5. Il postmoderno nell’arte e in filosofia
p. 88-105
Texte intégral
1Il termine “postmodernismo” non rientra nel mio vocabolario, dal momento che sono contraria a ogni tipo di “ismi”, preferisco parlare di “postmodernità”, o meglio di “condizione postmoderna”. Esattamente trent’anni fa, Lyotard scrisse un libro sulla condizione postmoderna, nel quale forniva indicazioni su cosa fosse il postmoderno. Un grande dibattito ne seguì, e da quel momento ognuno parlò in termini differenti del periodo storico contemporaneo come periodo successivo alla modernità. Il mio contributo a questo dibattito è il seguente: non esiste un periodo dopo la modernità; tutto ciò che ho detto sulle logiche della modernità era valido un secolo fa e resta valido tutt’oggi, non c’è cambiamento nell’essenza dei costituenti della modernità e delle sue tre logiche. Ecco perché non mi è possibile parlare della postmodernità come di un nuovo periodo dopo la modernità.
2Vorrei piuttosto parlare del differente sguardo che noi portiamo sulla modernità: tutti coloro che hanno scritto sulla modernità praticavano una sorta di autosservazione, di autoritratto della modernità. La postmodernità coincide quindi con la produzione di un differente ritratto della modernità. In sintesi, non è la condizione storica a essere mutata, ma il nostro sguardo sulla modernità, che è differente da quello di quaranta, cinquant’anni fa. La differenza risiede nel fatto che gli autoritratti della modernità precedenti si concentravano sull’Europa, mentre i ritratti di oggi sono più globali, non vediamo nella modernità qualcosa che è solo europeo o americano, ma parliamo della modernità come di un fenomeno del mondo (benché non della totalità del mondo), applicabile a più culture del nostro mondo. Ora, il cambiamento di prospettiva deve essere causato da un cambiamento a livello storico, non è possibile che una prospettiva cambi senza una qualche causa storica. È bene precisare che, benché la relazione tra cambiamento storico e nostra immaginazione non sia necessaria, tuttavia è possibile a posteriori rilevare approssimativamente quali cambiamenti storici abbiano determinato un mutamento nella nostra immaginazione. A mio avviso vi è un anno importante, il 1968, considerabile come una sorta di spartiacque tra due periodi. Nacque il movimento di una nuova sinistra, non associato a un partito come il movimento comunista (o come erano stati, a destra, nazismo e fascismo), ma spontaneo, proprio della società civile, anzi, organizzato da chi era ostile alle regole e alla presenza dei partiti. Tale movimento si diffuse ampiamente quasi ovunque (Europa, America, Messico, Australia, India). Questo tipo di globalizzazione non guidato da partiti fu la condizione del nuovo tipo di comprensione della modernità, chiamato postmoderno, che raggiunse il suo apice nel 1989, al crollo dell’Unione Sovietica e con l’instaurazione di un ordine politico relativamente nuovo, non solo in Europa ma anche in altre parti del mondo. Questa è la condizione del mutamento di prospettiva nei confronti della modernità.
3Non è certo possibile fissare storicamente una data certa dell’inizio della riflessione postmoderna, dato che l’immaginazione non può essere ridotta al tempo concreto e oggettivo. Questo è vero non solo per quanto concerne l’immaginazione storica, ma anche per quanto concerne l’arte, la filosofia, la religione. Si può affermare infatti che alcuni aspetti della percezione postmoderna comparvero all’orizzonte storico ben prima degli anni sessanta, subito dopo la Prima guerra mondiale. Ma il sorgere del nazismo e della dittatura bolscevica frenarono in certo qual modo lo sviluppo dell’immaginazione postmoderna; nazismo e stalinismo rappresentarono una sorta di promessa di redenzione politica per tutti coloro che avessero seguito certe ideologie. Questo tipo di fondamentalismo totalitario intese fermare le prospettive postmoderne, e in questo senso costituì un ritardo nella nuova autocomprensione della modernità. Ora, nel Sessantotto e nell’Ottantanove il tempo dei totalitarismi era scomparso: il collasso di ogni totalitarismo era quindi la condizione del sorgere della nuova forma di immaginazione storica.
Tre concetti di cultura
4Nella prima lezione ho parlato della fine delle Grandi Narrazioni. La concezione della storia come ritorno del medesimo, come insieme di leggi superiori alle leggi economiche e politiche, come regolarità e come necessità non fu più data per scontata. Il primo cambiamento di prospettiva si riferisce al fatto che chi parla di postmoderno non parla in termini di progresso, sulla scia di quanto Collingwood aveva detto relativamente alla critica del progresso come accumulazione, in particolare nel senso di accumulazione di tecnologia.
5Il postmodernismo rinuncia all’olismo e al concetto di totalità, tanto cari ai rappresentati delle Grandi Narrazioni; rifiuta il fatto che la storia sia un sistema, e che il presente possa essere considerato come una totalità (nel senso hegeliano). Anche la mia teoria degli eterogenei e differenti costituenti della modernità e delle sue logiche rientra nella visione postmoderna. Il postmoderno ha quindi che vedere con l’eterogeneità – in particolare l’eterogeneità delle culture.
6È possibile individuare tre concetti di cultura. Un primo concetto è quello formulato dal mio amico e collega György Markus23: il concetto antropologico di cultura, usato soprattutto nell’antropologia del xix e xx secolo, secondo cui ogni gruppo umano può essere descritto come una cultura. Un certo numero di norme e regole accettate e/o praticate in una comunità rappresenta la cultura di tale comunità. Ogni gruppo umano ha quindi la propria cultura. Esistono anche subculture: c’è la subcultura del proletariato, dell’università, e così via; si può anche parlare di culture nazionali: la cultura francese è differente da quella tedesca. Ogni cultura è quindi una certa forma di vita assunta come omogenea. Tale concetto antropologico che, ponendosi da un punto di vista esterno, descrive una cultura come un qualcosa di chiuso, come una totalità, è messo in discussione nel momento postmoderno. Alcuni esponenti del postmodernismo affermarono infatti che la cultura non esiste, che non ogni cosa è chiusa in sé, né è connessa a ogni altra cosa.
