2. Intenzionalità
La struttura logica della rappresentazione mentale
p. 56-101
Texte intégral
Intenzionalità e computazione
1Una delle cose che discuteremo in questa lezione è la relazione fra l’intenzionalità e la coscienza. Ho detto ieri che non tutti gli stati consci sono intenzionali. Ci sono forme di coscienza che non sono intenzionali, come l’ansia, che non è in genere diretta verso alcunché, e ci sono forme di intenzionalità che sono inconscie. Ad esempio, il più delle volte non ho coscienza della mia credenza che George Washington sia stato il primo presidente degli Stati Uniti. Ho tale credenza, anche se non ci penso per tutto il giorno, e sicuramente non ci penso di notte quando dormo. Si può avere una credenza senza che sia pensata consciamente, e si può avere uno stato di coscienza, come l’ansia, che non sia intenzionale.
2Oggi analizzeremo nel dettaglio la relazione fra coscienza e intenzionalità. Prima è tuttavia indispensabile inserire alcune distinzioni fondamentali perché, se non le inserissimo, la nostra analisi avrebbe effetti disastrosi sulle scienze cognitive (soprattutto) e persino sulla filosofia. Innanzitutto, dobbiamo distinguere – non solo per quel che riguarda l’intenzionalità, ma più in generale – quei fenomeni che sono relativi all’osservatore (observer relative) da quei fenomeni che sono indipendenti dall’osservatore (observer independent). Ad esempio, è un fatto concernente il mondo indipendente dall’osservatore che un atomo di idrogeno contenga un elettrone, invece il fatto che questo pezzo di carta che c’è nel mio portafoglio sia una banconota da cinque euro e che sia valuta europea, è un fatto che dipende da significati, osservatori e utilizzatori, quindi è un fatto relativo all’osservatore. È solo relativamente a qualcuno che succede che qualcosa sia del denaro, una proprietà, un governo, o un matrimonio; viceversa, che qualcosa sia una montagna o una molecola, è un fatto indipendente dall’osservatore. Quando saremo tutti morti, non ci sarà più nulla che conterà come denaro, tuttavia ci saranno ancora atomi e molecole. Questa è una distinzione cruciale: tra i fatti che riguardano l’intenzionalità dobbiamo distinguere quelli che sono indipendenti da un osservatore da quelli che sono relativi a un osservatore. Adesso non posso spiegarvi nei particolari quanto questa distinzione sia profonda e radicata, ma tenete sempre presente che si tratta di una distinzione molto importante.
3La seconda distinzione di cui abbiamo bisogno è fra due sensi della distinzione fra oggettività e soggettività. La distinzione fra oggettività e soggettività è ovunque nella cultura della nostra civiltà. Ci sarebbe da farne la storia. Il punto che mi interessa mettere in luce è che entrambe queste determinazioni – oggettività e soggettività – hanno un senso epistemico e un senso ontologico. Se io dico:
(1) Rembrandt visse ad Amsterdam
e quanto dico è vero, esprimo un fatto oggettivo. È una di quelle cose che si possono sapere – come si suol dire – oggettivamente. Dove Rembrandt è vissuto, dove è morto, e così via sono fatti epistemicamente oggettivi. Ma ora considerate l’enunciato:
(2) Rembrandt è un pittore migliore di Rubens
4Quest’enunciato esprime una opinione, è una questione che riguarda opinioni soggettive. Non è epistemicamente oggettivo, è epistemicamente soggettivo. Questa è la distinzione fra oggettività e soggettività in senso epistemico. Ma c’è anche un senso ontologico della distinzione. I miei dolori esistono solo in quanto sono sentiti da me, e più in generale gli stati coscienti esistono solo in quanto sono esperiti da un soggetto, ossia sono ontologicamente soggettivi. Ovviamente, in ogni caso, atomi e molecole sono ontologicamente oggettivi. Adesso soffermiamoci sulla ragione per la quale questa distinzione è così importante. È importante perché una confusione comune nelle scienze è supporre che, se qualcosa è ontologicamente soggettivo, allora non può esserci una scienza oggettiva in quel dominio. In effetti in neurobiologia fino a qualche anno fa era molto radicato il seguente sillogismo:
La scienza è per definizione oggettiva
La coscienza è per definizione soggettiva
Dunque, non può esserci una scienza della coscienza
5Questo non è un sillogismo valido, perché è basato su di una fallacia di ambiguità. C’è un’ambiguità relativamente al senso di oggettività e soggettività. La scienza è per l’appunto epistemicamente oggettiva, nel senso che nella scienza si formulano giudizi che sono indipendenti da particolari soggetti. Ma, e questo è il punto cruciale, l’oggettività epistemica del metodo e dei risultati non fa sì che sia impossibile studiare scientificamente un dominio che si presenta come ontologicamente soggettivo. Ci possono essere enunciati scientifici, epistemicamente oggettivi, riguardanti un dominio che contiene tuttavia fenomeni ontologicamente soggettivi. E in effetti questo succede molto spesso: moltissima filosofia riguarda fatti ontologicamente soggettivi (basti pensare ai fatti di coscienza) e se si va in una qualsiasi libreria universitaria e si guardano i manuali di neurologia si scopre che lo stesso vale anche per la scienza. Questa è una cosa importante da tenere a mente, perché adesso affronteremo un problema simile che si presenta nell’ambito delle scienze cognitive e che può essere eliminato solo a patto di riconoscere questa distinzione.
6Nel corso dell’ultima lezione vi ho esposto il famoso argomento della stanza cinese contro la teoria computazionale della mente. Ma c’è un argomento più profondo, benché sia stato molto meno influente – e non bisogna stupirsi di questo fatto, perché si tratta di un argomento molto più sottile. L’argomento della stanza cinese è un argomento molto semplice, quasi grossolano, al punto che non ho nessuna difficoltà a spiegarlo anche ai bambini piccoli, mentre questo argomento è leggermente più difficile. Supponiamo che la scienza cognitiva scopra fatti epistemicamente oggettivi concernenti un certo dominio, e supponiamo anche che tale dominio contenga fenomeni che sono indipendenti dall’osservatore. Adesso consideriamo la computazione. Come la dobbiamo considerare, relativa o indipendente dall’osservatore? Si pensi ai computer che si comprano nei negozi. Che cosa contiene un computer in maniera intrinseca, ossia considerato indipendentemente da osservatori, utilizzatori, o altre forme di intenzionalità esterna? Intrinsecamente contiene un circuito elettrico molto complesso che passa da uno stato a un altro stato molto rapidamente – in effetti quasi non ci credo quando mi dicono quanto velocemente passi da uno stato all’altro: milioni di stati al secondo! Ma, e questo è il punto, che noi interpretiamo questo passaggio di stati computazionalmente non è un fatto fisico. È un fatto che riguarda noi. Noi costruiamo, progettiamo e usiamo i computer, perché compiono certe funzioni per noi, ma le funzioni sono sempre relative all’osservatore. La computazione non è un fenomeno indipendente dall’osservatore. È un fenomeno relativo all’osservatore. Una computazione è qualsiasi cosa possa essere interpretata computazionalmente. Mi ci è voluto parecchio per vederlo, ma ho notato che, stando alla definizione standard di computazione, qualsiasi cosa è un computer. Discutendo dell’argomento della stanza cinese, mi è capitato di arrivare a dire di una penna su di un tavolo: questo è un computer digitale, soltanto che ha un programma molto, molto noioso, il programma dice “stare fermo lì”. E nessuno ha mai messo in discussione questo punto. Ma se questo è un computer, analogico o digitale che sia, allora qualsiasi cosa è un computer, perché qualsiasi cosa può essere interpretata computazionalmente. Adesso proviamo a utilizzare questo risultato e domandiamoci se il cervello sia un computer digitale. Allora, se la domanda è: il cervello è intrinsecamente un computer digitale – è un computer digitale in un modo che è indipendente dall’osservatore? La risposta è che nulla è intrinsecamente un computer digitale, con l’eccezione dei processi computazionali consci che si compiono passo a passo, come fare a mente l’operazione uno più uno e concludere che fa due. Ma nulla – all’infuori del nostro computare conscio – è intrinsicamente un computer digitale: qualcosa è un computer digitale sempre e solo relativamente a un osservatore. Perciò se la domanda è se il cervello sia o meno intrinsecamente un computer, la risposta sarà no, perché nulla lo è. Ma se la domanda è: possiamo interpretare il cervello computazionalmente? Allora la risposta è: ovviamente sì, tutto può essere interpretato computazionalmente. Di qualsiasi cosa si può dare una descrizione a livello computazionale, per quanto possa risultare più o meno utile farlo.
7Perché è così difficile da capire? Penso che la risposta stia nel fatto che si pensa che, se qualcosa è relativo a un osservatore, allora sia totalmente arbitrario – ma questo è sbagliato. Ad esempio, che questo sia un coltello è un fatto relativo all’osservatore, infatti è solo relativamente ai nostri propositi che questa cosa ha la funzione di coltello. Potrebbe anche essere usato come fermacarte, anziché come coltello, e si può immaginare anche che sia stato progettato come fermacarte – un fermacarte alquanto barocco, ma tant’è. Ciononostante, non è arbitrario che possa venire usato come un coltello, ed è per questo che occorre designarlo come tale. La relatività all’osservatore non implica arbitrarietà. Questo è il punto chiave: se la scienza cognitiva, si suppone, scopre fatti indipendenti dall’osservatore concernenti la cognizione umana, allora non si può, in tale senso, scoprire che il cervello è un computer digitale, perché in tale senso niente è intrinsecamente un computer digitale: qualcosa può essere un computer digitale solo relativamente a un’assegnazione di funzione, relativamente a un’interpretazione computazionale che può essere più o meno utile.
8Bene, dopo aver catalogato la serie di disastri – non potete davvero immaginarvi quanta confusione ci sia in questo campo –, passo a presentarvi forse il peggior disastro di tutti, ossia la nozione di processo di elaborazione dell’informazione (information processing). Nella vita intellettuale, in generale, e nella scienza e nella filosofia in particolare, è molto importante evitare “parole magiche” che danno l’impressione che si sia capito qualcosa, quando in effetti non è così. La tipica difficoltà che nasce con la nozione di processo di elaborazione dell’informazione è che quando la usiamo “suona” proprio come se sapessimo di cosa stiamo parlando. Quando diciamo che il cervello compie processi di elaborazione dell’informazione, in un certo senso questo è ovviamente vero. Immaginiamo che chieda a qualcuno cosa devo fare per raggiungere il centro di Torino, e che questo qualcuno mi dia informazioni. Io elaboro tali informazioni e così vengo a sapere che cosa devo fare per raggiungere il centro di Torino. Ma queste, sfortunatamente, non sono nozioni scientifiche. Ciò che cerchiamo è una concezione di elaborazione dell’informazione che non sia la nozione ordinaria del senso comune; ci occorre una concezione che sia scientifica, che sia – in qualche senso – intrinseca al cervello, ma che non sia accessibile alla coscienza. Qui mi preme sostenere che si tratta di una nozione piuttosto complessa. Dobbiamo distinguere chiaramente – così come abbiamo fatto per la nozione di computazione – fra un senso di informazione che è indipendente dall’osservatore e un senso di informazione che è relativa all’osservatore. C’è un senso di quella indipendente dall’osservatore per il quale, ad esempio, so cosa vuol dire elaborare informazioni e non ho problemi a capire cosa vuol dire che il mio cervello elabora informazioni in questo senso. La nozione di informazione che usiamo quando parliamo di elaborazione dell’informazione non riguarda l’informazione intrinseca, bensì quella relativa all’osservatore. La mia mappa, ad esempio, che contiene anche informazioni su come andare da Berkeley a San Diego, contiene sì informazioni, ma tali informazioni non sono nelle molecole, ma nell’osservatore: è relativa all’osservatore. È solo perché l’osservatore sa come interpretare i segni sulla carta che possiamo dire che la mappa contiene informazioni.
