6. Corporeità e tradizione occidentale
p. 106-130
Texte intégral
1Quasi tutte le fonti della tradizione occidentale concepiscono l’essere umano come composto da almeno due elementi distinti e completamente scissi, in connessione o in opposizione tra loro, ma in ogni caso sempre presenti. Per esempio, nel Libro della Genesi Dio forma Adamo dalla polvere della terra, una sorta di materia, e soffia la vita, una sorta di anima, nella sua narice; in Platone l’anima immortale è prigioniera nel corpo materiale; in Aristotele la forma, essenza spirituale e teleologica, attribuisce solidità e ipseità alle sostanze individuali, e quindi anche all’uomo. Certamente l’eterogeneità della persona umana non è un’invenzione filosofica, in quanto è profondamente radicata nell’immaginazione umana arcaica, e presente in ogni cultura. Essa esprime un’esperienza primaria, o piuttosto una serie di esperienze primarie: in primo luogo l’esperienza dell’ansia, dell’insicurezza, dello stress, in secondo luogo l’esperienza di compiere azioni contro la propria intenzione, in terzo luogo il senso di colpa o di vergogna. Tutte queste esperienze, e altre simili, ci mostrano il nostro essere due in uno, due persone in un corpo. Se da un lato il nostro corpo, la nostra forma, il volto, si presenta a noi stessi e agli altri come “unità”, le nostre esperienze ci presentano a noi stessi e agli altri come una pluralità all’interno di un’unità.
2Questi due o più elementi in un corpo possono costituire una sintesi reciproca o ridursi a una continua guerra. E il corpo, benché sempre uno, non è indifferente alla divisione tra soggetti (o meglio poteri) interna a lui, dato che normalmente si schiera dalla parte di un potere contro un altro. Alcuni poteri presenti nel corpo associano se stessi con poteri esterni al corpo, quali spiriti, spettri, divinità: in tal caso questi poteri possono essere o incarnati o privi di corpo, invisibili. Il nostro corpo può quindi essere in contatto con qualcosa d’incorporeo, e a tale esperienza primordiale è associata una grande speranza, riferita a un tipo di vita personale esterna al corpo (compreso il corpo dell’individuo), una vita dopo la morte; in alternativa, questa stessa speranza può dare luogo all’esperienza e rinforzarla. Il sentimento o piuttosto l’esperienza che una parte della persona non sia affatto incarnata, e possa lasciare il corpo e tornarvici, e che questa parte sia invisibile a noi stessi e agli altri, rafforza la convinzione, la fede o la conoscenza che questa parte, questo sé disincarnato, può comunicare con altri sé disincarnati, restare in loro compagnia e rimanere vivo dopo la decomposizione del corpo mortale. Può essere, o è, immortale, benché il corpo sia mortale. Queste esperienze comuni erano, tradizionalmente, inserite all’interno di narrazioni condivise, come miti e leggende. Oggi sono piuttosto inserite in narrazioni di esperienze personali di uomini e donne tornati in vita dalla cosiddetta morte clinica. Essi affermano di aver visto qualcosa di spirituale, benché dotata di estensione, abbandonare il loro corpo irrigidito. Le spiegazioni fisiologiche dell’esperienza non ne mutano la sostanza. Una volta Freud disse che l’inconscio è senza tempo, e questa è la ragione per la quale non si crede davvero alla propria morte, nonostante si sappia tutto al riguardo. Possiamo quindi modificare il suo pensiero e attribuire la stessa atemporalità anche all’anima, alla psiche, o a un suo aspetto o parte: in quanto senza tempo, al di là del tempo, non crediamo nella nostra morte, né più né meno che i nostri remoti avi.
3Questa volta non tratterò di miti condivisi o di esperienze personali, ma del loro riflesso o della loro ripresa nell’immaginazione filosofica occidentale. Certo, l’immaginazione filosofica non è la prerogativa della cultura occidentale; ma l’oggetto di questo intervento si riferirà unicamente alle risposte filosofiche dell’esperienza della corporeità nelle culture occidentali. In primo luogo perché la mia conoscenza non va oltre – ma anche per ragioni più teoretiche, e semplici: sono interessata alla crisi presente della filosofia tradizionale – metafisica. La ricostruzione di alcune variazioni del tema anima/corpo è guidata da tale interesse. Mi riferirò alla comprensione filosofica delle esperienze primordiali descritte sopra nel discutere le vicissitudini della categoria tradizionale binaria corpo/anima, e della categoria trinitaria corpo/psiche/spirito.
4Sino al Rinascimento, o meglio sino al xvii secolo, le tradizionali categorie binarie e trinitarie sono state frequentemente modificate ma non sostituite. Ma al sorgere della vittoriosa marcia delle spiegazioni del mondo scientifico due nuove categorie binarie rimpiazzarono le precedenti: mente/corpo e pensiero/estensione. Questo significò non solo un mutamento di vocabolario, come alcuni postmetafisici ci fecero credere, ma un radicale cambiamento dell’episteme o dello stesso a priori storico, per usare la terminologia di Foucault. Questo mutamento radicale significa che a partire da quel momento nuove posizioni parteciparono al discorso tendente alla verità. Il xix e xx secolo furono caratterizzati dalla questione mente/corpo, o dal tentativo di eliminazione di questa categoria binaria e, con essa, del problema stesso una volta per tutte. Non si deve dimenticare però che la filosofia non è una scienza esatta, e che rimane possibile operare con il dualismo tradizionale anima/corpo, o con la sintesi psiche/soma/spirito a un alto livello teoretico anche dopo il mutamento dell’a priori storico. Kierkegaard è esemplare a questo riguardo. Per esprimermi il più semplicemente possibile: dualismo o monismo, questo è il problema. Dualismo e/o monismo non solo limitatamente alla relazione tra questa controversia e il problema tradizionale di materia e spirito dal punto di vista ontologico o epistemologico, ma anche relativamente alla tematizzazione e comprensione del carattere del sé, del sé eventualmente diviso, e anche alla risposta alla domanda se l’uomo viva in uno o in più mondi. È una domanda paradigmatica poiché le differenti modalità di porla non possono essere categorizzate in modo chiaro, né inserite nelle forme della metafisica o dell’ambito postmetafisico. Ciò significa che l’abitudine contemporanea a trovare risposte semplici e immediate a una domanda si rivela in questo caso infruttuosa.
5Procederò quindi in modo quasi-genealogico, dal momento che voglio rilevare le origini ancestrali dei dibattiti contemporanei. Queste antiche origini erano reciprocamente distanti e non sapevano neppure della reciproca esistenza, ma noi abbiamo ereditato da loro qualcosa di più del semplice corredo genetico – abbiamo ereditato geni spirituali. Per utilizzare un intelligente termine di Castoriadis, noi abbiamo ereditato la loro immaginazione e anche alcune delle loro istituzioni immaginarie, discorsi, teorie e verità. Le differenti teorie, discorsi o verità erano organizzati a loro modo; in ciascuno di essi erano presenti le questioni concernenti la relazione anima/corpo o anima/spirito/corpo, ma il tevlo” dei discorsi era in ciascun caso differente. Talvolta il filosofo stesso accede a differenti discorsi ritrovandovi più di un modello, a seconda della propria organizzazione teorica.
6Introduco quindi quattro punti fondamentali, caratterizzando ciascuno di essi con una parola chiave. 1. L’anima nella prigione del corpo, 2. Il corpo nella prigione dell’anima, 3. Il corpo come espressione dell’anima, 4. Dolore, piacere e le questioni del “cuore”. La mia breve esposizione non è associabile neppure lontanamente a un tipo di storia della filosofia: sono infatti interessata all’immaginario dominante, e non alle sequenze delle soluzioni dei problemi filosofici.
L’anima nella prigione del corpo
7La metafora dell’anima imprigionata nel corpo sorge, come sappiamo, da Platone. Le fantasie, i miti connessi alla formula sono sparsi in molte culture orientali. Ma, questa volta, nella mia quasi genealogia delle immagini presenti nella modernità occidentale, non posso tenerne conto.
8L’anima incarcerata è la metafora della mortalità. Se non fosse imprigionata dal corpo mortale, l’anima sarebbe libera, libera di librarsi, e immortale. Secondo il Socrate del Fedone l’anima imprigionata è malata, perché il corpo la rende tale, ma quando il corpo muore l’anima è guarita. Oppure nel Fedro Socrate afferma che l’auriga non cade all’interno di corpi mortali, dal momento che tale destino si riferisce solo alle anime umane che perdono le ali nella caduta, e che conservano la capacità di riguadagnare la vita divina dopo la caduta. Vi è in ogni caso un’apparente contraddizione nella storia. Gli dèi greci non erano creature spirituali, avevano un corpo: facevano l’amore, bevevano, mangiavano, si innervosivano, desideravano e così via; ma erano immortali. Non è quindi il corpo in quanto tale a imprigionare l’anima, ma il corpo transeunte, mortale, materiale. Un corpo immortale non è una prigione, proprio perché l’anima non può scappare da esso, non deve scapparvi. Il corpo del dio è nel contempo differente dal corpo umano: un dio può mutare forma, ossia può apparire in corpi completamente differenti, per esempio una pioggia dorata o un cigno. Ciò significa che il corpo divino è un corpo astrale. Un corpo reale, un corpo materiale non può mutare forma: la sua unica metamorfosi è la transizione dalla vita alla morte. Come sappiamo, Platone tentò di eliminare l’ostacolo relativo all’immortale corporeità degli dèi attribuendo le loro cattive inclinazioni, desideri e azioni all’ingannevole immaginazione umana.