7Esiste un secondo concetto di cultura, in un certo senso più antico del concetto antropologico, ed emerso, secondo Arendt, per la prima volta a Roma. Secondo tale concetto, la cultura è associata a una parte della popolazione, la parte colta, quella che non si riferisce solo alla tradizione di appartenenza, ed è quindi in grado di apprezzare tradizioni altre. Secondo Arendt, i Greci classici non avevano cultura perché ogni elemento della loro cultura era autoctono, indigeno. Ma nella Roma del i secolo i romani colti che studiavano filosofia in Grecia parlavano e scrivevano in greco, ed erano colti in quanto non nutriti solo dalla tradizione di appartenenza, ma anche dalla tradizione greca, dalla sua tragedia e letteratura. Volevano introdurre la filosofia e la cultura greca nella loro lingua; Orazio ad esempio riteneva che fosse una degna occupazione quella di tradurre gli autori greci in latino.
8Tale concetto di cultura appartenne ancora per un certo tempo all’Occidente. Nei monasteri i monaci colti conservavano, leggevano, studiavano e copiavano le opere antiche, un’operazione grazie alla quale noi possediamo le opere degli autori del passato – la loro attività era quindi la preservazione della cultura. In seguito, nell’età moderna e non solo in Europa, compare sulla scena della storia un’élite culturale (questa volta secolare) che conosceva ciò che era stato prodotto prima della sua epoca, che studiava il latino e il greco, sapeva a memoria Virgilio e Omero, perché questa conoscenza sanciva l’appartenenza all’élite culturale del Paese – nonostante non si trattasse di prodotti della loro cultura nazionale. Secondo alcuni, anche la conoscenza della scienza naturale appartiene a questo secondo concetto di cultura. Questo è certamente il caso dei secoli xvii, xviii e xix: la conoscenza prodotta dalla scienza apparteneva alla cultura, e non vi era distinzione tra filosofia e conoscenza scientifica. La filosofia era chiamata filosofia naturale, e la scienza filosofia – Newton era considerato un filosofo.
9Questo concetto di cultura esiste ancora. Ma nella modernità ne sorge uno nuovo – il terzo concetto di cultura: la cultura del discorso. Hegel affermò che nella cultura dell’Illuminismo il discorso svolgeva un ruolo molto importante. Il discorso assurge quindi a un certo tipo di cultura; le persone colte non sono solo coloro che leggono i classici nella loro biblioteca, ma anche coloro che fanno della discussione un fine in sé, che non mira a un fine altro, come la ricchezza o il riconoscimento. Avere una conversazione senza lo scopo di giungere a un consenso o di risolvere un problema, ma unicamente per il piacere della conversazione in sé: questo è un fenomeno della modernità. Nei caffè e nei salotti al tempo dell’Illuminismo avevano luogo queste discussioni, questo scambio di idee. Questo è il motivo per cui Kant, come ho scritto in un articolo24, invitava gente a pranzo. Egli aveva anche stilato un programma di discussione a seconda delle portate: alla prima si potevano discutere questioni politiche, alla seconda questioni teoretiche, al dessert problemi di vita quotidiana; infine, al caffè anche le donne avevano un ruolo rilevante, per la presenza di scherzi. È molto importante sottolineare che Kant non invitava mai persone appartenenti alla stessa professione, perché altrimenti si sarebbe discusso di lavoro, mentre al contrario egli intendeva raggiungere un livello comune di discussione: si discuteva di arte, di questioni di gusto, di mostre o libri, a prescindere dalla forma mentis degli ospiti, letterati, fisici, o matematici che fossero.
10Questo terzo tipo di cultura fu preponderante nel periodo citato, ed è stato molto importante sino ai giorni nostri. E nel tempo che chiamiamo postmoderno è addirittura più presente rispetto al passato, possiamo infatti discutere di ogni argomento non solo con le persone che invitiamo a pranzo, ma anche in differenti tipi di comunità e di territori. Tutto può essere oggetto di discussione. I vari argomenti non ricercano necessariamente un consenso finale; è possibile discutere dei giochi olimpici, di un film, di problemi astratti, di cosa è il bello o la giustizia, l’importante è che si sia persone differenti e che la discussione sia considerata come un fine in sé. Inoltre tale concetto di cultura, nella modernità, risulta essere transculturale: a Tokio, a Shanghai, a Lima, gli stessi temi sono contemporaneamente oggetto di discussione. Il concetto di cultura diventa quindi vieppiù ampio nella postmodernità, dato che più culture rientrano in tale concetto.
11Intendo ora riferirmi a questioni più specifiche: arte, religione, filosofia, etica, politica. Ognuna di esse può essere oggetto di discussione, e chi discute di tali questioni appartiene in certo modo alla cultura nella sua seconda accezione, dal momento che si tratta prevalentemente di persone colte che conoscono l’arte, la musica, benché non sussista più una differenza così netta tra élite culturale e non élite, al contrario del caso precedente.
L’arte nella concezione postmoderna
12Il problema dell’arte nel mondo postmoderno è nel contempo simile e differente rispetto al caso della scienza. Si è parlato di accumulazione della tecnologia e della conoscenza scientifica, e si è detto che l’accumulazione non vale per l’arte, perché gli oggetti d’arte – quadri, composizioni musicali – non possono essere inclusi nella risoluzione di un problema, come è il caso dell’accumulazione della conoscenza scientifica. Ma vi è uno sviluppo simile tra arte e scienza: in entrambi i casi i limiti sono sempre trascesi. In uno specifico periodo della modernità esiste un tipo di pittura, musica, letteratura che nel periodo successivo è superato, si produce qualcosa di differente, anche se sempre appartenente allo stesso genere – musica, letteratura, pittura. Nella modernità l’arte, come la scienza, è quindi caratterizzata dal conflitto tra vecchio e nuovo.