9Una delle cose alle quali mi sono maggiormente dedicato riflettendo sulla fondazione filosofica delle scienze cognitive, è la definizione di “informazione”. Però ogni volta che domandavo quale fosse la definizione di “informazione”, nessuno era in grado di fornirmela. A volte cercavano di rispondermi richiamandosi alla teoria dell’informazione (information theory), però così in realtà non facevano altro che cambiare il soggetto parlando di teoria della probabilità. È in qualche modo un paradosso delle scienze cognitive (per lo meno delle scienze cognitive dei primi anni) che si ammetta una scienza dell’elaborazione dell’informazione, senza avere una nozione coerente di informazione. Questo accade perché c’è un’ambiguità sistematica fra il senso di informazione relativo all’osservatore – il senso in cui ci sono informazioni nei libri o nei computer – e il senso di informazione intrinseco o indipendente dall’osservatore – il senso in cui nelle nostre menti, intrinsecamente, c’è informazione. Negli ultimi anni si sono fatti importanti passi in avanti al fine di superare tale confusione e quanto sta avvenendo ultimamente nell’ambito delle scienze cognitive è molto interessante. Nei primi anni l’idea delle scienze cognitive era che da una parte, in alto, ci fosse la mente, che dall’altra, in basso, ci fosse il cervello, e che in mezzo ci fosse una lacuna (gap) colmata dalle scienze cognitive.
mente |
(computazione) |
cervello |
10Si pensava di colmare tale lacuna con programmi di computer o qualche altro apparato esplicativo, appositamente concepito per mostrare come si potesse mediare fra la psicologia del senso comune degli stati mentali ordinari e le spiegazioni scientifiche della neurobiologia. Ho ordinato del vino rosso l’altra sera perché preferisco il vino rosso al bianco. E questa è una spiegazione, anche se non è molto scientifica. La mediazione doveva avvenire fra questa spiegazione e la spiegazione neurobiologica: ho ordinato vino rosso per via di alcune condizioni del lobo parietale. Questa spiegazione è scientifica, ma non sappiamo come utilizzarla, dal momento che non abbiamo informazioni tali che ci servano per dare una spiegazione. Nei primi anni della scienza cognitiva l’idea era che avremmo avuto scienza cognitiva di processi di elaborazione dell’informazione che avrebbero ricoperto il ruolo di mediatori nella relazione fra la neurobiologia – che non comprendiamo ancora molto – e la mente – che comprendiamo abbastanza bene, anche se non in modo scientifico e soltanto nel senso comune ordinario. La mia opinione, che ho cercato di esplicitare a più riprese, è che non ci sia affatto un tale livello di spiegazione: ci sono, a differenti livelli, elementi di spiegazione neurobiologica ed elementi di spiegazione psicologica, ma non c’è un livello intermedio.
11Nessuno ha mai spiegato chiaramente il significato di tale livello intermedio e la storia, bisogna dirlo, sta dalla mia parte. La storia quale è personificata da Bruno Bara, ad esempio, che è qui nella stanza. In questi ultimi tempi stiamo assistendo a uno dei maggiori cambi di paradigma nelle scienze cognitive, che consiste in un allontanamento dalla scienza cognitiva computazionale e in un avvicinamento alla neuroscienza cognitiva (cognitive neuro-science). Non è che qualcuno abbia trovato un magnifico argomento capace di convincere tutti, bensì è semplicemente diventato ovvio che la computazione non sarebbe andata molto lontano; a ciò si aggiunge un incredibile avanzamento tecno-logico grazie al quale adesso abbiamo tecniche di ricerca migliori rispetto a prima. Non posso nemmeno immaginare quanto gli psicologi cognitivi adorino quello che chiamano il “magnete”, che è una cosa che permette di avere un fmri (functional magnetic resonance imaging). Ebbene, grazie a questa tecnica, si può vedere ciò che accade nel cervello quando si danno certi compiti cognitivi: quali aree sono attive durante una determinata attività cerebrale. È incredibile quante cose abbiano imparato dalla fmri gli psicologi cognitivi. Pensate che a Berkeley mi considerano tutti uno all’antica perché non ho ancora una fotografia fmri del mio cervello: infatti tutti a Berkeley hanno una fotografia fmri del loro cervello. In ogni caso, questo sta accadendo proprio adesso: stiamo assistendo a uno slittamento dalla scienza cognitiva computazionale alla scienza neuro-cognitiva, e non dovrebbe stupire che proprio io veda di buon auspicio questo cambiamento.
12Questa è stata un’introduzione piuttosto lunga e contorta, che però è servita per arrivare al punto principale di questa lezione. Il punto è che, se la nozione di informazione è troppo poco chiara per costituire la base delle scienze cognitive, allora forse possiamo provare a vedere se la nozione di intenzionalità non sia in sé una guida più solida, caratterizzandosi come una nozione più chiara. Cominciamo col distinguere il senso di intenzionalità che è indipendente dall’osservatore – l’intenzionalità intrinseca, come quando ho un desiderio di bere del vino rosso piuttosto che del bianco – da un senso di intenzionalità che è dipendente dall’osservatore – l’intenzionalità estrinseca. Le parole che posso scrivere su una pagina, “mi piace il vino rosso”, ad esempio, hanno anch’esse intenzionalità, ossia significato, anche se non intrinsecamente, infatti ce l’hanno in virtù del fatto che sono in relazione al parlante o all’ascoltatore inglese o italiano che interpreta certi enunciati in certi modi. Quindi quando discutiamo di intenzionalità è fondamentale fare questa distinzione. Per rendere il concetto di intenzionalità ancora più problematico c’è un terzo senso della parola su cui dobbiamo fare chiarezza. Prendiamo questo esempio: ho sete, e manifesto la mia sete bevendo un sorso d’acqua. Questa sete è una forma di intenzionalità e quando scrivo l’enunciato “ho sete”, anche questo segno ha intenzionalità, ha un significato, tuttavia l’intenzionalità dell’enunciato, a differenza dei miei stati coscienti – che hanno intenzionalità intrinseca –, è relativa all’osservatore. Bene, adesso teniamo presente però che c’è una terza forma di attribuzioni (ascriptions) di intenzionalità che non sono né intrinseche né relative all’osservatore, ma sono metaforiche. Se dico che la mia macchina “ha sete di benzina” o “il mio computer sa come calcolare l’iva” o “si ricorda di tutti i miei appuntamenti”, allora sto usando delle metafore. Tali metafore sono assolutamente legittime, anche se non hanno alcuna rilevanza psicologica, dal momento che nessuna cognizione è coinvolta quando parliamo così. Personalmente non ho nulla contro metafore di questo tipo, anche se è importante tenere presente che si tratta solo di metafore. In effetti, come capita spesso con le metafore, la nozione di “memoria del computer” ha assunto negli ultimi tempi un significato specifico alquanto differente da quello metaforico. Non c’è più nulla di psicologico nella nozione di “memoria del computer”, e anzi è qualcosa di quantitativo, che misuriamo.
13Nella discussione sull’intenzionalità che adesso affronteremo occorre quindi tenere ben presenti queste tre distinzioni. Fra gli usi letterali di nozioni intenzionali, come desideri, credenze, e stati come sete, fame ecc. occorre distinguere gli usi letterali che descrivono stati intenzionali intrinseci o indipendenti dall’osservatore, dagli usi letterali che descrivono stati intenzionali che sono tali solo relativamente a un osservatore. Queste due applicazioni letterali di nozioni intenzionali vanno a loro volta distinte dalle applicazioni metaforiche di nozioni intenzionali.
usi letterali usi | non letterali |
relativi all’osservatore indipendenti dall’osservatore | metaforici |
La struttura logica dell’intenzionalità
14Adesso risponderò alla domanda: cos’è l’intenzionalità e come funziona? Ora, “intenzionalità”, per precisare meglio un tema già toccato ieri, è una di quelle grandi parole che in filosofia sono state fonte di confusione. È persino peggio per i madrelingua inglesi – rispetto ai madrelingua tedeschi almeno – perché “intentionality” in inglese “suona” come se avesse un legame speciale con l’intenzione volontaria (intending), ma è ovvio che non è così. L’intenzionalità è quella caratteristica generale della mente per cui la mente è “diretta” (directed), o “riguarda” (is about) o “si riferisce” (refers) a oggetti o stati di cose nel mondo che sono indipendenti da essa stessa. Ad esempio io credo che George W. Bush sia a Washington, o temo un’ulteriore caduta del dollaro, o spero in un cambiamento nel governo. Tutti questi sono atteggiamenti intenzionali che non hanno nulla che fare con l’intenzione volontaria (intending). Se intendo andare al cinema, questa è sicuramente una forma di intenzionalità, ma è solo una forma fra le altre. Ma allora perché usare questa parola che genera confusione? Come per molte altre parole che hanno generato confusione in filosofia, l’abbiamo presa dai tedeschi. In tedesco non c’è problema, qualsiasi tedesco fa una chiara distinzione fra Intentionalität e Absicht, e quest’ultima non fa rima con Intentionalität. E quindi i tedeschi non hanno questo problema. Ma dove hanno preso la parola a loro volta? Dai medievali. La parola deriva dalla intentio dei medievali, che venne ripresa da Brentano, da lui poi la terminologia è passata a tutta l’area tedesca ed ecco come è arrivata a noi questa parola. L’intenzionalità, dunque, è quella caratteristica della mente per cui essa può essere diretta verso (o riguardare) oggetti o stati di cose che sono indipendenti da essa stessa.
L'intenzionalità è la capacità della mente di riguardare qualcosa
(Intentionality in s the aboutness of the mind)
15A questo proposito si possono sollevare due tipi di domande. C’è quella che si può chiamare la domanda filosofica capitale e poi ci sono le domande che riguardano tutti i dettagli. La domanda è: come è possibile che qualcosa che sta nel mio cranio punti a oggetti nel mondo? In questo momento penso che George W. Bush è a Washington. Ma come è possibile che tale pensiero si faccia tutta quella strada – non so nemmeno che direzione deve prendere – per raggiungere qualcuno che sta a Washington? Se penso che il sole è 93 milioni di miglia dalla terra, quel pensiero raggiunge il sole. Ma allora perché non è più faticoso pensare questa cosa che pensare a George W. Bush che è solo a diecimila chilometri di distanza? Questa è precisamente la grande questione filosofica: come è possibile che una cosa che rimane nel mio cranio possa “riguardare” cose al di fuori? Si tratta di una domanda filosofica capitale e stimolante. Ma poi ci sono tutte le domande specifiche: come funzionano la percezione, la memoria, l’intenzione volontaria? Se si hanno abbastanza presenti i dettagli delle risposte a queste domande più modeste, allora credo che il senso di grande mistero che viene sollevato dalla prima domanda svanisca.
