiche sono più chiare e eloquenti degli annunci, delle dichiarazioni e dei principi etici che le determinano. Il motto «senza standard, ma non senza principi»6 era letteralmente stravolto.
7Rimane la questione di base. Quali garanzie dare, alla società, al pubblico, allo stato, per dimostrare che, per curare i bambini e gli adolescenti, non è necessario fondare altri manicomi? Non abbiamo risposte. Oggi possiamo dire con più determinazione, tuttavia, che è possibile misurarci con la follia senza creare manicomi, operando al di là degli standard. Il trattamento della salute mentale, come della guerra, dipende da un atto soggettivo che si paga personalmente, senza alcuna vera garanzia anticipata e, soprattutto, dipende da chi si deve veramente combattere e trattare.
La condizione umana o dell’incertezza
8Abbiamo fondato l’impresa clinica per la cura e l’assistenza di minori e adolescenti orientati dalla psicoanalisi, senza fare, tuttavia, un lavoro come psicoanalisti. Freud e Lacan danno valore all’atto clinico dell’operatore, uno per uno e non ai protocolli standard della medicina e della scienza dell’educazione. Un atto è clinico se carico della responsabilità imprevedibile di chi decide e per le opportunità nei confronti dei soggetti a cui questo atto è indirizzato. Ci viene in aiuto anche Blaise Pascal nel suo elogio all’incertezza:
La nostra condizione ci rende incapaci sia di conoscere con piena certezza come di ignorare in maniera assoluta. Voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci, di fissarci, vacilla e ci lascia. E se lo seguiamo si sottrae, scorre via, fugge in una eterna fuga. Nulla è fermo per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che tuttavia è il più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile, una base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito ma ogni fondamento scricchiola e la terra si apre fino agli abissi7.
9È curioso che Pascal utilizzi le metafore marinaresche per testimoniare il nostro essere in balia di ciò che non vorremmo e poi torni sulla terraferma proponendo la metafora della Torre di Babele, senza citarla espressamente. I filosofi conoscono bene cosa vi sia nell’animo umano8. Le metafore marinare e l’immagine della terra che si apre fino agli abissi dicono qualche cosa della condizione dello psicotico ma anche della condizione dell’operatore che intende aiutarlo a trovare un suo posto nel mondo. Utilizziamo la metafora dell’abisso come rappresentazione dell’incontro con l’angoscia esistenziale. Non ci sono parole per testimoniare tale incontro, ci insegna Pascal. Tale angoscia non è così facilmente addomesticabile dalla parola. Per lavorare con la psicosi occorre imparare a non avere paura dell’angoscia, a non angosciarsi. Organizzare le condizioni istituzionali e, quindi, spazio-temporali per non angosciarsi è il compito primario per chi voglia curare lo psicotico.
10Il delirio si può considerare come un “fuori discorso” proprio perché incontra l’abisso. Leggendo l’ultimo Lacan impariamo anche noi l’importanza di non avere timore di fondare istituzioni speciali per operare con lo psicotico. Occorre, naturalmente, sapere cosa è necessario predisporre per permettere al soggetto di ritrovare un proprio modo di essere nel mondo, senza imporsi a lui. La questione non è di essere generosi e accoglienti sul piano morale, ma logici nel rispetto del soggetto dell’inconscio. Non si tratta, cioè, di tollerare l’aggressività del paziente. La sua aggressività è pur sempre una drammatica richiesta di aiuto. Rispettare il mostro ha, come effetto, che il mostro si pacifichi. La sorpresa, in termini di creatività, che ne può derivare è, semplicemente, di grande incoraggiamento per la clinica nel sociale. L’angoscia del paziente può essere tenuta a bada da un atto dell’operatore e non dal senso dato a un significante decisivo, come per esempio una diagnosi, o qualche protocollo terapeutico-riabilitativo. Ne sa qualche cosa chi si occupa di adolescenti per i quali è l’atto responsabile e rispettoso da parte dell’operatore, corretto e disciplinato, che ha un effetto pacificante e regolante sul ragazzo in cura. Non è certo l’imposizione coatta di una regola o la prescrizione di un piano educativo ideale, bensì il rispetto e il riconoscimento del soggetto come tale che può avere un effetto clinico. Con gli psicotici gravi, inoltre, non somministriamo un’ora di psicoterapia come si somministra uno psicofarmaco, ma cerchiamo di offrire loro un ambiante pacificato. Anche i grandi psichiatri biologisti conoscevano l’importanza e l’utilità clinica della cosiddetta psicoterapia d’ambiente, fatta di scansioni in grado di articolare la giornata con atelier che possano accendere gli interessi dei pazienti. Lo stesso Bion, psichiatra e psicoanalista, ha dimostrato che accogliere e riconoscere i pazienti, uno per uno, significa anche responsabilizzarli nella gestione della loro casa e nello stimolarli a organizzare il loro tempo quotidiano.