13Ora, connessa a tale questione, vi è la distinzione tra avere gusto e avere buon gusto. La questione del gusto era già presente nell’antica Grecia e a Roma, e si riferiva alla capacità di distinguere tra opere d’arte valide e meno valide – una statua bella e perfetta da una brutta e imperfetta. Ma il fatto di avere buono o cattivo gusto è connesso alla distinzione tra nuovo e vecchio: si deve avere un’idea di cosa è nuovo, e la persona di buon gusto è in grado di distinguere il nuovo dal vecchio. Il problema era già stato individuato da Kant che nella terza Critica distingue tra il creare qualcosa di completamente nuovo e il solo ripetere ciò che è già stato prodotto – in altri termini, lavorare nell’ambito di certe leggi o creare nuove leggi. L’artista crea nuove leggi, che successivamente saranno seguite da altri; egli è quindi apprezzato come genio, in quanto supera i limiti e crea da sé norme e regole.
14La modernità ha inventato il concetto di genio – o meglio di genio artistico, dal momento che non vi è genio filosofico per Kant, ma solo artistico, né vi è genio in scienza, ma solo in arte. Genio è colui che rompe i limiti e stabilisce nuove forme e nuovi generi, e stabilisce le variazioni di tale nuovo genere. Imitando il genio gli altri artisti non creano qualcosa di falso, ma producono arte all’interno di leggi che già sono date. In un certo senso la distinzione kuhniana tra scienze rivoluzionarie e scienze normali è simile: le scienze normali lavorano con leggi precedenti, mentre la rivoluzione scientifica crea nuovi paradigmi. In arte, però, come si è detto, non c’è accumulazione, si crea qualcosa di nuovo, il vecchio è lasciato alle spalle e considerato tradizionale. Solo persone non colte preferiscono il vecchio al nuovo, e per questo motivo hanno cattivo gusto – non che non abbiano gusto, dato che nell’ambito del vecchio sono in grado di distinguere opere belle da opere di scarso valore; ma hanno cattivo gusto perché non seguono i passi del genio, che va sempre oltre i limiti precedenti.
15Ciò accade per tutte le arti contemporanee, che hanno sempre creato qualcosa di nuovo – per questo si chiamano contemporanee. È interessante il confronto tra l’arte europea e la relazione del popolo cinese con la sua arte. Nel xviii secolo, il grande artista cinese Wang Hui era considerato tale perché dipingeva allo stesso esatto modo delle pitture cinesi del vi o vii secolo, ritenute il modello di ogni arte possibile, ed era un onore per lui se la gente confondeva i suoi quadri con quelli dipinti mille anni prima. Ora, una cosa simile accade anche oggi in Europa: più si crea il nuovo, più si apprezza il vecchio – Omero diventa il modello della letteratura; ma nel contempo, al contrario dell’arte cinese, si è consapevoli del fatto che il genere e gli stili del passato non possono più essere ripetuti (non è più possibile scrivere un poema epico). Omero è quindi il grande modello, e così Dante, Cervantes… ma tutti questi modelli non possono più essere ripetuti. Non possiamo scrivere come Goethe, dipingere come Rembrandt, scrivere novelle come Boccaccio. Questo è vero soprattutto in musica, ma con una differenza: gli antichi compositori furono scoperti molto più tardi rispetto agli antichi pittori o scrittori. I compositori del passato non erano conosciuti precedentemente; Monteverdi per esempio divenne importante solo nel xx secolo, le opere di Händel per molto tempo non vennero eseguite, in quanto non considerate opere di genio. Solo recentemente si torna a riascoltare Monteverdi, Händel e Lulli.
16La posizione storicistica è molto interessante. Una volta, visitando gli affreschi del bellissimo castello di Stoccolma dove vengono conferiti i premi Nobel, un signore del mio gruppo chiese quando fossero stati dipinti; si scoprì che erano del xix secolo. Immediatamente, il signore perse ogni interesse per il castello poiché lo considerò mera ripetizione di uno stile passato. Questo è un tipico approccio storicista, che ricerca e apprezza ciò che è nuovo in un certo tempo, ma considera senza valore, falso e non degno d’attenzione ciò che è rifatto secondo regole antiche. Questo tipo di atteggiamento giunge sino al xx secolo, con il periodo dello High Modernism. Lo High Modernism aveva i suoi guru, che sancivano cosa era di buon gusto, cosa poteva entrare in una mostra, cosa la gente di cultura doveva leggere. Una statua non poteva avere un centro, un romanzo non poteva avere storia e personaggi, ma solo belle frasi; non si potevano comporre melodie secondo la tonalità, ma unicamente in modo atonale. A parere di Adorno, l’accordo classico (o triade) risulta un’opera del diavolo, come appare per esempio nel Doktor Faustus, dal momento che non ha nulla che vedere con la concezione del gusto moderno della musica. Anche in architettura si sancì un cambiamento: i palazzi erano minimalisti, come espressione di un ideale altro rispetto al modello architettonico del passato. Inoltre, mentre prima non esistevano affatto musei di arte contemporanea, dal momento che tale arte era per definizione quella che non aveva i titoli per entrare in un museo (inteso come luogo di conservazione ed esposizione delle opere già accettate dalla comunità dei critici d’arte), si sostiene la creazione di molti musei di arte contemporanea, in cui è presente una moltitudine di stili e generi: la pittura, la scultura, la videoarte, quadri figurativi e non figurativi, pitture astratte e non astratte – il solo criterio vigente è che l’opera sia fatta bene. Questo comporta il fatto che la differenza tra buono e cattivo gusto svanisca. Ciò non significa che il gusto in quanto tale sparisca, perché è sempre possibile distinguere tra un’installazione sensata e una arbitraria, ma non è più possibile riferirsi a canoni comuni per definire la stessa installazione bella o brutta. Ovviamente il gusto, come ogni cosa, può svilupparsi. Questo lo si nota soprattutto in musica. I compositori contemporanei tornano infatti all’accordo classico. Pärt, Gubaidulina, Schnittke, Glass, anche se non compongono opere alla Monteverdi o alla Händel, non sono più compositori dodecafonici, e sanciscono quindi l’impossibilità di escludere l’accordo classico, la triade, dalla musica.
