I costi della guerra
p. 270-281
Texte intégral
1Questa strana forma di «commercio interumano che chiamiamo guerra»1: un’espressione sorprendente. Non consideriamo questa affermazione a partire da quello che di primo acchito potrebbe sembrare un commento tranquillizzante, oppure marginale, in riferimento alle attività di guerra, che più spontaneamente parrebbero dominate dalla violenza e dalla distruzione piuttosto che dalla relazione interumana… soffermiamoci invece sul termine “commercio”.
2Etimologicamente la parola commercio rinvia a ciò che qualifica le relazioni sociali – che siano amichevoli o affettive – e per estensione alla frequentazione di persone. È un fatto. Tuttavia questo uso un po’ obsoleto è celato nella nostra modernità dietro un significato molto più pragmatico, ovvero la pratica di un’attività che consiste nello scambio di prodotti, nella vendita e nell’acquisto.
3È un termine adeguato per parlare della guerra? Certamente in Clausewitz2 troviamo che «la guerra è un commercio fra gli uomini», citazione che precede molto quella di Lacan negli Scritti. Possiamo fare l’ipotesi che in questi due casi si metta innanzi tutto in rilievo un uso figurato del termine. Ma nella materialità della guerra ci sono degli elementi che si avvicinano molto al senso proprio del termine “commercio”. Possiamo formulare la cosa in questi termini: la guerra ha un costo.
La guerra ha dei costi
4La guerra ha anche dei costi. L’uso plurale, “i costi della guerra” non sfugge al senso comune, al discorso corrente sul fenomeno, che riguarda tanto gli stati belligeranti, quanto ciascuno di noi per via della legittima preoccupazione in relazione agli scontri marziali… La nostra immediata attualità non cessa di ricordarcelo. Qualunque cosa dicano i commentatori dei nostri mezzi di informazione, per esempio sull’apertura delle ostilità fra due paesi lontani (o sull’invio delle nostre forze armate in un teatro estero di operazioni militari), oppure sulla commemorazione di conflitti passati, la questione dei costi umani della guerra ha un impatto diretto sull’opinione pubblica. Contrariamente alle generazioni che ci hanno preceduto, non siamo più particolarmente sensibili alla questione della difesa specifica del nostro territorio; questa ha anche un’eco particolare nei paesi stranieri. La necessità che diventa virtù, il richiamo al sacrificio patriottico o la paura diretta per la sopravvivenza, non ci parlano più allo stesso modo. Ma almeno possiamo pensarle. Invece, le possibili perdite umane restano sempre ugualmente insopportabili. Il loro annuncio sui media, anche quando si tratta di “proporzioni infime” rispetto alle perdite subite nelle guerre anteriori, provoca un effetto generale di “sentirsi chiamati in causa”, ben al di là della singolarità del dramma individuale delle famiglie in lutto. Questa per noi rappresenta una prima indicazione, se ci autorizziamo a fare una lettura differente da un’interpretazione sociale, morale o politica. In effetti l’orrore dell’esposizione pubblica, mediatica, delle perdite umane, rappresenta un insopportabile che occorre commentare.
