4. La condizione umana
p. 72-87
Texte intégral
A priori genetico e a priori sociale
1Intendo parlare della condizione umana, nel senso usato da Arendt19, che così traduce il Dasein heideggeriano. Ma qual è, nella mia analisi, il significato che attribuisco al termine condizione umana? Voglio parlare di condizione umana nel suo senso ontologico, partendo dal fatto che la condizione umana non è una metafora, ma è qualcosa che si sviluppa a partire da una contingenza e da un accidente.
2Se ogni persona è mortale, ciò significa che è gettata in questo mondo dall’accidente della sua nascita, ossia che nasce in una particolare famiglia, in un particolare luogo, ed è a partire da quest’accidente che realizza ciò che è e che si sviluppa il suo particolare modo di essere. Noi nasciamo in “questo” mondo con un a priori genetico, che è il nostro codice genetico in cui sono scritte le notizie che riguardano la nostra costituzione biologica; sono elementi che, pur non avendo carattere determinante, condizioneranno però la nostra vita. Accanto a questo a priori genetico vi è poi il carico determinato dalla nostra esperienza, esperienza che è anch’essa problematica, perché può non essere del tutto consapevole. Infine vi è il nostro a priori sociale, costituito dalla cultura, dalla famiglia, dal contesto che precede la nostra nascita: in questo senso il nostro a priori genetico deve entrare in sinergia con il nostro a priori sociale. Dalla combinazione di questi due a priori si sviluppano le vite diverse di una donna o di un uomo, di uno schiavo, di un lord o di un borghese. L’a priori sociale determina anche la nostra esperienza, perché determina i tipi di persone che incontriamo nella nostra vita. A priori genetico e a priori sociale determinano la nostra cultura e i confini entro cui possiamo sviluppare la nostra personalità e sviluppare le potenzialità e le capacità che appartengono al nostro codice genetico. Gli uomini nascono con la capacità di parlare, con la capacità di vivere in un contesto sociale, ma se è vero che queste capacità fanno parte del nostro codice genetico, devono però anche essere messe in pratica, altrimenti si atrofizzano. Pensiamo alla storia di Mowgli di Kipling: se non si vive in una società e non si pratica la capacità di parola o di lettura, queste non possono svilupparsi; secondo quanto sostengono gli studi di antropologia, se si resta per molto tempo isolati ed emarginati dalla società ci si precludono le possibilità d’apprendere la lingua umana. Per questo se l’a priori genetico non viene messo in pratica, non è possibile imparare a parlare, né a vivere in una comunità. Se sei uno straniero, parli con un altro linguaggio, pratichi altri costumi, altre consuetudini, che devono entrare in relazione con la nuova comunità in cui ti trovi a vivere: questo significa che l’a priori genetico deve entrare in relazione con l’a priori sociale. Solo così ogni bambino che nasce, cresce sentendosi a casa. Normalmente i bambini crescono e iniziano a sentirsi a casa nel momento in cui si rapportano con le norme e le regole dell’a priori sociale. Questo è il processo mediante il quale i due a priori entrano in relazione, relazione che non giungerà mai a una completa congiunzione, perché tra essi esisterà sempre uno iato, una tensione esistenziale, tensione che si manifesta ogni volta in cui l’individuo cresce e si trova a confrontarsi con la storicità sempre mutevole e sempre soggetta a mutamento che caratterizza la sua esistenza.
3Nelle società tradizionali del passato le potenzialità individuali erano già inscritte nel codice genetico, e in un certo senso il destino del singolo era già determinato, le potenzialità ristrette entro il contesto sociale in cui si nasceva. Le società moderne invece offrono diverse opportunità, che si aprono come un fascio di possibilità illimitate, perché non vengono posti limiti dalla società. In un certo senso le società tradizionali sono molto più sicure, perché il cammino è già tracciato e non ci sono cambiamenti, o avvengono lentissimamente. Nella modernità, invece, norme e regole mutano in continuazione e creano norme differenti fra di loro. Una delle caratteristiche della storia umana fino a oggi è il grado di diversa civilizzazione raggiunto dagli uomini. Il diverso livello di civiltà determina poi diverse possibilità di successo e vitalità delle società stesse. Conosciamo leggende di antichi e forti popoli, leggende di popoli meno forti ma con una maggiore spiritualità. Pensiamo ai giochi olimpici, in cui era determinante la forza dei corpi: qui sono stati determinanti gli a priori genetici? O meglio quale a priori genetico è determinante per lo sviluppo dell’a priori sociale?