17Si situa a questo livello anche un cambiamento relativo alla differenza tra élite culturale e gente comune, anche se oggi tale differenza non è più così importante, specialmente per quanto riguarda le belle arti. Sempre più giovani infatti provano interesse per l’arte contemporanea e amano frequentarne i musei. Non è quindi più necessario appartenere all’élite culturale per apprezzare il nuovo e l’interessante. È bene sottolineare però, che l’interessante non è una categoria estetica. Non lo è, perché tutto può essere interessante senza possedere necessariamente un qualche valore estetico. Ma da ciò non deriva l’inverso, ossia che ciò che ha valore estetico non possa essere interessante. Questo non avviene per la musica, all’interno della quale sussiste una profonda distinzione tra arte e intrattenimento, al contrario delle belle arti: è sempre un’élite culturale ad ascoltare la musica classica contemporanea. Però è bene aggiungere che spesso i compositori contemporanei quali Ligeti, Glass e Gubaidulina producono musiche per film, e in tal modo l’orecchio della gente si familiarizza con le loro produzioni.
18È necessaria un’ulteriore osservazione sulla libertà nel mondo dell’arte postmoderna. Non esiste dittatura o imposizione di un determinato genere di stile, ogni persona può sviluppare nel modo migliore le proprie capacità. Ciò non costituisce garanzia per la produzione di capolavori; in molti casi, una persona, anche se lasciata libera di esprimersi, non produrrà mai opere di valore. In passato, le opere mediocri erano custodite nei depositi dei musei secondo un criterio di selezione artistica; oggi non vige questo tipo di selezione oggettiva, al contrario la selezione è soggettiva, anche se si sta evolvendo (per la musica si è già stabilito quali compositori resteranno e quali no).
19Due parole ancora sulla distinzione tra arte alta e bassa, tra cultura alta e di massa. Io non approvo questa distinzione. A mio avviso sussiste piuttosto la distinzione tra arte e intrattenimento, una distinzione non estetica, che si riferisce invece alla funzione sociale esplicata dalle due categorie. Le performance artistiche hanno una funzione differente rispetto all’intrattenimento. Esiste certo un’arte brutta, ma essa mantiene la sua funzione – e parimenti esiste un intrattenimento bello, e nuovamente la sua funzione rimane inalterata.
20Qual è quindi la funzione dell’arte? È quella di attribuire un senso al nostro mondo. Ecco perché si ama l’arte, ecco perché si ama Mann, si suona il violino: tutti questi tipi di arte elevano l’uomo al livello dell’oggettivazione donatrice di senso. In quest’accezione l’arte può collidere con la religione, ma non con la scienza, perché questa non è in grado di dare senso alla vita, né di fornire un orientamento rispetto alle categorie di bene e male. La religione fornisce tale orientamento morale, e l’arte può fornirlo. La funzione di attribuire senso sussiste ancora nella cosiddetta condizione postmoderna, ma con la differenza che nessuno dice cosa si deve apprezzare, non esiste più una tale norma di gusto. Ciò significa anche che non vi è più avant-garde. All’inizio della modernità, l’avant-garde era il nuovo, per definizione, mentre ora, nel postmoderno, non esiste più avant-garde, né retro-garde. Tale distinzione scompare con il mutamento della coscienza storica della modernità – o meglio, ne è una delle espressioni. Resta da dire che anche l’intrattenimento può avere la funzione ausiliaria di dare senso, e viceversa l’opera d’arte può avere la funzione ausiliaria di intrattenere. Anche in questo caso le due funzioni non si escludono a vicenda, pur restando distinte.
21La globalizzazione della cultura avviene su entrambi i livelli, tanto a livello di arte, quanto a livello di intrattenimento. Probabilmente la globalizzazione dell’arte cominciò nel momento in cui i pittori europei andarono a Tahiti (come Gauguin) o in Africa per studiare e ritrarre le culture locali, e infondere nuova vita nell’arte europea. Ma io ho in mente qualcosa di diverso: i musei di arte contemporanea sono ovunque nel mondo, a Lima, Singapore, Pechino, Sidney, e in tali musei sono conservate opere provenienti da tutto il mondo (vidi una volta a Stoccolma una mostra di arte contemporanea africana che avrebbe potuto benissimo trovarsi a New York). Altro esempio: ascoltiamo, nelle nostre sale da concerto, musiche di compositori cinesi, giapponesi, africani e nelle orchestre ci sono orchestrali provenienti da tutte le culture. Per quanto riguarda l’intrattenimento, per rendersi conto del fatto che anch’esso è diventato globale, è sufficiente dare un’occhiata ai programmi televisivi. La globalizzazione dell’arte può essere giudicata negativamente, ma a mio avviso essa contribuisce alla comunicazione tra le culture, perché include le tradizioni artistiche delle differenti culture, le incorpora e le amplifica, senza mescolarle e confonderle.
22Rispetto all’arte del passato, è interessante il fatto che non più solo i geni sono importanti. Basta guardare le mostre: artisti del xv, xvi, xvii secolo, mai considerati importanti, sono oggetto oggi di esposizioni monografiche. Si riscoprono artisti un tempo sconosciuti, oppure si ripropongono le opere di un artista famoso, per lungo tempo pressoché ignorate, come le opere di Händel, Lulli, Monteverdi, Rameau – che ora conosciamo non solo tramite il suo nipote nel celebre dialogo di Diderot. Di conseguenza il concetto di genio sta perdendo il proprio valore, assieme alla distinzione tra nuovo e vecchio. Non si attende più la venuta del nuovo genio, dal momento che non è più necessario che il limite venga costantemente superato; non è più vero che il nuovo sia meglio del vecchio.
23Un ulteriore aspetto da prendere in considerazione è la presentazione della tradizione: la tradizione è presentata in modo non tradizionale. Per lo High Modernism le due massime fondamentali erano evitare l’opera lirica, in quanto arte borghese, e distruggere i musei. Accadde precisamente il contrario. Oggi assistiamo a una moltiplicazione di musei, dedicati a ogni soggetto possibile (scienza, tecnica, arti locali, mestieri…), e parimenti l’opera è sempre più rappresentata. Ma tale rappresentazione è moderna: l’opera è considerata e rappresentata come un dramma contemporaneo, non a livello di costumi, ovviamente, ma attraverso una reinterpretazione della tradizione, tale per cui registi celebri come Peter Brook svolgono oggi il ruolo di interpreti del testo più di quanto non accada nei corsi di letteratura comparata.