16Passiamo quindi adesso ai dettagli della struttura logica dell’intenzionalità. È importante a questo punto introdurre la nozione di struttura logica (logical structure) perché sosterrò che, come il linguaggio, l’intenzionalità ha, contiene, proposizioni, che hanno una struttura logica e stanno in relazioni logiche fra loro. Il modo più semplice per me per introdurre l’intenzionalità è mostrarvi le relazioni fra l’intenzionalità e gli atti linguistici, ossia il linguaggio – perché questo è il modo in cui sono arrivato a formulare la mia teoria dell’intenzionalità.
17Ho scritto un libro sugli atti linguistici31 molto anni or sono. In quel libro usavo molte nozioni intenzionali come credenze, desideri, intenzioni volontarie e così via. Sapevo benissimo che era come quando prendi in prestito del denaro da una banca, poi lo devi restituire. Per questo mi sono dovuto domandare che cos’è una credenza, che cos’è un’intenzione, che cos’è un desiderio, perché avevo bisogno di usare queste nozioni per spiegare i comandi, le promesse e così via. Quindi un modo per inoltrarsi nel soggetto dell’intenzionalità è vedere il parallelo fra la struttura delle proposizioni nel linguaggio e la struttura degli stati intenzionali nella mente. Nella teoria degli atti linguistici è essenziale distinguere fra il contenuto proposizionale dell’atto linguistico e il tipo o forza dell’atto linguistico – ciò che Austin chiamava la forza illocutoria. In inglese, e penso anche in italiano, c’è una distinzione ovvia fra gli enunciati “te ne vai?”, “te ne andrai” e “vattene!”. Questi tre enunciati sono usati per tre diversi tipi di atti linguistici. Il primo fa una domanda, il secondo una predizione, e il terzo è un ordine. Ma in ciascuno di essi il contenuto proposizionale è lo stesso: la proposizione che tu te ne vada. Tale contenuto proposizionale compare in atti linguistici di tipo diverso: una domanda, una predizione e un ordine. Esattamente la stessa distinzione si trova nella mente. Così come posso chiederti di andartene, predire che tu te ne andrai e ordinarti di andare via, posso sperare che tu te ne andrai, temere che tu te ne vada, credere che te ne andrai, desiderare che te ne vada e così via con tutti i vari tipi di stato intenzionale. Anche qui c’è lo stesso contenuto proposizionale, e invece di esserci diversi tipi di atti linguistici ci sono diversi tipi di stati intenzionali. È interessante come il parallelismo qui sia così stretto.
18Sia nella mente sia nel linguaggio si ritrova la distinzione tipo / contenuto
atti linguistici | mente |
F(p) | S(p) |
F = forza illocutoria
S = stato intenzionale
19Un secondo punto di connessione fra il linguaggio e la mente è che, nel caso del linguaggio, le parole hanno diversi modi di adattarsi alla realtà. Lo scopo delle asserzioni è di rappresentare come le cose stanno nel mondo; tuttavia lo scopo di ordini e promesse non è di rappresentare come le cose stanno nel mondo: nel caso degli ordini è di rappresentare come vogliamo o desideriamo che le cose stiano nel mondo, e nel caso delle promesse è di rappresentarsi come ci impegniamo a cambiarle. Lasciatemi introdurre un po’ di gergo filosofico a questo punto. Dirò che le asserzioni hanno una direzione di adattamento parola-a-mondo. Un’asserzione dovrebbe essere adatta al mondo e se lo è diciamo che è vera. In effetti, il test più semplice per vedere se un atto linguistico ha questa direzione di adattamento è chiedersi se possiamo dire, letteralmente, che questo è vero o falso. Il fatto che ordini e comandi non abbiano tale direzione di adattamento è segnalato precisamente dal fatto che non possiamo dire, letteralmente, che un ordine sia vero o falso. Questi atti linguistici hanno ciò che chiamo una direzione di adattamento mondo-a-parola: il mondo deve cambiare per corrispondere a come è descritto da un ordine e gli ordini non sono veri o falsi, ma obbediti o disobbediti. Questo segnala il successo o il fallimento in tale direzione di adattamento.
20Ora, non tutti gli atti linguistici hanno una di queste due direzioni di adattamento. Alcuni atti linguistici danno per scontato l’adattamento del contenuto proposizionale, ossia ne assumono la verità. Ad esempio quando mi scuso di averti pestato un piede non ti sto chiedendo di farti calpestare un piede, questo sarebbe un atto con la direzione mondo-a-parola, né sto cercando di asserire che ti ho pestato un piede, questo sarebbe compiere un atto con la direzione parola-a-mondo. Se dico “mi scuso di averti pestato un piede” o “grazie per avermi dato i soldi” o “congratulazioni per aver vinto la corsa”, tutti questi sono atti linguistici espressivi (expressive) e tali atti danno per scontato l’adattamento. Ora, in alcuni miei scritti più vecchi proponevo semplicemente di dire che questi atti hanno la direzione di adattamento nulla (the nul direction of fit). Tuttavia questa terminologia può sembrare fuorviante perché suggerisce che non ci sia qui alcun adattamento in gioco. Adesso penso che sia più appropriato dire che questi atti espressivi – scusarsi, ringraziare, congratularsi, salutare – hanno ciò che possiamo chiamare la direzione di adattamento presupponente (the “presup” direction of fit) – e uso la sigla “prp” – perché danno per scontato l’adattamento. Ora, posso mentire quando mi scuso se faccio finta di aver fatto qualcosa che in effetti non ho fatto. Ad esempio, mi scuso per averti rubato i soldi, quando in effetti non te li ho rubati, ma voglio prendermi la colpa per coprire qualcuno: quindi non asserisco di averti preso i soldi, tuttavia, scusandomi, presuppongo di averti preso i soldi.
21Studiare le direzioni di adattamento degli atti linguistici è fondamentale al fine di analizzare la costruzione sociale, come vedremo anche domani. Ci sono diverse direzioni di adeguamento fra le parole e la realtà. Un atto con la direzione parola-a-mondo può essere vero o falso, un atto con la direzione mondo-a-parola non può essere vero o falso, e poi ci sono atti che presuppongono l’adattamento. Fra l’altro in inglese c’è un segno sintattico che mette in luce questa differenza: basti pensare all’uso della proposizione “for”. In inglese non si dice “I apologize to step on your foot” e nemmeno “I apologize that I step on your foot”, invece si deve dire “I apologize for stepping on your foot”, e questo è un segno del fatto che la verità della proposizione è presupposta. Questo mi ricorda il mio primo insegnante di francese che ogni volta che arrivava in classe diceva “Excuse me to be late”. Ora “Excuse moi d’être en retard” è francese perfetto, ma “Excuse me to be late” è inglese orribile: non lo si può dire. In inglese si usa l’infinitiva per la direzione di adattamento mondo-a-parola, come in “I order you to leave the room”. Si usa “that” per la direzione parola-a-mondo “I claim that you leave the room”. Ma si dice “I apologize for leaving the room”, il “for” è un segno sintattico della direzione presupponente. Ma questa è solo una idiosincrasia dell’inglese, probabilmente da questo punto di vista l’italiano è più simile al francese.
22Mi vorrei adesso soffermare su un elemento affascinante del linguaggio che non si trova nella mente. Nel linguaggio c’è quest’incredibile capacità di creare un adattamento rappresentando l’adattamento stesso come già avvenuto. È stato il mio maestro Austin a scoprire questa caratteristica particolare e a chiamare “performativi” quegli atti linguistici in cui si fa sì che qualcosa accada rappresentando la cosa come già accaduta. “La seduta è tolta”, “Dichiaro guerra”, “Vi dichiaro marito e moglie” sono tutti proferimenti performativi (performative utterances) e in un performativo si fa sì che qualcosa accada – ed è questa la direzione di adattamento mondo-a-parola o dal basso verso l’alto (uphill) – ma lo si fa rappresentando il cambiamento come già avvenuto – ed è questa la direzione di adattamento parola-a-mondo o dall’alto verso il basso (downhill). Ad esempio, si toglie la seduta dicendo “La seduta è tolta”. Si noti che uno non può chiedere: ma come lo sai che la seduta è tolta? Su quale evidenza ti basi? Perché quando dici “La seduta è tolta”, tu stai di fatto togliendo la seduta, e lo stai facendo rappresentando la seduta come già tolta. Capite il punto? In questi casi si ha una doppia direzione di adattamento. Si cambia la realtà in un certo modo – e questa è la direzione mondo-a-parola – ma la si cambia rappresentandola come già modificata in quella particolare maniera. Ci sono verbi specifici per gli atti performativi: “Ti prometto di venirti a trovare mercoledì”, “Con ciò tolgo la seduta”, “Con ciò dichiaro guerra”; questi sono tutti casi in cui si cambia la realtà rappresentando la realtà come già esistente e in cui si usano certi verbi specifici. Ma la cosa notevole è che ci sono molti usi del linguaggio che hanno la doppia direzione di adattamento senza che venga usato un verbo performativo. Il mio esempio preferito è il denaro americano. Sui soldi americani c’è scritto “questa banconota è valuta legale per tutti i debiti pubblici e privati (this note is legal tender for all debts public and private)”. Quando l’ho letto per la prima volta – sapete sono un epistemologo – mi sono chiesto: ma come lo sanno? Hanno fatto uno studio? C’è qualche evidenza empirica che mostri che questa banconota sia valuta legale? E la risposta, ovviamente è: questa non è un’ipotesi empirica. Non hanno fatto delle indagini per poi concludere che ci sono buone probabilità che sia valuta legale, bensì hanno fatto sì che questa banconota sia valuta legale rappresentandola come tale. Adesso vorrei richiamare la vostra attenzione su questa doppia direzione di adattamento perché nei prossimi giorni vi spiegherò come questo sia precisamente il meccanismo con il quale creiamo la civiltà umana32. Creiamo il denaro, la proprietà, i matrimoni, le vacanze estive, i cocktail party, i diplomi di dottorato, le tassazioni ecc., e tutto ciò semplicemente usando e iterando questo meccanismo.
23Torniamo adesso alla relazione fra linguaggio e intenzionalità. Abbiamo scoperto che nel linguaggio ci sono quattro tipi di direzione di adattamento. C’è la direzione parola-a-mondo, quella mondo-a-parola, quella presupponente e quella doppia. Come stanno le cose con la mente? Chiaramente ci sono stati mentali cha hanno la direzione di adeguatezza mondo-a-parola che possono essere veri o falsi, come le credenze, ad esempio, e come le asserzioni. Credenze, presupposizioni, ipotesi possono essere vere o false e quindi hanno la direzione di adeguatezza mondo-a-parola. Tuttavia ci sono anche stati intenzionali che sono come ordini e promesse, e che quindi hanno la direzione mondo-a-parola, o meglio mondo-a-mente, come ad esempio i desideri e le intenzioni che, come gli ordini e le promesse, hanno la direzione di adeguatezza all’insù (upward), perché lo scopo del desiderio o dell’intenzione non è di rappresentare una realtà che preesiste, ma di rappresentare come ci piacerebbe che la realtà fosse nel caso dei desideri, o come intendiamo cambiarla nel caso delle intenzioni. Quindi in alcuni casi abbiamo nella mente le stesse distinzioni che abbiamo nel linguaggio. C’è la distinzione fra la direzione di adattamento dall’alto verso il basso – parola-a-mondo o mente-a-mondo – e la direzione di adattamento dal basso verso l’alto – mondo-a-parola o mondo-a-mente. Ma, chiediamoci adesso, che cosa capita nel caso della direzione presupponente? C’è anche qui il parallelo, nel caso di essere dispiaciuto per qualcosa, o felice che qualcosa sia accaduto, o lieto per qualcosa. In tutti questi casi si sta presupponendo che qualcosa sia accaduto, e la verità della proposizione è data per scontata.