L’oggettivazione zero
4La diversa vitalità e dinamicità delle società umane dipende dal luogo e dal tempo in cui si muovono ed entrano in sinergia i due a priori, da quel contesto che io definisco “l’oggettivazione zero” e che contiene le norme e le regole basilari che sopravvivono ai cambiamenti sociali. L’oggettivazione in se stessa comprende il linguaggio ordinario, le consuetudini, le norme e le regole del contesto in cui ognuno nasce. Ma il linguaggio a sua volta è formato da tre elementi: la lingua ordinaria, la lingua della comunicazione e della conoscenza elementare, la lingua mediante la quale si svolge il gioco linguistico in cui si pongono le domande e vi si risponde, quello insomma con cui si comunica immediatamente. Il secondo aspetto dell’oggettivazione è quello sociale delle norme e delle regole, quello in cui si esprime il costume sociale di un popolo: devi imparare come usare il cucchiaio, o altri oggetti, e ciò non è semplice, ma lo devi imparare e con ciò impari il costume sociale, ovvero impari cosa è possibile fare, cosa è obbligatorio e cosa invece è vietato. Il terzo aspetto dell’oggettivazione in sé è l’appropriazione simultanea dei tre aspetti tra di loro: impari a usare il cucchiaio per mangiare e con questo impari i costumi del popolo in cui nasci e ne apprendi le regole sociali. Ogni appropriazione di questa forma di oggettivazione delle norme e delle regole determinerà chiaramente le forme o gli stili di vita. Se si comprende il linguaggio ordinario usato nel mondo in cui l’accidente della nascita ci ha gettato, s’impara a manipolare gli oggetti attraverso cui si apprendono le forme di vita. Il termine “forme di vita” non è metaforico, poiché comprende sia l’aspetto materiale della vita sia quello valoriale, ovvero l’appropriazione dei valori. Wittgenstein diceva che “il gioco linguistico è una forma di vita”, perché ogni gioco linguistico include norme e regole, azioni elementari: i giochi linguistici sono la forma corporea delle forme di vita.
5Quest’“oggettivazione zero”, colta nei suoi tre aspetti, contiene le norme e le regole che determinano la regolazione etica. Nel momento in cui parliamo di regolazione etica, comprendiamo che non è semplice determinare immediatamente, in ogni circostanza, che cosa è giusto e cosa non lo è. Le norme, infatti, aprono il vasto territorio della loro applicazione, che richiede per esempio la frovnhsi” aristotelica, ovvero il giudizio morale. L’oggettivazione in sé stessa include, infatti, insieme alle consuetudini, alle norme e alle regole, le categorie primarie di orientamento rispetto al valore: il valore di bene e male, che sono i valori generali di orientamento. In ogni comunità vi è il bene e vi è il male, ma è grazie a queste categorie primarie che è possibile distinguere fra norme buone o cattive ed è possibile distinguere fra ciò che è possibile e ciò che non è possibile fare. In una comunità ogni oggetto può avere un uso consentito e uno no, per esempio possiamo usare il martello per fare dei lavori in casa, ma non lo possiamo utilizzare per tirarlo in testa a una persona. Nel linguaggio ordinario usiamo i termini bene e male confondendoli con i termini permesso e vietato, possibile e impossibile; in tal senso “bene” è “ciò che è permesso”, “ciò che è obbligatorio”, “male” “ciò che non è possibile”. Questo perché male e bene sono categorie generali di orientamento al valore, categorie che da un lato sono astratte, ma dall’altro anche molto concrete, nel senso che riguardano le persone concrete, le persone nella concretezza della loro esistenza. “Male” e “bene” sono categorie etiche che ci consentono di orientarci moralmente. Nelle società antiche se s’infrangevano le norme del bene, si era socialmente puniti, ovvero si veniva considerati peccatori, o impuri e a volte si veniva addirittura cacciati dalla comunità.
6Certo, accanto alle categorie di bene/male, esistono altre categorie di orientamento al valore: parlando di male e bene possiamo esprimerci anche con le espressioni bello/brutto, giusto/ingiusto. Comunemente però si dice che bene o male sono le categorie di orientamento primario rispetto al valore e che sono relative e dipendenti l’una dall’altra. Sono queste le categorie che consentono l’oggettivazione in sé, innervano ogni costume, ogni linguaggio ordinario e costituiscono le forme di vita, nel senso che legittimano ogni forma di vita. Infatti la legittimazione delle forme di vita dipende dallo “stadio zero dell’oggettivazione”, che normalmente è considerato il livello più alto. L’oggettivazione al livello più alto contiene sistemi di credenze e di valori, concezioni di vita, le Grandi Narrazioni, e inoltre tutte le norme e le regole che consentono di apprendere le forme di vita in esso esistenti.
7Il sistema dell’oggettivazione approva la legittimazione, l’oggettivazione di ogni forma di vita, poiché comprende, per nominarne solo alcuni, ogni “mito originario”, ogni mito fondativo che contiene le origini di ogni norma e regola, la giustificazione in forma narrativa di ogni sistema di vita e insieme presenta norme e valori da seguire o da rigettare. Nel mondo greco per esempio il mondo mitologico legittimava ogni forma di vita dei popoli che abitavano le città stato, ogni sistema di credenze, di virtù e di valori, insieme agli usi e costumi e al linguaggio ordinario, che tutti insieme costituivano il sistema di oggettivazione in se stesso. La conoscenza di una lingua comportava infatti l’apprendimento simultaneo dei sistemi di credenze, del sistema di oggettivazione in sé, così che non si poteva non conoscere ciò che era buono e ciò che era cattivo, ciò che era giusto e ciò che era ingiusto, seppur espresso in forma narrativa.
8In ogni sistema sociale ci sono istituzioni diverse, norme e regole che vanno conosciute e che mutano a seconda della famiglia e della società. Prendiamo l’esempio di chi, vissuto in un villaggio primitivo, per frequentare l’università va a vivere in una grande città, dove vigono norme e regole differenti rispetto a quelle del villaggio; deve dunque imparare a fare i conti con istituzioni diverse, con norme e regole proprie. Anche il linguaggio diviene più complesso, anzi un linguaggio diventa sempre più complesso nel momento in cui si procede dal linguaggio delle scuole elementari a quello delle scuole superiori.