24Infine – ultimo argomento – la distinzione tra generi artistici è sempre meno rigida. La fusione di generi cominciò molto prima dell’epoca in questione, per esempio con Wagner; ma ciò che caratterizza la contemporaneità è il fatto che tale fusione di generi è tipica, è la regola e non l’eccezione. Per esempio nell’architettura si assiste a una fusione con la scultura, tale per cui il palazzo deve raccontare una propria storia (come afferma Libeskind) – e viceversa la scultura dalle dimensioni enormi appare come un’architettura, un palazzo. In questo senso è possibile parlare di fusione di generi. Il nesso storicista tra nuovo e bello viene meno, tranne che nei musei di Belle Arti, i quali presentano la storia dell’arte dagli Egizi alla Grecia a Roma al Medioevo al Rinascimento sino alla modernità. Questo è a mio avviso l’ultimo posto in cui rimane valida la Grande Narrazione di Hegel, dal momento che ogni periodo artistico è presentato come il superamento di un determinato problema estetico del periodo precedente – per esempio il posto e l’importanza di Giotto sta nel superamento della rigidità delle pitture precedenti. In tali musei si conserva quindi il concetto che il nuovo è superiore. Incapsulato nello spazio dei musei di Belle Arti, rimane qualcosa delle Grandi Narrazioni.
Filosofia e Postmoderno
25Esiste una filosofia postmoderna? E se sì, cosa s’intende per prospettiva postmoderna in filosofia? Per quanto concerne la filosofia, accade qualcosa di molto simile a ciò che si è detto relativamente alle belle arti; la Grande Narrazione rimane presente nella filosofia, ma, come nell’arte, in un luogo specifico: nel primo corso di filosofia all’Università, nel corso di storia della filosofia dai presocratici ai giorni nostri. La Grande Narrazione è incapsulata nelle Università, e nel corso di storia della filosofia ogni filosofo è presentato come superamento dei problemi della filosofia che lo precede: Aristotele risolve i problemi di Platone, Tommaso di Aristotele, Descartes di Tommaso. Su questa linea, l’ideale è terminare con Hegel, il quale concepì la propria filosofia come sistema nel quale era presente la totalità della verità. Ma questo è solo il primo esame del corso di laurea in filosofia.
26Per quanto concerne la filosofia in sé, si ha un approccio diverso nei confronti della nostra tradizione. In primo luogo, si sa che la filosofia può solo essere verificata e non falsificata. Non possiamo parlare di un processo di progressivo perfezionamento della filosofia nella storia; questo è infatti il punto di vista della Grande Narrazione, la quale non ha più senso nel panorama della concezione postmoderna della storia. Non si pensa più in termini di accumulazione, piuttosto si scelgono alcuni filosofi del passato e li si considera come nostri contemporanei – come esprimenti problemi che noi stessi ci poniamo. Ovviamente, non è possibile negare il punto di vista storicistico secondo cui si deve concepire una certa filosofia come figlia di un certo background, come reazione alla situazione storica di appartenenza. Ma in ogni caso nell’approccio postmoderno i filosofi del passato sono assunti come contemporanei: si è più interessati a ciò che un certo filosofo afferma, piuttosto che alla condizione nella quale un filosofo scrisse. La filosofia è quindi assunta come oggettivazione donatrice di senso, al pari dell’arte.
27Certamente esistono differenti tipi di approccio alla filosofia. Esiste la filosofia analitica in voga nel mondo anglosassone, che si fonda sul principio del problem-solving (ci si pone un problema e si tenta di risolverlo, come in matematica – benché, a mio avviso, la filosofia non possa essere ridotta a problem-solving). Esiste inoltre una filosofia narrativa, che racconta storie. Anche la filosofia tradizionale poteva essere impostata in modo narrativo, o assumere una logica di problem-solving, o ancora essere fondata sull’argomentazione e la dimostrazione. Ma non si può affermare che la cifra della filosofia sia unicamente uno di questi aspetti: la filosofia non si riferisce neppure unicamente al pensiero, se consideriamo la pluralità dei modi di pensiero, alcuni profondamente differenti da quello filosofico.
28Si può quindi concludere, con Marx, che la filosofia si è limitata a interpretare il mondo. Ma dato che ogni filosofia è differente dalle altre, si può affermare che il referente – il mondo – è uguale per ogni filosofia, assunto però in modi differenti; le filosofie sono quindi tutte interpretazioni del mondo, ma interpretazioni individuali. Ogni filosofia è un corpo a sé – e ogni libro è un organo di tale corpo. Ciò che accomuna ogni interpretazione del mondo è anche l’appartenenza a un certo genere letterario. La filosofia è un genere letterario al pari del dramma e del romanzo, è uno speciale tipo di letteratura con le sue norme e regole di composizione – norme che possono essere modificate solo entro certi limiti, non possono essere completamente abbandonate o mutate, pena la violazione del genere letterario della filosofia.
29Il genere letterario filosofico in voga prima del periodo contemporaneo, almeno sino a Hegel incluso, era quello della costruzione di sistemi, tale per cui la filosofia metafisica coincideva con la filosofia. Certamente Montaigne e La Rochefoucauld non produssero alcun sistema, ma non erano figure filosofiche centrali, erano piuttosto pensatori che proponevano una sorta di saggezza – e non si ha bisogno della filosofia per essere saggi. Nel periodo cosiddetto postmoderno lo stile filosofico è costituito in particolare dal conflitto con i sistemi metafisici, con la distruzione o decostruzione della metafisica. Tale approccio filosofico cominciò prima della contemporaneità (alla luce della proposta di Foucault secondo cui ciò che era ai margini del dibattito giunge al centro in un periodo successivo). All’inizio del novecento, al giovane Lukács, che all’epoca scriveva articoli magnifici, Bloch disse che la filosofia coincideva con la metafisica, e che quindi, se voleva essere filosofo, egli doveva costruire un sistema.
