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Avere sette anni sotto la dittatura argentina

p. 80-83


Texte intégral

1L’infanzia trascorreva all’insegna di ideali pedagogici le cui massime erano «non reprimere i bambini», «coinvolgerli nella verità». Eravamo informati sia delle questioni sessuali che di quelle sociali e godevamo di grande libertà. Era importante che ci esprimessimo, che sapessimo.

2Fin dall’infanzia assistevamo, in un’atmosfera familiare di impegno politico, ad azioni di militanza che consistevano in riunioni la cui finalità era la presa di coscienza delle classi più povere. Queste riunioni, che si svolgevano sotto la copertura dell’alfabetizzazione, divennero rapidamente clandestine. Queste erano le coordinate a partire dalle quali si cristallizzò la mia nevrosi, agli albori di una dittatura militare.

3In questo contesto si svolse la scena traumatica. All’età di sette anni accompagnai mia madre che si costituì alla polizia. Era la miglior soluzione che aveva trovato a una situazione senza via d’uscita. Durante il tragitto fui istruita sulla strategia elaborata dai miei genitori: «Se ti fanno domande su papà, devi dire che siamo separati e che non sappiamo niente di lui».

4Fu così che mi trovai presa nel fantasma di essere interrogata in un commissariato. In quel momento c’erano due domande alle quali non avrei saputo rispondere: «Come spiegare la gravidanza avanzata di mia madre se non avevamo notizie di mio padre?» e «Come si chiamano i miei genitori? Con il nome legale o quello clandestino?». Non fui interrogata.

5Dopo qualche ora i miei nonni vennero a prendermi mentre mia madre rimase in carcere una settimana. Mio padre rimase nascosto per un po’ di tempo, poi tutto tornò normale. In questa normalità la vita era suddivisa in due realtà: la realtà scolastica, ben regolata, e quella della vita clandestina, in un periodo in cui l’attività intellettuale, perseguita dalle autorità, sembrava ogni giorno più sovversiva.

6Nel regime che si andava instaurando era importante non sapere, per proteggersi dalla tentazione della delazione e dalle sue atroci conseguenze. Questo assunse un’importanza particolare per la bambina che ero, che da una parte sapeva troppo, mentre dall’altra non aveva ancora acquisito la padronanza di saper mentire.

7In questo ritorno alla normalità, mi si impose il significante «sorridente», che nomina il ghigno che prende corpo. Si tratta di una maschera, una specie di «saperci fare» che, mettendo in gioco lo sguardo e la voce, oggetti pulsionali privilegiati dal soggetto, permette di trovare nella scena traumatica le risorse per recitare la parte di colei che non sa, di fronte alla possibilità di essere interrogata dall’Altro.

8Questa maschera mi permise di attraversare nell’infanzia una dittatura militare, durante la quale dire poteva significare scomparire: tuttavia il suo uso proseguì, come marchio singolare dell’esilio di fronte alla possibilità di essere interrogata su questioni compromettenti.

9È stato necessario fare numerosi giri nell’analisi per estrarre le ragioni del peso di questa scena e compiere il percorso necessario perché si producessero degli effetti di pacificazione. Prendere la misura del trauma presupponeva che, con lo stesso movimento, me ne situassi alla giusta distanza. Definirne il quadro mi permise allora di andare un po’ al di là dei suoi contorni, di riuscire a situare come realtà soggettiva la realtà vissuta in un tempo sospeso.

Quel che ho potuto estrarre

10La prima scoperta è stata quella di reperire l’importanza del momento di quell’incontro con l’Altro che gode. Nel momento in cui mi trovavo occupata a superare le fantasie infantili con cui si dava forma immaginaria alla castrazione (furti, rapimenti, sparizioni… misfatti del padrone crudele), la realtà divenne realmente minacciosa e persecutrice.

11La seconda riguarda la consistenza e la realtà acquisite dalla scena traumatica sotto questo regime politico, che per tre anni diventò ogni giorno più atroce.