Vergogna e coscienza
9Quando la società diventa più complessa, il problema riguarda soprattutto i problemi e i doveri morali, perché con l’evolversi della società stessa compaiono due diverse autorità morali. La prima è l’autorità morale generale. È un’autorità esterna. Quando le persone si assoggettano a una norma concreta del loro gruppo o della loro comunità senza selezionarla previamente o senza mettere in atto una riflessione di secondo grado, l’autorità morale è totalmente esterna. Il termine esterna non si riferisce a una mancanza di interiorizzazione, ma alla fonte del contenuto autoritativo delle norme. Poiché è la comunità nel suo insieme che specifica e rende applicabili le norme, l’individuo trae tutto il proprio contenuto normativo da fonti esterne, senza aggiungere o togliere alcunché a questo contenuto. Ciò significa che ogni persona parla a nome della comunità, ed è in tal modo che il giudizio morale prende forma nello sguardo, negli occhi degli altri. Questi occhi ti seguono in ogni tuo agire e in ogni tuo fare, si posano su di te e ti osservano. Se fai qualcosa che non dovresti fare, gli occhi degli altri ti fanno provare vergogna. Chi provoca il sentimento della vergogna? Chi ci guarda, o meglio i membri della comunità che ci osservano e immediatamente suscitano in noi, se ci sentiamo differenti, il sentimento della vergogna. Questo tipo di autorità morale è propria delle società primitive, in cui occorre obbedire alle stesse norme e regole della comunità di appartenenza. E del resto ogni membro si sente rassicurato dal fatto che ci si aspetta che ognuno segua le norme e le regole della società a cui appartiene. Non è un caso, infatti, che in queste società lo straniero sia messo da parte, perché non conosce le norme e le regole vigenti nella comunità, mentre chi trasgredisce è punito e a volte anche allontanato. Nella culture dominate dal “potere della vergogna”20 si è umiliati e puniti se si infrangono le regole della comunità. Quando si prova vergogna, si vuol fuggire via, sprofondare sotto terra, scomparire, pur di sfuggire a questo sguardo altrui che diventa la sola autorità morale: in effetti la vergogna è l’unico sentimento morale innato di cui possiamo parlare. In tali culture non vi è controllo delle coscienze, ma poiché si ha paura della vergogna, si fa la cosa giusta e ci si aspetta lo stesso dagli altri.
10Con il passare del tempo la società è diventata più complessa e l’autorità morale si è sviluppata e sdoppiata nell’autorità morale interna che è la coscienza. Questa non coincide più con lo sguardo esterno degli altri, ma è una voce interna. La coscienza in quanto voce interiore ci parla, mette in guardia, consiglia, ricompensa, punisce. Con i suoi ammonimenti e i suoi consigli la coscienza è un sentimento orientativo. La nostra coscienza ci parla e se non l’ascoltiamo proviamo un dolore assai più tormentoso di quello del corpo. D’altra parte se noi diamo retta alla coscienza proviamo gioia, soddisfazione, felicità. In Grecia troviamo la prima grande formulazione della coscienza nel δαίμων socratico, che non è più il potere della vergogna, ma una voce che spinge all’azione. Con l’apparizione della coscienza si sono affermate due autorità: quella esterna determinata dalla presenza degli altri e quella interna, che è la voce della coscienza. Ciò provoca un conflitto fra le due autorità, fra la coscienza e la vergogna. Prendiamo l’esempio di Romeo e Giulietta di Shakespeare. Giulietta sul balcone rifiuta la tradizione e dice: ma chi sono i Montecchi? Solo un nome. I Capuleti chi sono ? Solo un nome. Il nome non determina nulla nella mia vita. Non influenza la mia scelta amorosa. Ella rifiuta l’autorità del padre e della madre, la sua coscienza non ritiene valide le loro regole, vuole seguire i suoi desideri e le sue passioni, non i costumi usuali, le convenzioni sociali, le norme imposte dalla famiglia. È seguendo i consigli della coscienza, che rifiuta di obbedirvi.
11Vi è un aspetto problematico nel conflitto fra queste due autorità, perché non si può sapere se questa voce interna sia una voce buona o cattiva. Questo è il problema. La voce può essere anche quella del male, non necessariamente quella che ci ispira il bene. Come facciamo a sapere se la coscienza è assolutamente il bene? Come facciamo a sapere cos’è il bene in assoluto? Se escludiamo del tutto la voce degli altri e accettiamo solo quella interna, chi ci dice che la voce della ragione si identifichi con quella della ragione pratica? Questo conflitto fra la voce interna e quella esterna, dello sguardo altrui, ha attraversato tutto l’Illuminismo e l’età moderna. Anche Hegel ne ha parlato nella Fenomenologia dello Spirito. Ricordate l’inizio del capitolo della moralità? Il filosofo traccia una storia simbolica in cui compaiono il male, il perdono e la riconciliazione. Egli ci parla di una figura – l’anima bella – che rappresenta i valori della tradizione. A questa figura si oppone chi vuole negare questi valori, chi, come Napoleone, sovverte la tradizione. Ma che cosa accade? L’“anima bella” rigetta Napoleone e il male, e il male risponde così: “Io sono ciò che sono”. Il male non risponde: “Io ho ragione, tu hai torto”, ma invece “io sono ciò che sono”. Questa è la professione dell’etica della personalità, professione etica che l’altro rigetta, e che non accetta perché in realtà non accetta l’altro, considerandolo altro e diverso da sé. Ma quando ciascuna parte si rende conto che, da sola, ha una visione parziale dell’esistenza, allora e solo allora accetta l’altro come parte di sé; quando scopre che il male è difendere ipocritamente le proprie ragioni a danno degli altri, si rende conto che è possibile perdonare e riconciliarsi con l’altro che prima aveva osteggiato. L’atto del perdono è, infatti, la riconciliazione fra due spiriti, la dialettica conciliativa fra la coscienza individuale e la sfera dell’oggettivazione in se stessa. Poco fa ho parlato di due autorità. In Hegel queste due autorità, la coscienza che si rispecchia in se stessa e la coscienza che si limita al rispetto esterno delle norme universali, si riconciliano nel momento in cui l’una si riconosce parte dell’altra e nel momento in cui entrambe scoprono la loro realizzazione piena nel più ampio orizzonte etico-sociale. Ciò che è interessante in questo conflitto fra le due autorità, quella interna e quella esterna, è la spiegazione, una spiegazione che include l’etica, nel momento in cui mette in evidenza che le due autorità si riconciliano quando comprendono che il bene dell’una è seguire le norme dell’intera comunità.