9Il contrasto tra anima e corpo è in primo luogo temporale: mortalità contro immortalità, transeunte contro perpetuo, distruttibile contro indistruttibile. Il contrasto però è non solo temporale, ma anche spaziale, o meglio temporale/spaziale. L’anima vola al di sopra del cielo, il corpo è posto sulla terra, e l’anima cade in basso. L’anima è libera sintanto che non è prigioniera del corpo; il corpo è quindi una prigione. Tutti questi elementi hanno un significato epistemologico superiore: il corpo ci impedisce di conoscere la verità, mentre l’anima può volare sino alla regione delle idee, o meglio può al limite avvicinarsi alla conoscenza o alla visione della verità – l’anima è immateriale, e solo ciò che è immateriale può conoscere la verità. Qui incontriamo per la prima volta la tipica costruzione metafisica che rimane essenzialmente costante nei successivi due secoli.
10Indipendentemente dalla tradizione filosofica greca l’immaginazione occidentale ereditò alcune istituzioni immaginarie da un altro paio di fonti antiche, ossia la Bibbia e le sue interpretazioni. Il pensiero biblico non è di tipo metafisico, dal momento che il pensiero, al posto di essere presentato in strutture logiche o edifici razionali, è sviluppato in narrazioni. Ma non si tratta neppure di un tipo di pensiero mitologico, dato che le narrazioni trattano di storie rappresentative di esseri umani rappresentativi. Il monoteismo esclude l’essenza di tutte le mitologie: la teomachia (lotta divina). In ogni caso le due fonti antiche, pur non sapendo l’una dell’esistenza dell’altra, e sviluppando il proprio messaggio in modi completamente differenti, condividono una combinazione o meglio un’interconnessione di tre certezze: l’Uno, il Vero, il Bene. Dati i differenti modi di pensiero, era impossibile sintetizzare tali fonti in modo filosofico, ma, alla luce delle loro comuni certezze, possono essere pensati insieme, in concerto, al di là delle loro differenze.
11Questo rimane vero anche relativamente alla dualità corpo/anima, ma non necessariamente per quanto riguarda il loro dualismo. La dualità si riferisce alla differenza, il dualismo si riferisce alla gerarchia e molto spesso anche alla non conciliabilità. La dualità è riscontrabile quasi ovunque nella narrazione biblica, ma il dualismo solo sporadicamente, in particolare negli ultimi libri del canone. Platone, Aristotele e gli Stoici parlano talvolta di dualità talvolta di dualismo – sebbene la metafora platonica del corpo come prigione dell’anima sia un caso di forte dualismo.
12Nella prima narrazione biblica sul sesto giorno, Dio creò l’uomo asessuato a sua immagine. Senza ripetere le numerose interpretazioni di questo passaggio, una cosa resta certa: non si riferisce al dualismo anima/corpo. Nella seconda narrazione biblica Dio costituisce la forma umana, ossia il corpo, dalla polvere, dalla materia. Ma il corpo in sé è l’unità di materia e forma, è un’opera divina perfetta. Solo dopo che la materia è formata Dio soffierà la vita nelle narici di Adamo. La vita come anima è un’aggiunta alla creazione del corpo. Dal momento che si tratta di soffio divino, divino o di origine divina, è il legame che connette l’uomo a Dio, dato che non è creato dalle mani ma dalla bocca, l’originale e originante bacio della vita, la prova d’amore.
13Il respiro è invisibile, ma non senza estensione e certo non senza calore. È anche una sorta di materia, una materia invisibile, calda e spirituale. Questo significa dualità e non dualismo, dato che nella creatura umana la forma e il soffio sono uno, sono connessi insieme, l’uno non esiste senza l’altro: l’anima di ogni singolo individuo, il proprio soffio, cessa di esistere con la scomparsa del corpo. Corpo e anima vivono insieme: possono combattere – questo è dualismo – ma non possono esistere senza l’altro. In questo caso il corpo non è la prigione dell’anima, ma la sua dimora: l’anima non può fuggire dal corpo, poiché è vita, e non c’è altra vita umana se non la vita nel corpo. L’idea di immortalità dell’anima a questo punto è irrilevante: anima e corpo sono entrambi mortali, o entrambi sono (o diventano) immortali. La morte non è il destino ultimo della creatura umana, ma solo un interregno o un intervallo prima della resurrezione del morto. Nelle tarde epoche messianiche e nelle fantasie escatologiche Dio consentirà la resurrezione dei morti. Come Ezechiele e Daniele profetizzano, Egli raccoglierà le ossa essiccate di tutti i morti, non solo di chi morì ieri, e le riunirà, rivestendole di carne, e quindi i morti risorgeranno nei loro corpi, nei loro corpi terreni. Questa fu la buona novella che Gesù Cristo e i suoi apostoli portarono nei mondi precedenti dei filosofi romani e greci. Chi si interessa più all’immortalità dell’anima, sogno aristocratico? La vera promessa che merita di essere creduta è la resurrezione dalla morte nei corpi, nelle nostre identità, interamente.
14La cristianità, come in altri casi, tentò in vari modi di riconciliare due concezioni completamente differenti: l’immortalità dell’anima e la resurrezione dei corpi animati. Essa non può infatti abbandonare nessuno dei due aspetti: non l’immortalità dell’anima, poiché la differenza tra pagani e cristiani si riferiva a questa immagine e speranza; non la resurrezione dalla morte, dato che Cristo risorse dalla propria morte. Inoltre, la mera esistenza spirituale non può essere posta in contrasto all’esistenza corporea, dato che Cristo, il redentore, divenne carne, fu spirito incarnato, e solo come essere umano corporeo poté redimere coloro che ebbero fede in lui. I primi cristiani non furono del tutto d’accordo con quest’idea profondamente ebraica; alcuni di loro suggerirono che il corpo di Cristo non era un vero corpo; altri, al contrario, affermarono che il suo corpo morì effettivamente e la sua anima volò al Padre. Ma i cristiani ortodossi giudicarono eretiche entrambe le concezioni: la sofferenza di Cristo doveva essere stata reale, non immaginaria, perché fu attraverso la sofferenza della carne che Egli redense la razza umana, e la sua anima non poté abbandonare il suo corpo, dato che i discepoli lo videro nella sua forma terrena come corpo risorto. Infine la resurrezione del corpo, la buona novella, non potendo essere esclusa, fu interpretata in un senso più prossimo a quello greco: quando l’apostolo Paolo discusse la resurrezione del corpo nella sua prima lettera ai Corinzi, sottolineò che esistono differenti tipi di corpi. Il corpo risorto non è uguale al corpo corruttibile, non è un corpo naturale ma spirituale. Nell’Apocalisse di Giovanni, viceversa, coloro i quali sono risorti, per vivere nel Regno di Cristo per mille anni, mangeranno e berranno, saranno santi e felici, e il loro corpo non sarà astrale. Gli abitanti di questo regno prima del Giudizio saranno i giusti e i fedeli, i cui corpi e anime sono o diverranno puri e senza macchia.
15I successori di questa antica duplice eredità dovettero far fronte a un’altra sfida. Nella tradizione greco-romana, l’elemento immortale era identificato con la ragione, o piuttosto con la “ragione superiore” chiamata in greco νοῠς, in latino intellectus. Questa parte dell’anima era privilegiata da un punto di vista epistemologico. Per esempio, più l’anima-ragione si libera dalla prigione del corpo, maggiormente è in grado di raggiungere la perfetta conoscenza. La prigione o caverna del corpo impedisce all’anima o ragione (in questo caso è la stessa cosa) di acquisire la perfetta conoscenza, una visione chiara della verità: il corpo confonde le immagini, produce mere credenze, falsità, mostra un’immagine distorta, una confusione, un caos. In quest’ambito si inserisce la tradizione ebraica: per esempio, non vi è ragione senza corpo; o, come ha detto Spinoza, l’estensione e la cognizione costituiscono i due attributi della medesima sostanza. Non intendo ora complicare ulteriormente le cose. Nella tradizione platonica il pensiero circa l’immortalità dell’anima (Ficino) e anche la trasmigrazione delle anime nei differenti corpi non sono necessariamente connessi con l’idea di un privilegio epistemologico per un sé disincarnato. Nel caso di Spinoza è l’eterna immobilità della sostanza universale natura/Dio a rendere irrilevante l’intero paradigma dell’immortalità dell’anima, ma non la metafora della “prigione” per i singoli individui, mentre in Leibniz (per il quale tutte le sostanze individuali sono in vita e non esiste morte ma solo trasformazione) l’intera metafora della prigione suona come un’assurdità.