12D’altra parte, e legato a quel che precede, ho potuto trovare una risposta al perché numerosi concetti freudiani suscitassero in me l’enigma, facendo risuonare il fatto di essere legati al regime militare e non al sessuale. Si tratta di parole che, nella loro traduzione spagnola, appartengono alla cultura generale del mio paese d’origine e anche a quella della mia famiglia, nella quale si leggeva Freud. Per esempio il termine «repressione» portava con sé sempre una connotazione militare, la «repressione militare». Un certo numero di altre parole apparteneva alla stoffa della mia lalingua: difesa, soffocamento, evacuazione, censura, resistenza, clandestinità.

13Per me seguire le tracce, per anni, del carattere inquietante della sessualità, ha messo chiaramente in evidenza l’importanza del sapere e della lettera. Questi appaiono come nella scena traumatica: il sessuale si annoda al sapere o piuttosto al «non saper mentire». Il sapere, quel che deve essere nascosto, si potrebbe dire che è proprio il sessuale. «Nascondere» è quel che è in gioco nel ghigno sorridente, modo singolare di essere, a condizione «di essere fuori»; una presenza dietro la quale nascondere, dietro la quale nascondersi, un modo per sparire.

14Per anni non sono riuscita a leggere a voce alta se non lettera per lettera, e se no, a voce bassa… perché se il sapere impegna così tanto e il soggetto non sa mentire, è preferibile non sapere. È così che è perdurata quella maniera di considerare come non letto, non vissuto, quel che mi interessa e mi implica. Sono i miei rifugi per il “non-sapere”. Sono gli scenari del mio incontro con l’angoscia, mai così viva come quando restava latente e silenziosa.

15La stessa barriera deve essere superata ogni volta che si tratta di scrivere e far sentire la mia posizione. Per anni questa difficoltà a scrivere si è presentata come l’impossibilità incontrata dal mio «desiderio di dire tutto»: era impossibile abbreviare un testo, attenersi a un asse di lavoro, scrivere qualcosa.

16Questo «desiderio di dire tutto», di «enunciare» tutto, nascondeva un godimento infantile, quello di «denunciare» tutto, di tradire, legato al fantasma di essere interrogata, di rispondere a un: «Devi dire quello che sai».

Exhilée (Esiliata)

17Dopo numerose sparizioni, quella del mio padrino precipitò l’esilio; fu un alleggerimento, momento che mise fine alla scena traumatica. «Scomparso» è sempre stato un significante strano, che non riesce a nominare ciò di cui si tratta. Non riesce a dare un significato a ciò che, in fin dei conti, non ha significanti e che, anche se vi si avvicina, non riesce a nominare il reale.

18Non nomina quel che ha effettivamente avuto luogo, se non condividendo con il significante della morte la nominazione dell’assenza. Non rende conto della particolarità di quel che avvenne senza lasciare traccia, «senza iscrizione, senza luogo e senza corpo» e il cui resto, per il soggetto, fu l’angoscia sorda, latente e costante di fronte al sapere.

19L’analisi è la condizione della possibilità di fare dell’exhil un sinthomo1. L’esilio (exil), che, come lapsus, scrivevo sempre con la «h», exhil, è la condensazione tra «esiliata» (exilée) ed «ex nihilo»; un esilio in cui la «h» ricorda che è esilio dal nulla; esiliata dal vuoto centrale costitutivo del soggetto, che condensa anche il niente che siamo stati, senza iscrizione, senza luogo, senza corpo. L’esilio più radicale. Esso nomina anche la discontinuità tra il non-essere e l’Uno, la presenza del non-essere nell’Uno.

20Se c’è stato un esilio (exil) forzato, l’exhil è la forma particolare con la quale il soggetto paga il prezzo della nevrosi, annodando il godimento al traumatico della lalingua. Per poter presentare qui questo lavoro, è stato necessario un percorso che mi permettesse di arrischiarmi a sapere e a mentire.

Notes de bas de page

1 «Quello che, per la prima volta ho definito sinthomo […] è quel qualcosa che permette al simbolico, all’immaginario e al reale di continuare a stare insieme» (J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo [1975-1976], Roma, Astrolabio, 2006, p. 90). Il sinthomo è l’invenzione di una soluzione sintomatica da parte del soggetto, si tratta di un «effetto di creazione» e ogni creazione è un sinthomo, sostiene Lacan nel suo Seminario XXIII, dedicato a James Joyce. L’invenzione, il sinthomo, dell’autore dell’Ulisse è la scrittura [N. d. A.].

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