3. L’Etica nella modernità
p. 54-71
Texte intégral
1In questa lezione tratterò dell’elaborazione dell’etica nella modernità. In particolare, nella prima parte parlerò dell’uomo buono, dell’uomo retto, nella seconda del buon cittadino e infine del “male radicale”.
2Ho considerato la distinzione fra uomo buono e buon cittadino, che deriva da Aristotele, come l’ultimo pilastro rimastoci nella modernità, e in tal senso ne voglio parlare in continuità con la lezione precedente: se è vero che la modernità non ha alcun fondamento, nessun sistema morale, rimangono tuttavia questi due pilastri – l’uomo buono e il buon cittadino – come l’ultimo resto di un’epoca ormai in frantumi, nel senso che non contraddicono la mia idea di modernità. L’assunto di partenza è che né la filosofia morale né la politica possono essere inventate. I filosofi possono inventare i loro sistemi mettendo in scena le idee per poi farle circolare e incontrare con quelle degli altri; invece i sistemi politici e morali non si possono inventare completamente, poiché nascono come risposta a esigenze che derivano dai contesti socio-politici in cui i filosofi vivono e da cui vengono influenzati.
L’uomo buono
3Nel momento in cui affrontiamo il tema dell’etica, dobbiamo affrontare la distinzione fra etica formale ed etica sostanziale, fra un’etica che giudica la moralità di un’azione non prendendo in considerazione scopi o conseguenze, ma solo la conformità dell’azione alla legge o meglio la subordinazione della volontà alla legge universale, come avviene nella moralità kantiana, e un’etica in cui la legge morale non può essere separata dal particolare (le inclinazioni, gli scopi, le situazioni pratiche) perché è solo dalla loro sintesi che nascono i concreti doveri e le reali azioni morali, secondo la celebre critica di Hegel a Kant. Se pensiamo all’etica della vita quotidiana, essa è ciò che normalmente deriva dai nostri genitori, dai nostri professori o dai preti nella forma di raccomandazioni o comandamenti concreti, di divieti e di diritti, insomma di concrete interpretazioni della virtù, da cui s’imparano sistemi valoriali e politici. Cosi l’etica della vita quotidiana è un’etica sostanziale in quanto è formata da concrete raccomandazioni, da concreti comandamenti, nel senso che in essa l’agire morale non aleggia nel vuoto, non poggia solo nel vuoto formalismo, ma ricade all’interno dei concreti rapporti con la famiglia, con lo stato, con la società civile, per cui il pensiero, nel momento in cui si propone di riflettere sull’etica, non può non tenerla in considerazione. Contro l’etica formale, che attribuisce valore solo alla forma dell’agire morale, l’etica sostanziale rivendica il valore delle istituzioni reali e storiche (famiglia, corporazioni, classi, stato, costumi, tradizioni) come indispensabile sfondo e sostanza dell’agire morale. In questo senso, le principali dottrine etiche antiche sono più vicine alla tipologia dell’etica sostanziale che non a quelle dell’etica formale.
4La filosofia morale di Aristotele è usualmente considerata come un sistema che ingloba in sé aspetti formali e sostanziali. Essa costituisce la forma idealizzata della democrazia ateniese, tanto che l’uomo libero ateniese vi è presentato come un modello di virtù, virtù che Aristotele si attarda a descrivere per indicare come le persone buone si devono comportare, indicando così validi modelli di azione e di comportamento. E che le virtù di cui parla appartengano all’uomo libero ateniese, lo dimostra il fatto che le virtù che descrive non le ha inventate, poiché rappresentano la lista delle maggiori virtù del tempo e del luogo in cui vive. Aristotele procede così a definire cos’è il coraggio, la moderazione, la saggezza eccetera, ma il pubblico a cui si rivolge già le conosce, poiché sono le stesse virtù che fanno parte della lista delle virtù più importanti del cittadino libero greco. Aristotele però non si limita a descriverle, ma le interpreta, nel senso che descrive l’intero processo attraverso cui si diventa virtuosi e in questo modo nella sua descrizione mette insieme elementi formali ed elementi sostanziali. Per indicarci cos’è il coraggio, Aristotele descrive il coraggio come il non aver paura in una determinata situazione, senza che ciò significhi essere coraggiosi fino all’estremo o fino all’incoscienza. Questa spiegazione diventa l’aspetto formale di ciò che la virtù del coraggio rappresenta in ogni tempo e in ogni luogo. Così il singolo individuo sa cos’è il coraggio o la saggezza o la moderazione o la phronesis e sapendolo riesce anche ad applicare la singola virtù alle diverse situazioni della sua esistenza. La virtù è, infatti, l’applicazione di norme sostantive. Questo è tipico dell’etica delle virtù, dell’antica etica delle virtù greche, che distingue fra due tipi di norme: astratte e concrete.
5Le norme astratte sono quelle che dicono di essere coraggiosi, virtuosi, ma non dicono cosa si debba fare per diventare virtuosi in particolari situazioni; quelle concrete non sono norme universali né astratte, ma riguardano l’applicazione concreta delle norme nelle situazioni concrete dell’individuo: sono le regole. L’individuo non ha la possibilità di interpretare le regole, che sono le norme concrete, le deve solo seguire. E così è anche nel mondo odierno, dove si dànno norme e regole che non possono essere infrante (come nel gioco del pallone: se ti dànno un calcio di rigore non lo puoi interpretare, lo devi eseguire. Solo dopo la fine della partita puoi interpretare la regola e, nel caso, contestare, non prima). Anche nella Bibbia possiamo trovare una differenza fra norme astratte e norme concrete. Il comandamento “onora tuo padre e tua madre”, è un comandamento che dà una regola imperativa, ma che non dice nulla di concreto, non si dice infatti che cosa occorra fare esattamente per onorare il padre e la madre in un determinato contesto. Rimane un comandamento aperto. Invece il comandamento “non dire falsa testimonianza” è molto concreto, perché proibisce uno specifico comportamento, ad esempio testimoniare il falso contro il vicino. Tuttavia esso non dice che cosa si dovrebbe fare in senso positivo, e questo lascia aperta ogni possibile interpretazione (se è vero che non si può dire falsa testimonianza, non si vieta però di testimoniare a favore del vicino). Nel campo dei divieti e dei comandamenti occorre saper distinguere fra norme astratte o concrete, perché in base a questa differenza si può capire se è possibile o meno aprire il campo delle interpretazioni.