16Noi portiamo ancora sulle nostre spalle entrambe le tradizioni. Non ho in mente qui i discorsi marginali della teosofia o dell’antroposofia, né il pensiero quotidiano nella tradizione cristiana (le anime dei morti si riuniscono al loro Creatore) ma i discorsi scientifici centrali relativi al problema mente/corpo. Il problema dell’“immortalità” o “mortalità” è sostituito dal problema dell’assenza di un nesso di causalità o di determinazione. Tale problema aveva già impegnato Kant – la libertà trascendentale non ha causa alcuna, perché, se così fosse, saremmo solo marionette tirate da corde; la metafora della marionetta è in ultima istanza una riformulazione della metafora della prigione. In breve: il pensiero è una funzione del cervello? Se si risponde affermativamente a questa domanda, rimane ancora aperta la domanda successiva: si può capire da una concreta costellazione di funzioni cerebrali che tipo di pensiero è entrato nella nostra mente proprio ora? Saremo mai in grado di rispondere a questa domanda con maggior certezza rispetto a quella con la quale i nostri antenati risposero ai loro antichi, ma essenzialmente equivalenti, problemi duemila anni fa? Se ogni pensiero concreto è “causato” dal cervello, allora l’“anima” non esiste, e il corpo rimane una prigione da cui non vi è fuga alcuna. Certo, forse la metafisica è morta, ma non le questioni, i problemi “esistenziali” che sono stati costantemente affrontati, tra le altre discipline, anche dalla metafisica.
Il corpo nella prigione dell’anima
17La metafora che il nostro corpo è imprigionato nella nostra anima è presa in prestito dall’opera di Foucault Sorvegliare e punire, intesa come una polemica inversione del celebre detto di Platone. A partire da questo lavoro, interessato all’a priori sociale come si presentava alla nascita della modernità, Foucault ha rielaborato il senso della metafora alla luce delle allora emergenti “scienze umane”, della loro istituzionalizzazione e delle loro pratiche disciplinari. L’“anima” che imprigiona il corpo degli uomini moderni è prodotta dal discorso delle scienze umane: Foucault identifica l’“anima” non con la nostra essenza spirituale immortale, ma con la Ragione, la Conoscenza, la Verità, e gli altri strumenti della tradizione metafisica. Si tratta di un’importante inversione del messaggio del Fedone e della concezione del Fedro, ma non di Platone in generale, dato che il filosofo non era completamente estraneo a queste idee proprie del xx secolo. Ma in ogni caso l’inversione sussiste: per Platone, come per l’intera tradizione metafisica successiva, è giusto che il corpo sia imprigionato dall’anima, dal momento che questa, e in particolare il suo aspetto immortale (la ragione, la spiritualità) garantisce la verità epistemologica e morale, mentre il corpo è il principale ostacolo alla nostra ascesa verso la Verità e la Bontà (e quindi la felicità). Lo Spirito (la Ragione) deve comandare, e il corpo deve obbedire. Foucault, che non rileva né un universale progresso né un regresso nella storia umana, ma unicamente mutamenti, l’emergere di nuovi mosaici ed epistemi, non propone alcuna valutazione assiologica. In Storia della sessualità ammette che l’organismo è stato imprigionato dall’anima in diverse tradizioni della cultura europea, ma resta la questione su come, in quale misura, e da cosa ciò sia avvenuto. Egli simpatizza con una pratica a scapito di un’altra. In breve, vi è una differenza enorme se, da un lato, la propria anima (ragione, volontà) regolamenta e controlla il proprio corpo, come nel caso dell’ascetismo stoico, o se invece una “coscienza” generale e impersonale, la scienza, o una simile potenza / conoscenza oggettiva, produce la verità sul corpo e prescrive le modalità della sua regolazione. Nel primo caso si può creare un’opera d’arte da se stessi. Tornerò tra poco su questa questione.
18L’anima, ogni qualvolta sia imprigionata nel corpo, si ribella e cerca di scappare. E il corpo, ogni qualvolta sia imprigionato nell’anima, si ribella e cerca di scappare. Sostanzialmente, i medesimi pensatori e filosofi affrontarono allo stesso tempo entrambe le possibilità. Tuttavia nella seconda opzione (il corpo che deve essere imprigionato nell’anima) la relazione immortalità/mortalità non è fissa, e anche le connotazioni epistemologico/morali del problema anima/corpo subiscono alterazioni essenziali. La storia biblica della cosiddetta caduta offre uno spunto semplice: non è il corpo di Eva la causa del suo disobbedire al comando divino, è il serpente a parlare a lei, alla sua mente; esso risveglia il suo dubbio, ma anche la sua curiosità. Dubbi e curiosità sono poteri mentali, che “abitano” nell’“anima”. Che cosa può fare il corpo? Unicamente dare un frutto ad Adamo e mangiarlo: il corpo obbedisce alla mente, non può resisterle. Quindi, Adamo ed Eva scoprono di essere nudi: è il corpo a essere nudo, ma la vergogna, la coscienza di essere nudi, è una questione dell’anima. Il corpo è, ancora una volta, nel carcere dell’anima. Nessuna delle cosiddette motivazioni originali del corpo, quali sete, fame o eccitazione sessuale, svolgono un ruolo nella storia della caduta – e neanche nella storia del primo omicidio, dato che la gelosia non è una qualità corporea.
19Così il pensiero biblico (o meglio la sua narrazione) testimonia sin dall’inizio che la malvagità del corpo è determinata secondo il comando di pensieri e idee, dalla ragione, dall’anima. Il nocciolo della questione è, tuttavia, che solo il corpo può infliggere violenza, e, in ultima istanza, l’omicidio. Certo, l’anima, il pensiero, la ragione possono in se stessi esercitare il potere, umiliare e anche distruggere spiritualmente – eppure non possono fare violenza. Si può violare solo il corpo di un’altra persona, e solo il corpo ha accesso diretto al corpo altrui. Vincere, ferire, violare, uccidere, e anche incarcerare o talvolta disciplinare sono atti del corpo esercitati sul corpo. Il corpo può obbedire, ma se non lo farà, sarà violato. Il concetto di violenza divina di Walter Benjamin in questo caso può essere trascurato: sebbene Dio abbia inflitto sofferenza al corpo degli uomini, non lo fece con il proprio corpo (dato che solo l’immagine dell’anima divina era carica di elementi antropomorfici), ma attraverso catastrofi naturali (per esempio il diluvio) o altri corpi umani. Il “primo” omicidio (Caino), tuttavia, non è una reazione alla violenza, ma una violenza sotto un comando mentale. Questo è chiamato il “primo” omicidio anche se è stato il “primo” per milioni di volte, dato che il “secondo” può essere una reazione “corporea”, poiché la rabbia, in quanto affezione, è innata. Ma il pensiero biblico (la sua narrazione) non affronta questioni filosofiche come quella delle “parti” o “funzioni” dell’anima.
20Ogni qualvolta Platone o Aristotele, o la maggior parte dei filosofi dopo di loro, si riferivano alle forme di violenza, non potevano evitare di giungere in qualche modo a simili conclusioni. Tuttavia, poiché l’anima, la spiritualità, la ragione sono state considerate immortali, in quanto poteri che occupano il grado supremo nella forma umana, hanno dovuto dividere l’anima stessa in parti. Ci sono diversi tipi di ragione, e diverse parti dell’anima. Solo l’anima “più elevata” è epistemologicamente e moralmente privilegiata, ma esistono anche parti o capacità inferiori dell’anima. Se l’anima, essendo la prigione del corpo, causa atti malvagi, è alla parte o funzione più bassa dell’anima che può essere imputata l’intenzione negativa. Il modello bipartito o tripartito dell’anima si riferisce a questo problema: in un’altra metafora di Platone l’auriga è la ragione, l’anima immortale la parte conoscitiva privilegiata e la garanzia morale della verità, ma solo uno dei “cavalli” dell’anima è obbediente, l’altro è disobbediente. Platone individua il cavallo disobbediente non solo come l’agente di desiderio carnale, ma anche come l’elemento che instilla la brama di possesso, l’avidità. E anche nel caso di desiderio di violenza (omicidio, stupro) Platone attribuisce la colpa all’immaginazione, alla fantasia, una facoltà mentale molto spirituale. In effetti le mere brame del corpo sono facilmente soddisfatte, mentre solo le brame dell’immaginazione sono insaziabili e quindi motivo di violenza.