24È tuttavia doveroso sottolineare una disanalogia importante. Nella mente non c’è la doppia direzione di adattamento. Infatti mentalmente non è possibile fare in modo che qualcosa abbia luogo semplicemente rappresentandolo come avente avuto luogo. I filosofi hanno partorito a questo riguardo qualche contro-esempio contorto. Uno famoso: Descartes sostiene che si pensi semplicemente pensando che si stia pensando. Se siete preoccupati da questo contro-esempio ne parliamo dopo, ma è abbastanza indifferente nei confronti di ciò che sto per dire. Qui mi interessa soprattutto sottolineare che questa incredibile capacità umana di creare una realtà semplicemente rappresentandola come esistente richiede un linguaggio, non lo si può fare con la mente soltanto. Il mio cane Gilbert è molto intelligente, ma non è capace di togliere una seduta, dichiarare una guerra, o annunciare che le vacanze estive sono iniziate. Quindi la doppia direzione di adattamento richiede il linguaggio, ma abbiamo anche in questo caso un importante punto di somiglianza, perché tre su quattro delle nostre forme trapassano dal linguaggio alla mente.
25Sia gli atti linguistici sia gli stati intenzionali possono avere diverse direzioni di adattamento con il mondo
direzione | mente- a-mondo | mondo-a-mente | prp | doppia |
linguaggio | asserzioni | ordini e promesse | espressioni | performativi |
mente | credenze | desideri e intenzioni | espressioni | no |
26La nostra domanda era: come funziona l’intenzionalità? Ci interessava quindi esplicitare la struttura logica dell’intenzionalità. Stiamo rispondendo a questa domanda prendendo in considerazione alcuni parallelismi fra il linguaggio e la mente. Il primo parallelismo è che il linguaggio ha la distinzione fra la forza illocutoria e il contenuto proposizionale e la mente ha una distinzione parallela fra il tipo e il contenuto di uno stato intenzionale. Il secondo parallelismo è che le distinzioni di direzione di adattamento che troviamo per il linguaggio le ritroviamo anche per la mente, con un’importante distinzione però: il linguaggio permette una doppia direzione di adattamento, in un modo che la mente sola non permette. Fra l’altro, e ovviamente, magari Dio è un contro-esempio: infatti può ben essere che Dio faccia sì che qualcosa accada semplicemente pensando che accada. Ma qui non possiamo generalizzare la questione Dio, non saprei nemmeno come farlo. In ogni caso, per quanto riguarda gli esseri umani, non è possibile avere la doppia direzione di adattamento con la mente. Andiamo avanti. Un terzo punto importante di somiglianza fra il linguaggio e la mente, e questo è fondamentale per la nostra analisi dell’intenzionalità, è che ogni stato intenzionale con la direzione mente-a-mondo o mondo-a-mente, così come i corrispondenti atti linguistici con la stessa direzione, può aver successo o no. Le asserzioni possono essere vere o false, e similmente le credenze possono essere vere o false. Gli ordini possono essere obbediti o disobbediti, e similmente i desideri possono essere soddisfatti o meno. Una promessa può essere mantenuta o rotta. Ogni volta che si ha un atto linguistico con una di queste due direzione di adattamento si ha ciò che chiamo condizioni di soddisfazione – condizioni di verità, di obbedienza, di compimento ecc. – e tali condizioni di soddisfazione le ritroviamo anche per la mente. Ogni qual volta si hanno stati mentali con direzione di adattamento dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso, tali stati avranno condizioni di soddisfazione. Lo si può dire in questi termini: ciò che fa di un’asserzione un’asserzione vera è ciò che fa di una credenza una credenza vera; ciò che fa di un ordine un ordine obbedito, è ciò che fa di un desiderio un desiderio soddisfatto; ciò che fa di una promessa una promessa mantenuta è ciò che fa di un’intenzione un’intenzione realizzata. Per comprendere l’intenzionalità occorre comprendere le condizioni rappresentazionali di soddisfazione. Sono un po’ riluttante a introdurre la nozione di rappresentazione perché ha una storia sordida. Non vi sto a raccontare quanto sordida, ma comunque vorrei farvi notare che non la uso in un’accezione ontologica, nel senso che per avere una credenza devi avere qualcosa come un’immagine nella mente. Però per avere una credenza devi essere in grado di distinguere fra l’essere vero della credenza e il suo essere falso, e qualsiasi cosa possa avere successo o meno in quel modo è una rappresentazione delle condizioni di soddisfazione. Questo deve essere sottolineato al fine di distinguere la mia posizione da quella di molti fenomenologi che utilizzano la nozione di rappresentazione in un senso ontologico, per identificare una classe di entità mentali. Io la uso strettamente in un senso funzionale e non mi interessa fornire anche la metafisica delle rappresentazioni. Il punto è che ogni credenza può essere vera o falsa: per questo motivo dico che la credenza è una rappresentazione delle sue condizioni di soddisfazione.
Sia gli atti linguistici sia gli stati mentali con la direzione mente-a-mondo (asserzioni/credenze) o mondo-a-mente (ordini/desideri) sono rappresentazioni delle proprie condizioni di soddisfazione. |
27Abbiamo dunque individuato finora tre diversi parallelismi: la distinzione fra tipo e contenuto, la distinzione fra le diverse direzioni di adattamento e la nozione di condizioni di soddisfazione – che troviamo in generale sia per il linguaggio sia per la mente. Tuttavia occorre adesso mettere in evidenza una differenza importante fra il linguaggio e la mente: le cose che riguardano il linguaggio sono sempre atti umani, qualcosa che si fa intenzionalmente, invece le cose che riguardano la mente non sono atti, ma stati, e questa distinzione viene alla luce in un quarto parallelismo. Ogni volta che si compie un atto linguistico si esprime uno stato mentale, perché l’esistenza degli stati mentali è la condizione di sincerità dell’atto linguistico corrispondente. Lasciatemi spiegare esattamente che cosa intendo. Ogni volta che si compie un atto linguistico di asserzione si esprime una credenza: infatti la tua asserzione è sincera solo se accetti la credenza che esprimi. Quando si asserisce qualcosa che non si crede si sta mentendo, perché l’asserzione non è espressione di una credenza. Similmente, la promessa è l’espressione di un’intenzione, l’ordine è l’espressione di un desiderio e questa relazione fra il linguaggio e la mente vale generalmente. Ogni atto linguistico ha un contenuto proposizionale che è l’espressione di uno stato psicologico la cui esistenza costituisce la sua condizione di sincerità. Notate, inoltre, che le condizioni di soddisfazione dell’atto linguistico sono identiche alle condizioni di soddisfazione delle condizioni di sincerità. Ad esempio, la mia asserzione che sta piovendo è vera, se e solo se la mia credenza che sta piovendo è vera. La mia promessa che ti pagherò è mantenuta, se e solo se la mia intenzione di pagarti è mantenuta. Questo perché ogni atto linguistico è un’espressione di uno stato mentale.
Ogni atto linguistico AS esprime uno stato mentale SA corrispondente. Infatti, l’esperienza di SA è la condizione di sincerità di AS. |
28Sembra quindi che ci stiamo muovendo alquanto bene nella nostra analisi della relazione fra l’intenzionalità del linguaggio e quella della mente. Rimangono tuttavia diverse cose da chiarire. Innanzitutto occorre spiegare che cosa vuol dire che la mente può comunicare significati che poi vengono espressi dal linguaggio. Il secondo punto problematico è che, se analizziamo tutti gli stati psicologici in termini di condizioni di soddisfazione, come facciamo con quegli stati che – come le espressioni, che hanno una direzione presupponente – non sembrano avere condizioni di soddisfazione? Il terzo punto poi è: come è possibile che ci siano segni o marchi che acquisiscono intenzionalità? La loro intenzionalità non è intrinseca, è relativa all’osservatore, ma come è possibile che l’intenzionalità intrinseca della mente imponga un’intenzionalità derivata su di un suono che esce dalla mia bocca? I suoni che escono dalla mia bocca hanno interessanti proprietà che la maggior parte dei suoni o dei rumori non hanno. Sono significativi, sono veri o falsi, rilevanti o irrilevanti, coerenti o non coerenti in un modo in cui gli altri suoni non lo sono. Per rispondere a questa domanda abbiamo bisogno di un apparato più complesso, che tra poco – dopo aver elencato ancora una volta le quattro nozioni fondamentali che segnalano i quattro punti di parallelismo fra linguaggio e mente – descriverò.
La distinzione fra tipo e contenuto |
Rete e Sfondo e generalizzazione dell’analisi
29Ecco un fatto interessante e curioso: non puoi avere uno stato intenzionale senza averne anche molti altri. Allora, io credo di essere a un seminario a Torino. Cosa devo credere per avere questa credenza? Devo credere molte altre cose: devo credere che Torino è una città in Italia, che i seminari sono riunioni intellettuali per persone che vogliono riunirsi per parlare di qualcosa, che generalmente occorre un po’ di tempo per poter discutere, e così via. È evidente come, per ogni credenza che qualcuno ha, c’è sempre un insieme di molte altre credenze che uno deve avere per poter avere quella prima credenza: infatti uno non potrebbe avere una determinata credenza, senza avere tutte quelle altre. Ogni credenza è una funzione di molte altre credenze. Facciamo un esempio: a un certo punto George W. Bush decide di partecipare all’elezione presidenziale – egli forma l’intenzione di partecipare. Cos’altro deve credere, e desiderare e intendere, per fare ciò? La lista è piuttosto lunga. Deve credere che gli Stati Uniti siano una repubblica, che negli Stati Uniti ci siano elezioni presidenziali libere ogni quattro anni, che il vincitore sia (in genere è così) un membro di uno dei due partiti maggiori, e così via. Deve avere anche molti desideri: il desiderio di ottenere la designazione dal suo partito, di fare in modo che la gente lo voti, e così via. Non c’è quindi modo di avere uno stato intenzionale singolo, solo per se stesso. Forse per cose come avere sete non occorre che uno abbia altri stati intenzionali, ma se si vuole andare in vacanza, o scrivere un romanzo, allora bisogna avere molti altri stati intenzionali. Si può pensare a una Rete: ogni stato intenzionale “funziona” – ossia determina le proprie condizioni di soddisfazione – solo per la sua posizione e la sua relazione con tutti gli altri nella Rete.