6MacIntyre ha scritto un libro molto importante, Dopo la virtù12, in cui afferma che dopo l’età delle virtù la grande elaborazione dell’etica è andata perduta, e nella modernità si sono persi i valori. Se si valutano le virtù si scopre che una virtù considerata sacrosanta nell’età antica, non è più tale nella modernità. Se è vero che il coraggio è una virtù morale, nel mondo odierno è declinata in modo differente; così è per la moderazione, considerata una virtù molto importante nel mondo antico, che nell’odierna società insoddisfatta ha differenti interpretazioni, e lo stesso discorso vale per la saggezza o per la frovnhsi” (“nobiltà di sentimenti” che oggigiorno peraltro andrebbe riscoperta). Un cambiamento epocale in campo morale è stato attuato dalla filosofia kantiana, che ha preso il posto dell’etica delle virtù: per MacIntyre l’etica formale è un’etica che non poteva non affermarsi nella modernità, perché era l’unica etica possibile dopo che gli uomini e le donne dell’Illuminismo avevano distrutto la tradizione delle virtù e l’etica delle virtù morali. Come antidoto a questa crisi dei valori e ai suoi esiti più disastrosi, MacIntyre propone un recupero della filosofia pratica di Aristotele. Queste sue considerazioni dovrebbero farci riflettere sul fatto che nel corso del tempo sono avvenuti importanti mutamenti strutturali della morale rispetto ai quali un filosofo morale non può non interrogarsi.
7Quando si fanno affermazioni di questo tipo: “non è questo il vero coraggio, ma quello”, “non è questa la vera felicità, ma quella”, “non è questo il bene dello stato, ma quello”, esse dovrebbero essere lette come se dicessero: “non è questo che è vero e buono, ma è quello che è vero e buono”. In tempi di grande mutamento, nuovi valori e nuove virtù attentano agli antichi valori e alle antiche virtù e un nuovo valore può rapidamente sostituirne uno vecchio. Spinoza soleva dire che l’umiltà, che pure era considerata virtù in età medievale, non è più tale, e lo stesso vale per la speranza e la paura, considerate nell’età cristiana in maniera diversa rispetto alle epoche precedenti. Si potrebbero portare molti altri esempi a conferma del fatto che non si può mai avere un consenso unanime sui diversi tipi di virtù, nei diversi tipi di etica, perché ciò che è vero in un tempo, non lo è in un altro. E ciò è particolarmente visibile nel passaggio fra civiltà antiche e civiltà moderne. Quando consideriamo gli Indiani in America, o gli Indiani in India, o i Cinesi in Cina, troviamo un sistema di norme e valori differenti rispetto a quello di altre comunità umane, per cui ciò che è considerato virtù da alcuni popoli, non lo è per altri. Ogni forma di etica è legata allo spazio e alla cultura di un determinato luogo, i divieti e i comandamenti dipendono dalla cultura e come tali sono circoscritti, non possono essere universali né possono avere una validità universale. Eppure questo non significa che il filosofo morale non abbia bisogno di una formula universale, di una formula che vada bene per ogni essere umano, libero o no, nobile o ignobile, donna o uomo, insomma per tutti gli esseri umani, ossia di una formula che sia universale, a dispetto delle diverse interpretazioni della virtù che dipendono dal luogo e dalla cultura in cui si è nati.
8Per meglio farvi comprendere quello che voglio dire, vi voglio citare un romanzo, che molti di voi conoscono, Clarissa (1748) di Richardson. La protagonista è una donna che si innamora di un uomo, Lovejoy, che in realtà è un mascalzone che la rapisce, minaccia di violentarla, infine la droga e abusa di lei. Egli vuole sposarla per approfittare della sua ricchezza, ma Clarissa rifiuta, perché non vuole sposarsi con l’uomo che l’ha violentata solo per riparare un danno. Rifiuta la prassi del matrimonio riparatore, perché se, sposandosi, la confermasse, la farebbe diventare una norma consolidata: quella secondo cui una giovane donna violentata si deve sposare con il malvivente che ha approfittato di lei, per riparare al danno che le è stato fatto. Questo a ben pensarci è un imperativo categorico. Il rifiuto di sposarsi costituisce per la ragazza un imperativo morale, un comandamento assoluto, da cui non può prescindere a costo della sua stessa vita, come di fatto nel romanzo avviene. Questo è un imperativo valido per ogni donna di ogni tempo e di ogni luogo: in tal senso è universale. Richardson inventa una formula che sarà molto importante per ogni filosofo morale. Esistono delle persone buone, delle persone che per un principio morale sono disposte al sacrificio della loro stessa vita. E le persone buone esistono non solo nei romanzi, ma nella vita di ogni giorno: chi di noi non ha mai incontrato una persona buona? Una persona che antepone una scelta morale alla sua stessa vita? Questo deve diventare un punto di partenza per ogni filosofo morale. In ogni persona c’è un’intenzionalità verso il bene, che, se ben seguita, può diventare la luce che illumina un’intera esistenza. Se dunque vi è un punto di partenza empirico, visto che la persona buona esiste, la domanda che il filosofo morale deve porsi è la seguente: se la persona buona esiste, come è possibile diventare una persona buona? Questa è una domanda trascendentale che nasce da un’osservazione empirica. Il solo fatto di porsi tale domanda diventa condizione preliminare per diventare una persona buona. In tal senso la moralità non ha niente che fare con le emozioni, con i buoni sentimenti di carità o di amabilità, poiché essere più o meno amabili è un fatto che deriva dalla personalità, mentre la moralità dev’essere universale e deve valere per tutti gli esseri umani: questa è la formula dell’imperativo categorico, che distingue fra piano trascendentale ed empirico e dà la priorità al primo.