5Il primo commento, che si impone con evidenza, si riferisce al valore umano di queste perdite, o, più precisamente, al valore da attribuire alle perdite umane. Il sacrificio incommensurabile dei combattenti – che siano professionisti oppure richiamati sotto le bandiere da una mobilitazione generale – non potrebbe essere oggetto di una stima. I morti sul campo di battaglia per difendere la patria o il territorio nazionale possono essere lodati o deplorati, ma non hanno per questo valore di “mercato”. La questione è diversa quando l’azione militare ha degli obiettivi più lontani. Ritroviamo così il riferimento alle diverse accezioni del termine “guerra”, cioè i diversi modi di impegnarsi in un conflitto armato, come per esempio l’interposizione, l’ingerenza, le alleanze politiche, le azioni congiunte di diverse nazioni… In queste circostanze, interviene una nozione oscura, che entra in risonanza con le preoccupazioni della popolazione: quali interessi sono sottesi all’impegno militare? Sottolineiamo l’equivocità del termine “interesse”, che ha delle connotazioni finanziarie. Da qui l’idea che i soldati di una nazione possano morire per degli interessi anche solo un po’ distanti da quelli della nazione, prende tutto un altro senso. Immancabilmente la vita umana prende un valore. Il costo umano non è più percepito come una tragedia, come l’inevitabile perdita che non si può che deplorare, ma al contrario appare come una questione che porta con sé una stima e una riflessione, esposte al dibattito. La decisione di impegnarsi in un conflitto deve allora essere soppesata in base alla sua pertinenza e alla sua efficienza. Diventa l’oggetto di un calcolo, di una valutazione. È proprio necessario? Fattibile? Accettabile? Indichiamo così alcune questioni che possono porsi in circostanze di questo tipo. Percepiamo lo scarto fra l’inevitabilità del sacrificio e lo sforzo di razionalizzazione e di valutazione che riguarda il commercio interumano dei nostri conflitti moderni…
6Il secondo commento che si impone è conseguenza del primo. Precisamente, lo sguardo sociale ha un peso importante sui conflitti armati. Intendiamoci, questa questione probabilmente non era assente in periodi più antichi. Vogliamo però sottolineare che nella nostra epoca moderna l’impegno in conflitti armati risponde senza dubbio in maniera meno diretta alla messa in funzione del discorso del padrone o, almeno, alla scelta di chi prende le decisioni, il quale, presto o tardi, non potrà evitare di raccogliere il consenso di coloro che amministra. Se viene decisa la guerra, le sue conseguenze devono essere malgrado tutto “accettabili”. In effetti la guerra moderna è esposta, è messa in mostra in tutta la sua crudeltà e la sua immediatezza attraverso le tecnologie più moderne. L’immagine prevale, fa irruzione, e volte effrazione, nella vita quotidiana delle famiglie. Ai nostri giorni, la propaganda non tiene più; i reportage, anche quelli di guerra, non sono più l’unico mezzo di penetrare la linea del fronte, la quale d’altra parte non garantisce più di tenere separati i sistemi. In effetti oggi l’ordinamento dei conflitti mediante un codice è rivoluzionato: solo la storia delle guerre antiche ne testimonia ancora. La delimitazione delle zone, quella di combattimento da una parte, quella delle retrovie da un’altra parte, non tiene più, è pura facciata. Forse è quello che possiamo estrarre dal termine “teatro”, che, invece di qualificare una tragedia, nomina il luogo, a volte impreciso, in cui si svolgono le operazioni di guerra. Questo teatro è il vero luogo degli scambi e dei commerci interumani. Abbiamo abbozzato quello che, nella delocalizzazione delle minacce più immediate, produce un effetto di «spinta alla contabilità». Lo sviluppo delle tecnologie moderne e l’incidenza della scienza nel discorso del padrone accentuano questa delocalizzazione.
7Da un lato effettivamente queste guerre lontane fanno parte del nostro quotidiano per via dell’onnipresenza delle immagini. Si offrono a essere scrutate e ci invitano a implicarci implicitamente, a dare un “giudizio di valore” su quello che accade qui e là. Il recente conflitto in Siria ne offre una particolare illustrazione, allettando lo sguardo partigiano o la contemplazione voyeuristica…