Il capitale fiduciario
11«C’è un deficit di capitale fiduciario» – sostiene Stefano Paleari – «un deficit nelle famiglie, tra gli individui, nelle associazioni, nelle istituzioni, nella società»9. Nell’ascoltare e osservare con attenzione i ragazzi ospiti nelle strutture terapeutico-riabilitative si capisce, invece, che si può e si deve investire in questa fiducia. Un capitale fiduciario può essere messo in circolazione. Nell’ascoltare e osservare ciò che accade nella società, al contrario, qualche dubbio sorge. «Certamente lo scenario descritto dal personaggio principale di Non è un paese per vecchi è estremo – scrive Carlo De Marchi – e a molti, forse, sembrerà un’esagerazione che ha poco a che fare con la nostra realtà. È però assai diffusa la sensazione che esista un problema di deficit di umanità nella vita sociale, negli incontri quotidiani, nel lavoro, nei rapporti amicali e famigliari. È come se mancasse qualche cosa»10.
12Un capitale fiduciario e di grande umanità ci viene, in effetti, offerto da un mondo che non vogliamo incontrare, che non vogliamo accogliere, che fa paura a tutti. Il matto fa molta paura. Forse proprio perché la follia è dentro ciascuno di noi. Tutti gli esseri parlanti nascono strutturalmente folli, insegna Lacan e non solo lui.
13Si possono dimettere i ragazzi dalla struttura di neuropsichiatria che ospita minori e adolescenti molto gravi? Sì. Questo è un dato: certo che si può! Non è sempre possibile una dimissione che permetta al ragazzo/ragazza di reinserirsi nella società “produttiva”, ma ci sono delle condizioni cliniche che non sono legate alla diagnosi ma alla capacità dell’operatore, indipendentemente dalla sua funzione e ruolo, di imparare a tenere una posizione e un atteggiamento di accoglienza che permetta al paziente, o meglio ai giovani ospiti accolti in Comunità, di sentire che la fiducia può circolare e loro possono cavarsela, possono farcela.
14Dimettere questi ragazzi significa offrire, alla società civile, non solo un risparmio economico ma anche un gran valore. La follia può essere un utile elemento per contenere e tenere a freno l’onnipotenza della civiltà umana. È possibile, in altre parole, passare dal delirio della pazzia, alla follia d’amore, come insegnano la poesia e la letteratura.
15Chi sono, allora, i ragazzi che ospitiamo e che abbiamo dimesso dalle nostre istituzioni? Chi erano e chi sono i ragazzi e le ragazze che ospitiamo ogni anno, ogni giorno? Come mai la Neuropsichiatria infantile decide di mandarli in cura nella nostra struttura residenziale terapeutico-riabilitativa? Chi sono i bambini e i ragazzi che ci vengono inviati per la cura e l’assistenza che offriamo? Fin dal primo giorno in cui accogliamo un nuovo ospite discutiamo con lui e la sua famiglia dell’idea e del tempo delle dimissioni. Tutti, nella società, vogliono sapere se ci sono delle speranze di cura e di dimissioni reali! Perché, allora, non dovrebbero esserlo anche i diretti interessati? Tutti vogliono capire se la diagnosi, alla fine della cura, sparisce. Le cose non stanno proprio così.
