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La stella gialla

p. 84-87


Texte intégral

1Io, che sono nata «dopo la guerra», ho spesso avuto l’impressione che la guerra non fosse finita, che potesse scoppiare in ogni momento, come un vulcano spento male o un ciclone imprevedibile. Onnipresente, cambiava di luogo e di nome, ma restava una minaccia permanente. Poteva essere in Spagna, in Indocina o in Algeria, non per questo era meno barbara e ingiustamente crudele. Da bambina quel che mi angosciava maggiormente era la «guerra fredda», che faceva aleggiare l’oscura minaccia di una terza guerra mondiale. Le due precedenti mi sembravano terribilmente disumane: come sopportare l’insopportabile? La guerra dava un nome e un volto orrendo alla morte che mi guardava con occhi vuoti.

Amore

2Sono stata immersa in un discorso familiare in cui dominava l’idea del legame fra amore e sacrificio. Era l’idea di mia nonna, ma ciascuno sembrava sottoscriverla. Più che un’idea, era un’ideologia, che si fondava su una scena di cui lei si compiaceva. Durante l’occupazione, degli ufficiali della Gestapo avevano suonato all’appartamento in cui i miei nonni abitavano con le loro tre figlie, per chiedere che la primogenita, il cui marito era stato appena deportato a Buchenwald, li seguisse. Erano venuti per arrestarla. Mia nonna, indignata, si era rivolta all’ufficiale in uniforme: «Signore, è fuori discussione che prendiate mia figlia, prendete me al suo posto e risparmiatela». Sconcertato, l’ufficiale si era inchinato di fronte «all’amore di una madre», si era congratulato per il suo coraggio e aveva richiuso la porta per non ritornare più.

3Da allora, il Leitmotiv di mia nonna – «mi sono sempre sacrificata per i miei figli» – aveva trovato il suo centro incandescente, che affascinava tanto quanto infastidiva. Era il suo modo per farci sentire in debito: ciascuno e ciascuna le “doveva” la vita. Il suo amore possessivo e tirannico poteva esercitarsi così in maniera del tutto legittima.

Resistenza

4Durante gli anni Sessanta ci fu una scoperta inaspettata: sul fondo del cassetto di un comò, tre stelle gialle che portavano la scritta «Ebreo». Conservo nella memoria la calligrafia ebraica, con i suoi due piccoli tratti al posto del puntino sulla «i». Così il nome «Ebreo» porta la traccia del momento in cui ho visto con i mei stessi occhi «la stella della vergogna». Il momento in cui ha iniziato a riguardarmi, nominando qualche cosa di essenziale. Il nome «Ebreo», afferma François Regnault in Notre objet a1, sfugge a ogni definizione: è dell’ordine del reale. Del reale nel senso di Lacan.

5A partire dall’età di dieci anni, mi sono sentita «ebrea» nonostante fossi venuta fuori da una famiglia banalmente cattolica. Avevo appena letto il Diario di Anna Frank, e potevo facilmente identificarmi con la ragazzina ebrea, che scriveva nascosta in un ripostiglio. Mio padre, di cui non si parlava mai in mia presenza, era già sposato e non aveva potuto darmi il suo nome. In quanto «figlia illegittima», avevo lo statuto di una bambina nascosta all’interno della propria famiglia, che custodiva tenacemente il silenzio su tutto ciò che contravveniva gli ordini della nonna. Mio nonno, che viveva lontano, morì, quando stavo per compiere tre anni, senza conoscere la mia esistenza.

6Difficilmente potevo trovare appoggio sul desiderio di una madre fragile, schiacciata dalla riprovazione familiare e divisa tra due uomini che avevano rischiato la vita durante la Resistenza. Una sera d’estate, l’avevo sorpresa tra le braccia di mio zio, che era stato il suo fidanzato «prima della guerra», cioè prima che fosse denunciato e deportato nel campo di Buchenwald, in compagnia di suo cognato che vi perse la vita. Dopo due tentativi di evasione falliti, lo si era creduto morto fino a quando, dopo la Liberazione, riapparve, gettando la famiglia nella confusione. Non era forse colpevole di negligenza, e in parte responsabile del loro arresto, avvenuto il giorno prima di partire per Londra, dove dovevano raggiungere la Resistenza? Sentivo il sospetto e la diffidenza che pesavano su di lui, nonostante lo considerassi un uomo discreto e coraggioso.

7Mia madre nel frattempo aveva incontrato colui che sarebbe diventato mio padre e suo compagno per molti anni. Il «sopravvissuto» aveva dovuto arrendersi all’evidenza: dato che lei amava un altro, doveva rinunciare a lei, anche se aveva trovato nella sua attesa il coraggio necessario a mantenersi in vita. Qualche anno più tardi, dopo aver pagato un pesante tributo in sanatorio, avrebbe sposato la sorella più giovane di mia madre e preso in mano gli affari di famiglia. Tuttavia, lo si sospetterà sempre, aspettandosi un passo falso che non mancherà di prodursi. Mia nonna allora si scatenò: con una violenza inaudita, mise la famiglia a ferro e fuoco. Mia madre insultata, mio zio cacciato di casa e trattato come un paria. Un orrore. Ascoltando le grida e gli insulti che piovevano su di loro, caddi dalla bicicletta e mi ferii gravemente. Non ho mai più potuto salire su una bicicletta.