12Ritorno ora alla discussione sulla distinzione tra differenti attitudini etiche, che ho definito particolaristiche e individualistiche21. Le possiamo descrivere come le diverse attitudini dell’individuo nei confronti del valore, che nascono dalle diverse relazioni con le oggettivazioni in se stesse e con le diverse sfere. Se la persona non pone una distanza fra le sue azioni e i valori, e non pone una distanza fra sé e il valore, s’identifica con le regole e le norme della comunità in cui vive. Questo avviene ogni volta in cui si accettano passivamente e ciecamente i divieti, le norme e le regole, al punto d’identificarsi totalmente con essi. Questo è tipico delle persone particolaristiche: se non si pone una distanza fra sé e le norme, si pensa di avere sempre ragione, di fare sempre le cose giuste. Così, chi è diverso da me, si trova nel torto, e chi mi critica sbaglia. Una personalità particolaristica può diventare fanatica e violenta, perché tende a osteggiare chi è diverso da sé e a vivere una vita superficiale e innervata di pregiudizi.
13Ma c’è un’altra attitudine, che è quella dell’individuo della personalità individuale: questa è propria di chi pone una distanza critica da sé stesso, prende una distanza critica dalle norme e regole che appartengono alla comunità in cui si trova a nascere. È questa l’operazione che tende a costituire la voce interna della coscienza, nel momento in cui critica e sottopone al vaglio della ragion pratica (autorità morale interna) ogni norma e regola che rappresenta l’autorità esterna. Ma la persona che prende distanza da se stessa, prende le distanze solo da alcuni aspetti, impara a fare una selezione fra le norme e le regole con cui si confronta, cercando ciò che ritiene giusto e negando invece ciò che ritiene ingiusto. Questa distanza critica non significa che intenda rigettare tutto e ogni cosa, ogni uso e costume, ogni valore. Sarebbe una persona ridicola, o misantropa, o antipatica. Rigetta invece ciò che non è eticamente accettabile, perché ferisce i sentimenti di altre persone, perché consente ingiustizie o costumi sanguinosi, e rifiuta ogni regola che colpisce la libertà degli altri e ne ferisce le aspettative. Solo se non si pone una distanza critica da sé, non si può porre una distanza da tutte quelle norme e regole che eticamente non sono accettabili. Quest’attenzione etica verso gli altri è propria della personalità individuale, è propria di chi vive un’esistenza autentica. Infatti la distinzione fra esistenze individualistiche e particolaristiche rimanda a quella fra personalità autentiche e inautentiche, per usare termini più moderni. La persona autentica pone una distanza fra sé e i valori e fa la scelta esistenziale per eccellenza, che è quella di scegliersi sotto la categoria universale della bontà. La distinzione fra personalità individualistica e particolaristica rigetta la definizione heideggeriana secondo cui non è possibile essere autentici nella vita di ogni giorno: invece nella vita di ogni giorno è possibile essere autentici se si rigettano tutte quelle forme di vita che non si considerano eticamente significative.
Destino e contingenza
14Torno ora al tema iniziale, alla casualità della nascita, in particolare con uno sguardo alla sua interpretazione nella modernità. Nel periodo precedente la modernità, la casualità della nascita non era concepita come tale, ma interpretata come destino personale, alla luce del quale non ci si domandava se si sarebbe potuto nascere diversamente: si nasceva in un certo modo e questo era il proprio destino.