30Avrete notato che quando ho detto che, affinché Bush possa formare l’intenzione di correre per la presidenza, egli deve avere anche molte altre credenze e desideri, ho iniziato a fare la lista e poi ho detto qualcosa come “eccetera eccetera”, o “e così via”. Questo è quello che più o meno tutti farebbero. Si tratta di un inganno? Perché non ci mettiamo di impegno e non stiliamo la lista completa? La difficoltà qui è che nessuno sarà mai in grado di completare tale lista, perché ogni nuova cosa che si introduca, che si supponga che egli debba credere, richiederà essa stessa altre credenze. Per avere l’intenzione di correre per la presidenza, Bush deve avere l’intenzione di farsi designare dal partito repubblicano, e questo vuol dire che deve avere molte credenze sul partito repubblicano, e ciascuna di queste credenze, a sua volta, richiede altre credenze e così via. Non dico che ci sia un regresso infinito, ma sarebbe in pratica impossibile fare una lista completa di tutte le credenze che sono essenziali per avere una particolare credenza. Inoltre presto si raggiunge un tipo di fenomeno che sembra essere troppo fondamentale per essere elencato fra le credenze: ad esempio, si suppone che per partecipare alla corsa presidenziale, Bush debba credere che le elezioni si tengano sulla superficie terrestre. Ma questo non è una cosa che si troverà mai in un manuale di scienze politiche: “Oh, fra l’altro in America le elezioni si tengono sulla superficie terrestre”. Certo, bisogna anche dire che in alcuni casi può accadere qualcosa del genere. Quando ero studente eravamo obbligati a frequentare un corso di ciò che chiamavano “scienza militare”. Nel corso, a un certo punto, si discuteva del trasporto aereo e si diceva che, per consegnare le cose trasportate via aereo, o si atterrava e le si consegnava, o le si lanciava col paracadute, o si usava la caduta libera facendole semplicemente cadere dall’aereo. E veniva aggiunto che il getto libero non si doveva usare per le persone. Allora io mi dissi: “Ah, è così che la mente militare funziona”. Normalmente ritengo queste cose date per scontate, almeno dalla maggior parte di noi. La difficoltà nel compilare una lista completa è che ci sono molte cose che sono sempre date per scontate, come ad esempio che le elezioni si tengano sulla superficie terrestre. Questa è ovviamente una cosa importante da sapere, e tutt’altro che banale: se tutti credessero che le elezioni si tengono sulla luna, la campagna andrebbe in modo differente, e spedirebbero dei missili avanti e indietro per portare la gente ai seggi. Perciò non è banale dire che le elezioni si tengono sulla superficie terrestre, tuttavia non voglio considerare questa come una credenza, perché è troppo fondamentale. Oppure che gli elettori generalmente votino solo quando sono coscienti: anche questa è una cosa che viene data per scontata, è un presupposto. È giunto il momento di introdurre una nozione importante per questo tipo di problema. L’intera Rete dell’intenzionalità funziona solamente perché c’è uno Sfondo presupposto che rende possibile che gli elementi di dettaglio della Rete funzionino adeguatamente. Tale Sfondo non consiste di ulteriori credenze che si aggiungono alla Rete stessa, ma piuttosto di abiti, presupposti, modi di essere ecc.
31Spero di essere stato sufficientemente chiaro. Poniamo che io abbia l’intenzione di andare a sciare. Che cosa devo credere per avere tale intenzione? La tentazione è di dire che devo credere molte cose riguardo alla capacità di sciare: ad esempio devo credere che se metto le gambe in una certa posizione resto su, mentre se le metto in un’altra posizione cado. Il punto tuttavia è che la capacità di sciare presuppone una serie di capacità di Sfondo, piuttosto che di credenze. Queste, ovviamente, possono essere sempre descritte come credenze, ma non per questo si deve concludere che siano credenze tout court. Le inferenze che so compiere a partire da credenze che riguardano lo sciare non identificano però la mia capacità di sciare. La tentazione fra gli intellettuali – e ciò non sorprende – è quella di intellettualizzare, di riportare tutto a inferenze fra credenze. Invece moltissime cose, come le capacità di base, fanno semplicemente parte delle abilità di Sfondo che – pur non consistendo a loro volta di fenomeni inferenziali – rendono possibile la Rete dell’intenzionalità.
32Ora intendo rispondere a una delle domande che ho sollevato prima. La domanda è: quanto è generale la mia analisi dell’intenzionalità in termini di condizioni di soddisfazione? C’è un’intera classe di stati intenzionali – dispiacere e rimorso, felicità e gioia, orgoglio e vergogna, ad esempio – che non hanno essi stessi una direzione di adattamento, e che quindi non hanno in nessun senso banale delle condizioni di soddisfazione. Il che significa che dispiacere, gioia e vergogna non hanno – in quanto tali – condizioni di soddisfazione, ma sono intrinsecamente localizzati in una rete di desideri e credenze i quali, da parte loro, hanno condizioni di soddisfazione. Illustrerò il caso dell’orgoglio e della vergogna. Diciamo che sono orgoglioso di p. È interessante vedere cosa p – ciò di cui sono orgoglioso – possa essere. C’è gente che è orgogliosa di avere un naso grosso, mentre altra gente si vergogna di avere un naso grosso. Allora, è evidente come si possa essere orgogliosi di molte cose, ma non di qualsiasi cosa. Se io dicessi “Sono molto orgoglioso” e qualcuno mi chiedesse “E di cosa sei orgoglioso?”, e io rispondessi “Sono molto orgoglioso dell’orbita ellittica dei pianeti”, quella persona giustamente mi potrebbe obiettare che non posso essere orgoglioso di una cosa simile. Potrei essere orgoglioso di aver scoperto l’orbita ellittica dei pianeti, se l’avessi scoperta, ma non posso essere semplicemente orgoglioso dell’orbita ellittica dei pianeti. Se io replicassi alla sua obiezione dicendogli “guarda, questo è un paese libero, non so in Italia, ma in America uno può essere orgoglioso proprio di qualsiasi cosa gli passi per la testa”, questa risposta non andrebbe comunque bene, sarebbe logicamente assurda. Per essere orgoglioso di p, si deve credere – questo è il punto importante – che in qualche modo p sia connesso con noi, magari si potrebbe trattare di qualcosa che abbiamo fatto, in qualche senso: ad esempio, la gente spesso è orgogliosa dei propri nipotini. La connessione può chiaramente essere anche decisamente più labile: basti pensare che si può essere orgogliosi dei successi della propria squadra locale anche se l’unica attività che si è fatta è stata quella di guardarli in televisione. In ogni caso occorre sempre credere che p sia connesso in qualche modo con noi, per essere orgogliosi di p. Inoltre, bisogna “credere che p”: infatti, se una persona è orgogliosa di avere un naso enorme, allora questa persona deve credere di avere un naso enorme, e deve credere che ciò di cui è orgogliosa abbia una qualche connessione con se stessa. Poi, in qualche senso, bisogna “desiderare che p” – occorre desiderare di avere un naso grosso, o qualcosa del genere. Con l’orgoglio, ritengo che sia corretto in generale sostenere che si desidera anche che gli altri “sappiano che p”. L’analisi che propongo è dunque la seguente:
(O) Orgoglio (p) → Credere (p) & Desiderare (p) & Credere (p mi riguarda) & Desiderare (p è noto agli altri)
Il caso della vergogna è analogo:
(V) Vergogna (p) → Credere (p) & Desiderare (non p) & Credere (p mi riguarda) & Desiderare (p è nascosto agli altri)
33L’analisi dell’intenzionalità in termini di condizione di soddisfazione è dunque generalizzabile anche ai casi di direzione di adattamento presupponente, almeno fino a un certo punto. Molti stati intenzionali, come l’orgoglio e la vergogna – anche se non contengono immediatamente le loro condizioni di soddisfazione – contengono comunque credenze e desideri che a loro volta hanno condizioni di soddisfazione, e questo perché sono quello che sono in virtù della loro connessione all’interno della rete di connessione fra stati intenzionali. Se disponiamo di un armamentario logico abbastanza potente, possiamo dunque analizzare molti stati mentali in termini di credenza e desiderio. In questo modo anche stati che non hanno direttamente condizioni di soddisfazione, le acquistano per via delle loro connessioni con questi altri stati. Ci sono tuttavia casi problematici, come la paura o il terrore. Una prima analisi è la seguente:
(P) Paura (p) → Credenza (Possibile p) & Desiderio (non p) & ...
(T) Terrore (p) → Credenza (Possibile p) & Forte Desiderio (non p) & ...
34Per “aver paura che p” o “terrore che p”, non sembra essere sufficiente credere che p sia possibile e desiderare (o desiderare fortemente) che p non abbia luogo. C’è qualcos’altro che occorre aggiungere all’analisi in questi casi. Cosa dobbiamo aggiungere nelle parti mancanti? Penso che in questi casi occorra aggiungere un sentimento bruto di paura o terrore. Il sentimento è bruto perché può accompagnarsi al contenuto intenzionale ma anche esistere indipendentemente. Ad esempio, c’è una cosa che mi capita spesso quando guido la mia Porsche in California: quando vedo nello specchietto retrovisore le luci della polizia e una volante che si avvicina a gran velocità, mi prende una paura molto forte di essere fermato. È alquanto irrazionale, lo so bene, ma sono terrorizzato dall’idea di essere fermato, prende corpo in me un sentimento di autentico terrore e sento come un blocco allo stomaco. Poi, puntualmente, vedo che la polizia voleva fermare quello davanti, o qualche altra macchina: allora succede che la credenza che sia possibile che mi vogliano fermare svanisca (lo stato intenzionale sparisce), ma anche che il sentimento bruto, il blocco alla bocca dello stomaco, rimanga inalterato.
35Ci sono altri casi problematici, come l’amore e l’odio. In prima approssimazione, possiamo dire che l’amore consiste almeno nella credenza che l’oggetto amato esista, cui si aggiunge un insieme di altre credenze e desideri che lo riguardano.
(A) Amare (Sally) → Credenza (Esiste (Sally)) & Credenza .... & Desiderio ....
36Il problema qui è che c’è una variazione enorme nelle condizioni da caso a caso. Ma anche questo si può comunque fare rientrare nell’analisi generale che abbiamo fornito.
Forma aspettuale, intensionalità-con-la-s e principio di connessione
37Cosa dire della percezione? Abbiamo detto che l’intenzionalità può essere analizzata in termini di rappresentazioni, in particolare di rappresentazioni delle proprie condizioni di soddisfazione. Tale rappresentazione è sempre sotto un qualche aspetto. Questo il motivo per il quale le ascrizioni di stati intenzionali (intentional reports) sono intensionali – con la “s”. Cosa vuol dire che sono intensionali? L’intensionalità è una proprietà degli enunciati. Gli enunciati che falliscono certi test, i test per l’estensionalità, sono detti essere intensionali. I test sono due:
_______________Test per l’estensionalità (1) Sostitutività dei termini co-referenziali |
38Un enunciato è estensionale se e solo se si possono sostituire tutti i termini che compaiono in esso con termini che si riferiscono agli stessi oggetti, ossia se e solo se non ci sono termini che non sono sostituibili salva veritate, stando alla definizione seguente:
(Sost) “a” è sostituibile con “b”, salva veritate, in un enunciato p, se e solo se sostituendo “a” con “b” in p non cambia il valore di verità di p.
39Inoltre, un enunciato estensionale permette che si generalizzi esistenzialmente sui suoi termini singolari, ossia che sia sempre possibile da un enunciato come
(1) Giovanni è sposato
concludere che
(2) Esiste qualcuno che è sposato.