30In che cosa consiste il sistema? La metafisica tradizionale è una sorta di edificio costruito dai vari filosofi; tali sistemi, alla luce della loro natura spaziale, erano privi di temporalità, e quindi erano assunti come eternamente validi, come descrizione vera e unica del mondo. Si poteva ovviamente riflettere sulla questione del tempo, ma tale questione rimaneva in secondo piano, ed era abbastanza rara in filosofia – per esempio, Agostino, per affrontare la questione del tempo, ricorse alla Bibbia, poiché a questo proposito non trovò spunti nelle filosofie di Platone e di Aristotele. Inoltre, gli edifici filosofici erano costruiti su solide basi, e avevano un andamento che coincideva con il fondamento del mondo: alla base erano situati tipi di conoscenza inadeguati (come la sensazione), quindi si procedeva spazialmente verso l’alto per arrivare a tipi di conoscenza più perfetti come la ragione. Dalla base e dalla sensibilità si saliva quindi la scala dell’essere e della conoscenza, per giungere a livelli ontologici e gnoseologici superiori. Ogni sistema cercava inoltre di porsi come superamento dei problemi del precedente: ogni filosofo aveva il proprio mondo e ogni mondo rifiutava il precedente. In ogni caso, tale rifiuto non intaccava la validità del sistema filosofico precedente, dal momento che non sussiste falsificazione in filosofia, ma solo verificazione. È possibile infatti pensare con Platone e Aristotele migliaia di anni dopo di loro, dal momento che la verità filosofica è di natura differente dalla verità scientifica – inoltre, essa si differenzia anche dalla verità religiosa, che non può neppure essere falsificata. Nel processo di verificazione di una certa filosofia può rientrare la falsificazione di una filosofia opposta a quella che s’intende verificare, ma tale falsificazione non annulla mai la validità della filosofia criticata – la filosofia è quindi aperta alla falsificazione, ma tale falsificazione non è mai completa e totale.
31Ho già citato quella che può essere considerata la massima fondatrice della modernità: “Tutti gli uomini sono nati liberi e dotati da Dio di coscienza in ugual misura”. Tale affermazione minò il sistema di una società gerarchizzata, fondata su una struttura a piramide, intesa come eternamente valida, alla cui cima era un unico uomo. Ora, dalla distruzione o decostruzione della struttura della società seguì la distruzione o decostruzione dell’edificio filosofico: se il mondo non era più strutturato gerarchicamente, parimenti la filosofia non lo era. Da allora si cominciò a parlare di storicità e di temporalità, nei termini della distruzione del vecchio mondo e della sua sostituzione con uno nuovo. Ecco perché alcuni critici affermarono che Hegel si situasse oltre la metafisica, o almeno tendesse a storicizzare la metafisica. In Hegel il corpo filosofico fu effettivamente storicizzato, pur nella conservazione della gerarchia tra alto e basso; lo Spirito assoluto è la forza motivazionale della storia, ma nel contempo esso è alienato nella natura, e lo sviluppo progressivo delle varie categorie nella storia coincide con il superamento di tale condizione di alienazione. Dopo Hegel, si procedette non solo alla distruzione del sistema hegeliano, ma con esso a quella della totalità della metafisica. Kierkegaard aveva quindi ragione ad associare Hegel con la filosofia. Dopo Hegel infatti non sussiste più un sistema filosofico, benché, a rigor di analisi, sia anche possibile rilevare, come Marx fece, la presenza di un conflitto interno a Hegel tra una metodologia oltre la metafisica – la dialettica – e il sistema metafisico in sé. Secondo altri, tra cui Castoriadis, lo stesso Capitale di Marx è un’opera di metafisica, dal momento che il tempo del lavoro è la sostanza da cui deriva ogni cosa. Nietzsche poi, il grande nemico di ogni metafisica tanto in religione quanto in filosofia, fu chiamato da Heidegger l’ultimo metafisico, per la presenza nella sua filosofia di una forza motivazionale universale, la volontà di potenza. E Derrida a sua volta affermò che Heidegger era l’ultimo metafisico. Non è quindi possibile escludere interamente la tradizione filosofica metafisica, né viceversa è possibile oramai proporre un sistema filosofico che non sia determinato in modo temporale. Foucault disse che la filosofia non è giunta alla sua fine nel tempo contemporaneo. Hegel quindi aveva torto – soltanto la metafisica era giunta alla propria fine.
32La sola cosa che la filosofia perse fu il proprio linguaggio. Nella tradizione filosofica si possono riscontrare alcuni termini fondamentali, alcune categorie sempre ricorrenti e costantemente reinterpretate: sostanza, accidente, soggetto, oggetto, attributi, affezioni, verità, opinioni, ragione, intelletto, giudizio. Questi sono (nella mia terminologia) i personaggi fondamentali di ogni filosofia; ogni filosofia aveva un personaggio fondamentale e principale, che poteva essere la ragione o l’idea. I vari filosofi operano con questi personaggi nel teatro cosmico, attribuendo loro un certo ruolo nell’interpretazione del mondo. Esiste un teatro cosmico, che è lo scenario delle metafisiche, occupato da attori quali la sostanza, la natura, tutti i vari tipi di categorie tradizionali. Si possono trasferire tali categorie in altri scenari (per esempio, come afferma Heidegger, il personaggio della verità dalla greca ajlhvqeia fu trasferito alla latina veritas). Questi personaggi sono presenti da sempre: a partire da Parmenide, sino all’ultima ora della metafisica, e oltre, l’essere e l’opinione svolgono un ruolo importante. Ma i ruoli di tali personaggi sono differenti, per esempio la causa sui è assunta da Spinoza come attore principale, posta sulla scena del teatro, attraverso un monologo; talvolta esistono più attori, altre volte uno solo; talvolta una sostanza, altre volte infinite. Il problema sorge nel momento in cui non si possono più usare gli attori, con la conseguente perdita da parte della filosofia del suo linguaggio. Anche Hegel sperimenta il fatto di sostituire attori con altri attori; nella Fenomenologia usa raramente le categorie tradizionali come attori principali, nuovi attori sono introdotti, tratti da racconti, dalla conoscenza quotidiana – ma nella Logica ritornano i personaggi tradizionali, perché la logica concerne il modo in cui si determina l’essere come Idea assoluta. Ora viviamo nel momento in cui i personaggi tradizionali devono essere sostituiti da personaggi non tradizionali. Non è un compito facile. Heidegger afferma che Nietzsche ritorna alle categorie tradizionali, anche se vuole inserirle in un nuovo gioco linguistico: parla di volontà di potenza come fosse un concetto nuovo, benché sia la volontà sia la potenza siano categorie tradizionali. E lo stesso vale per il concetto di ritorno del medesimo, di matrice eraclitea. Nietzsche, anche se intende utilizzare un nuovo linguaggio, riparla il linguaggio tradizionale.