9Perché è così importante l’imperativo categorico nella formulazione datane da Kant? Perché se pensiamo all’imperativo categorico, pensiamo che tale formula funziona come un criterio d’azione assoluto: mediante questa formula possiamo esaminare e valutare ogni massima per l’azione e ogni dovere. Ogni persona esposta a conflitti morali non può trovare la via della bontà senza usare come sostegno un criterio universale. Per Kant l’imperativo categorico o i suoi equivalenti sono la legge morale; in tal senso l’imperativo categorico ispira soggezione, perché è al di sopra di tutti gli individui dominati da passioni e da interessi. È una legge in duplice senso: è obbligatoria e incondizionatamente vincolante come le leggi giuridiche, e ci determina come le leggi di natura. Nel formulare l’imperativo categorico Kant ha fornito uno strumento alla persona buona, perché ha elaborato quel sostegno morale di cui ha bisogno. Abbiamo bisogno di un sostegno tutte le volte che le norme e le regole della vita quotidiana non dànno una risposta alla domanda: “qual è la cosa giusta da fare per me?”. Tutte le persone che hanno scelto se stesse come esseri buoni sono disposte a fare uso della formula kantiana. Kant ha, dunque, inventato un comando che non è soggetto ad alcuna interpretazione e con questo abbiamo avuto la prima formulazione tipica dell’etica formale, che in realtà è, secondo me, la migliore etica dell’età moderna, anche se da questa formula viene escluso tutto ciò che ha che fare con la ragione impura, con il sentimento. Programma kantiano è, infatti, quello di raggiungere il centro del cerchio, che è la legge universale dentro di noi, l’imperativo categorico che ci comanda ad agire. Insomma a partire dal filosofo tedesco ha avuto inizio la fondazione moderna dell’etica, un’etica non più eteronoma, ma autonoma, perché scopre che in ogni singolo individuo si trova l’imperativo categorico.
10Eppure è un’etica che finisce per dividere l’umanità in due parti, l’uomo fenomenico e quello noumenico, perché non risolve il problema del rapporto fra universale e particolare. Per questo in età postmetafisica questo tipo di etica è diventato inaccettabile e ha subito numerose critiche, come quella di MacIntyre di cui abbiamo parlato.
Kierkegaard: scegliere se stessi come forma moderna di esistenza
11In questa sede non voglio fare una discussione sulle elaborazioni successive dell’etica, ma portare l’attenzione sulla filosofia post-hegeliana e in particolare sulla filosofia morale di Kierkegaard. Io trovo nella sua filosofia dei tratti interessanti per la mia elaborazione dell’etica, anche se fra la mia formulazione e quella kierkegardiana rimangono distanze insuperabili. In Aut-aut Kierkegaard si occupa dei tre stadi dell’esistenza; la prima parte è incentrata sulla vita estetica, sulle attitudini dell’esteta, la seconda invece si occupa dello stadio etico e accenna allo stadio religioso. Il tema che m’interessa particolarmente è quello del rapporto fra il singolo e l’universale: nello stadio etico il singolo e l’universale sono uniti, specialmente nell’etica della vita di ogni giorno in cui il singolo si innalza a norme universali. Se nasce un conflitto tragico, come è particolarmente evidente nelle tragedie di Shakespeare, questo viene sanato dal fatto che il singolo si innalza all’universale, seguendo un proposito, un ideale di vita (come avviene nel sacrificio di Ifigenia, in cui il singolo è sacrificato in nome della superiorità di un progetto più grande e universale). Nello stadio religioso il rapporto che s’instaura fra il singolo e l’universale è molto diverso, poiché solo il singolo può avere una relazione privilegiata con il trascendente, con Dio, come ci illustra il sacrificio di Isacco e la storia di Abramo. Solo nel piano religioso vi è la sospensione teleologica dell’etica (Abramo accetta infatti di sacrificare il figlio per obbedire a un comando divino), in nome di quella relazione privilegiata (la chiamata) che il singolo può avere con l’Assoluto. Non voglio ulteriormente sviscerare questa distinzione, ma voglio sottolineare che in Aut-aut lo stadio etico è molto importante perché si riferisce alla vita di ogni giorno e, infatti, non si rivolge a nessun eroe ma all’uomo comune. Questo significa che anche nella vita di ogni giorno è possibile un’esistenza autentica, a differenza di quanto ritiene Heidegger, per il quale il Dasein caduto nella semplice quotidianità è sempre alienato e in quanto tale inautentico.