21Il corpo non è imprigionato dall’anima, ma da una funzione o una parte dell’anima. Questa divisione dell’anima raggiunge la sua forma più sofisticata in Kant. Il supremo potere spirituale, la ragione come ragion pratica, coincide con la libertà trascendentale, e il suo imperativo morale è categorico. Non solo il corpo, ma l’immaginazione e tutte le altre facoltà cognitive devono obbedirvi. Kant parla ampiamente del fatto che l’argomentazione razionale è moralmente sospetta: essa non dovrebbe infatti sostituire la sottomissione alla legge morale; o meglio, nessuna conoscenza, neppure la conoscenza del bene, è autorizzata a codeterminare la nostra volontà pura. Inoltre, non la ragione teoretica, ma la comprensione è la garanzia della vera conoscenza, e, infine, l’immortalità dell’anima (così come l’anima stessa) è solo un’idea della ragione, possiamo cioè pensarla senza conoscerla. Una volta (ne La Metafisica dei costumi) Kant dichiarò anche che è indifferente se il pensiero è una funzione della materia o dell’anima.
22Eppure, come indica la formula di Foucault, il tema affrontato nella Bibbia e dalla tradizione metafisica è diventato particolarmente scottante. Oggi più che mai teorie, idee, ideologie controllano i corpi e fanno commettere loro atti di violenza, talvolta anche senza una completa consapevolezza o senza la capacità di valutarne le conseguenze. Accade ancora, e non può essere altrimenti, che solo il corpo viola un altro organismo, ma le mediazioni tra i corpi sono in aumento. Anche se uno deve premere un solo pulsante per provocare la morte di molte migliaia di persone, è ancora un atto svolto dal corpo, seppure dettato dalla mente.
23Permettetemi di illustrare le nuove versioni dell’antica storia nei romanzi e nelle esperienze del secolo scorso.
24A. Nel romanzo di Balzac Papà Goriot, Vautrin, ex condannato e violatore di anime pone la seguente domanda a Rastignac, il suo strumento di reato senza pena: sapendo che premendo un pulsante si uccide un mandarino cinese mai visto prima e in contemporanea ci si arricchisce attraverso la sua morte, si premerebbe il pulsante? Rastignac può in realtà valere come un’analogia. Balzac ha concepito una situazione molto moderna: gli imperatori romani decidevano della morte dei gladiatori con un gesto, sostituto della parola. Il tiranno generalmente uccide con parole come comandi, insinuazioni, assumendo assassini con ben comprensibili o ambigue allusioni verbali. Il mondo di Shakespeare ne è popolato. Ma alla fine della catena c’è il corpo dell’assassino, ci sono mani che strangolano un collo o perforano un cuore con uno stiletto, o instillano del veleno. L’assassino di norma vede la sua vittima faccia a faccia o la conosce, sia che egli goda in modo sadico del sanguinoso “lavoro” o che lo faccia solo per denaro o nel freddo perseguimento del proprio interesse. Ma cosa è accaduto a Hiroshima? Una persona ha dato il segnale del via libera, un’altra ha premuto un pulsante: non hanno visto le vittime. C’è stato omicidio; ma ci sono stati assassini? I corpi delle vittime subirono violenza attraverso l’applicazione di una scienza come la tecnologia. Ma, ripeto, anche il corpo è stato coinvolto. Senza premere il pulsante non c’è morte. Il segnale del via libera non ha senso senza una successiva esecuzione di un’azione. Il corpo umano il cui dito preme il pulsante è una macchina da guerra, prigioniero di un calcolo, di strategie e tattiche, non obbedisce semplicemente a un comando, ma segue una lunga catena di ragionamenti, a lui sconosciuta e, forse, difficilmente comprensibile.
25B. In Delitto e castigo di Dostojevski Raskolnikov uccide la vecchia usuraia presumibilmente per il suo denaro. Come sappiamo egli uccide anche la sua ignara sorella. Al momento dell’omicidio il suo corpo emaciato è già nel carcere dell’ideologia, come combinazione di giustificazione razionale (con riferimento a un obiettivo assunto come santo o lodevole) e di calcolo. Sappiamo tutti che in questo caso fittizio questa combinazione si conclude con un disastro, ma si tratta ancora di una “combinazione dominante” in quanto gli omicidi di massa del xx secolo sono stati perpetrati normalmente in base a questo modello. Il calcolo razionale così come la giustificazione razionale sono stati giudicati dalla precoce modernità come guide moralmente problematiche senza l’aggiunta del senso morale, o anche con tale aggiunta, come in Kant. Il calcolo razionale sommato (la maggior parte delle volte) alla giustificazione in base a un fine santo o lodevole raccomanda, tollera e persino glorifica la violenza. La violenza brilla come un rimedio universalmente prescritto contro mali reali o presunti universali. Chiunque può essere giudicato un “usuraio” o, similmente, un ebreo, un kulak, un nemico del popolo. Carl Schmitt presenta una proposta molto problematica, perché, a mio avviso, l’obiettivo ormai non è più un cosiddetto “nemico naturale”: l’ideologia a sua volta forma il nemico, che diventa artificiale, e dipendente dall’ideologia. In caso di un “nemico naturale” l’inimicizia è reciproca. In casi ideologicamente determinati non è così. Basti pensare a Delitto e castigo: la vecchia usuraia non era il “nemico naturale” di Raskolnikov, e Raskolnikov non lo era della vecchia; lei è diventata il nemico personale di Raskolnikov, il corpo oggetto della sua violenza, attraverso e sulla base di una costruzione ideologica sua e della sua epoca. Per fare riferimento a esempi storici: per gli ebrei la Germania non era un “nemico naturale”, né lo è stato il nazionalismo tedesco, per i trockijsti il comunismo sovietico non è stato un “nemico naturale”; trockijsti ed ebrei sono stati scelti e costruiti ideologicamente come nemici essenziali.
26Possiamo pensare, o meglio sperare che vi sia un’anima che fugge dal corpo; si può anche pensare che un corpo non è imprigionato, ma piuttosto formato dall’anima e, contemporaneamente, espressione dell’anima. E questo suggerimento, così come gli altri due, costituisce un’altra tradizione metafisica.
Il corpo come espressione o manifestazione dell’anima
27La tradizione ilemorfistica propone altri scenari. Il suo modello è la vita in quanto tale e la totalità dei viventi. I viventi hanno un’anima, l’anima o le anime abitano il cosmo, il quale di conseguenza non è costituito di sola materia. Il decadimento è temporale e relativo, e parimenti la decomposizione: vi è una costante generazione nella corruzione; non vi è alcuna vita informe e l’universo è pieno di vita: tutto ha una forma. Qui l’immagine spaziale anima/corpo è invertita. L’anima non è posta all’interno di un corpo privo di anima. La forma (l’anima) si manifesta, è “esterna”. È attraverso la propria forma che un ente diventa ciò che è. La forma reca con sé l’identità, l’ipseità. La forma è l’incarnazione, è il “corpo”, anche se non è materiale, ma spirituale.
28Nella ben conosciuta versione aristotelica dell’ilemorfismo, la forma in quanto tale non garantisce l’immortalità. Solo la forma pura può essere eterna o immortale. Il νοῠς, come forma pura o ragione, è forse immortale, e la forma pura universale, la divinità che pensa se stessa e non è gravata dalla materia, è eterna – e parimenti la mera materia, il caos, dato che il cosmo è formato dal caos. Anche se la forma è incarnazione, i corpi fisici singolari non conseguono la nobiltà esclusivamente attraverso quest’inversione ontologica, dato che ogni cosa ha una forma perfetta (tevlo), la quale è inserita all’interno di una struttura gerarchica: in tal modo l’uomo (maschio) libero e virtuoso è la forma dell’uomo. Per raggiungere questa forma perfetta l’uomo libero deve modellare la propria materia (a[[logon, le emozioni, non l’anima razionale) nella forma delle virtù sino al punto che la pratica di quelle virtù diventi per lui naturale, quasi istintiva. Così un certo tipo di uomo può formare se stesso come una perfetta opera d’arte, ma le virtù che egli deve raggiungere sono generali, sono date. Si tratta qui di un modello aristocratico, a differenza dei primi due, perché l’uomo perfetto può emergere solo a partire da un rango elitario.