15Nella modernità tale concezione è mutata, non si parla più di casualità della nascita, ma della sua contingenza. Non solo si è gettati nel mondo per caso – questo aspetto era infatti già presente nel periodo premoderno, anche se non riconosciuto come tale – ma si è consapevoli del fatto che si è gettati accidentalmente nel mondo: la contingenza è quindi la coscienza della casualità della nascita. Non esiste più un potere trascendente in grado di giustificare il caso – o meglio il fato – della nascita. Ci si chiede quindi perché sia così. Quest’aspetto non è naturalmente del tutto nuovo. Sono sempre esistiti racconti che narrano di un bambino di umili origini, in realtà figlio di esponenti di una classe sociale alta e ricca – magari regnanti di un paese lontano. Alla fine della favola si scopre la verità, e il bambino si ricongiunge ai suoi veri genitori e alla classe sociale di appartenenza. Le commedie, da quelle romane sino a Molière, si basavano su questa percezione della nascita – presente anche, per esempio, nella storia di Figaro. La percezione della contingenza è quindi sempre presente, benché marginalmente, all’interno dell’immaginazione umana. Anche Freud applica al caso di Mosè (un figlio di poveri ebrei alla corte del Faraone) la medesima struttura narrativa. Dal punto di vista di Freud tale struttura è presente in noi in modo inconscio; si può infatti avere la percezione di non appartenere al posto o alla classe o alla famiglia in cui si è nati: la patria, in senso metaforico, può essere sentita in un luogo diverso da quello di appartenenza – una sorta di percezione legata alla cacciata dall’Eden e alla ricerca del paradiso perduto. In ogni caso nella contemporaneità questa struttura narrativa non esiste più, a causa della comprensione della contingenza.
16Possiamo distinguere tra due tipi di contingenza, la contingenza cosmica e la contingenza sociale. La prima è legata al sentimento dell’ansia, ed è stata formulata in modo magistrale da Pascal: essa è unita alla percezione della possibilità di essere gettati nel mondo, della contingenza della vita. Se non si accetta una qualche giustificazione metafisica, si è persi nella nostra contingenza, si è lo zero in confronto all’infinito del mondo; si può essere altrimenti, non solo, si può anche non essere affatto – la nostra nascita non è affatto necessaria. Questo tema è legato alla scommessa sull’esistenza di Dio: scommettere sull’esistenza di Dio è il solo modo per vincere, per uscire dall’angoscia della non necessità e dell’arbitrio della nostra nascita. Per questo, scommettere sulla non esistenza di Dio equivale a perdere tutto.
17La contingenza sociale coincide con la percezione che la nostra lettera, la lettera metaforica con la quale nasciamo, risulta priva di indirizzo. La nostra famiglia, la nostra nazione, il nostro tempo storico, sono tutti elementi assolutamente accidentali; per questo la nostra lettera è priva d’indirizzo: non si è destinati a vivere nel mondo nel quale si è nati.
La vita dei sentimenti
18Intendo ora affrontare il problema dei sentimenti22. Noi tutti, in quanto esseri umani, siamo nati con certe capacità, in particolare con capacità cognitive, ossia logico-linguistiche. Tali capacità sono innate, poiché determinano la nostra appartenenza al genere umano. La filosofia presenta una distinzione tra le varie capacità cognitive, e stabilisce e propone una pluralità di facoltà, quali la ragione, l’intelletto, il pensiero volto alla risoluzione di problemi. Quello che intendo sottolineare è il nesso tra capacità cognitive e presenza dei sentimenti, e più precisamente l’importanza dei sentimenti nella vita umana e nell’uso della capacità cognitive.
19La filosofia ha sempre distinto tra razionalità e irrazionalità; è possibile pensare in modo razionale o irrazionale, ma nessuno dei due modi è indipendente dal mondo dei sentimenti. Nessuna cognizione è priva di sentimenti, poiché una mobilitazione dei sentimenti è sempre presente né, viceversa, i sentimenti sono privi di aspetto cognitivo. Noi tutti, in quanto esseri umani, abbiamo dei sentimenti innati. Nella concezione ilomorfista di Aristotele, o in Hume, o anche in Spinoza, tali sentimenti innati sono il materiale grezzo che riceve forma dal processo di acculturazione, e che giunge infine a determinarsi nelle emozioni. In ogni caso, vi è un grande disaccordo tra i filosofi relativamente a quali siano i sentimenti innati. Hume affermerebbe che i sentimenti innati sono dolore e piacere, altresì chiamati “forze motivazionali”. Altri filosofi sosterrebbero che a essere innati sono i desideri indeterminati. Presento quindi il mio punto di vista, che non vuole essere affatto esaustivo, ma solo un punto di vista a fianco di altri ugualmente plausibili.
20Esiste un processo di autoaddomesticamento nell’uomo. L’uomo ha perso determinati istinti, presenti negli animali e riferiti a pulsioni istintuali che forniscono informazioni su cosa piace e su cosa si debba fare per ottenere ciò che piace, o, in termini più precisi, per soddisfare i propri bisogni. Tali istinti, che regolano la soddisfazione, sono innati in ogni membro sano della specie animale. Gli uomini, al contrario degli animali, necessitano della società come luogo da cui trarre e ricevere modelli relativi alla determinazione dell’oggetto di soddisfazione, e alle modalità per ottenere tale oggetto. Tali modelli non sono quindi presenti in modo innato, ma sono ricavati dal sistema prescrittivo della società. Per esempio il leone non si chiede cosa possa soddisfare la sua fame: egli ha fame, vede l’agnello, lo uccide per sfamarsi – né è lecito rimproverare il leone di crudeltà, dato che si tratta di un istinto innato, e non di una questione morale. Gli uomini hanno invece bisogno di una regolazione sociale al fine di determinare il nesso tra un determinato desiderio e il modo di soddisfarlo. Esistono in ogni caso dei residui di istinti, e questi sono il desiderio sessuale, la fame e la sete. Non si tratta tanto di istinti, quanto di pulsioni, o meglio di residui istintuali (a tali pulsioni può essere aggiunta anche quella della curiosità). Non si tratta di istinti dal momento che il soddisfattore è determinato dall’ambito sociale – in modo esterno quindi, e non in modo innato dal soggetto. Per esempio nel desiderio sessuale non è predeterminato il referente, ossia il soggetto con cui soddisfarlo; si ha la pulsione della fame, ma non è determinato in modo innato cosa costituisca soddisfazione di quella pulsione. I soddisfattori sono quindi definiti dall’ambiente sociale: esiste un cibo che è lecito mangiare, esiste un cibo che è tabù, esiste un tipo di cibo lecito a seconda del ceto sociale di appartenenza. Il modo di soddisfazione del desiderio non è presente nell’istinto, ma regolato da norme sociali: bisogna faticare, pregare, lavorare, sudare per la soddisfazione del proprio desiderio.