40Gli enunciati che non hanno queste caratteristiche, invece, sono intensionali. L’intensionalità è problematica perché sembrerebbe andare contro l’idea che le leggi logiche debbano preservare la verità. La legge di Leibniz dice, correttamente, che se due cose sono identiche allora tutte le proprietà dell’una sono proprietà dell’altra.
(Leibniz) Se a è identico a b allora per ogni f, a è f se e solo se b è f.
41Ma questo sembrerebbe fallire quando ci sono contesti in cui a e b sono identici ma non puoi sostituire uno per l’altro, ossia nei casi di enunciati intensionali – con la “s”. Perché? Perché in quei casi è rilevante per la verità non solo di quale oggetto parli, a quale oggetto ti riferisci, ma anche come ti riferisci a quell’oggetto.
42Le ascrizioni di intenzioni sono casi di questo tipo, e infatti falliscono questi test. Ad esempio, se io dico
(3) Bill crede che Giovanni abbia ucciso Luigi
non posso essere sicuro che sostituendo a “Luigi” un termine che lo individui, come la descrizione “il marito di Anna”, il valore di verità di (3) non cambi. Se Bill non sa che Luigi è il marito di Anna, ad esempio, Bill potrebbe benissimo non credere che Giovanni abbia ucciso il marito di Anna, pur essendo (3) vero.
43In altri termini, se ti riferisci alla stessa entità sia come “il marito di Anna”, sia come “Luigi”, qualcuno può non sapere che Luigi è il marito di Anna. Quindi non si può inferire dalla credenza che Bill ha ucciso Luigi la credenza che Bill ha ucciso il marito di Anna, perché non si può garantire che la verità venga preservata. Per questo motivo c’è il fallimento della sostitutività; si tratta infatti di un caso che non è estensionale, bensì intensionale.
44Perché le cose stanno così? La ragione è che gli stati intenzionali – con la “z” – rappresentano le proprie condizioni di soddisfacimento; quindi l’ascrizione di uno stato intenzionale è una rappresentazione di una rappresentazione delle condizioni di soddisfazione e pertanto il suo status come vero o falso dipende da come le condizioni di soddisfacimento sono rappresentate. Molti filosofi pensano che, siccome le ascrizioni di intenzioni sono intensionali, con la “s”, le stesse intenzioni – con la “z” – debbano essere intensionali. Questo è un errore endemico: confondere caratteristiche dell’ascrizione con caratteristiche del fatto ascritto. L’ascrizione è intensionale, ma l’intenzione non è intensionale. Per constatarlo è sufficiente costruire casi di stati intenzionali che sono intensionali: se credo che Cesare abbia attraversato il Rubicone quella credenza stessa è assolutamente estensionale, perché la credenza è soddisfatta se c’è un unico x che è Cesare e un unico y che è il Rubicone e qualsiasi cosa identica a x attraversa qualsiasi cosa identica a y. Ma se tu credi (hai la credenza) che io creda che Cesare abbia attraversato il Rubicone, allora la tua credenza sarà intenzionale perché tale credenza non ammetterà sostitutività. Tuttavia dal fatto che la credenza stessa sia estensionale e dal fatto che la credenza sulla credenza sia intensionale non segue che ci sia qualcosa di intrinsecamente intensionale nell’intenzionalità.
45Passiamo ora a un’altra considerazione che può sembrare problematica per la mia teoria. È evidente che molti dei nostri stati intenzionali siano inconsci. Ci sono tanti esempi al riguardo: quando facciamo le cose senza pensarci, e così via. La mia analisi, tuttavia, sembrerebbe essere applicabile solo a stati consci. La mia idea è che tutti gli stati inconsci siano sempre tali da poter essere, almeno in linea di principio, stati consci. Questo è quello che io chiamo il principio di connessione (Connection Principle) e penso sia un principio molto importante.
Principio di connessione Uno stato è intenzionale se e solo se è potenzialmente conscio |
46Soffermiamoci brevemente su un fatto: la scienza cognitiva tradizionale postula molti stati mentali che non possono essere consci. Chiaramente questo si scontra con il Principio di connessione. L’intuizione sottostante il Principio di connessione è la seguente: se hai qualcosa che è intrinsecamente mentale, qualcosa che non è mentale solo relativamente all’osservatore – non è solo un modo di dire che sia “mentale” – allora devi chiederti quale fatto che ti riguarda lo renda mentale. Non sarebbe sufficiente dire: produce risultati intelligenti. Gli stati mentali che la scienza cognitiva computazionale postula, d’altro canto, sono solo passi di un processo di computazione: sono postulati solo per spiegare il passaggio dall’informazione di entrata a quella in uscita. Lasciatemi fare un esempio. Quando guido, seguo inconsciamente la regola di guidare sul lato destro della strada. Se qualcuno, dall’esterno, volesse predire il mio comportamento, direbbe “no, la regola che segui è quella di guidare la macchina così che il volante sia vicino alla linea centrale della strada e il passeggero al bordo della strada”. Quando vado in Australia o in Inghilterra questa regola in effetti dà una predizione più semplice del mio comportamento, perché là non solo guidano dal lato opposto, ma le macchine hanno anche il volante dal lato opposto e quindi sembrerebbe che io stia guidando seguendo quella medesima regola. Si noti inoltre che quella regola “guida in modo tale che il volante ecc.” produrrebbe una previsione del mio comportamento tanto adeguata quanto la regola di guidare sulla destra, in America, e la regola di guidare sulla sinistra, in Inghilterra. A livello metodologico è meglio, perché ho una singola regola, che seguo tanto in America quanto in Inghilterra. Tuttavia c’è indubbiamente qualcosa di sbagliato e questo per un semplice motivo: io non seguo quella regola. È una regola perfettamente legittima, intendiamoci, però non è la regola che seguo. Allora cos’è che fa sì che io segua la regola del lato destro, piuttosto che l’altra? È un fatto dovuto alla forma aspettuale (aspectual shape) della regola. C’è un certo aspetto sotto il quale metto in atto un certo comportamento. Metto in atto il comportamento di guidare sulla destra, quando sono negli Stati Uniti, questa è quindi la regola che seguo. Metto in atto il comportamento di guidare sulla sinistra, quando sono in Inghilterra, questa è la regola che seguo. La predizione del comportamento non è sufficiente a stabilire quale sia la regola che si sta seguendo, perché diverse regole possono predire un medesimo comportamento. Deve esserci qualche fatto che riguarda la mente che fa sì che io stia seguendo l’una piuttosto che l’altra regola, e questo deve avere che fare con la forma aspettuale della regola. Ora, la mia obiezione alla scienza cognitiva computazionale è che non vedo alcuna possibilità che tale condizione possa essere tenuta in considerazione in una teoria meramente computazionale. Si prenda ad esempio la teoria della visione di Marr33. Non c’è la possibilità che una forma aspettuale possa avere qualche rilevanza nel passare dallo schizzo primario all’immagine 2D e mezzo. Si tratta solo di un insieme di processi computazionali, e nessun processo computazionale descriverà il mio apparato visivo. Ne posso certo dare una simulazione adeguata sulla base di descrizioni computazionali, ma non è un caso di seguire una regola – l’intenzionalità inconscia richiede la forma aspettuale, la forma aspettuale è una di quelle cose che deve essere accessibile alla coscienza, altrimenti non vedo che cosa la renda mentale.
47Ovviamente si potrebbe pensare ad ammettere dei casi intermedi che si caratterizzino come stati sulla via per la forma aspettuale34, ma che tuttavia non abbiano – propriamente parlando – una forma aspettuale. Le rappresentazioni postulate da una teoria come quella di Marr – ad esempio i cosiddetti “bar” che denotano i confini – pur non essendo nemmeno potenzialmente conscie, sono collegate, per via di computazioni, alla scena visiva, all’esito conscio del processo di visione. Allora, siamo tutti d’accordo sul fatto che la visione sia intenzionale e che ci siano componenti della visione – come la percezione dei confini – che sono intenzionali. La mia obiezione a Marr e alla scienza cognitiva computazionale non è che non ci sia intenzionalità nell’esperienza visiva, bensì che i processi attraverso i quali andiamo dallo stimolo in entrata alla scena visiva (così come li descrive lui) non abbiano alcuna realtà mentale. Penso che ci siano due livelli di descrizioni: ci sono i livelli neurobiologici non consci (che vengono prima) e ci sono i processi intenzionali (che sono consci di seguire una regola). I processi intenzionali sono spesso inconsci, tuttavia devono sempre soddisfare la condizione del principio di connessione, ossia che la forma aspettuale sia di principio qualcosa che possa rientrare nella coscienza dell’agente. L’argomento quindi è che altrimenti non ci sarebbe una risposta alla domanda “cosa lo rende mentale?”. Si potrebbe sempre fornire una descrizione in termini computazionali, come se stessero computando la forma dall’ombra e così via. Quello che sto sostenendo è che ciò sarebbe o privo di significato o vuoto, perché il processo effettivo è un processo neurobiologico, e se si consultano i manuali standard di teoria della visione non c’è riferimento a come andare dallo schizzo primario alla figura in 2D e mezzo. Adesso forse non abbiamo più bisogno di una teoria di questo tipo, perché ne sappiamo di più. Non ritengo peraltro di avere sferrato un attacco decisivo, forse si dovrebbe dire di più. Mi preme comunque spiegare che cosa alimenta il mio scetticismo: c’è una condizione di realtà mentale che i sostenitori di questa teoria non considerano. Penso che ci siano componenti della mia esperienza visiva che si riferiscano a oggetti, ma che non derivino essi stessi dal seguire una regola. Prendiamo ad esempio i processi neurobiologici nel cervello: l’occhio stimola una parte del cervello – e il processo è assolutamente bruto – però finisce in un processo che ha intenzionalità. Ecco l’errore della scienza cognitiva computazionale: se c’è un dato in entrata intelligente o significativo e un dato in uscita significativo, allora si ritiene che il processo in mezzo debba essere significativo. Non è così, infatti possono esserci dei processi neurobiologici completamente ciechi. Quando uno stimolo va da una parete all’altra del cervello, non c’è nessuna realtà mentale, non più di quella che ci può essere nella digestione. Si ingerisce del cibo e lo stomaco lo digerisce attraverso gli enzimi, esattamente come si ricevono fotoni attraverso le cellule fotosensibili dell’occhio e c’è un processo che genera un’esperienza visiva. Perché dovremmo postulare processi caratterizzati da un’inferenza logica per spiegare questi fatti bruti della biologia? Credo che non si tratti che di una favola: il sistema visivo è un organo, nient’altro che un organo, e come ogni altro organo segue principi biologici. In ogni caso tenete presente che il mio punto di vista è minoritario: molta gente pensa che ci siano un mucchio di inferenze lì dove io vedo meri processi biologici.
L’intenzionalità dell’azione e l’autoreferenzialità causale di azione e percezione
48È adesso giunto il momento di parlare della connessione fra intenzionalità e azione. In letteratura si riconosce una differenza fra l’intenzione e il compimento dell’intenzione, le quali sono chiaramente distinte. Compiere un’intenzione significa realizzare un’azione intenzionale: in altri termini, l’azione intenzionale non è altro che la condizione di soddisfazione di un’intenzione. Questo è grosso modo corretto, ma occorre specificare ulteriormente la relazione fra le due. Inoltre, e qui si va più nello specifico, occorre distinguere fra l’intenzione di fare qualcosa e il farla intenzionalmente. Realizzo l’intenzione solo se compio intenzionalmente l’azione che realizza la mia intenzione, e per compiere intenzionalmente l’azione non basta che sia la mia intenzione a causare l’azione. La connessione dev’essere più stretta, perché anche quando si compie qualcosa non intenzionalmente, l’azione compiuta è sempre il risultato di una qualche altra intenzione. Edipo non voleva certo sposare sua madre, anche se l’ha fatto; ma l’ha fatto perché voleva sposare Giocasta.