12Ma ciò che ci interessa particolarmente in questo testo di Kierkegaard è il punto in cui si occupa della fine dello stadio estetico. Nello stadio estetico l’uomo non si confronta con un aut-aut, con una scelta opposta a un’altra, e ciò determina la sua inautenticità, poiché non scegliendo mai non si costruisce come persona. Questo significa che nello stadio estetico l’uomo non si confronta con l’etica, con i principi e i valori morali, non si confronta con considerazioni religiose, ma vive solo nella contingenza e così la sua personalità non si può costruire né sviluppare: egli si sofferma a vivere nell’istante, a vivere momento per momento. Ma il momento è sempre effimero e chi ha scelto di non scegliere in realtà non s’impegna in un programma di vita, diventa “uno, nessuno e centomila”. Ma chi rinuncia a costruirsi un’identità, una personalità definita, alla fine avverte il vuoto e il senso di fallimento della sua esistenza e cade nella disperazione. Lo stato estetico è infatti lo stadio della disperazione, che però è anche la condizione che permette di scegliere la vita etica, di aprirsi all’etica e anche alla vita religiosa. Ma oggi non voglio parlare della vita religiosa, bensì dell’etica e di come la disperazione sia la condizione per aprirsi alla vita etica. Nello stadio etico l’uomo, per superare la disperazione dello stadio estetico, accetta di vivere conformemente a ideali morali, assumendosi delle responsabilità. Scegliendo ogni giorno fra ciò che è bene e ciò che non lo è, accetta i compiti seri della famiglia, del lavoro, dell’impegno nella società e affronta serenamente i sacrifici necessari per restare fedele a tali compiti. Nel passaggio dallo stadio estetico a quello etico si può diventare una persona diversa, ma ciò è possibile solo se avviene quello che Kierkegaard definisce la “scelta esistenziale”. Nella scelta esistenziale si sceglie se stessi come una persona in grado di distinguere fra bene e male, ma scegliendo se stessi come una persona che sa distinguere fra bene e male, si sceglie se stessi come una persona che sceglie il bene. Questo è il ritratto della persona buona, di una persona che sceglie se stessa come una persona che sa distinguere il bene dal male. Scegliere se stesso non è come scegliere il bene, poiché la capacità di distinguere fra bene e male è prioritaria rispetto a ogni scelta morale. Ma come possiamo scegliere noi stessi come persone che sanno distinguere fra bene e male? Come possiamo costruire la nostra personalità etica, tenuto conto che siamo tutti diversi? Lo scegliere se stessi non può, infatti, prescindere dalla complessità e dalle infermità che ci determinano: io scelgo me stesso con tutte le mie determinazioni e infermità.
13Attraverso la scelta esistenziale viene a cadere la separazione kantiana tra uomo noumenico e uomo fenomenico, fra singolare e universale. Se scegli te stesso come persona che sa distinguere fra bene e male, ti scegli come un individuo particolare, con tutte le sue complessità, ma se ti scegli come una persona buona assurgi all’universale. Universale e particolare sono uniti nella scelta esistenziale, perché in essa si sceglie l’intera esistenza: scegli te stesso come colui che sa distinguere fra bene e male, scelta che determinerà il corso della vita. Dopo Kierkegaard, il tema della scelta esistenziale è stato trattato in molte opere e romanzi, ma anche da altri filosofi come Nietzsche o Sartre. L’etica della personalità, infatti, è propria dell’età moderna ed è diventata uno dei pilastri su cui si costruisce l’etica moderna o, meglio, uno dei pilastri su cui si autocostruisce la modernità. Se osserviamo gli uomini che vivono nella vita quotidiana, possiamo vedere differenti tipi di scelte esistenziali: si può scegliere se stessi decidendo di diventare un pittore, uno scrittore, un filosofo. Le società premoderne non fornivano le condizioni per una scelta di questo genere né la rendevano necessaria, poiché una condotta di vita predeterminata veniva assegnata al momento della nascita, così che non potevano scegliere se stesse. Ciò che veniva loro assegnato dalla nascita poteva essere solo accettato con maggiore o minore entusiasmo, ma non poteva essere scelto: si può scegliere qualcosa solo se si può anche non scegliere la stessa cosa. Questa è una delle tante ragioni per cui il tevlo nella società premoderna non poteva essere articolato nei due aspetti dell’individuum, la differenza e l’universale; la posizione sociale e l’attività attribuita alla persona per nascita implicavano le norme e le virtù morali secondo le quali doveva vivere. È solo dentro la moderna forma di esistenza che la scelta del sé entro la categoria della differenza e dell’universalità possono essere separate, nel senso che si può compiere una scelta esistenziale entro la categoria della differenza, senza compiere una scelta esistenziale entro la categoria dell’universale e viceversa. Ogni volta che si compie una scelta esistenziale che coinvolge l’intera esistenza, si compie una scelta che cade sotto la categoria del particolare. La maggior parte delle persone sceglie se stessa sotto la categoria del particolare, nel senso che sceglie il tipo di vita che gli è più congeniale, e può diventare un avvocato, un buon padre ecc. “Diventa ciò che sei”, significa che ognuno si sceglie sotto la categoria della differenza e del particolare in base a quella che è la conoscenza di sé e delle sue capacità. Ma scegliere in base alla categoria della differenza non significa scegliere in base alla categoria dell’universale. Scegliere se stessi come una persona buona è diverso che scegliersi come pittore, come avvocato eccetera. Scegliere se stessi come persone buone è scegliersi sotto la categoria dell’universale, scelta non semplice e che non tutti sono disposti a fare.
14Chi ha scelto se stesso eticamente è colui che s’impegna nei confronti di cause, popoli, istituzioni, famiglie, amici, ma secondo una modalità che non coincide semplicemente con lo scegliere l’essere se stessi e le proprie potenzialità, poiché si tratta di una scelta che implica un’apertura nei confronti di altri, dei più cari e più amati, nei confronti dei quali si nutre un forte senso di responsabilità. Una responsabilità, aggiungo, che si muove soprattutto in direzione della sofferenza altrui, quando la tensione di alleviarla diventa il movente del proprio agire morale. C’è un dramma di Show che parla di un pittore molto amato, che alla fine della vita pensa di aver sì rappresentato la bellezza immortale, ma di non aver mai posto nelle sue matite, nei disegni, nei suoi colori alcuna sofferenza per l’ingiustizia: lasciando agire solo il suo opportunismo, si era, infatti, piegato ai desideri del regime totalitario in cui viveva. Non vi è stata, quindi, nessuna scelta etica nella sua scelta esistenziale, scegliendosi semplicemente come un pittore di fama, non si è scelto come una persona retta.