8Ma d’altra parte la delocalizzazione e la dematerializzazione del campo di battaglia fanno inevitabilmente ritorno attraverso le nuove modalità dei conflitti armati. In un certo modo non sentirsi coinvolti diventa impossibile, perché la guerra è dappertutto, il nemico invisibile, la minaccia insidiosa. Il terrorismo, la guerra elettronica, la guerra economica hanno modificato le caratteristiche di una guerra moderna senza volto e senza immagine, ma non senza nome. Probabilmente è questo il modo con cui si esprime la preoccupazione per la guerra nel quotidiano delle famiglie del xxi secolo: nessun territorio da difendere, ma una preoccupazione onnipresente sull’amministrare. La guerra è diventata un’esperienza del quotidiano, essendo, attraverso questa particolare incidenza, indissociabile dal processo della nostra civiltà. Si tratta di un cambiamento che deve trovare posto nell’amministrazione degli stati, e in questo modo tocca la preoccupazione economica. Anche l’amministrazione specifica di questa “difesa” degli “interessi nazionali” ha un costo. Non ci si può sottrarre e questo ha un’incidenza sulla circolazione degli oggetti nel discorso capitalista. Forse mediante questa lettura possiamo cogliere le esigenze particolari della nostra modernità intorno all’esercizio stesso della guerra: la guerra “zero morti”, senza tracce né vittime (soprattutto “vittime collaterali”). Scienza e tecnologia alla riscossa per questa impresa. Così è stato per lo sviluppo di nuove tecnologie di armamenti (pensiamo per esempio alle armi chimiche nella prima metà del xx secolo), ma anche per l’ottimizzazione dell’addestramento e delle performance dei soldati (come l’uso di anfetamine nello stesso periodo. Ricordiamo che alla fine della Seconda guerra mondiale, il “Times” intitolava in modo ironico: «Methedrine won the Battle of Britain»). Oggi, quando queste pratiche discutibili sono state sanzionate dalle convenzioni internazionali, siamo così lontani da questa impresa? Possiamo dubitarne, se consideriamo l’espansione delle tecnologie degli armamenti, dall’equipaggiamento della fanteria con esoscheletri al dispiegamento dei droni, per un’azione che punta al cuore delle posizioni nemiche. Tutto questo ha un costo, di cui l’industria bellica non è che la parte visibile.
Dal logoramento alla distruzione
9Affrontare da questo punto di vista la questione tenderebbe a presentare l’incidenza dei costi della guerra nel loro aspetto materiale come una particolarità della nostra modernità. Ma non lo è affatto. Da sempre le azioni di guerra sono state correlate con delle questioni materiali, anche se sovente celate da preoccupazioni di potere o di prestigio. Storicamente prendiamo nota del fatto che la guerra è guerra di conquista di territori.
10Questo riferimento storico ci dà delle preziose indicazioni sul fenomeno. Per fare questo, possiamo mantenere due assi di lettura: da un lato gli attori in gioco, dall’altra la posta in gioco e gli obiettivi della guerra. Effettivamente colpisce constatare come nelle studio delle guerre feudali e medioevali esistessero delle strette delimitazioni che rispettavano codici e usanze. Così le guerre erano stabilite in certi periodi, oppure rispetto alle stagioni, in particolare ai raccolti. C’è un tempo per ogni cosa: da una parte la guerra, dall’altra la sussistenza. Anche gli attori sono coinvolti in maniera specifica: in quel periodo la guerra è diretta da un’élite aristocratica; composta solo da alcuni, ne coinvolge tuttavia altri, dato che le truppe sono costituite da soldati presi in base alla disponibilità e all’opportunità del momento, ma soprattutto da mercenari, legati a chi offre di più. Presentata così, la guerra non è affatto la semplice distrazione dei signori, dato che il denaro vi occupa un posto importante, sia sul versante del calcolo del valore dei belligeranti, in vista di un riscatto, pratica assai comune, sia su quello del costo del mantenimento dei mercenari, sole unità che si possano qualificare come “professioniste” nel loro rapporto alla guerra.
11A partire da questi obiettivi pragmatici, monetari, che coesistevano con le rivalità e lo sfavillio del potere, possiamo interpretare diversi cambiamenti sopraggiunti nel panorama delle guerre della seconda metà del secondo millennio. Queste ci consentono di cogliere in maniera sensibile l’intreccio fra le scoperte tecnologiche e il rimaneggiamento delle modalità delle azioni di guerra. La guerra diventa qualcosa di molto serio.