49Questo punto è stato messo in evidenza molte volte nella letteratura, e ci sono degli esempi molto belli al riguardo. Se ne può elaborare uno che si trova in Chisholm35. Supponiamo che Luigi voglia uccidere Paolo e abbia progettato di farlo investendolo in macchina. Allora, Luigi sta guidando ed è molto agitato perché è completamente assorbito dall’idea di uccidere Paolo. Di fatto è così nervoso che non riesce a frenare in tempo e investe qualcuno che stava attraversando la strada. Indovinate chi? Proprio Paolo. L’intenzione di Luigi è la causa reale dell’uccisione di Luigi, ma con ciò Luigi non ha, propriamente parlando, attuato la sua intenzione, perché non ha ucciso intenzionalmente Paolo. Un altro esempio è fornito da Davidson36. Immaginiamoci due arrampicatori in cordata che si trovano in un momento di grave pericolo. Il capocordata potrebbe desiderare di uscire dalla situazione di pericolo lasciando la presa, il che significherebbe lasciare cadere l’altro uomo nel vuoto. Diciamo che desidera liberarsi dal pericolo e crede che se lasciasse la presa sarebbe salvo. Tale desiderio e tale credenza potrebbero farlo innervosire così tanto da fargli lasciare la corda. Nel caso, avrebbe compiuto quell’azione intenzionalmente? No, diremmo di no perché, anche se il suo desiderio e la sua credenza avessero causato quell’azione, l’uomo potrebbe non avere mai formulato l’intenzione di farlo. Un terzo esempio – sempre sanguinario – mi è stato suggerito da Dan Dennett. Poniamo che Luigi voglia sparare a Paolo, e veda che Paolo sta camminando tranquillamente in mezzo a un prato. Ora, Luigi è armato e fornito delle migliori (o peggiori!) intenzioni di far fuori Paolo, ma è un pessimo tiratore. Spara un colpo, che non va a segno, ma colpisce un branco di cinghiali che si mettono a correre all’impazzata e calpestano a morte l’ignaro Paolo. Di nuovo, anche in questo caso l’intenzione di uccidere Paolo è almeno parte della causa della morte di Paolo, ma avendolo ucciso in quel modo Luigi non ha ucciso intenzionalmente Paolo.
50C’è quindi una connessione molto stretta fra azione e intenzione. L’azione non è solo la condizione di soddisfazione dell’intenzione: infatti mentre ci sono molti stati di cose senza che per questo esistano le credenze o i desideri corrispondenti, non esiste nessuna azione senza che ci sia un’intenzione corrispondente. Per realizzare un’intenzione occorre una connessione molto stretta fra intenzione e azione, ossia fra l’intenzione e le sue condizioni di soddisfazione.
51A tal proposito, propongo di distinguere fra l’intenzione precedente (prior intention) e l’intenzione in azione (intention in action). L’intenzione precedente è quella che viene formata, appunto, prima di intraprendere l’azione. In molti casi uno si forma un’intenzione, fa un piano – si potrebbe dire – e poi agisce di conseguenza. In altri casi, invece, non c’è, in senso proprio, un’intenzione precedente, ma l’intenzione è direttamente in azione. Come quando uno tira un pugno a qualcun altro “d’istinto”, ossia senza aver avuto l’idea precedente di farlo: anche in questo caso possiamo averlo colpito volontariamente, intenzionalmente. Un’intenzione precedente però è più generale e può essere anche molto complessa e articolata. Nessun’azione è compiuta senza che ci sia un’intenzione in azione, ma ci possono essere azioni anche senza che ci sia un’intenzione precedente. Quando però un’intenzione precedente è realizzata in un’azione, quando l’azione compiuta è compiuta sulla base di un’intenzione precedente, allora la connessione fra le due deve essere riconosciuta come molto stretta.
52Immaginatevi che io mi proponga una cosa molto semplice, come alzare il braccio. Successivamente, porto a compimento tale intenzione precedente e, di fatto, alzo il braccio. Compio un’azione sulla base di un’intenzione precedente, e il compiere l’azione è la realizzazione di quell’intenzione. Possiamo dire che l’intenzione precedente causa l’azione, mentre l’intenzione in azione causa il movimento corporeo, l’alzare il braccio appunto.
intenzione precedente | intenzione in azione |
causa azione | causa movimento corporeo |
53È importante a questo punto sottolineare che sia l’intenzione precedente sia l’intenzione in azione, se hanno successo, devono causare il resto delle condizioni di soddisfazione. Ma, come abbiamo visto, non è sufficiente che le causino, il legame dev’essere più stretto: occorre che nelle loro condizioni di soddisfazione ci sia una componente di autoreferenzialità causale. In breve, le condizioni di soddisfazione sono:
condizioni di soddisfazione | |
intenzione precedente | questa intenzione precedente causa un’azione |
intenzione in azione | questa intenzione in azione causa un movimento corporeo |
54Il contenuto rappresentazionale dell’intenzione (tanto di quella precedente quanto di quella in azione) fa sì che essa sia soddisfatta se e solo se l’azione che costituisce le sue condizioni di soddisfacimento è causato da essa stessa. Per questo ogni intenzione è autoreferenziale.
55Una questione più generale è quella che si propone di stabilire se le risorse del cervello siano sufficienti a spiegare le nostre capacità intenzionali37, il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Io penso che lo siano, molte altre persone pensano di no. Il mio punto di vista, in effetti, è minoritario, ed è una posizione talvolta chiamata “internismo”. Il punto di vista standard al riguardo è chiamato “esternismo”, ed equivale a sostenere che i significati e il contenuto intenzionale siano esterni alla testa. Io invece penso che siano interni alla testa. Gli “internisti” credono che i significati stiano nella testa, mentre gli “esternisti” credono che i significati non stiano nella testa. Come dovrebbe essere chiaro, una delle caratteristiche fondamentali della mia teoria dell’intenzionalità è l’autoreferenzialità causale di molti fenomeni intenzionali. Non solo dell’azione intenzionale, ma anche della percezione. Se percepisco questo oggetto, è parte delle condizioni di soddisfazione della mia percezione che l’oggetto e le sue caratteristiche debbano causare l’esperienza visiva che ho. Questa componente indicale e autoreferenziale è comune alla comprensione di molti termini. Putnam, un esternista, ha elaborato una famosa confutazione dell’internismo. Immaginiamo che lontano mille galassie da noi ci sia Terra Gemella38, un pianeta in tutto e per tutto uguale al pianeta su cui viviamo, tranne che per un importante particolare: il liquido che esce fuori dai rubinetti, scorre nei fiumi e riempie gli oceani su Terra Gemella non è lo stesso liquido che esce fuori dai rubinetti, scorre nei fiumi e riempie gli oceani sulla Terra, non è acqua, ossia h2o. L’elemento chimico che costituisce il liquido “gemello” dell’acqua è identificabile con una formula molto lunga, che viene tradizionalmente abbreviata con xyz. A parte questa differenza, dunque, su Terra Gemella ci sono gli stessi oggetti e gli stessi animali che troviamo sulla Terra. Possiamo anche pensare che ognuno di noi abbia un Doppelgänger, un doppione, su Terra Gemella, che sarebbe un perfetto duplicato di noi stessi, con esattamente i nostri stessi stati mentali: nella sua testa, quindi, succederebbe esattamente quello che succede nella nostra testa. Ebbene, dice Putnam, i significati non possono essere nella testa, perché quello che gli abitanti di Terra Gemella e i terrestri avevano nella testa nel 1715, quando la chimica non si era ancora sviluppata (né qui né là), era esattamente la stessa cosa. Ciononostante, c’era – come c’è adesso che la chimica si è sviluppata – una chiara differenza fra il significato del nostro termine “acqua” e del loro termine “acqua”. Ossia: il primo si riferisce all’h2o, mentre il secondo si riferisce all’xyz. Per capire meglio il punto si può anche pensare al “battesimo originale” dell’h2o qui e dell’xyz su Terra Gemella come “acqua”, ossia alla prima volta in cui qualcuno ha usato il termine “acqua” per significare il liquido che scorre nei fiumi e così via. Il primo ad aver chiamato “acqua” l’h2o sulla Terra e il primo ad aver chiamato “acqua” l’xyz su Terra Gemella avevano in mente la stessa cosa, la stessa intenzione di riferirsi a quella cosa trasparente e bevibile che gli stava davanti, ma essi si trovavano in due ambienti diversi – uno contenente h2o, l’altro contenente xyz – e questo basta a conferire alle due parole significati diversi.
56Per Putnam i significati non sono nella testa, ma sono relazioni causali fra noi e l’ambiente. Io invece ritengo che quest’idea si basi su di una concezione impoverita di come funziona l’intenzionalità. Sulla nostra terra l’acqua è definita come quella cosa che ci causa certe esperienze e il battesimo originale, ammesso che ci sia stato qualcosa del genere, si basa esattamente su questo tipo di indicalità. Identifichi qualcosa nel tuo ambiente e dici “chiamiamo questa cosa ‘acqua’ (o ‘oro’ o ‘giada’)”, e poi la identifichi nuovamente in relazione alle tua capacità di riconoscerla e alle tue esperienze. Una volta che si capisce che l’autorefenzialità causale del fenomeno intenzionale può essere interna alla struttura del fenomeno intenzionale, allora si può capire com’è che ci siano condizioni causali di soddisfazione che identificano il fenomeno in modo deittico. Ad esempio: è questa cosa che vedo ora ciò che chiamo “acqua”, e qualsiasi cosa che sia identica a quella, che abbia la stessa struttura, è acqua. Poi, il mio Doppelgänger su Terra Gemella sta guardando qualcosa che ha lo stesso aspetto, ma una struttura chimica diversa, e per lui qualsiasi cosa che abbia quella struttura si chiama “acqua”. Siccome ci sono due strutture chimiche diverse ci sono due significati diversi, entrambi identificati deitticamente e internamente. Non è più misterioso che in questo caso si possa avere la stessa espressione con diversi contenuti rispetto a quanto non lo sia in qualsiasi altro caso di deitticità. Io dico “sono affamato” e intendo me stesso, il mio Doppelgänger su Terra Gemella dice “sono affamato” e intende se stesso.