15Nel mio libro Etica della personalità13 parlo della scelta esistenziale dell’uomo retto, dell’uomo che sceglie se stesso come una persona retta. Questa è la scelta esistenziale che nulla ha che fare con la cosalità, con la categoria della differenza, ma è propria di colui che sceglie se stesso con tutta la sua complessità e le sue fragilità e sceglie se stesso come una persona retta sotto la categoria dell’universale. Questa scelta esistenziale trasforma la vita della persona, perché la spinge a inverare in ogni sua decisione la scelta per la bontà. Ed è un tipo di scelta che non è né razionale né irrazionale, poiché si sceglie di divenire ciò che si è non perché si è in precedenza ascoltato tutte le argomentazioni favorevoli o avverse a tale scelta, giungendo alla conclusione che le argomentazioni favorevoli alla “scelta del sé” sono migliori o più valide. Chiunque abbia mai compiuto una scelta esistenziale, sa che la scelta avviene in questo modo: con un salto, alla stessa maniera in cui, secondo Kierkegaard, avviene il passaggio dallo stadio estetico a quello etico. Capita che ci si ricordi di aver preso una decisione, una volta, senza saperla collocare più nello spazio e nel tempo. E, tuttavia, che sia o meno in grado di ricordare una particolare esperienza di deliberazione e decisione, nessuno che abbia mai compiuto una scelta esistenziale dubiterebbe del fatto che sia davvero una scelta, ovvero che una volta nel tempo è esistita la possibilità che non divenissimo ciò che realmente siamo e che solo la nostra risoluzione ha escluso questa possibilità, in direzione del bene.
16Kant ha detto una cosa simile quando ha parlato dell’imperativo categorico. Infatti nel momento in cui si sceglie se stessi come persona buona, ci si sceglie sotto la categoria dell’universalità, il che non presuppone una particolare o specifica capacità. La persona che si sceglie come persona retta è una persona virtuosa, ma com’è possibile riconoscerla? Platone riporta una frase di Socrate, secondo cui l’uomo buono è colui che preferisce patire un torto piuttosto che commetterlo14. Quest’affermazione non può essere provata razionalmente, ciò che può essere provato è solo questo: esistono persone che preferiscono soffrire un torto piuttosto che commetterlo. Sono le persone moralmente buone, le persone che in una situazione di conflitto preferiscono soffrire un torto piuttosto che commetterlo. La scelta morale per eccellenza, quella dell’uomo buono, allora, non risiede nella scelta di una norma o di un codice di norme esterne a noi, ma nella scelta che ciascuno di noi compie nel momento in cui si chiede: “qual è la cosa giusta da fare?”. Nel porsi la domanda, nel porsi la scelta fra bene e male, si è per definizione scelto il bene, come scriveva Kierkegaard, perché abbiamo scelto noi stessi come persone oneste, che dànno, in piena autonomia, senza cioè alcuna costrizione, la priorità alle ragioni morali su tutte le altre. In fondo la scelta della bontà non può essere compresa razionalmente, non perché irrazionale, ma perché è razionale al di là dell’autorità della ragione teoretica.
17Il tema della scelta esistenziale ricorre, oltre che in Kierkegaard, anche in Weber e Lukács. Per Max Weber, in considerazione della divisione in sfere delle società moderne, compiere la scelta esistenziale è scegliere il proprio modo di vivere fra le sfere (io scelgo me stesso scegliendo di diventare un politico o uno scienziato), escludendo la sfera della vita quotidiana, perché in essa le persone non scelgono di vivere, ma vi si trovano per nascita. Lukács invece sottolinea l’importanza della scelta nella sfera quotidiana, quando, accordando alla scelta esistenziale il motivo kiekegaardiano dell’aut-aut, indica l’idea di vincolo: chi sceglie una sfera non può sceglierne altre e la scelta cade fra la vita morale – che coincide con la vita quotidiana – e la sfera dell’arte e della filosofia, che sono amorali, perché in esse vi è un assoluto abbandono di norme e regole. Se per Lukács la scelta esistenziale si pone tra il rimanere nella vita quotidiana o il sollevarsi all’arte e alla filosofia, tra la vita ordinaria e la vita consacrata alle oggettivazioni più alte, per Weber al contrario essa si configura come una scelta tra oggettivazioni. Io invece intendo la scelta esistenziale come lo “scegliere se stessi come esseri morali”. Questa scelta non implica il vincolo di restare legati a una sfera, ma significa che ci siamo scelti come persone buone non soltanto nella sfera della vita quotidiana, ma in tutte le sfere, per cui una volta che la persona ha compiuto la scelta esistenziale della bontà, ‹‹deve mantenere un punto di vista morale in ogni sua relazione con le norme e regole della Sittlichkeit di ogni sfera››15. La tragica contrapposizione lukàcsiana tra un’attività più elevata e un’attività quotidiana diventa irrilevante, perché se la scelta esistenziale della bontà è stata compiuta prima, attiverà una dinamica secondo la quale valuterà norme e regole proprie di ogni sfera dal punto di vista della moralità. Per questo l’individuo «sarà in grado di fare il pendolare tra le sfere delle oggettivazioni specifiche»16, senza rimanerne schiacciato. La vera questione morale, così come la intendo, consiste nel mantenere fede all’impegno, alla scelta di se stessi come esseri buoni in tutte le sfere che costituiscono la modernità. Nel mondo moderno, dominato da una pluralità di morali quotidiane, la persona che dimora nella sfera della vita quotidiana, se non fosse in grado di praticare la scelta esistenziale della bontà, non potrebbe vivere una vita autentica.
18La scelta esistenziale della bontà è, insomma, la radice di tutte le scelte concrete, ma non le determina. La persona retta è quella che ha scelto fra bene e male, ha scelto se stessa come persona retta e in quanto tale s’impegna a scegliere valori e norme per ragioni morali, utilizzando il paradosso socratico come una stampella cui appoggiarsi, nel senso che questa deve sostenere ogni sua scelta morale nelle situazioni di conflitto. La buona azione va, infatti, sempre calata nel contesto, e ciò significa che occorre chiedersi volta per volta quale sia l’azione giusta da compiere. Chi è allora la persona retta? È la persona che comprende in quale situazione si trova e decide di non commettere un’ingiustizia: determinante sarà allora il suo giudizio morale. Infatti, posto che l’uomo retto o buono sappia quali sono le norme giuste, la bontà della sua decisione dipenderà solo dalla sua frovnhsi o buon giudizio morale.