29Tuttavia, se si abbandona l’intera ontologia ed epistemologia aristotelica, si può facilmente riconoscere in questo modello una semplice descrizione di un processo che è stato concettualizzato dalla principale corrente della moderna sociologia e antropologia come “socializzazione”. Il bambino deve “modellare” la sua innata “materia” preformata in forme di consuetudine sociale (forme di vita) al fine di poter sopravvivere nel suo ambiente. Questo può essere facile o difficile a seconda del carattere, della qualità e forza di resistenza dell’innata materia preformata. E non solo il processo di acculturazione, ma anche ogni processo di apprendimento è ancora, almeno a un livello elementare, concepito sulla base della tradizione ilemorfistica. Ci sono forme sociali che possono modellare tutte le materie innate – per esempio imparare a parlare una lingua, a utilizzare oggetti, a riconoscere e seguire i comportamenti. Non è solo per analogia che si parla di forme di vita, intendendo le forme di vita umana e sociale. Ma non tutte le “materie” possono essere modellate in tutti i tipi di forme: è normalmente meno problematico riconoscere che nessuna pratica, nessuna a[[skhsi”, nessun potere mentale può far sì che un corpo faccia dei buoni scatti atletici, o sia talentuoso nella danza o nel violino. Ma l’innata materia talvolta non è adatta alla forme elementari della vita: può sussistere tensione e talvolta anche rivolta. Senza una tale tensione o rivolta tra l’innato materiale preformato e la forma di vita, non vi sarebbe mai cambiamento né grandiosità. Inutile dire che non necessariamente una tensione produce cambiamento, e ancor meno grandiosità. Eppure ci deve essere conflitto, dal momento che non tutto può essere in-formato in modo ottimale – qui ritorna ancora l’ilemorfismo del vecchio modello metafisico aristotelico, un tipo di metafisica che, in ogni caso, non opera secondo l’opposizione dualistica interno/esterno, ma mira piuttosto all’eliminazione di quest’opposizione.
30La forma, che è tevlo, spiritualità, identità e ipseità (to dev ti) è l’anima di tutto il vivente, e nel contempo l’uomo è il singolo essere vivente che può trarre la forma dal caos, dalla materia. La comprensione ilemorfistica dell’opera d’arte non è limitata alla scuola peripatetica, ma si diffonde anche nei circoli platonici e oltre sino ai giorni nostri. Nonostante la critica platonica alla scrittura, la parola scritta, il testo è assurto a incarnazione del pensiero. Ma il caso paradigmatico di un’adeguata incarnazione del pensiero, dello spirito, dell’anima, era la scultura. La scultura è propriamente incarnazione. Il corpo in sé mira allo spirito. Tuttavia, in questo caso, il corpo non è carne e sangue, ossia non è materia corruttibile, ma è costituito da marmo o bronzo, materiali che sopravvivono all’uomo, alle generazioni, ai secoli, e che forse sono perenni, resistono al tempo stesso. In questa variante della questione anima/corpo l’interno e l’esterno sono invertiti, almeno apparentemente. È l’esterno, il corpo, a durare a lungo, forse per sempre, e in questo senso a essere immortale. Ma l’inversione della relazione interno/esterno è ingannevole, dal momento che l’uomo è “il padrone di Dio”, come Hegel afferma nella sezione dello Spirito Assoluto nell’Enciclopedia. L’affermazione di Hegel è ambigua, ma tale ambiguità è voluta, perché in questo modo egli può affrontare la tradizione da entrambi i suoi corni. È suggerito, per esempio da Plotino, che l’idea dell’opera, la forma stessa, sia presente nell’anima del creatore prima della creazione; quindi l’anima interiore ha la priorità: la forma effettiva è l’anima del singolo uomo, l’idea di anima che si manifesta nell’anima corporea. È inoltre suggerito (come formulato nella famosa poesia di Michelangelo) che l’idea, lo spirito, è “oggettivo”, abita il marmo, e che il lavoro dello scultore è quello di far fuoriuscire la forma dal marmo, ossia di liberare l’anima (l’idea) dal carcere della mera materia. Non si dice se l’idea (Dio) impiega lo scultore come il suo artigiano, o se l’idea nella mente dello scultore è il Demiurgo che lo rende in grado di creare gli dèi. Nella perfetta unità di materia e forma o di contenuto e forma, spirito e corpo si fondono, diventano una cosa sola, non c’è più tensione, nemmeno movimento: la perfetta opera d’arte risplende alla luce di una a-temporalità: l’eternità.
31L’immagine dell’opera d’arte come realizzazione della perfetta unità di anima e forma divenne problematica nella modernità, e apparentemente ripudiata assieme alla metafisica. Ma, a mio avviso, solo apparentemente. Mi sembra piuttosto che questa tradizione risulti oggi più apprezzata di quanto si potrebbe pensare. Respingere l’espressione anima/forma non significa rifiutare la cosa in se stessa. Cos’è la “grande arte” di Nietzsche se non la modulazione di un’idea di forma perfetta completamente nuova e mai pensata prima? Giungerei anche, rischiando di essere derisa da tutti gli esperti di Heidegger, a leggere la relazione tra la Terra e il Mondo presente nel suo L’origine dell’opera d’arte come una nuova e forse più sofisticata formula del nesso materia/anima. Tuttavia l’antica questione metafisica della relazione o nesso anima/corpo è scomparsa, almeno dopo Hegel – e questo è essenziale. La formula ilemorfistica diventa solo una metafora: l’espressione “forma” relativa a un’opera d’arte non si riferisce più al suo spirito o anima, o alla materializzazione di un’idea divina o umana, ma sostituisce il termine “perfetto” o “ben fatto”, o “compimento artistico”.
32Ciò non ostante, ci sono alcuni discendenti contemporanei che ancora si richiamano alle tradizioni originarie. In primo luogo, vi è l’ipseità (to dev ti). Anche oggi, anche nel cosiddetto postmodernismo, un’opera d’arte rimane se stessa, deve avere un’identità; anche un telefonino ha identità, e parimenti il suo creatore. Quando si visita una mostra d’arte contemporanea si riconoscono subito i dipinti dello stesso artista e, inoltre, il fatto che ciascuno di essi è differente. Tutti i dipinti sono un’ipseità (si ha la necessità di stare per più minuti davanti a essi per realizzarlo) e tutti portano la firma dei loro artisti, anche quando non sono firmati. L’individualità, la non ripetuta e non ripetibile individualità, è e rimane l’“anima” che appare nelle opere (che possono essere chiamate corpo) e nulla cambierà questa “costellazione” sino alla fine dell’arte – la quale, nonostante il motto popolare, non sembra poi molto vicina. In secondo luogo l’anima, l’irripetibile ipseità del Creatore e della creatura non è equivalente all’idea. A volte un artista produce un’idea, e può esprimerla, o almeno crede di poterlo fare; altre volte egli respinge anche la sola idea di un’idea – eppure solo raramente vi è un referente che sia riconoscibile. Nelle opere d’arte tradizionali, specialmente nelle belle arti, il referente aveva la funzione di stabilire un limite per la manifestazione dell’irripetibile ipseità – basti pensare a un dipinto della natività, a una natura morta o a un paesaggio. In effetti la mancanza di referente può rendere obsoleta la distinzione tra materia e forma: l’immagine non identificabile è assunta come pensiero o intuizione materiale; e non vi è alcuna idea prodotta, ma la “cosa” contiene un’anima.
33Sino a questo momento (nel caso 3) ho fatto riferimento a tre diversi discorsi, in sequenze quasi storiche, tali da far funzionare l’approccio genealogico. Il primo discorso può essere brevemente formulato così: la singola anima può essere mortale, ma il corpo creato dalla singola anima, l’opera d’arte, ha la speranza di essere immortale. Il secondo discorso può essere sintetizzato così: le idee soggettive od oggettive che costituiscono la forma possono fondersi e incarnare così la perfezione divina. Terzo: ogni creazione artistica può essere la firma del suo creatore, conosciuto o sconosciuto, ma ogni cosa ha una propria anima. È all’interno del secondo discorso che la cosiddetta religione dell’arte, il culto delle opere d’arte e talvolta anche dell’artista, acquisita rilievo.
34Uno spirito sano abita in un corpo sano, secondo il proverbio latino. In entrambe le tradizioni epicurea e stoica (a volte in accordo altre volte in opposizione) la concezione ilemorfistica è stata tradotta nei termini di una forma di vita personale. Con la parola “personale” non intendo che ogni persona seguisse un proprio precetto al fine di creare un’unità dell’anima e del corpo, ma che il precetto generale definito nella filosofia dominante era applicabile a persone singole come linee guida per la loro personale condotta di vita. I precetti erano quindi generalmente accettati, ma la condotta di vita era determinata individualmente. Il modello originale aristotelico di ilemorfismo etico, in cui l’appropriazione di virtù comunemente riconosciute costituiva il centro dell’autocreazione e autoformazione, fu sostituito dalla prescrizione di preparare gli individui ad affrontare tutti gli imprevisti della vita. Nessuno sa cosa accadrà domani: si può perdere la propria ricchezza come si può guadagnarla, il tiranno può rivolgersi contro un individuo come può anche decidere di favorirlo, si può guadagnare la fama e perdere l’onore. Tuttavia, il saggio deve essere preparato a tutti questi casi; nulla deve mutare la sua serenità o il suo godimento di tutti i piaceri che la vita è in grado di offrire. La cosa fondamentale è prendersi cura di se stessi. Foucault analizza le principali “tecnologie” del sé in molti dei suoi scritti. Le tecnologie epicuree e stoiche del sé rimangono modelli per lungo tempo, anche per Spinoza e, talvolta, per Goethe, ma quest’ultimo determina una nuova direzione della questione, e non è il solo. Egli è preceduto e affiancato dai romantici.