12La prima constatazione deriva dal panorama, presentato in maniera un po’ riduttiva, relativo a fini estranei alla popolazione comune, dato che si pongono in contrasto con le attività di sussistenza. La guerra prende la forma di una successione di battaglie, limitate solo dalla forza o dalle risorse di uno dei protagonisti; il suo esito è la designazione di un vincitore. Tuttavia, incontra anche un altro limite quando il conflitto non resta limitato a un territorio circoscritto. In effetti, la conquista di territori trova una barriera nella pratica dell’assedio delle città dato che, tatticamente, cioè rispetto al modo di condurre le operazioni militari, il vantaggio era ovviamente dato sempre alla difesa. La fortezza e le sue mura costituiscono il punto di arresto all’avanzata delle truppe. Il loro carattere invalicabile influenza in modo notevole la strategia, riducendo i limiti della tattica. Possiamo situare qui la strategia di logoramento. Gli obiettivi non sono vincere l’avversario con la forza e sbaragliare le sue difese; prevale la lenta asfissia prodotta dall’assedio. L’assedio ha senza dubbio un costo; l’assedio mette alla prova le risorse dell’assediato: affama, e insieme mette in difficoltà le casse. Guerra e preoccupazioni economiche sono legate in maniera incidentale e indissolubile: depredare le ricchezze, le risorse, logorare le possibilità… La circolazione degli oggetti si trova senza dubbio al comando.
13L’incidenza del discorso della scienza è all’origine di un particolare cambiamento nel xvi secolo, secolo di conquiste e di espansione della carta geografica mondiale e dei territori. Dobbiamo sottolineare la ricchezza delle scoperte scientifiche di questo periodo, specie in relazione ai mezzi di trasporto (pensiamo alla navigazione marittima, o alla cartografia). Le brillanti scoperte si ripercuotono successivamente sulla pratica dell’arte della guerra. La polvere da sparo, la scoperta del cannone, il suo perfezionamento, l’applicazione del calcolo matematico allo studio della traiettoria balistica, ovvero l’invenzione dell’artiglieria, hanno spostato il limiti dell’epoca. Così come il medesimo periodo vede le frontiere del mondo estendersi, così da quel momento i limiti della battaglia non si fermano ai piedi delle mura. Il vantaggio dato alla posizione difensiva e le fortificazioni non sono più così decisive; il vantaggio passa all’offensiva. La guerra torna a essere di nuovo una guerra di conquista e di battaglia. Ormai non è più limitata alle piazzeforti, o meglio diciamo che queste non sono più garanti della sicurezza di chi le occupa; appare legittimo allora leggere in maniera diversa la preoccupazione di costoro. La guerra non è più solo il privilegio di alcuni. I combattimenti cessano di situarsi esclusivamente nel registro dei piaceri aristocratici. La stessa costituzione delle unità belligeranti si trova alterata, in primo luogo nella forma. È la fine annunciata del predominio della cavalleria, che si trova limitata nella sua superiorità dal rimaneggiamento che abbiamo sottolineato delle truppe di fanteria. L’illustrazione più significativa è quella del “quadrato svizzero”, una truppa di fanti dotati di picche, mobilitati con l’obiettivo comune della difesa del loro cantone, coinvolti, organizzati e legati dalla fedeltà al loro obiettivo comune, situazione molto diversa da quella delle truppe di mercenari dalle motivazioni più labili e mercantili. La messa in secondo piano della cavalleria non è che la premessa di ciò che seguirà con lo sviluppo dei moschetti e delle altre armi da fuoco. La scienza cambia il panorama delle guerre. Se dobbiamo sicuramente sottolineare qui l’aspetto performativo dell’influenza dei progressi scientifici sulla guerra (e ne conosciamo gli effetti “peggiorativi” in termini di distruzione), dobbiamo però soprattutto sottolineare l’articolazione fra il successo della guerra e la performance dell’industria, illuminate entrambe dalla scienza e potente motore dell’economia. Con l’apparizione delle nazioni e degli stati si compie un passo supplementare, che relega in secondo piano gli scopi del “capo di guerra”, dando la predominanza al collettivo, ovvero precisamente la potenza finanziaria e industriale. Con questo, la guerra è senza dubbio nel campo del commercio interumano.
Vivere al di sopra dei propri mezzi
14La metafora economica non è però estranea al campo della psicoanalisi. In numerose occasioni la troviamo sotto la penna di Freud.