Al di là del fantasma

8Durante l’analisi mi si impose un’immagine di Portiere di notte di Liliana Cavani. La giovane ragazza ebrea si trascinava, implorante, ai piedi di un ufficiale nazista dallo sguardo glaciale. Questa sequenza indicava chiaramente la mia posizione femminile: divisa tra sembiante e godimento, tra oggetto causa di desiderio e oggetto fondamentalmente rigettato, escluso.

9«Una ragazza è messa a tacere / una ragazza è uccisa»2. Mi sono lasciata maltrattare da un Altro a cui concedevo pieno potere su di me, facendo così esistere, attraverso il godimento masochista, il rapporto sessuale inesistente. Nell’ufficiale nazista ho dovuto più tardi riconoscere la posizione d’eccezione occupata da mia nonna, Super-io implacabile a cui ero fedele per far consistere questa figura de «La donna fatale», alla quale era legato il mio godimento.

10Da quando fui in grado di leggere, mi entusiasmai per Le memorie di un asino. Questo piccolo asino che voleva riparare le proprie colpe e firmare le proprie lettere, «Cadichon, asino sapiente», mi incantava. Mi sono ritrovata in questo Cadichon, nel quale ho letto all’improvviso il nome «Kaddish-on» – in cui Kaddish è, nella religione ebraica, la preghiera dei morti. Che cosa potevo conoscere della tradizione ebraica che mi era così estranea? Si trattava di un ricordo cinematografico. Ero rimasta sconvolta da Exodus di Otto Preminger, che avevo visto appena uscito e che raccontava l’esodo degli ebrei d’Europa verso la Terra promessa. Quando l’eroina, interpretata da Eva Marie Saint, moriva prima di raggiungere Israele, i suoi la piangevano e la seppellivano al suono del Kaddish. Lacrime e sangue: la traccia della Storia mi si incollava alla pelle, fino a rendermi muta come mio zio. La lettura inedita di questo nome nella mia cura ne precipiterà la fine. Sì, prendere il godimento alla lettera.

Il reale del nome

11Ma perché questa insistenza del nome «Ebrea», al di là dei riferimenti ricorrenti alla guerra, alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei? Si trattava soltanto di un’identificazione mortifera, di cui dovevo a tutti i costi sbarazzarmi?

12All’incrocio tra la grande Storia e i grovigli della mia storia familiare, il reale della guerra è ciò che mi ha permesso di trattare un altro reale, lo scandalo della mia nascita raddoppiato dalla devastazione generalizzata delle donne nella mia famiglia. Mio padre si teneva in disparte e frequentava mia madre all’esterno, mentre mio zio si faceva maltrattare all’interno della cerchia familiare. Entrambi decorati della Resistenza, scombussolavano l’ordine matriarcale. L’eroismo non poteva avere altro volto che quello di una donna d’eccezione, mia nonna!

13Regnault considera l’ebreo come l’oggetto a dell’Occidente, in quanto scatena le passioni: amore, odio, ignoranza. Il nome «Ebrea» è proprio dell’ordine del reale; mi si è imposto prima di tutto come indice di una posizione singolare. C’è voluto il desiderio di nominare gli incontri mancati con il godimento, perché questo nome venisse soggettivato, ben prima che fosse separato dalle sue aderenze immaginarie. È questo che ha dato alla mia cura l’orientamento decisivo verso il reale, poiché il nome «Ebreo» intratteneva un rapporto particolare con il desiderio e l’orrore di sapere. Questo filo rosso mi ha permesso di passare dall’inconscio transferale all’inconscio reale.

14«L’Ebreo […] è colui che sa leggere», afferma Lacan in Radiofonia3, nel momento in cui mette l’accento sulla lettera che percuote il corpo, scavando così il letto del sintomo. Saper leggere ha di mira questo choc iniziale. Allentare l’identificazione a un significante padrone, permette di serrare il buco aperto nell’inconscio: l’atto ha luogo a partire dal fatto che il soggetto vi si tuffa. Alla fine il nome «Ebrea», staccato dalla sua significazione di morte, è emerso come un nome del reale. Un buco aperto. Il soggetto vivente ha risposto in atto.

Notes de bas de page

1 F. Regnault, Notre obiet a, Lagrasse, Verdier, 2003.

2 In francese: Une fille est tue / une fille est tuée [N. d. T.].

3 J. Lacan, Radiofonia [1970], in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, p. 425.

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