21Vi è un ulteriore aspetto della regolazione dei desideri, ciò che gli antropologi chiamano il comportamento consumatorio. Per l’uomo, l’assenza di un legame innato tra desiderio e modalità di soddisfare il desiderio vale anche per i residui di comportamento consumatorio come la paura – non l’ansia – ossia la fuga di fronte a ciò che costituisce pericolo. L’istinto della paura può essere innato, ma non lo è l’oggetto della paura. Per l’uomo è necessario inserirsi all’interno di un processo di apprendimento relativamente all’oggetto della paura. La causa scatenante della paura non è quindi immutabile, ma varia in modo storico; se nell’epoca primitiva si aveva paura del leone e di fallire la mira cacciando, ora si ha paura del datore di lavoro o di non riuscire a superare un certo esame. È quindi la società, il sistema di oggettivazione esterno, a determinare la causa della paura. L’uomo deve allora imparare ciò di cui avere paura, e anche ciò di cui non aver paura. Ad esempio il bambino deve imparare ad avere paura del fuoco del fornello, e a non aver paura del buio della sua stanza di notte. Per il bambino non è necessario esperire la scottatura (in altri termini non è necessaria l’esperienza diretta del dolore) per capire cosa sia la paura, perché è sufficiente l’enunciazione della proibizione, ossia la parola della madre. Anche l’esperienza dell’ira è innata – una persona è addirittura più forte nel momento in cui è colta da uno scatto d’ira. Ma anche l’ira è determinata socialmente. Aristotele mostra chiaramente come, in una persona adirata nei confronti di un’altra, il sentimento di ira cessi a seguito della scoperta del fatto che il motivo di ira non sussiste più. Esiste quindi un aspetto cognitivo nella rabbia. Anche per l’erotismo, in quanto strettamente connesso alla pulsione sessuale, si tratta di una regolazione storico-sociale, è possibile rimarcare come l’ideale femminile erotico sia mutato radicalmente dai quadri di Rubens alle fotografie di Marilyn Monroe. Il disgusto è un’altra sensazione innata, connessa alla sensazione di vomito, al rigetto di un alimento velenoso. Ma anche in questo caso l’oggetto del disgusto è socialmente determinato: si prova disgusto nel mangiare cibi socialmente proibiti, o nel condividere momenti di sessualità con soggetti differenti dal proprio canone di bellezza.
22Esiste però un affetto che non deriva dalla componente animale presente in noi – sempre che ve ne sia una. Tale sentimento è la vergogna. Si tratta di un sentimento sociale, dal momento che è connesso all’infrazione di determinate norme. Certo, anche i cani possono assumere un atteggiamento simile a quello di vergogna: possono abbassare la testa e gli occhi, mostrarsi intimiditi. Questo comportamento deriva però dalla loro addomesticazione, dal fatto di essere vissuti per lungo tempo in società, così da appropriarsi di certi atteggiamenti di giudizio della società. I cani si vergognano infatti unicamente di fronte ai loro padroni umani, e non di fronte ad altri cani. La vergogna è quindi il sentimento umano fondamentale, il primo propriamente umano.
23Anche la gioia e la tristezza spontanee sono sentimenti innati. Darwin, durante i suoi viaggi, notò come in tutti i popoli vi fosse un’associazione tra la rappresentazione di una certa configurazione della bocca e il sentimento di gioia o di tristezza, tale per cui a una bocca tendente vero l’alto si associava un sentimento positivo, mentre una bocca verso il basso era sinonimo di tristezza. Tutti i sentimenti hanno quindi un’espressione corporea ben riconoscibile, in base alla quale è possibile associare un certo sentimento a una certa espressione corporea e facciale. L’ira ad esempio, se provata in modo intenso, può giungere a manifestarsi nel tremolio del corpo, così come la vergogna nel rossore. Tali sentimenti sono però, nell’uomo, trasformati in emozioni. Aristotele chiama πάθος l’emozione, e nella Politica illustra come essa sia strettamente costituita dalla partecipazione di cognizione e situazione. Per situazione s’intende il momento in cui si prova e si riflette sull’emozione stessa. Per esempio la paura del buio, del padre, dello straniero, sono tutti sentimenti che appartengono alla medesima famiglia – per utilizzare la terminologia di Wittgenstein – ossia alla paura; ma nel contempo esse sono forme di paura differenti: il medesimo sentimento è quindi trasformato in una pluralità di emozioni a seconda della situazione nella quale è provato. Aristotele approfondisce la divisione analitica tra le varie emozioni nella Retorica, alla luce dell’importanza che il riferimento alle emozioni assume per quanto concerne la persuasione e il convincimento nell’arte retorica.