19La persona retta è uno dei pilastri dell’etica moderna perché ogni singolo individuo, attraverso la scelta esistenziale della bontà, costruisce se stesso come una persona retta, si costruisce autonomamente attraverso un comando che nasce all’interno della sua persona: questo significa essere autentici. Se si sceglie se stessi sotto la categoria dell’universale, si diventa autonomi e retti, per questo la persona retta è uno dei pilastri dell’etica moderna, senza il quale non è possibile fondare alcuna etica.
Il buon cittadino
20Il secondo pilastro della modernità è il buon cittadino, secondo la nota distinzione di Aristotele, cioè di colui che si muove nell’ambito dei problemi di giustizia e di ingiustizia di uno stato17. È il secondo pilastro della modernità, poiché grazie alla sua presenza è possibile fondare una vita civile intessuta da dinamicità e azioni rette, in quanto orientate alla ricerca della giustizia. Il cittadino moderno, a differenza di quello delle società premoderne, può muoversi nel suo stato in ordine alla giustizia perché è sostenuto dalla costituzione in esso presente. In tal senso si può affermare che il cittadino moderno si “costituisce in base alla costituzione”, poiché solo dove esistono delle costitutive dichiarazioni dei diritti è possibile lottare per la difesa di alcuni diritti qualora essi vengano infranti. Dove le libertà, intese come diritti, sono garantite mediante costituzioni scritte e non scritte, è possibile che esistano buoni cittadini. Senza una buona costituzione non possono esistere buoni cittadini, anche per questo motivo Aristotele parlava della presenza di diversi tipi di costituzione. A partire dalla dichiarazione di indipendenza americana, e poi da quella francese è stato posto il concetto di uguaglianza. Gli esseri umani sono tutti uguali, ma uguali in che cosa? Nel tentativo di allargare il concetto di uguaglianza sono sorte le lotte contro i mancati diritti dei cittadini. In tal senso la costituzione, mentre dà risposte alle domande dei cittadini, apre anche il campo alla loro possibile azione. Un buon cittadino è, infatti, colui che è impegnato nei confronti di tutto ciò che riguarda i problemi di giustizia e di ingiustizia, ovvero della definizione di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, di ciò che è corretto e ciò che è sbagliato nelle norme e nelle regole della sua città. Svolgendo un ruolo attivo il cittadino completa e rafforza le norme che tutelano la vita e le libertà del genere umano. Il buon cittadino è colui che sottopone al vaglio delle idee-valori della libertà e della vita le norme esistenti nel suo contesto e quando queste, secondo la sua considerazione, non vengono rispettate da norme e regole vigenti, s’impegna a lottare contro norme ingiuste. Impegnarsi contro le norme ingiuste della propria società significa difendere un concetto di giustizia che è proprio della modernità: un concetto dinamico e incompleto.
21La giustizia dinamica18 opera nei tempi di crisi e cerca di comprendere quali possono essere le norme giuste o ingiuste in relazione ai valori guida della modernità, in relazione cioè alle idee di libertà e di vita, in nome delle quali è possibile aprire una discussione pubblica. La politica è, infatti, il luogo per eccellenza in cui vengono contestate le norme considerate ingiuste e alla cui discussione ogni buon cittadino è invitato a partecipare. Se è vero cioè che si possono dare diverse interpretazioni di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato e che questa possibilità di discussione è un processo interno alla modernità, è altrettanto vero che il buon cittadino deve comunque battersi ogni volta che trova nella costituzione del proprio stato norme e regole che violano la libertà o la vita.
22Concepire la giustizia in termini di dinamicità e d’incompletezza non significa negare la giustizia statica. Infatti le norme e le regole, una volta entrate in vigore, si applicano a tutti nello stesso modo — condizione che garantisce la simmetricità reciproca nei rapporti interpersonali — mentre è nel momento della loro formulazione che possono essere soggette a revisione critica e come tali possono essere criticate. Ma ciò è possibile solo se esiste una giustizia dinamica, ovvero una giustizia che comprende procedure in grado di assicurare che le norme e le regole sociali e politiche vengano messe alla prova e mutate se è necessario: per questo negli stati moderni deve essere difesa l’idea di una giustizia incompleta, di una giustizia che sia mossa da un’idea regolativa di perfettibilità, nel senso che ricerca norme in grado di tutelare una maggiore giustizia sociale, condizioni di vita che consentano una maggiore libertà e una qualità di vita migliore. È dunque con l’idea della dinamicità della giustizia che è possibile fondare normativamente un universo culturale pluralistico, qual è quello della modernità. In considerazione della mutevolezza delle società contemporanee, in cui non si può dare per scontato nessun tipo di consenso, il ricorso alla contestazione della giustizia è l’unico possibile. La giustizia dinamica si realizza allora solo mediante una discussione a cui partecipano coloro che sono interessati alla norma in discussione. Ma ciò è possibile se tutti i partecipanti sono liberi e uguali; in tal senso la partecipazione al discorso di valore è un diritto, e precisamente un diritto civile, che si esplica nel discorso, nella capacità argomentativa propria di ogni essere umano. Solo così è possibile affermare un concetto di uguaglianza, inteso non in termini meramente economici, nei termini cioè di un’equa ridistribuzione dei redditi. L’uguaglianza è intesa come la medesima capacità di contestazione che possiedono tutti coloro che partecipano al dibattito pubblico, tutti coloro che sono invitati a mettere in questione le norme ingiuste. In quest’ambito di dibattito circa la giustizia i cittadini possono creare rapporti intessuti sulla reciprocità simmetrica, poiché, affermando che le norme e le regole in vigore si applicano a tutti nella stessa maniera, è possibile creare relazioni di comprensione, di cooperazione reciproca, e creare spazi altri in cui trovare forme di relazione fra i cittadini diverse da quelle di dominio e di sottomissione.