35Vorrei partire da questo semplice assunto: Kant e poco più tardi Goethe formulano l’interessante pensiero che ogni persona dopo i trent’anni è responsabile del proprio volto. Naturalmente conosciamo l’antico proverbio che il volto è lo specchio dell’anima: esso ci dice che il volto del virtuoso esprime bontà e il volto dell’empio malvagità. Fin dal Rinascimento il significato del proverbio è diventato più ampio, e anche differente. Il ritratto ne è un ottimo esempio: i ritrattisti dal Rinascimento in poi presentano e rappresentano l’anima dei loro modelli, non solo nel senso di rappresentarne l’anima virtuosa o malvagia, ma anche come rappresentazione dell’ipseità dei modelli stessi. Sicuramente, il ritratto non rappresenta semplicemente il viso del modello, non solo perché un dipinto è opera del pittore e non del modello, ma anche perché si suppone che sia determinato dall’idea che il pittore ha del modello e non sia una semplice manifestazione diretta della sua anima. Inoltre si trattava ancora di un’epoca in cui rappresentazione non significava solo presentazione, poiché, insieme alla singolarità della persona, si trattava anche di cogliere lo status del modello (doge, cardinale, borghese). Tuttavia nessun pittore rinascimentale avrebbe detto che il modello è responsabile del proprio viso; Kant e Goethe dissero invece esattamente questo. Sorgeva un mondo in cui ognuno era tenuto a sottoscrivere la dichiarazione che tutti gli uomini e le donne nascono liberi e ugualmente dotati di coscienza e ragione; un mondo in cui ognuno poteva ugualmente essere ritenuto responsabile del proprio viso a partire dai trent’anni.
36Questa semplice affermazione (ognuno è responsabile del proprio volto dopo i trent’anni) è il segno di una nuova mutazione del discorso ilemorfistico. L’“anima” coincide con la personalità, e la personalità con il carattere. Il carattere non è più tipico, non rappresenta un gruppo socio-culturale, ma è puramente singolare, individuale. Questo carattere risplende sul volto. Se ognuno è responsabile del proprio volto allora ognuno è responsabile del proprio carattere, e inoltre ognuno ne è l’autore. Un uomo può essere considerato come fattosi da sé – non nel senso volgare, o non solo nel senso volgare, corrispondente all’elevazione da un’umile condizione a un rango più alto o più ricco, ma nel senso dell’essere unico creatore della propria anima e forma, unico creatore della propria ipseità. Nell’atto di autoformazione il creatore e la creatura sono uno e così è la sua anima e il suo corpo. Il punto centrale di questo discorso è descritto da Foucault nei seguenti termini: l’uomo fa di se stesso un’opera d’arte. Naturalmente, si è nati in un ambiente concreto; ognuno di noi ha avuto un’infanzia diversa, uno ha ricevuto un’educazione positiva, un altro negativa, uno è dotato di alcuni talenti che altri non hanno, uno è intelligente mentre un altro è noioso, uno è bello mentre un altro è normale. Tutte queste “condizioni” sono considerate come materia, materia prima come bronzo, marmo o pietra: a partire dalla propria materia ognuno deve modellare una statua perfetta. Come Goethe disse una volta, anche il più umile uomo può diventare perfetto. O come Nietzsche disse, riferendosi a se stesso: si deve diventare ciò che si è. L’etica dominante della modernità, l’etica della personalità, compone ancora variazioni su tale tema.
37La psicoanalisi può essere anche interpretata (tra le altre cose) come una risposta all’etica della personalità e, in generale, al paradigma della perfetta statua autodeterminata, perché si concentra sugli ostacoli a questo progetto; non sugli ostacoli sociali (poiché questi sono ancora concepiti come il materiale contingente da cui l’uomo può autodeterminarsi), ma sugli ostacoli che risiedono nel corpo/anima. Ripeto, il corpo e l’anima sono uniti qui come nel concetto di “statua”. La libido è nel contempo corporea e psichica. Nel tardo modello freudiano della psiche, gli istinti di Eros e Thanatos sono entrambi corporei e psichici. Freud unisce anche il terzo modello con il primo e il secondo (l’anima nella prigione del corpo e il corpo nella prigione dell’anima), accetta persino la tradizionale differenziazione dell’anima, associandone una parte con il temporale, un’altra con l’a-temporale, una ponendola “in alto”, l’altra “in profondità”. In quanto pensatore profondamente laico, tuttavia, attribuisce l’“eternità”, l’“a-temporalità”, alla parte “inferiore” (l’Es non personale), mentre temporalità, corruttibilità, l’essere transeunte si riferiscono alla parte più elevata (il Superego morale, la coscienza della nostra temporalità). Il suo è un modello di reciproca reclusione. Attraverso la repressione il Superego e l’ego mantengono la psiche inconscia (sw’ma) in cattività, ma attraverso traumi, nevrosi e follia l’inconscio (la parte somatica) mantiene l’ego e il Superego in prigione. E anche se la condizione della guarigione (la scienza della psicoanalisi e l’analista) è esterna, la guarigione è il risultato dell’autonomia. Castoriadis è un buon interprete di questo problema. L’ideale di Freud è e rimane Goethe, l’uomo o la donna autodeterminati, la cui anima e corpo si fondono, il cui prodotto finale sarà il carattere individuale perfetto – come la statua di Mosè di Michelangelo.
Dolore, piacere e le questioni del cuore
38Adamo ed Eva peccarono (se la loro disobbedienza può essere chiamata peccato), ma non attraverso il loro corpo. Essi peccarono nella loro “anima”, a causa di una facoltà dell’anima: l’immaginazione. Eva era curiosa, osò cogliere e mangiare il frutto (un atto di per sé “materiale”) per affrontare la sfida. Rischiò. Per la sua trasgressione, tuttavia, sia Adamo sia Eva furono puniti nel loro corpo. La punizione è stata corporale, e non spirituale: il dolore, il dolore del parto e il dolore del duro lavoro. Non solo: Eva fu anche punita con il desiderio, il desiderio verso suo marito che la farà sua schiava. Potrebbe essere interessante discutere il motivo per cui la Bibbia citi il desiderio della donna, e non quello dell’uomo. La punizione spirituale che accompagna le sofferenze del corpo aggrava queste ultime: è la consapevolezza, la coscienza della morte. Tutti questi dolori sono vani?
39Sappiamo relativamente ai dolori, ma non relativamente ai piaceri. Contrariamente al destino della parola “Paradiso” o “giardino di Eden” la Bibbia non parla dei piaceri nell’Eden. Sappiamo che il primo uomo si sentiva solo prima del ripensamento di Dio di creare una donna come “aiutante”. Ma aiutante in che cosa? Sappiamo che sono stati autorizzati a mangiare da ogni albero del giardino e anche tutti gli animali, ma non c’è alcun riferimento al piacere. Adamo ha dato i nomi agli animali, ma è stato un piacere? C’è un vecchio dibattito sul fatto che la prima coppia facesse l’amore nel giardino. La risposta è solitamente positiva, dal momento che Dio non per nulla ha creato due sessi. Eppure non vi è alcun riferimento al piacere sessuale. Il piacere, così come il dolore, nasce al di fuori del Paradiso. Oppure, in una delle interpretazioni dello Zohar: l’allontanamento dal paradiso significa l’espulsione dal grembo della madre. Tutti i racconti della Bibbia (soprattutto la Genesi) recano in sé un messaggio filosofico sulla condizione umana.
40È difficile sostenere che il dolore preceda il piacere, ma si può dire senza ulteriori precisazioni che il corpo è in primo luogo “gettato” nel carcere dell’anima. In primo luogo il corpo, e solo il corpo, è utilizzato come mezzo di acculturazione: la prima ricompensa o punizione consiste nel trasmettere piacere o dolore al corpo. I premi e le punizioni attribuiti al corpo attraverso i corpi degli adulti mediano l’anima, ossia la razionalità, i costumi, e in tal modo l’obbedienza. Dato che la disobbedienza è l’altra faccia dell’obbedienza, Adamo ed Eva espulsero se stessi dal Paradiso. Permettetemi di ripetere che al “principio” il corpo è gettato nel carcere di una generale “anima”, o se si preferisce di un’anima “oggettiva”. Solo in seguito si aggiungeranno alcuni dei sentimenti innati come la paura, la vergogna e la necessità di un volto familiare amichevole (l’amore elementare). L’amore come sentimento si determina di conseguenza.