15Ne possiamo seguire il movimento in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte3, in particolare dove Freud tratta della Prima guerra mondiale. Sottolineiamo in maniera specifica, a partire dalla metafora antropologica, quella che chiama un «mutamento […] nel nostro atteggiamento verso la morte»4. Il soggetto, quando si trova confrontato alla prospettiva della morte, tenta di eliminarla dalla sua vita, di ridurla a necessità o casualità. Chiaramente la questione della morte è legata a quella della guerra, e tuttavia in queste circostanze estreme quest’ultima vi fa fortemente obiezione. Freud pone come assioma che la morte è irrappresentabile, ovvero che non può sostenersi su alcuna rappresentazione nel nostro psichismo. E tuttavia ci angoscia… La questione viene drammaticamente resa attuale dalle situazioni di guerra, e in particolare dalle loro conseguenze. Rispetto a queste, siamo costretti a crederci, o almeno ad avere a che fare con l’eventualità della morte. La vita torna allora a essere interessante, sebbene questo possa sembrare paradossale. Freud lo qualifica come sentimento di irrealtà di fronte a queste situazioni. Sviluppa la sua argomentazione, che non riprenderemo qui, a partire dall’ambivalenza e soprattutto dall’amore. Non si occupa molto dell’odio. Forse è questo che lo porta a sperare nella civiltà per prendere in contropiede il manifestarsi delle guerre. Nella seconda parte del testo che abbiamo citato, sviluppa diffusamente una prospettiva economica relativa a come possono trasformarsi le «tendenze malvage»5 dell’essere umano, una volta che siano state occultate le loro qualità morali. Trasformazione chiarita anch’essa attraverso l’ambivalenza affettiva, fra fattori interni, ovvero le tendenze “egoiste”, e fattori esterni legati alle costrizioni, in particolare a quelle educative. L’economia di queste tendenze e dei loro rimaneggiamenti porterà Freud a parlare di «attitudine alla civiltà»6, facoltà che dipende dalle predisposizioni sia innate che acquisite. Per quanto concerne le prime, egli spera nell’influenza di elementi erotici affinché «le tendenze egoistiche» si trasformino «in tendenze sociali»7. Per le altre, l’educazione rappresenta «le pretese dell’ambiente civile ed è più tardi sostituita dalla diretta pressione di quest’ultimo»8, e la rinuncia alla soddisfazione di determinati bisogni diventerebbe fondatrice del processo di civilizzazione, guadagnando in contropartita i vantaggi che comporta la vita civile. Tuttavia questa lettura economica della «trasformazione dell’egoismo in altruismo»9 non gli impedisce di cogliere il carattere non sistematico di tale trasformazione, così come di presentare le debolezze nonché la povertà dell’economia del mercato pulsionale mosso dall’amore… Così, per alcuni individui per i quali le tendenze egoistiche non avrebbero subito totalmente la trasformazione in vere tendenze sociali, conviene puntare sui fattori estrinseci per produrre un limite, per permettere loro almeno un adattamento sociale relativamente buono. Chiama questo agire «con incentivi di altro genere, e cioè con la ricompensa e il castigo»10. Indubbiamente l’economia degli istinti e delle varie tendenze, implicitamente legata al processo sociale e di civilizzazione, fa intervenire i limiti e la repressione.
La società civile, la quale esige una buona condotta e non si cura del fondamento pulsionale di quest’ultima, ha dunque costretto a obbedire alla civiltà un gran numero di uomini, i quali tuttavia non seguono in ciò la propria natura. Incoraggiata dal successo, essa si è lasciata indurre ad accentuare al massimo le esigenze morali, costringendo i suoi membri ad allontanarsi ancor più da quella che sarebbe la loro naturale disposizione pulsionale. […] Colui che è in tal modo costretto a reagire costantemente in modo conforme a precetti non corrispondenti alle sue inclinazioni pulsionali, conduce una vita che, sotto il profilo psicologico, è al di sopra dei suoi mezzi11.
16Freud qualifica questo come ipocrisia. Nella sua economia psichica l’uomo vive alle spalle del processo di civilizzazione, rispetto al quale non possiede necessariamente le risorse per elevarsi alla dignità della necessità collettiva.