23Il concetto di giustizia dinamica propone così una concezione della giustizia intesa non più come una formula rigida e astratta, bensì come un work in progress a cui possono partecipare tutti i buoni cittadini ogniqualvolta siano interpellati, cittadini che con un forte senso di responsabilità decidono di impegnarsi per la difesa di norme giuste e per la condanna di ogni norma ingiusta. Il buon cittadino s’impegna allora all’argomentazione razionale nell’ambito del discorso pratico, ovvero non si stanca mai di spiegare le sue motivazioni (e se occorre è capace di mobilitare indefessamente l’opinione pubblica), e neanche di cercare l’accordo con altri, non solo con gli altri buoni cittadini, ma con la maggior parte degli interessati a una particolare istituzione, legge o norma. Virtù del buon cittadino sono infatti la virtù intellettuale dell’argomentazione razionale e la virtù della solidarietà con tutti coloro che subiscono un’ingiustizia. Solo mettendo in pratica queste virtù si diventa buoni cittadini e solo così può nascere una vita democratica più dinamica e ricca, in quanto rivitalizzata da relazioni autentiche ed eticamente significative tra i suoi cittadini.
Il male radicale
24Tradizionalmente esistono due tipi di male: il male naturale e il male morale. Il male naturale è la malattia, la morte, le catastrofi naturali. Tale male ha costituito il problema cruciale di ogni teodicea, dal momento che era apparentemente impossibile renderlo compatibile con la bontà di Dio. In un certo senso il male morale era più facile da spiegare in una prospettiva religiosa, dal momento che era consequenziale al libero arbitrio, a sua volta derivato dal peccato originale. Per quanto concerne la spiegazione del male naturale, la difficoltà consisteva nel giustificare il fatto che un Dio buono avesse creato una natura a tal punto crudele. Riporto qui la giustificazione di Leibniz, secondo cui non abbiamo idea di altri mondi, dato che il mondo creato da Dio è il migliore dei mondi possibili. Altri mondi immaginabili, determinati da altre leggi naturali, sarebbero comunque peggiori rispetto al mondo presente. Come tutti sanno nel Candide Voltaire si oppose con vigore a questa concezione, ma l’argomentazione di Leibniz resta a mio avviso molto valida.
25Il male naturale è anche spesso causato dall’uomo, positivamente o negativamente. In senso positivo, l’uomo può morire a causa di altri uomini: questo è ovviamente un male morale, ma tale male può generare il male naturale. Oppure, in senso negativo, il male naturale è causato da un’incuria dell’uomo, la cui azione avrebbe potuto limitare o sventare il male naturale – è per esempio il caso del disastro avvenuto a New Orleans a causa dell’uragano Katrina: è opinione comune in America che il male di Katrina sia stato provocato dall’inefficienza del governo statunitense. Esistono anche tipi di male morale che non si manifestano in un male naturale: è possibile torturare l’anima di una persona tanto quanto il suo corpo, rifiutare l’amore dei propri figli o non corrispondere un amore.
26Ma qual è la definizione del male? Secondo Leibniz, si è cattivi se si è causa del male naturale. Kant presentò una differente definizione: il male è connesso all’inversione delle massime d’azione. Si è cattivi se si preferisce accordare validità a massime strumentali o mosse dall’egoismo rispetto all’imperativo categorico. Una persona buona è al contrario colei che dà preferenza all’imperativo categorico, o meglio alla distinzione tra bene e male, prima ancora di pensare al proprio interesse. Personalmente, reputo la posizione di Kant naïf. Kant afferma infatti che il solo movente dell’egoismo è sufficiente a determinare il male, e che si è cattivi a causa dell’amore verso noi stessi. Io preferisco la posizione di Leibniz: chiunque compia il male naturale è cattivo, senza tenere conto della motivazione egoistica. Quando si fa del male a un’altra persona volontariamente, non ha alcun senso chiedersi se l’intenzione sia egoistica o meno. Noi abitanti della contemporaneità dovremmo saperlo molto bene: nel xx secolo molte persone – Eichmann incluso – compirono il male non per egoismo, ma per motivazioni ideologiche. Non per amore di sé Hitler e Stalin uccisero migliaia e migliaia di persone. Non è solo l’amor di sé o l’interesse egoistico a compiere il male, chi commetta il male naturale nei confronti di un uomo, chi uccida o torturi, è cattivo al di là della motivazione.
27Resta da chiarire se esista e cosa sia il male radicale. Oggi si è propensi ad associare il male radicale con i regimi totalitari. Si può dare però una definizione generale di male radicale: si ha male radicale nel momento in cui si eleva a norma la pratica del male naturale; se il male naturale viene legittimato da un sistema normativo, tale azione di legittimazione è il male radicale. Il male radicale è quindi profondamente differente dal male morale o dal male naturale, è la legittimazione di queste forme di male, è l’elevazione del male naturale o morale a dovere. Nelle ideologie totalitarie si assiste a un’associazione tra virtù e compimento del male propria del male radicale. Una volta Himmler disse a un gruppo di SS che la virtù dell’eroe consiste nel resistere al sentimento dell’empatia presente naturalmente in ognuno di noi. La soppressione dell’empatia, la pratica del male naturale, la violazione dei dieci comandamenti: tutto questo era eroismo per Himmler, tutto questo è male radicale per noi. In un certo senso anche la guerra legittima il male naturale, ma è profondamente differente uccidere un altro soldato dall’uccidere un innocente. Ovviamente, nessuno può essere considerato completamente e perfettamente innocente – direi che la qualificazione d’innocenza per un essere umano è una posizione ideologica. Nella cultura giudaico-cristiana, l’innocenza è associata all’infanzia, e quindi il male radicale si esprime soprattutto nell’uccisione indiscriminata di bambini.