16Chi lavora sul campo sa bene che il paradigma del discorso medico ospedaliero con i suoi protocolli, per una cura adatta a tutti, non si può applicare, in questo settore. Non si tratta, però, di escludere il medico. Con la cosiddetta “salute mentale” le questioni sono più articolate.
Un esempio emblematico
17A marzo 2013 accogliamo in comunità, un bambino africano di nove anni. Ha passato una settimana in ospedale in Neuropsichiatria infantile per una malattia infettiva. Prima era in una comunità educativa e prima ancora in una famiglia. Nessuno regge le sue crisi auto- ed eteroaggressive. In Italia per una grave forma tumorale, sa di dover morire e non teme nessuno. Non è docile verso gli oncologi e non accetta protocolli terapeutici che tendono a trattarlo come “oggetto” di cura. Gli piace parlare. In Italia da ottobre 2012 capisce l’italiano ma preferisce parlare nella sua lingua madre. Conteniamo le sue crisi con Skype lasciandolo parlare nella sua lingua con il pediatra, italiano, dell’orfanatrofio che lo ospitava in Africa. Parla nella sua lingua e si pacifica. Prima di partire chiede al pediatra: «Quando sono in Italia, cosa mangio e con chi parlo?». Conosce le questioni-base del soggetto: sessualità e alterità, i due impossibili dell’essere parlante. Dopo i primi cicli di chemioterapia e radioterapia, si rifiuta categoricamente di continuare e la cura viene interrotta. Il sistema sanitario e assistenziale va in crisi. Per il Dipartimento di salute mentale, dal quale dipendono il nostro lavoro e la nostra esistenza come istituzione, non avremmo dovuto accoglierlo perché la Neuropsichiatria dell’ospedale non aveva effettuato alcuna diagnosi neuropsichiatrica. Rimane il fatto che il ragazzo ci era stato inviato da una Neuropsichiatria del territorio di residenza della prima famiglia ospitante, d’intesa con il Servizio sociale internazionale.
18Con questo caso, dalla clinica ci troviamo catapultati in una questione politica che cerchiamo di affrontare assumendo un atto. Ci troviamo di fronte a un’accusa clinica e una minaccia politica grave. Il direttore clinico, in équipe, legge il testo Due note sul bambino11 di Lacan e, nella discussione, esplicita i termini del paradosso/dilemma: «Tenere il ragazzo o chiudere la comunità?». L’équipe, compatta, decide di continuare a curare il ragazzo. Il direttore clinico scrive una lettera a tutti gli attori coinvolti: oncologi, tutore del Comune, neuropsichiatra inviante, funzionari dell’Asl, assistente sociale dell’organizzazione internazionale, neuropsichiatra della comunità, direttore del dipartimento, eccetera. Nella lettera prende una posizione precisa a favore del ragazzo come soggetto e non solo come corpo malato da curare. Nella lettera si legge: «Conquistare la fiducia di ragazzo e rispettare le regole del sistema sanitario, due condizioni indispensabili ma non conciliabili. Questo ragazzo è da noi perché nessuno riesce a contenerlo e curarlo, come accade alla maggioranza dei nostri ospiti. È una questione di clinica nel sociale e ci riguarda». Per Freud e Lacan ogni soggetto ha la sua struttura e, in questo caso, l’altro sociale di questo ragazzo non riesce ad accettarlo. Decidiamo di schierarci dalla parte del suo Altro simbolico. Accogliamo un soggetto terrorizzato, angosciato, come accade agli psicotici o ai gravi nevrotici che le Neuropsichiatrie infantili ci inviano. Per lui c’è da aggiungere il disagio di trovarsi in un paese estraneo e percepito come nemico. Lavoriamo per permettere a questo ragazzo di sentirsi attore nell’ambiente in cui si trova e lui è subito più collaborativo. Lasciamo che ci insegni come fare. Questo ragazzino africano porta, in un sistema orientato ai protocolli e agli standard, una soggettività e una vitalità che chiede di essere riconosciuta e accolta.