Etero-interpretazione e auto-interpretazione
33Lo scopo della cosiddetta filosofia postmoderna è quindi quello di trovare un nuovo linguaggio, anche se i vecchi personaggi non vengono mai abbandonati del tutto, ma sono essenzialmente reinterpretati. Per utilizzare i termini di Heidegger, la filosofia postmoderna filosofeggia, ossia riflette sulle cose. La filosofia postmoderna riflette su tutto, e per ogni problematica costituisce una specifica filosofia – sull’arte la filosofia dell’arte, sulla politica la filosofia politica, sul linguaggio la filosofia del linguaggio, sulla mente la filosofia della conoscenza.
34A questo punto, è possibile proporre un’ulteriore specificazione dell’analisi mettendo in luce una duplice tendenza: l’etero-interpretazione e l’auto-interpretazione. La prima è propria della filosofia tradizionale, la seconda della filosofia postmoderna. Con etero-interpretazione s’intende l’interpretazione del mondo da parte della filosofia, con auto-interpretazione s’intende l’interpretazione della filosofia da parte della filosofia stessa. Ovviamente, anche la filosofia tradizionale interpretava la filosofia, ma solo per interpretare il mondo. Al contrario, la filosofia postmoderna interpreta la filosofia senza lo scopo di interpretare il mondo, senza etero-interpretazione. Certo la filosofia riflette anche su altri mezzi, su altri generi, al di là del genere della filosofia: sul romanzo, sulla musica, sulla religione. Si sviluppano quindi differenti forme di ermeneutica. Heidegger afferma che l’ermeneutica fa parte della condizione del Dasein: la condizione umana è interpretativa, ossia non è possibile appropriarsi del mondo senza l’interpretazione; ma tale ermeneutica non è necessariamente connessa con l’ermeneutica dell’interpretazione del testo. Ora, l’afflato interpretativo (etero-interpretativo) della filosofa contemporanea è un escamotage per usare il linguaggio tradizionale. Ma ancora oggi, e questo è un mio parere personale, i filosofi più significativi sono quelli che presentato un sistema in cui i differenti aspetti della loro filosofia sono connessi l’uno all’altro attraverso l’introduzione di nuovi attori sul teatro della filosofia. Tali filosofi sono per esempio Wittgenstein, Heidegger, Derrida, Foucault: le loro filosofie sono nuovamente interpretative del mondo, e tali filosofie etero-interpretative sono superiori alle altre.
35A tale distinzione tra etero- e auto- interpretazione si connette la distinzione, proposta da Kierkegaard, tra comunicazione diretta e indiretta della verità. Kierkegaard si riferiva alla religione, a suo avviso la verità religiosa non può essere comunicata direttamente. Possiamo estendere queste categorie anche alla filosofia: nella filosofia la comunicazione è indiretta, dato che non vi è comunicazione diretta della descrizione del mondo. Derrida è un grande utilizzatore della comunicazione indiretta attraverso il riferimento a nuove categorie a seconda del testo analizzato.
36In sintesi la filosofia postmetafisica, anche se presenta una descrizione o un’interpretazione del mondo, non possiede un edificio – dal momento che non propone una fondazione della filosofia. In altri termini, la filosofia moderna non ha una fondazione perché la modernità non ha fondazione. Ma può esserci un’autofondazione. Similmente a quanto affermato relativamente al buon cittadino e alla persona buona25, anche la filosofia ha una propria fondazione, o meglio tenta di autofondarsi. Gli autori citati prima, Wittgenstein, Heidegger (anche il secondo Heidegger) e Foucault cercano un’autofondazione della loro filosofia: tutto ciò che dicono è connesso alla stessa base – la base personale costituita dal filosofo stesso. Si possono avere anche due basi differenti, come accade tra il primo e il secondo Wittgenstein, o tra il primo e il secondo Heidegger, ma sussiste comunque una base, un fondamento, e tutto vi si riferisce. La filosofa moderna diviene quindi una filosofia personale.
37La modernità è caratterizzata dalla presenza di numerosi “ismi”, non solo in filosofia ma soprattutto in arte (impressionismo, espressionismo, dadaismo, costruttivismo…) dal momento che i singoli artisti appartengono e si riconoscono all’interno delle medesime tendenze, e si associano in “ismi”. Quando le scuole filosofiche erano protagoniste del dibattito filosofico, anche la filosofia era caratterizzata secondo “ismi”, ma questa non è più la situazione attuale, proprio perché non esistono più scuole filosofiche. D’altronde anche nel periodo tradizionale metafisico ci si rapportava piuttosto alle filosofie precedenti, vi era la filosofia kantiana, hegeliana, spinoziana, leibniziana ecc. Oggi non più. Per esempio alcuni allievi di Heidegger divennero celebri e significativi senza alcuna appartenenza a un’eventuale scuola heideggeriana. In effetti nessuno di loro (Arendt, Löwith, Jonas) restò heideggeriano. La cifra fondamentale nella filosofia contemporanea è infatti costituita dall’indipendenza: Heidegger parla la propria lingua, che deriva dal fondamento della sua filosofia, e tale lingua non può essere assunta da un altro autore, a rischio di apparire ridicoli.
38La filosofia diventa quindi personale, anzi, è tale solo la filosofia che solleva la domanda ontologica fondamentale e che si situa nella tradizione di interpretazione del mondo. Solo tale filosofia è personale, perché è proprio questa a necessitare di un’autofondazione personale. La filosofia che invece non intende fornire un’interpretazione del mondo (per esempio la filosofia politica) parla unicamente di un aspetto, e non fonda nulla, dal momento che l’aspetto che tratta (per esempio la politica) è il principio stesso di ogni fondazione. I filosofi politici non hanno linguaggi personali, la loro lingua può essere parlata e appresa e utilizzata da terzi.