41Questa quarta storia differisce in modo essenziale dalle precedenti, poiché la sua conclusione è solo in modo minimo, se non per nulla, dualistica. Sentimenti ed emozioni diversi erano localizzati di solito in una “parte” del nostro corpo: rabbia nel fegato, misantropia o sdegno nella bile, amore nel cuore. I tipi di carattere sono stati descritti anche a partire da caratteristiche del corpo. Nel xix secolo, per esempio, la frenologia fu accettata come una sorta di scienza cum arte: fu presupposto che la semplice forma e struttura del cranio fornisse informazioni attendibili sulle capacità, intuizioni e contenuto all’interno del cranio – Hegel ironizzò su questo nella Fenomenologia.
42Il paradigma della “materia prima” è ancora presente, ma è difficile che essa sia “formata”, almeno in senso ilemorfistico. La concezione sviluppata da Aristotele nella Retorica non è mai stata completamente abbandonata: egli presuppose che le “materie prime” di tutti i sentimenti e le emozioni siano innate. Tutti i filosofi menzionavano piacere e dolore, e alcuni di essi anche il desiderio o semplici emozioni come rabbia, vergogna, disgusto, gioia e tristezza. I filosofi concordavano anche su un altro punto importante: la cognizione e la valutazione della situazione è informata da emozioni e sentimenti più complessi, i quali giudicano la situazione. I piaceri provati nell’incontro con un vecchio amico, nell’ascolto della musica, nella ricezione di una risposta erotica, o derivati dall’aver fatto la cosa giusta non sono uguali. I sentimenti, le emozioni stesse sono diverse, come l’amore è diverso nel caso in cui si ami il proprio bambino, un bel giorno di primavera o un pasto soddisfacente. La cognizione si costituisce nel sentimento, e la valutazione della situazione e il giudizio su di essa possono difficilmente essere definiti una “forma”: non si tratta di una forma, non assomiglia neppure a un corpo, ma non è neppure unicamente spirituale; emozioni o sentimenti uniscono oggetti e cognizioni, e valutano, ma non possono essere valutati, almeno non moralmente. L’intera letteratura filosofica sia antica che moderna ruota intorno a due questioni. In primo luogo, se le emozioni siano le “passioni dell’anima” o anche del corpo, e quali di esse si riferiscano più alla prima e quali al secondo. Per esempio, il mal di testa è un dolore completamente corporeo, ma cosa dire per quanto riguarda i dolori sentiti da un ipocondriaco? Il desiderio di superare un esame con pieni voti è spirituale, ma il forte battito cardiaco, il sudore? In secondo luogo, quale sentimento o emozione è virtuosa e quale cattiva o indifferente in questo contesto, e necessita di una valutazione situata nel momento della loro insorgenza, per intensità, profondità e forza motivazionale? Quale di esse è attiva, quale reattiva? Quando e dove?
43È facile comprendere come i sentimenti e le emozioni siano relazionali, sociali. Il dolore del corpo è relazionale non solo se inflitto da altri esseri umani, neppure se altri esseri umani, consapevolmente o meno, non hanno impedito (pur avendolo potuto fare) che il dolore fosse esperito o vissuto nuovamente. In breve, emozioni e sentimenti sono eventi intraumani. Piacere, dolore e anche desiderio sono sentimenti di contatto, confermano, affermano, rivendicano la nostra vita, la persona, i fatti, o abrogano, negano tale conferma, sino a giungere a rifiutarci e a ferirci. Nella discussione della metafora del corpo come prigioniero dell’anima ho cercato di dimostrare che solo i corpi possono violare altri corpi; ho aggiunto che, sebbene la violenza sia perpetrata da parte del corpo, è in gran parte determinata dall’“anima”, e che la forza o la costrizione o l’esercizio del potere non dipendono affatto da una trasmissione corporea. Sentimenti ed emozioni, come pure l’assenza di essi, possono danneggiare le altre persone in modo maggiore e più a lungo di una violenza, possono anche uccidere senza che il corpo venga toccato. Le emozioni stesse hanno però bisogno di essere espresse dal corpo o da parvenze di corpo al fine di far del male o recare benedizione. L’espressione del viso mostra rabbia o disgusto come anche desiderio erotico; ma le emozioni sono per la maggior parte espresse con parole, discorsi, in testi, e pertanto esse sono incarnate. Queste parole, discorsi e testi possono distruggere una persona o renderla felice in modo sublime.
44Di primo acchito la condizione umana non riguarda l’autonomia, ma la dipendenza. Non è la mancanza di mezzi di sopravvivenza che ci rende sempre più dipendenti, ma il desiderio di riconoscimento, di affermazione, d’amore. Siamo esseri emotivamente dipendenti così come altri sono emotivamente dipendenti da noi. Nel vuoto di dipendenza emotiva siamo carenti in “sostanza umana” – se questa espressione ha ancora un senso – ha certamente senso nelle fiabe che dai tempi immemorabili narrano di un cuore di pietra. Eppure una dipendenza emotiva in generale, e una dipendenza emotiva esclusivamente bipolare non sono la stessa cosa: un’esclusiva dipendenza emotiva è normalmente bipolare, ossia esclude interamente o quasi interamente soggetti terzi dal nesso emotivo di reciprocità; è eccessiva, in greco è (anche) ὓβρις. Come succede in molti casi di ὓβρις, la dipendenza emotiva esclusiva e bipolare è potenzialmente la più grande benedizione e/o la maledizione più grande nella vita umana. È ambivalente, è ὓβρις, anche se la dipendenza è reciproca e simmetrica. La prima presentazione di questo tipo di dipendenza reciproca si ritrova anche nel Libro della Genesi: la storia di Giacobbe e Rachele, la storia di Giacobbe e Giuseppe sono racconti di dipendenza emotiva simmetrica. E ancora, i “soggetti terzi”, la gelosia e l’invidia creano da un lato il caos e la colpa, dall’altro il terribile dolore per la presunta perdita. ”Ubri richiama la punizione, questa volta non da Dio, che alla fine mette le cose a posto. Ma se la dipendenza emotiva non è simmetrica, ossia quando la reciprocità è scomparsa, la sofferenza raggiunge il suo apice e risultati forse devastanti – le tragedie di Euripide rappresentano proprio questo caso.
45Si può osservare come il problema della relazione corpo/anima sia stato tradotto nella lingua della problematica emozione/ragione. Se si fondono le due domande, è necessario effettuare alcuni cambiamenti nel preciso uso dei termini. La coerenza degli argomenti tradizionali non mi concerne più oggi, e quindi vorrei evitare di smascherare le (a volte) illecite fusioni. Nel modello della gerarchia corpo/anima, specialmente se combinata con una gerarchia interna all’anima (modelli 1 e 2), l’anima o la “parte superiore” dell’anima, la Ragione, è epistemologicamente privilegiata. Poiché qualcosa di corporeo, vale a dire gli organi di senso, è la fonte della sensazione, o almeno partecipa della sensazione, la conoscenza acquisita dalla sensazione è inattendibile, confusa, soggettiva, “empirica”. Essa non garantisce la verità o la certezza. Solo quelle entità e procedure mentali che non si basano su sensi mescolati con esperienze sensibili sono esperienze spirituali e quindi possono cogliere la verità che è anche spirituale: il sé disincarnato è il “soggetto” privilegiato della vera conoscenza. In questo modo il concetto di “purezza” entra nella questione relativa alle fonti della conoscenza: “puro” significa non mescolato con nulla che abbia relazione con il corpo – la conoscenza “a priori” in tutta la sua comprensione deve essere “pura” in questo senso.
46Originariamente la “purezza” si riferisce ai corpi e soprattutto alle relazioni di due o più materie (oggetti) che devono essere tenute separate, non mescolate l’una con l’altra. Per esempio il sangue mestruale delle donne con il pene degli uomini, o alcuni materiali da alcuni templi e luoghi sacri. L’immersione in acqua è il principale modo di purificazione. Analogamente, purezza significa anche essere innocente dalla colpevolezza in qualcosa. Il colpevole è impuro, è a volte considerato come fonte di contaminazione, che avvelena il suo ambiente, sfida la divinità, causa catastrofi; deve essere eliminato, esiliato, anche ucciso, per salvare la città, il popolo, la famiglia – sia la mitologia greca sia la Bibbia sono caratterizzate da quest’interpretazione di purezza e impurità. Sebbene la “purezza” morale sia un’analogia, nelle storie originali lo spirituale e il corporeo non erano tenuti separati: la contaminazione era questione non solo spirituale, ma anche corporea. Ma nessuna delle versioni originali della distinzione tra purezza e impurità aveva nulla a che fare con il rapporto tra ragione e sensi: non si commettono reati o un tipo qualsiasi di trasgressione solo con i sensi od obbedendo a essi. La verità in gioco qui è l’identificazione della fonte di contaminazione, e non il “come” dell’identificazione – e questo è rimasto oggetto di ricerca sino ai giorni nostri.