24Sussiste quindi una grande differenza tra le emozioni a seconda della cognizione e della situazione che le determinano. Solo i poeti sono in grado di superare la povertà della lingua nella descrizione della differenza tra le varie emozioni appartenenti alla stessa “famiglia”. Solo il poeta è in grado di descrivere in modo puntuale la concretezza e la specificità di un’emozione. Goethe disse che gli uomini comuni non trovano parole per esprimere la loro sofferenza e la loro gioia, e che solo lui, il poeta, ha la capacità di esprimere appieno ciò che sente. L’uomo comune usa termini quotidiani per descrivere ciò che non può essere espresso pienamente in tali termini (pena la perdita dell’effettivo valore e particolarità dell’emozione) giungendo quindi a risultati mediocri e insoddisfacenti. Si assiste nei film alla banalità e alla noia del “Ti amo – Ti amo anch’io”. Solo il poeta ha la forza e il talento di esprimere la sensazione nel modo in cui la si prova. In quanti modi Proust parla dell’amore?
Le disposizioni emozionali e l’apprendimento delle emozioni.
25Intendo ora affrontare il problema delle disposizioni emozionali. Mutuo il termine “disposizione” dalla fisica. Disposizione è la capacità di un certo oggetto di rendere possibile in potenza un certo evento fisico (un foglio di carta può, se posto vicino a una fonte di calore, incendiarsi e provocare il fuoco). Le disposizioni emozionali rappresentano la condizione di determinazione di una certa emozione. Tali disposizioni hanno un’origine classica, tanto che tutti i filosofi si riferiscono a esse: sono amore e odio – a cui è possibile aggiungere l’amicizia. Non sono emozioni pure, dato che sono la causa di una pluralità di emozioni. Per esempio, se si ama una persona, si prova paura se l’incolumità della persona è a rischio, gioia nell’attesa della sua venuta, gelosia nel caso del sospetto che la persona ami un’altra persona. In sintesi, a seconda di ciò che l’oggetto d’amore compie o vive, si provano differenti sensazioni. L’amore è quindi una disposizione per altre emozioni a seconda della cognizione e della situazione nella quale si prova amore. La cognizione svolge un ruolo fondamentale: la gelosia è connessa al credere che la persona amata ami un’altra persona; se si scopre che ci si è sbagliati, la gelosia scompare automaticamente.
26Tali disposizioni presuppongono un qualche tipo di relazione con un altro soggetto, ma non necessariamente la reciprocità del sentimento. Per Spinoza l’amor Dei intellectualis non presuppone alcuna reciprocità, ossia alcuna risposta o reazione da parte di Dio, benché in altre tradizioni religiose l’amore verso Dio attenda anche un amore di Dio verso l’uomo. Lukács analizzò come nel Wilhelm Meister di Goethe vi sia una particolare concezione dell’amore, secondo cui l’amore interessa e riguarda unicamente la persona che ama, e non deve interessare affatto la persona amata, la quale non è toccata da alcuna reciprocità, né da alcun dovere di reciprocità. Solo nell’amicizia la reciprocità deve essere presente – e Aristotele sottolinea nell’Etica Nicomachea come tale reciprocità debba essere simmetrica.
27Vi sono quindi le passioni. Il termine “passione” traduce in Descartes il termine aristotelico di πάθος, con la conseguente associazione tra passioni ed emozioni. È possibile però rilevare una differenza tra passione ed emozione, in riferimento al nucleo di sofferenza che accompagna l’emozione. L’emozione è un movimento, come dice la parola stessa, dell’anima – benché io non condivida appieno questa definizione – mentre nella passione il soggetto è lo schiavo del proprio sentimento. Le passioni superano in intensità e potenza le altre emozioni, e per tale motivo vi è in loro un contenuto di sofferenza che si riferisce alla perdita dell’autonomia o dell’autocontrollo del soggetto, alla luce della forza passionale soverchiante. Ma le passioni hanno anche un contenuto positivo, riferito alla loro potenza creatrice: Hegel affermò infatti come nulla sia stato creato nel mondo senza il concorso di una grande passione.
28Le emozioni sono oggetto di apprendimento. Noi apprendiamo non solo a riconoscere e determinare l’oggetto di una sensazione specifica alla luce delle regole sociali, ma impariamo anche a riconoscere la presenza di un’emozione in noi o negli altri. Per quanto concerne l’amore, per esempio, è con il Rinascimento che si cominciò a parlare d’amore tra esseri umani in modo moderno. Ficino parlò nel suo libro sull’amore dell’innamoramento tra individui – specialmente verso ragazzi, quindi omoerotico – ma questo libro divenne importante soprattutto per le lettrici, che in esso appresero il concetto di amor platonico – assente in Platone. Comparvero in seguito i romanzi d’amore in cui si narravano gli innamoramenti tra giovani fanciulle e giovani ragazzi. E le giovani ragazze cominciarono a interrogarsi sull’effettiva presenza dell’amore in loro; in altri termini, si cominciò a ricercare l’identificazione del proprio sentimento con il concetto di quel determinato sentimento. L’apprendimento riferito alle emozioni si riferisce proprio a questa possibilità di identificazione tra emozione esperita e concetto di emozione.