28Esiste un’analogia profonda fra il male radicale e i genocidi dell’epoca totalitaria. Gli omicidi di massa, i gulag e la shoah sono propri del totalitarismo e sono un fenomeno moderno perché solo nella modernità si sono organizzati sistematici e razionali sistemi di epurazione razziale. Ma come può il genocidio diventare espressione del male, e soprattutto del male radicale? Perché non ci può essere un male radicale senza l’esistenza di principi di male che lo guidano e lo orientano. Se questi principi di male radicale diventano effettivi, se le persone agiscono spinte da questi principi, compiono un male che si perpetra su larga scala: questo è il male radicale. Per chi crede che i valori più alti della modernità siano un uguale diritto alla libertà e alla vita per ogni individuo, allora il genocidio o l’uccisione su larga scala di uomini appartenenti a una medesima razza o religione è espressione del male radicale, di un male che nega ogni diritto alla vita e alla libertà per un gran numero di esseri umani. Esistono casi di violenza contro altri cittadini che, sebbene siano atti malvagi, perché guidati dall’odio e dal disprezzo, non sono tuttavia espressione del male radicale. Il male radicale è, ripeto, un male sistematicamente perpetrato contro un gran numero di persone, che vengono vilipese, torturate e uccise, ed è un male giustificato da principi accettati dalla maggioranza. Questo avviene ogni qualvolta i principi del male radicale siano sapientemente articolati in un’ideologia. Ideologia e totalitarismo sono fenomeni che nascono solo nella modernità. Sin dal xx secolo il genocidio è stato elaborato sistematicamente e sostenuto da un’ideologia che, contraddicendo i valori fondamentali della modernità (il diritto di ogni cittadino alla libertà, all’uguaglianza e alla vita) e appoggiandosi a un regime politico di tipo totalitario, si è diffusa ergendosi su due pilastri: la fede entusiasta nei confronti dell’ideologia e dei suoi leader carismatici, e il metodico esercizio della violenza e della paura. Prassi dei regimi totalitari è sottomettere e controllare i cittadini mediante un capillare esercizio del terrore, provocato dai continui controlli del potere politico e della polizia, mentre il diffondersi della paura rende ognuno sempre più dipendente dal partito al potere e nemico di tutti gli altri uomini. Lo stato permanente di sospetto nei confronti di un altro, diverso per razza, religione o classe, come solo un martellante pensiero ideologico e totalitario produce, “sospende ogni morale”, come direbbe Levinas, sospende ogni apertura etica, ogni interesse verso l’individuo inteso come essere umano, e consente ogni efferatezza morale. Inoltre quanto più gli interessi del partito vengono convogliati verso la creazione di un unico grande Stato, in cui ogni dissenso politico è soppresso, tanto più si assiste alla creazione di un unico e compatto corpo sociale che fagocita gli interessi particolari e i bisogni dei singoli, che cancella ogni possibile solidarietà tra i suoi membri. È in questo clima d’ideologica costruzione di nemici politici da annientare e di mancanza di libero pensiero politico che il male radicale assume le sue forme più brutali e disumane, come ad Auschwitz.
29L’unica possibilità di evitare che altre forme di male radicale prendano il sopravvento è data dalla necessità di difendere le libere e democratiche istituzioni quali frutto più duraturo della modernità. Laddove infatti le libere istituzioni continuano a esistere, laddove, soprattutto, esistono liberi cittadini che non dimenticano gli effetti disastrosi di Auschwitz ed esercitano la loro capacità critica, è possibile evitare che altri regimi totalitari producano nuove barbarie.
30Da qui deriva un ulteriore approfondimento: il male radicale muta di determinazione a seconda delle epoche storiche. Oggi il genocidio è considerato un esempio di male radicale, dal momento che infrange la norma fondamentale della modernità, il principio di universale uguaglianza tra gli uomini: tutti gli uomini sono nati ugualmente liberi e dotati in modo pari di coscienza. Invece nell’antica Grecia e in Roma il genocidio non era considerato un esempio di male radicale; ciò che fu perpetrato contro Troia e contro Cartagine può essere riconosciuto come genocidio, ma per l’epoca non costituiva affatto un esempio di male radicale.
31Vi è infine la questione del nesso tra scelta esistenziale e male. Come si è visto, ci si può scegliere come persona buona. Ma è parimenti possibile scegliere se stessi come persona malvagia? Secondo Shakespeare sì; Riccardo III, Iago, sono personaggi che si sono scelti come persone malvagie, non per egoismo né per ideologia, ma in nome del male stesso, del piacere che si trae dall’essere cattivi. Secondo alcuni, questo tipo di scelta è eccezionale, e nient’affatto comune; eppure può anche essere riscontrata in De Sade: in ogni suo libro vi è almeno una persona che si è scelta come cattiva e che trae piacere nel torturare e far del male agli altri.
Notes de bas de page
12 A. MacIntyre , After Virtue. A Study in Moral Theory, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1981, Trad. it. P.Capriolo, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988.
13 A. Heller, An Ethics of Personality, Oxford, Basil Blackwell, 1996.
14 Cfr. A. Heller, General Ethics, Oxford, Basil Blackwell, 1988; trad. it. e cura di M. Geuna, Etica generale, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 130.
15 Ivi, p. 269.
16 Ivi, p. 270.
17 Cfr. A. Heller - F. Fehér, The Postmodern Political Condition, cit.
18 Cfr. A. Heller, Beyond Justice, Oxford - New York, Basil Blackwell, 1987; trad. it. S. Zani Oltre la giustizia, Bologna, il Mulino, 1990.
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