Effettivamente questi nostri concittadini del mondo non sono per nulla caduti tanto in basso quanto supponevamo, e ciò per il semplice fatto che non si trovavano prima alle altezze che avevamo immaginate. Poiché le individualità collettive dell’umanità, i popoli e gli stati, hanno abbandonato le restrizioni morali a cui erano avvezzi nei loro reciproci rapporti, comprensibilmente i singoli sono stati indotti a sottrarsi anch’essi per un poco alle pressioni della civiltà e a fornire un momentaneo soddisfacimento alle pulsioni che tenevano imbrigliate12.
17Questa conclusione risuona in qualche modo col testo di Lacan La psichiatria inglese e la guerra13. Vi ritroviamo la «dissoluzione […] dello statuto morale»14, che caratterizza il misconoscimento del mondo e i ripari immaginari di questo periodo di guerra, resi particolari da un sentimento di irrealtà. Lacan a più riprese loda la nazione britannica, per il fatto che questa, nella sua organizzazione militare, sembra molto lontana dai dispendiosi sprechi di risorse psichiche che Freud rimprovera ai suoi contemporanei. Al contrario Lacan descrive la messa in opera razionale ed efficiente del ricorso alla «scienza psicologica» in vista della «creazione sintetica di un esercito»15. Vi ritroviamo il principio educativo di una costrizione esterna, sotto l’egida di un nuovo «addestramento mentale». Cosa ne risulta? Sono i «servizi intellettuali della guerra moderna»16: organismi di produzione industriale, apparati di informazione, strumenti di propaganda… Indubbiamente potremmo sperare così in una buona “messa in ordine”. Ma la guerra rimane guerra.
Il passaggio alla contabilità
18Questa si impone nella sua evidenza e anche spesso nella sua incongruità, in primo luogo in relazione alle perdite: le perdite umane. I morti creano disturbo alla guerra.
19Questo disturbare appare a volte nel suo orrore più brutale e choccante. Ci riferiamo qui a quelle scene trionfanti, spesso diffuse dai mezzi di comunicazione, di fiumane di truppe vittoriose che esultano delle loro schiaccianti vittorie, durante le quali assistiamo a comportamenti di giubilo di soldati che contabilizzano impatti, vittime e bersagli distrutti. Abbiamo notato che a volte i soldati si filmano fra loro, ed è una particolarità delle guerre moderne quella di essere filmate. La scena di caccia, il body count qui appare nella sua declinazione più oscena. Che sia a causa dell’assenza di conseguenze dei propri atti o della disconnessione dal carattere morboso di tale situazione, il comportamento cieco sembra sostenuto dalla tecnica, dall’equipaggiamento moderno e dalla tecnologia degli armamenti. Assistiamo al passaggio alla contabilità.
20Siamo a mille miglia dalle considerazioni sulla psicologia dei gruppi di Bion e Rickman, che non funzionano più come baluardo contro l’angoscia. L’articolazione della guerra al sapere non è più determinante per quanto riguarda la battaglia. Così esiste un rischio per la psicoanalisi di mettersi al servizio del padrone, anche se si tratta di «servizi intellettuali della guerra moderna», un rischio di trovarsi nei «più fiacchi cedimenti della coscienza»17. Certo, non si tratta di psicoanalisi quando abbiamo a che fare col macabro conteggio delle perdite di soldati; il fenomeno deve essere considerato in maniera più generale. Ma questo cifrare l’indicibile fa ritorno da altre parti. Su questo punto incontriamo l’insopportabile delle perdite, che si tratti dello sguardo dei comandi militari, per i quali una perdita è una perdita di potenziale operativo, ma anche dell’opinione pubblica. Pertanto è piuttosto paradossale che questo insopportabile spinga alla numerazione, al conteggio. Diversi siti su Internet permettono senza sosta di seguire in diretta le perdite umane civili o militari nei grandi teatri di battaglia internazionali. Questi censimenti diventano oggetto di classificazioni: nazioni, eserciti di appartenenza, numero, dettagli delle circostanze, del luogo e dei mezzi impiegati…
21Questa assurda fascinazione per la cifra, al limite dell’osceno, rasenta l’ingenuità. Tuttavia sottolinea ancora di più l’obiettivo di una guerra senza morti. Ma si tratterà proprio di una guerra senza morti?