19Le crisi mostrano un ragazzo in balia di un Altro di cui non si fida e che fraintende. È qui che si ribella, ma il suo è un modo di rispondere, di reagire, di contrastare l’aggressività che percepisce da chi gli si avvicina per “fare il suo bene”. Le sue azioni, i suoi comportamenti sono logici. Cerca di eliminare chi o che cosa gli impedisce di sentirsi vivo, di essere. Un ragazzo cresciuto tra leoni e tigri non può farsi mettere nella posizione di “oggetto” delle cure secondo i canoni occidentali. Ci rendiamo conto di riuscire a aiutarlo solo quando lui si sente rispettato e ci racconta la sua storia, del suo paese, dei suoi miti, dei suoi fantasmi, degli spiriti cattivi e degli spiriti buoni che appartengono alla sua cultura. Nel suo primo giorno in Italia, per esempio, viene ricoverato in un grande ospedale lombardo dove c’è la festa dei Patch Adams12. Nessuno può immaginare che per lui, questi personaggi, sono spiriti cattivi. Incontra subito la “terapia del terrore” invece di quella del sorriso. Ci vuole tempo per capire. Si è capaci di dare fiducia se la si riceve. Più si pretende di volergli bene, più gli si sottrae spazio vitale. Anche le terapie possono essere accettate dal momento che lui, come tutti noi, impara a separarsi un po’ dal proprio corpo e lasciarlo, per così dire, a disposizione del trattamento terapeutico. È una questione che riguarda tutti. Si tratta di una verità universale che diventa evidente quando riusciamo a ascoltare meglio il nostro piccolo africano.
20Dopo quattro mesi di intenso lavoro si decide di dimetterlo. Torna in Africa, accompagnato dal pediatra, venuto in Italia. Ha riacquistato il suo sorriso schietto e aperto.
Il vuoto di sapere e il lavoro in équipe
21Accettare il proprio limite permette di cogliere il desiderio che c’è sul versante degli ospiti quando non si domanda loro nulla. La pesante crisi istituzionale generale, innescata da questo ragazzo, ha permesso agli operatori di incontrare una nuova consapevolezza e dignità soggettiva per il proprio lavoro, un nuovo ritmo da dare alla giornata, un nuovo rigore spazio-temporale da mettere nei laboratori, al servizio degli ospiti. Un lavoro sempre in progress! L’équipe acquista il suo valore di forza propulsiva nei momenti di crisi. I vincoli amministrativi possono ingenerare movimenti fallimentari o diventare leva per governare una crescita progettuale e personale. L’équipe, anche grazie a tale esperienza, si è potuta riorganizzare. Dopo avere investito tanto, è buona cosa prendersi del tempo per capire, elaborare, ritrovare le distanze che aiutano a leggere l’esperienza vissuta e attraversarla, così da renderci conto di quanto fossimo prigionieri di idee, convinzioni e ideali clinici e educativi. È più chiaro, ora, cosa voglia dire responsabilità soggettiva dell’atto che decompleta l’istituzione e il nostro sapere presunto. Un atto che permette all’operatore di perdere parte del proprio godimento al servizio di un annodamento simbolico nuovo. La questione organizzativa e sanitaria che il bimbo africano ha portato in Italia e nella nostra struttura, poteva essere più facilmente gestibile? La questione clinica, evidentemente, si è pesantemente sovrapposta a quella culturale, facendo esplodere la situazione. È stato necessario imparare a cogliere gli elementi della cultura in cui il ragazzo era immerso e da cui era parlato, per allentare le tensioni istituzionali e rendere più umani i legami che si erano troppo paranoicizzati. L’accoglienza e il rispetto nei confronti del soggetto debbono necessariamente tenere presente la diversità culturale e ripartire da lì. Applicare i nostri protocolli terapeutici, senza avere incontrato il soggetto, rischia di produrre uno scacco matto che pagano tutti, come rischiava di avvenire in questo caso. Il protocollo terapeutico applicato senza il consenso del soggetto, può essere ricusato non perché sia cattivo il protocollo, ma perché lo si applica indipendentemente dalla sua volontà.