47È notevole come il veicolo del concetto di “purezza” nasca dall’essere non mescolato, continui come innocenza, e raggiunga il più alto status di privilegio epistemologico. Ed è anche una distinzione di lunga durata che rimane costante da Platone (o forse da Parmenide) almeno fino a Hegel, ossia durante tutta la storia della metafisica, e probabilmente oltre. Ciò che è di grande interesse per la questione dell’incarnazione è il passaggio dal privilegio epistemologico al privilegio morale. Questo trasferimento risponde alla necessità della filosofia metafisica: una filosofia metafisica pienamente sviluppata è una sorta di puzzle di immagini, dove tutto deve combaciare. In primo luogo devono combaciare la speculazione e l’aspetto pratico della filosofia: dato che in una filosofia speculativa l’anima pura o la ragion pura sono diventate le fonti privilegiate e la garanzia del raggiungimento della certezza o della verità, la stessa anima pura o ragion pura hanno dovuto svolgere il ruolo di unica fonte di certezza, e di garante della verità morale. Si è trattato di un semplice trucco: si dovevano semplicemente identificare i sensi (come vista, udito) con sentimenti o emozioni (come amore, dolore, gioia, ansia); così ci furono “sensazioni esterne” e “sensazioni interne”, soggettive e quindi erronee, e si è dovuto lasciare entrambe alle spalle per raggiungere la “pura” conoscenza e quindi essere (diventare) moralmente “puri”. Invece di seguire le nostre passioni abbiamo bisogno di condurre la nostra vita sotto la guida della ragione, come afferma Spinoza. Quindi fu necessario un costrutto ausiliario, analizzato al punto 2: la maggior parte degli atti malvagi sono senza dubbio di origine mentale (Kant si riferirebbe all’inversione nella gerarchia delle massime). Un uomo in preda alla rabbia può uccidere decine di persone, ma un’idea, un comando può ucciderne milioni. Dato che si tratta di conoscenza comune, non può essere semplicemente trascurata anche da parte dei più ferventi nemici delle mere opinioni. Ma si presentò una soluzione: non la ragione, la razionalità senza alcuna qualificazione, ma solo una ragione superiore, la “pura” ragione giustifica la conoscenza del bene e del vero e quindi la vera moralità. Questo è un circolo vizioso: solo questo tipo di ragione giustifica la bontà, la quale bontà per altro è già stata assunta come l’unica fonte di verità; eppure così tutto “combacia” – e questa del resto era l’esigenza della costruzione del sistema.
48Nessuno ha mai sperimentato il conflitto tra “ragione pura” e affetti o emozioni “impuri”. “Puro” e “impuro” (intesi in modo tradizionale metafisico – Kant compreso) non sono solo, come tutte le categorie, “personaggi” del teatro filosofico, ma, almeno sul piano funzionale, semplicemente cattive metafore. Infatti, ciò che è costantemente esperito e anche espresso nelle opere d’arte e nella filosofia pratica, è l’impossibilità di controllare alcune passioni, la dipendenza da alcune emozioni. Questa non è quasi mai una questione morale, o, quando lo è, il giusto morale non sempre è dalla parte della ragione, a meno che non si identifichi la ragione con purezza e bontà – benché non si abbia alcun motivo di aderire a questa tradizione. Dato che non vi è alcuna emozione senza un aspetto cognitivo, non vi è alcun impulso cognitivo né una motivazione priva di sentimenti. Spinoza lo sapeva molto bene, altrimenti non sarebbe stato in grado di riassumere la più grande saggezza filosofica espressa sino ad allora a questo riguardo: l’emozione può essere conquistata o controllata da null’altro se non da un’emozione opposta e più forte. Ciò che è chiamato “ragione” in conflitto con altre emozioni è a volte l’emozione più utile, a volte quella accettata e prevista dal nostro ambiente culturale o da alcune persone, altre volte è l’emozione che ci fa seguire modi abituali di pensare e di agire, o piuttosto l’emozione che segnala il pericolo della dipendenza da altre emozioni o il pericolo che queste altre emozioni ci causeranno sofferenze o conseguenze che più tardi certamente rimpiangeremo. Non vi è alcuna “pura” ragione e nulla di ciò che facciamo o desideriamo è del tutto privo di ragione. Il giudizio o la scelta morale non sono teoricamente facili come ipotizzato dal pensiero metafisico – e nel contempo, probabilmente, non così difficili dal punto di vista pratico.
49Ho cercato di comprendere la dipendenza metafisica presente nella metafora della “purezza”: è il desiderio di far combaciare il sistema – un desiderio di completezza, perfezione e bellezza. A questo punto un altro desiderio, un’altra necessità, può essere rilevata come codeterminazione degli uomini e, soprattutto, dei filosofi verso la stessa direzione. Da Aristotele, che ha lodato l’αὐτόκαλος, l’uomo che non ha bisogno di alcun altro uomo, fino a Kant, che ci consigliò di abbandonare tutti i nostri sentimenti e di obbedire al comando della ragion pura pratica (la libertà trascendentale) interna a noi soli, la perfetta autonomia di ogni singolo essere umano è stato concepita come l’apice della perfezione. Ma lo è?
50Non voglio sollevare la questione se la perfetta autonomia possa essere raggiunta o meno. La maggior parte dei filosofi concorda che no, e anche se sì, non si può sapere se davvero è stata mai raggiunta. Quello che voglio dire è diverso: la perfetta autonomia individuale potrebbe trasformare gli esseri umani in mostri. Se è vero, nel senso che finora è esperienza comune e condivisa che la mutua dipendenza emotiva (Sartre direbbe «être pour autrui») è intrinseca alla condizione umana, allora non siamo in grado di sbarazzarci di questa dipendenza né gli altri possono liberarsi dalla dipendenza emotiva nei nostri confronti. Forse questo è più facile da capire per le donne che per gli uomini: gli uomini, soprattutto i filosofi, dovevano essere – secondo Socrate – gravidi di idee, e se qualcuno è gravido di idee, la dipendenza emotiva può essere respinta in quanto irrilevante per il puro pensiero; invece le donne incinte non possono respingere la dipendenza emotiva, la coabitazione con un’altra vita (per quanto impura o afilosofica). Essa deve essere ammessa come “verità”. La dipendenza emotiva è quindi intrinseca alla condizione umana. Il desiderio di autonomia, tuttavia, non può essere respinto – nessun desiderio può essere respinto.
51Autonomia/eteronomia è una cattiva opposizione bipolare. Non perché il bene è solo da qualche parte nel mezzo, ma perché la filosofia non può rispondere alla domanda del “dove” sia questo mezzo, dove possa essere determinata una linea, a quale punto la dipendenza emotiva e l’autonomia possano convivere, anche se non congiunte in un letto nuziale. Né al “dove” né al “come” può essere data risposta in modo generale. Solo il singolo individuo può dare una risposta, o almeno sollevare la questione per lui stesso. E non ci sono risposte definitive, neppure per il singolo individuo, dato che la questione deve essere sollevata ancora e ancora.
52Ho cercato di illustrare la mia convinzione che la filosofia, dopo il crollo della tradizione metafisica, ha bisogno di ripensare la dualità. La metafisica interpretò la dualità come dualismo, ma nel discorso filosofico contemporaneo le concezioni di due sostanze o due attributi non collegati, o il contrasto tra l’anima immortale e il corpo mortale, tra la ragion pura e le impure capacità di conoscenza, possono difficilmente pretendere di essere accettate. Eppure, per quanto affermino, i sistemi metafisici sono sorti a partire da esperienze di vita umana, tanto in mutamento quanto costanti; i filosofi del nostro tempo lavorano ancora su esperienze di vita umana. Una di queste, e non secondaria, è, e rimane, la dualità: le persone umane non hanno esperienza di se stesse come di un sé omogeneo; esistono diversi sé all’interno di una singola persona. Inoltre viviamo in più di un mondo, almeno due se non di più, e non è affatto lo stesso sé a essere predisposto al meglio a vivere in ognuno di essi. Come chiudiamo gli occhi durante l’ascolto di una musica, così annulliamo la funzione di una nostra capacità cognitiva, o uno dei nostri coinvolgimenti emotivi, per poter essere completamente assorbiti da un mondo in cui quei coinvolgimenti potrebbero turbare il nostro soggiornarvi. Sì, lasciamo costantemente un mondo per entrare in un altro e in un terzo, e di nuovo in direzione opposta, consapevolmente e (normalmente) senza confondere un mondo con l’altro: un bambino di cinque anni in uno zoo non concepisce il lupo che vede come il lupo che divorò nonna e nipote in Cappuccetto Rosso, anche se, durante l’ascolto della storia, vivrà nella storia e non penserà al lupo nello zoo. Com’è possibile?
53La filosofia ha sempre posto domande infantili: continuiamo a frequentarle.
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