39Ecco perché Rorty distinse tra filosofia pubblica e privata – anche se tale scelta terminologica non era adeguata. Egli sostenne di praticare una filosofia pubblica dal momento che la sua filosofia politica non cerca mai una descrizione privata del mondo, non offre un mondo in sé, né un’autofondazione, perché la democrazia liberale non necessita di una fondazione filosofica. Questo è certamente vero, la costituzione democratica non necessita di un fondamento filosofico. Ma può aver bisogno di una giustificazione filosofica; Rorty non tiene quindi conto della differenza tra fondazione e giustificazione. Inoltre, egli sbaglia nel ritenere la filosofia personale una filosofa privata: la filosofia personale è quella che prende il posto della vecchia filosofia contemplativa, che tenta di fornire una descrizione del mondo, e che può anche avere implicazioni pratiche e descrivere i limiti e le forme della filosofia pratica. Ma non necessita di una filosofia politica. Per esempio, due esponenti di questa filosofia personale, Derrida e Heidegger, erano abbastanza naïf in politica, non erano in grado di fornire profonde analisi politiche, perché quello non era il loro ambito di interesse – ma non per questo la loro filosofia (certamente personale) è privata. Neppure nella filosofia pubblica vi sono oramai “ismi”, eppure vi è un terreno terminologico collettivo (democrazia liberale, critica del totalitarismo…), una serie di categorie che tutti i filosofi politici utilizzano. Il linguaggio non è quindi perduto, ma neppure fondato da questo tipo di filosofia, tranne alcuni aspetti di esso. Intendo concludere con un aneddoto: ero con Foucault alla New York University negli anni ottanta, stavamo per lasciare una festa, quando uno studente gli chiese se fosse strutturalista o post-strutturalista. Egli rispose: «Io sono Michel Foucault». Questa era la sola risposta possibile: la sua filosofia è una filosofia personale.
Pluralità delle religioni nel postmoderno
40Intendo ora parlare del mutamento avvenuto nella religione nel cosiddetto periodo postmoderno. Si assiste a una pluralizzazione della religione; nelle nazioni occidentali appaiono infatti sempre più religioni nuove, che entrano in competizione con le religioni tradizionali al fine di convertire chi necessita della religione per la comprensione del mondo. Per esempio in Brasile, nazione storicamente cattolica, si moltiplicano le sette protestanti, in particolare pentecostali. Inoltre è da sottolineare la moda del buddhismo: sino a poco tempo fa, il buddhismo Zen era decisamente di moda, tutti imparavano lo yoga benché costituisse una pratica relativa a una religione orientale. Anche l’hinduismo si sviluppò; in Ungheria per esempio si assiste a una moltiplicazione e diffusione delle comunità che credono in Ari Krishna. E si può anche aggiungere lo sviluppo di Scientology.
41Ma al di là della commistione di religioni, occorre sottolineare un secondo fattore fondamentale: l’ecumenismo, ossia il dialogo tra religioni. Ovviamente ogni religione possiede una verità assoluta che non può essere oggetto di discussione, dato che non può esistere un dialogo sulla rivelazione – e parimenti il tentativo di affermare la superiorità della propria verità si situa oltre i limiti del discorso religioso, alla luce dell’incommensurabilità reciproca tra le varie rivelazioni. Non esiste però solo l’aspetto della rivelazione nella religione. Ci sono aspetti dati per scontati in ogni religione, ma che non appartengono alla rivelazione, si tratta di aggiunte storiche, che possono essere oggetto di discussione. Il dialogo tra religioni ha come oggetto tali componenti. Non si tratta quindi di una persuasione relativa alla presunta superiorità di una fede sull’altra, ma di una illuminazione, del tentativo di rendere comprensibili alcuni aspetti della propria religione a esponenti dell’altra. L’ecumenismo ricerca quindi un consenso tra le religioni, pur sapendo che il consenso totale non è possibile. Kant affermò che esistono più religioni, ma esiste una sola fede al di là delle diverse religioni, la fede nella ragione. Mendelssohn ribatté a Kant che l’elemento di bellezza tra le religioni è appunto la loro pluralità: non ci sarebbe posto per la tolleranza, e quindi per la ragione, se esistesse una sola religione. L’illuminazione significa quindi non ridurre l’altro a sé, ma rendere l’immagine dell’altro non demoniaca.
42Il film Mississippi Burning dà un ottimo esempio di un atteggiamento non ecumenico. I criminali accusati di aver ucciso tre attivisti per i diritti civili, un afroamericano e due ebrei, si difesero affermando che non volevano neri perché sono diversi, e non volevano ebrei perché hanno ucciso Gesù. E conclusero: “Siamo l’America bianca democratica protestante”. Quest’atteggiamento rende l’ecumenismo impossibile. Ecumenismo significa infatti comprendere l’altro come differente, ma non come malvagio, alieno, estraneo; significa capire ciò che l’altro dice. Questo tipo di atteggiamento si espanse negli ultimi venti, trent’anni, e il Concilio Vaticano Secondo fu uno degli eventi fondamentali in questo processo ecumenico.
Notes de bas de page
23 György Markus fu membro insieme a Heller della Scuola di Budapest. Nel 1977 si trasferì in Australia, e insegnò per anni all’University of Sidney, presso la quale è oggi professore emerito. Dal 1990 è membro dell’Accademia delle Scienze d’Ungheria. Sul tema della cultura, cfr. Idem, Antinomies of Culture, Budapest, Collegium Budapest, 1994.
24 A. Heller, Invitation to Luncheon by Kant, in contenuto in Eadem., A Philosophy of History in Fragments, Oxford, Blackwell 1993.
25 Cfr. cap. 3.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Volontà, destino, linguaggio
Filosofia e storia dell’Occidente
Emanuele Severino Ugo Perone (éd.)
2010
Estraneo, straniero, straordinario
Saggi di fenomenologia responsiva
Bernhard Waldenfels Ugo Perone (éd.)
2011