22Lavorando con la follia si ha a che fare con la guerra, abbiamo sostenuto, perché la clinica non si misura con la realtà, ma con la verità, come insegna Lacan13. Non si tratta, però, di entrare in guerra con qualcuno, ma di essere sempre in guerra con i nostri preconcetti, il nostro narcisismo, presunzione e pretesa di sapere. La clinica ha bisogno di fantasia, non di standard, come scrive un nostro ospite:
Cerco l’impegno,
Cerco la via
Cerco il regno dell’armonia,
attraverso il disegno,
attraverso la poesia.
Porto con me chiunque sia degno.
La mia lanterna è la fantasia.
Notes de bas de page
1 D. Grossman, Qualcuno con cui correre, Milano, Mondadori, 2008.
2 Si veda, il documento emblematico Accordo stato-regioni della Conferenza Unificata della Presidenza del Consiglio, Rep. Atti n. 138/CU del 13 novembre 2014 [N. d. A.].
3 D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Milano, Adelphi, 1974. Ciò che rende interessante questo testo è il fatto che venga scritto dal paziente al suo curante. Il transfert di Schreber verso Flechsig è importante per la scrittura del testo. Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figlio di un illustre educatore dalle idee molto rigide, ebbe nel 1893, a cinquantun anni, una grave crisi nervosa e entrò nella clinica psichiatrica di Lipsia, affidandosi all’autorità del suo direttore, l’anatomista P.E. Flechsig. La crisi aveva avuto inizio quando un giorno, nel dormiveglia, Schreber si era trovato a pensare che «dovesse essere davvero molto bello essere una donna che soggiace alla copula». A partire da questo punto si sviluppò in lui un prodigioso delirio, che lo fece passare per tutti gli estremi della tortura e della voluttà, coinvolgendo dèi, astri, demiurghi, complotti, «assassinii dell’anima», catastrofi cosmiche, rivolgimenti politici.
4 A.G. Delgado, La guerra di Spagna: l’esilio interiore, in M.-H. Brousse (a cura di), Guerre senza limite. Psicoanalisi, trauma, legame sociale, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017, p. 41.
5 La legge Basaglia li chiudeva già con la famosa Legge 180 nel 1978 [N. d. A.].
6 È il “motto” della psicoanalisi lacaniana e anche il titolo di un famoso congresso internazionale della Associazione Mondiale di Psicoanalisi (Amp) che si è tenuto a Comandatuba, in Brasile nel 2004 [N. d. A.].
7 B. Pascal, Pensieri [1669-1670], Milano, Bompiani, 2016, p. 69.
8 G. Giorello, Narrare l’incertezza, 27 aprile 2012 (https://youtu.be/xiAQsLQAgRQ).
9 S. Paleari, Discorso tenuto al IV Congresso Rotary International del Distretto 2042 a Bergamo nel giugno 2017.
10 C. De Marchi, La formula del buonumore. Con i 5 rimedi contro la tristezza, Milano, Ares, 2017, pag. 15.
11 J. Lacan, Nota sul bambino [1969], in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, pp. 367-368.
12 Medici vestiti da clown per portare la terapia del sorriso [N.d.A.].
13 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi [1953], in Scritti, vol. 1, Torino, Einaudi, 1974. pp. 230-315. In particolare si veda il paragrafo Parola vuota e parola piena nella realizzazione psicoanalitica del soggetto, pp. 240-258.
Auteur
Psicologo, psicoterapeuta, membro Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e Associazione Mondiale di Psicoanalisi, Fondatore e Direttore clinico della cooperativa sociale Artelier, docente dell’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e scienza.

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