29A questo tema è strettamente connesso quello dell’economia dei sentimenti, la specifica relazione con il proprio universo emotivo. Il romanzo di Jane Austen Ragione e Sentimento è una perfetta illustrazione di tale concetto. Le protagoniste del romanzo sono due sorelle, Elinor e Marianne. La prima rappresenta la ragione, ma ciò non significa che essa non provi alcun sentimento, al contrario: essa ha una peculiare economia del proprio mondo emotivo, strutturata sulla base di una preservazione del proprio animo da alcuni sentimenti particolarmente forti, attraverso il ricorso ad altri sentimenti. La seconda al contrario non intende controllare affatto la propria sfera emotiva, né nasconderla agli altri; crede che la sincerità significhi mostrare senza remore i propri sentimenti nella loro forza e intensità. Si tratta quindi di due persone differenti, la cui diversità è data dalla differenza nell’economia con il proprio mondo emotivo. Tale economia dipende sia dal grado di presenza dell’elemento cognitivo nella propria sfera emotiva, sia dalla specificità della persona che prova i sentimenti, dall’unità peculiare della sua sfera emotiva. Come ogni individuo è differente alla luce del proprio a priori genetico, così è differente per la natura e la qualità della propria sfera emotiva. Ogni individuo ha emozioni più o meno forti, più o meno preponderanti, e una tonalità generale della propria emotività: vi sono persone che non hanno quasi paura di nulla (come Siegfried, benché ciò non sia necessariamente una cosa positiva), ve ne sono altre tendenti alla malinconia (per cui è difficile e raro provare gioia), altre ancora alla gaiezza senza ragione, vi sono gli ottimisti, i pessimisti e così via. Queste differenze dipendono dall’economia della sfera emotiva, alla quale non è quindi connesso unicamente il controllo mentale di determinate emozioni, ma soprattutto l’unicità dell’equilibrio tra forze e debolezze che caratterizzano una specifica persona.
30Termino ritornando al nesso tra emozione e cognizione. Sinora ho parlato della presenza, nelle emozioni, dell’aspetto cognitivo come elemento caratterizzante la loro specificità, ossia la loro differenza rispetto ad altre emozioni della medesima famiglia. Intendo riprendere l’argomento dall’altro punto di vista: non esistono cognizioni senza la partecipazione di emozioni. Vi sono dei sentimenti che accompagnano l’individuo nell’ambito della cognizione: sono i sentimenti di orientamento. Come disse Bertrand Russell, non è possibile riferirsi a se stessi, trovare il proprio cammino in montagna, produrre un giudizio, senza la partecipazione di sentimenti che orientino le nostre scelte, il nostro modo di pensare, di giudicare. I sentimenti non accompagnano semplicemente le nostre esperienze cognitive, ma partecipano della loro stessa struttura: non è quindi possibile pensare senza la partecipazione dei sentimenti. Per questo motivo il caso dell’Asino di Buridano non può applicarsi all’uomo, non possono sussistere per l’uomo due opzioni perfettamente uguali, perché la scelta avviene anche alla luce della partecipazione dei sentimenti di orientamento. E ciò è vero anche nel caso del pensiero scientifico o matematico. Molti scienziati, tra cui Einstein, affermano che la stragrande maggioranza delle scoperte scientifiche avviene grazie alla partecipazione di una forte componente istintuale: lo scienziato procede in una certa direzione di ricerca alla luce di un certo sentimento positivo di orientamento. L’attribuzione di razionalità al processo di scoperta scientifica avviene a posteriori, alla luce della distinzione, proposta da Popper, tra scoperta scientifica e spiegazione scientifica.
31Accenno infine brevemente alla personalità morale: anch’essa è determinata dalla partecipazione di sentimenti di orientamento, che spingono il soggetto a compiere la cosa giusta. La persona buona non si arrovella continuamente su quale sia l’azione giusta da fare. Nella maggior parte delle situazioni non si dà neppure scelta tra più azioni, dato che la pratica dell’azione buona è quasi istintuale – ovviamente non nel senso di un istinto animale, ma nel senso di un sentimento che guida la determinazione pratica del soggetto. In sintesi, non solo cognizione e situazione sono elementi costitutivi del mondo emozionale (non nel senso di un controllo delle emozioni, dal momento che anche il controllo delle emozioni è un fattore emotivo: come Spinoza illustrò magistralmente, un’emozione può essere controllata o repressa solo grazie al concorso di un’emozione più forte), anche gli istinti che spingono a compiere la cosa giusta sono una sorta di emozione, e anche la ragione è costituita da sentimenti. Esiste un’economia delle emozioni e una gerarchia tra le emozioni, differente da persona a persona. Senza tali elementi, senza la ricchezza delle emozioni, e il loro nesso con l’esperienza cognitiva, non è possibile vivere una vita umana degna di questo nome.
Notes de bas de page
19 H.Arendt, The Human Condition, Chicago, The University of Chicago, 1958, trad. it. S. Finzi, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1964.
20 Cfr. A. Heller, The Power of Shame (a Rationalist Perspective), Londra, Routledge and Kegan, 1985; trad. it. V. Franco, Il potere della vergogna. Saggi sulla razionalità, Roma, Editori Riuniti, 1985.
21 Cfr. supra la lezione sull’etica (cap. 3), in cui viene discussa la distinzione fra persona autentica e inautentica.
22 Cfr. A. Heller, Theorie der Gefühle, Amburgo, VSA Verlag, 1979; trad. it. V. Franco, Teorie dei sentimenti, Roma, Editori Riuniti, 1980.
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