22Questo irriducibile ci porta a confrontarci con un’altra modalità del cifrare, secondo un’altra accezione della contabilità: quanto costa? Nel corso dell’ultimo impegno dell’esercito francese abbiamo visto sorgere, in maniera piuttosto inedita, una contabilità molto originale: quella del numero di uomini e dei veicoli, con la stima del loro costo giornaliero. Da quel momento, con grande prestigio speculativo, diventano possibili delle comparazioni, e si applicano dei qualificatori: troppo caro per qualcuno, accettabile in quanto giustificato dal numero di truppe e dal tipo di apparecchi utilizzati per altri… Un rapporto parlamentare ne fornisce la sostanza e permette di spingere più oltre lo studio, paragonando il bilancio della fanteria al costo orario degli ultimi velivoli da combattimento. La conclusione potrebbe essere inquietante, dato che la fanteria è senza dubbio la meno dispendiosa e, in queste circostanze, generalmente risulta il materiale consumato più abbondantemente.
23Questa logica economica delle battaglie sembra, in un certo modo, nuova e patisce ancora di una esposizione dei dati “non del tutto” scorporati. Ma abbiamo sottolineato il posto centrale della dimensione economica nella guerra. Di fronte al disequilibrio delle forze la logica diviene quella del logorare, ovvero rovinare l’avversario. La situazione si modifica quando diventa possibile sradicarlo. In quel momento si impone un’altra amministrazione: il conteggio dei danni. Ma non dobbiamo misconoscere un pragmatismo che forse ci sfugge: quello non tanto dei costi di guerra ma delle loro conseguenze, particolarmente di quelle sanitarie. Forse possiamo pensare che si tratti di una forma moderna di logoramento? Oltre Atlantico i costi sociali dei veterani di guerra vengono stimati con precisione. A titolo di esempio, un’ospedalizzazione all’inizio costa fra i 30 000 e i 100 000 dollari, mentre il costo annuo delle cure è di circa 5 000 dollari. Ponderate con la speranza di vita, oltrepassiamo i 200 miliardi di dollari. La contabilità di guerra tocca la preoccupazione per la sanità pubblica!
24L’avanzare della scienza e della valutazione, sotto l’occhio amministrativo del contabile, sarà forse realmente il mezzo per limitare la guerra, secondo la modalità con cui Freud ha sperato che si potessero sopprimere i conflitti fra gli uomini e le loro pulsioni, mobilitando una figura ideale che permettesse di sottomettere l’uno e le altre attraverso l’appello alla ragione? Abbiamo motivo di dubitarne, almeno sotto certe forme… L’ideale di una guerra moderna, soddisfacente perché “senza morti”, che prenderebbe appoggio su una supremazia tecnologica, con combattenti invincibili, smaterializzati, oppure non umani forse non resisterà a quello che, nonostante tutto, rimane inassimilabile, anche alla contabilità. La ragione contabile potrà in maniera naturale portarci nuovamente a relativizzare il valore di un essere umano, schiacciato sul dato quantitativo, e ridotto a materiale, nonché alla materia.
25Così, per rimanere in questa prospettiva economica, che i soldati sanguinanti sembrano avere ancora delle belle prospettive per l’avvenire.
Notes de bas de page
1 J. Lacan, Il Seminario, Libro V, Le formazioni dell’inconscio [1957-1958], Torino, Einaudi, 2004, p. 111.
2 K. von Clausewitz, Della Guerra [1832-1837], Milano, Mondadori, 1970.
3 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte [1915], in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1976, vol. 8, pp. 121-148.
4 Ibidem, p. 123.
5 Ibidem, p. 128.
6 Ibidem, p. 130.
7 Ibidem, p. 131.
8 Ibidem, p. 130.
9 Ibidem, p. 131.
10 Ivi.
11 Ibidem, pp. 131-132, corsivo nostro.
12 Ibidem, p. 132.
13 J. Lacan, La psichiatria inglese e la guerra [1947], in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, pp. 101-120.
14 Ibidem, p. 101.
15 Ibidem, p. 103.
16 Ibidem, p. 102.
17 Ibidem, p. 119.
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Guerre senza limite
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