57Tuttavia nulla di profondo segue per quanto riguarda la disputa fra l’internismo e l’esternismo. Putnam ha semplicemente mostrato che c’è una componente deittica in molti termini che non ritenevamo essere deittici, e che non si può dare una spiegazione del significato di questi termini dando solamente una lista delle caratteristiche che ci permettono di identificare il loro referente. La definizione standard di “acqua” è: un liquido insapore e trasparente. Come definizione va piuttosto male. Innanzitutto l’acqua non è insapore: ha il sapore dell’acqua; poi non è senza colore, perché se lo fosse davvero sarebbe invisibile e invece ha l’aspetto dell’acqua. Quindi, ritengo che tale definizione sia sbagliata. Putnam pensa che, poiché la lista di caratteristiche generali è inadeguata per la definizione dei termini generali, allora qualsiasi spiegazione internista è inadeguata, e ne conclude che “acqua” è definita nei termini delle relazioni causali fra noi e gli oggetti nel mondo, pertanto “acqua” significa qualcosa di diverso sulla Terra rispetto a quello che significa su Terra Gemella. A mio avviso questo non può essere vero perché tutto quello che abbiamo per rappresentare il mondo è nella nostra testa. Usiamo la testa per identificare cose nel mondo collegate da relazioni causali nella misura in cui possiamo rappresentare queste relazioni causali nella nostra mente, ma Putnam lascia fuori la causalità intenzionale dicendo che il mondo ha la meglio, che è il mondo che decide cosa sia l’acqua e non noi. Però, se ci riflettete attentamente, in qualsiasi teoria del significato il mondo decide se il contenuto intenzionale è soddisfatto. Il mondo decide qual è la stella della sera e qual è la stella del mattino39 perché ci sono condizioni che qualcosa deve soddisfare per essere la stella del mattino o la stella della sera, e queste condizioni sono fatti che riguardano il mondo. La domanda, quindi, non è se sia il mondo a stabilire il soddisfacimento di tali condizioni, ma se il cervello sia capace di rappresentare tali condizioni. Putnam dice “no”, io dico “sì” e ritengo che Putnam abbia una concezione impoverita dell’intenzionalità. Comunque, il dibattito prosegue tra i filosofi da anni, e la mia sicuramente è fra le posizioni minoritarie. Una delle conseguenze dell’esternismo è che lo scetticismo diventa impossibile: dal momento che il contenuto delle mie credenze è determinato da ciò che le causa, questo deve esserci, se ci sono le credenze; ne segue che lo scetticismo sarebbe impossibile, visto che non potrei avere un contenuto di credenza senza che ci sia qualcosa all’esterno. Per metterla nel modo più forte possibile, dal punto di vista di Putnam, Davidson e altri, il cervello nella vasca deve credere di essere un cervello in una vasca. Il cervello nella vasca può dire “io vivo a Torino e mi sto divertendo un mondo” ma quello che significa è “sono un cervello in una vasca”. Penso che questo renda la filosofia molto facile: è facile se la confutazione dello scetticismo avviene per definizione.
58L’autoreferenzialità delle intenzioni, dunque, è un caso di una capacità intenzionale molto generale che abbiamo, quella di riferirsi deitticamente. La differenza più importante che c’è fra i desideri e le intenzioni riguarda proprio l’autoreferenzialità. Non è fra le condizioni di soddisfazione del desiderio che il desiderio stesso debba causare le sue condizioni di soddisfazione: infatti, se voglio diventare ricco, e improvvisamente eredito un mucchio di soldi, il mio desiderio è soddisfatto, anche se il desiderio non ha causato la mia ricchezza. Precisamente per questo motivo i desideri sono diversi dalle intenzioni, perché l’intenzione è soddisfatta solo se l’intenzione stessa causa ciò che costituisce il resto delle sue condizioni di soddisfazione. Quindi, se voglio che il mio braccio vada su e giù, il mio desiderio è soddisfatto anche se qualcun altro me lo sposta, tuttavia, se intendo alzare il mio braccio, la mia intenzione è soddisfatta solo se è l’intenzione stessa a causare l’alzarsi del braccio, se è questa intenzione a causare quella azione. Questo è il contrasto fra l’intenzione precedente e l’intenzione in azione, che sono causalmente autoreferenziali, e i desideri e le credenze che non sono causalmente autoreferenziali. Ovviamente i desideri spesso ti portano a comportarti in una maniera che ti porta a soddisfarli, però non è parte della definizione del desiderio che il possesso del desiderio debba causare che ciò che si desidera abbia luogo: se uno vuole sposare una persona ricca, e finisce per sposarla, non c’è bisogno che sia stato il suo desiderio a causarlo. Magari di fatto è così e molto spesso capita così, comunque, se si prende in considerazione non la realtà empirica dei desideri di per sé, bensì la loro struttura logica, si conclude che è in questo che sono diversi dalle intenzioni40.
59Oltre a ciò è anche importante notare che l’intenzione precedente causa l’azione nella sua unità, per così dire, ossia causa l’azione nella sua componente di intenzione in azione e di movimento corporeo.
Intenzione Precedente → AZIONE [intenzione in azione ←→ movimento corporeo] |
60Se l’intenzione precedente non causa l’azione nelle sue due componenti, allora non è soddisfatta, ossia non si compie intenzionalmente l’azione che ne risulta. Precisamente questo è quello che capita nei “contro-esempi” di Chisholm, Davidson e Dennett. Nel caso di Chisholm, ad esempio, l’intenzione precedente causa il movimento corporeo di Luigi che porta all’uccisione di Paolo, ma non causa un’intenzione in azione che abbia come contenuto rappresentazionale (e quindi come condizione di soddisfazione) l’uccisione di Paolo. Il contenuto rappresentazionale in quel caso non ha nulla che fare con Paolo.
61Va anche detto che ci sono azioni in cui non c’è movimento corporeo, ma ci sono altre condizioni di soddisfazione. Se ti dico “non muoverti”, in questo caso il movimento corporeo è nullo. Oppure ti dico “forma un immagine mentale della Tour Eiffel”. In tal caso il movimento corporeo è formare un’immagine mentale. Quindi “movimento corporeo” è qui l’abbreviazione di “movimento corporeo, o negazione di movimento, o azione mentale, e così via”. Si possono avere condizioni di soddisfazione diverse dal semplice movimento corporeo. Ci tengo però a chiarire che io non voglio distinguere due nozioni di intenzionalità: c’è solo una nozione di intenzionalità e questa è la nozione di rappresentazione di condizioni di soddisfazione, dove la rappresentazione ha luogo sotto un aspetto e in relazione a una Rete e uno Sfondo41. Questa è la nozione di intenzionalità. Quando l’ho esaminata ho scoperto una cosa: che i fenomeni intenzionali funzionano causalmente e che è parte della loro intenzionalità che debbano funzionare causalmente. La causalità intenzionale è una caratteristica basilare biologica dell’universo. È una caratteristica di tutta la coscienza umana, direi anche di molta coscienza animale e, per quanto ne so, non è mai stata studiata dai filosofi dal punto di vista della sua componente intrinsecamente causale.
62L’intenzionalità come fenomeno biologico prende forma dall’autoreferenzialità causale. Perché? Probabilmente perché è essenziale alla sopravvivenza dell’animale che sia in grado di percepire e di agire sul suo ambiente: l’apparato dell’intenzionalità incorpora la relazione causale fra l’ambiente e l’animale, e questa è una condizione di successo per l’animale. L’animale non può sopravvivere se non può vedere l’ambiente come davvero è, e se non può agire nell’ambiente secondo le proprie intenzioni. La nozione di intenzionalità deve incorporare tutto questo. Ci sono poi anche altri casi di intenzionalità, dei quali spesso i filosofi preferiscono parlare, ad esempio la credenza. Spesso i filosofi dicono che parleranno di intenzionalità ma poi di fatto parlano di credenza. Però bisogna tener presente che la credenza è un caso speciale di intenzionalità, dal momento che non ha la componente causale.
63L’intenzionalità, inoltre, non ha sempre come fine l’azione nel senso di un movimento corporeo, infatti a volte si manifesta negli artefatti. È qui in questione la distinzione tradizionale fra praxis e poiesis42. Il caso più interessante a questo riguardo sono le opere d’arte. Qual è la differenza fra un’opera d’arte e un oggetto naturale, una cascata per esempio? La differenza più evidente, secondo me, è che puoi vedere qualcosa come un’opera d’arte solo nella misura in cui la vedi come un prodotto dell’intenzionalità umana. C’è una differenza fra guardare le Alpi laggiù, e guardare un dipinto di Cézanne. Quando guardi un dipinto di Cézanne sei sorpreso di come l’autore interpreta la scena visiva. Questo esempio che ho scelto non è casuale: Cézanne ha dipinto la stessa montagna – il monte Sainte Victoire – molte volte, ha dato ogni tipo di interpretazione alla stessa scena visiva. Quello che qui intendo sottolineare – ma forse questa è una posizione personale, non ho al momento una vera teoria su questo – è che l’esperienza estetica richiede la percezione dell’oggetto come di un prodotto dell’intenzionalità umana. Senza intenzionalità non c’è nessun objet d’art. C’è certo il contro-esempio degli objet d’art trouvé. Non sono però sicuro che siano davvero objet d’art di per se stessi: se trovi una bella roccia, la metti sulla tua scrivania e dici questo è un objet d’art trouvé, io intendo quel “trouvé” almeno come il segno di qualcosa di intenzionale. Se la roccia cade da un albero e ti colpisce in testa, non la considero come un objet d’art trouvé, non la considero proprio. La differenza fra l’apprezzare la natura e l’apprezzare gli oggetti d’arte è connessa con l’intenzionalità dell’estetica. Non ho una teoria adeguata per questo, me ne rendo conto. È uno scandalo. Non ho una teoria degli oggetti d’arte che mi soddisfi, e quelle che conosco non mi soddisfano affatto. Ho provato una volta a scrivere un articolo sulle figure (picture), ma non ne ero soddisfatto. Io sono un Augenmensch e nel mio interesse ossessivo in cose come Las Meninas43 e la rappresentazione pittorica in genere, ho sviluppato un odio appassionato nei confronti dell’espressionismo astratto. Fino a quel momento mi era piaciuto l’espressionismo astratto, ma poi... Mi ricordo che una volta andai al Museo d’Arte di Chicago, nella parte sotterranea dell’edificio, ed eccoli lì, Pollock, Rothko, e tutti gli altri: “Ecco, ecco dove vi meritate di stare, sottoterra!” dissi tra me e me. Si trattava di una risposta irrazionale da parte mia, perché ero ossessionato dall’idea di spiegare come gente come Rogier van der Weyden e tutti gli altri avessero potuto fare quello che hanno fatto, come avessero raggiunto quegli effetti incredibili di rappresentazione pittorica. Mi sembrava che gli espressionisti astratti stessero imbrogliando. In ogni caso quella fu una reazione irrazionale, adesso ho cambiato idea al riguardo. Allora avevo reagito così perché mi trovavo in una fase particolare in cui ero ossessionato da un particolare problema della rappresentazione. Ho anche scritto un brutto articolo su Las Meninas. In ogni caso, io penso che si comprenda – o forse dovrei dire io penso di comprendere – un’opera d’arte come un’opera d’arte solo nella misura in cui siamo in grado di scorgere l’intenzionalità che c’è dietro. Se sento un bel rumore che il vento fa tra gli alberi o che l’acqua fa in una cascata, non penso che sia musica. Può essere piacevole, ma non è musica.
64Ora torniamo alle azioni e prendiamo in considerazione azioni più complesse, in cui l’intenzione precedente è costituita da un piano più articolato rispetto a quello semplicissimo di alzare il braccio. Le intenzioni precedenti sono chiamate anche piani e sono costituite dalle decisioni. Fra decidersi, avere la decisione, realizzare la decisione e continuare a fare ciò che ci si era proposti ci sono delle lacune. Vedremo in una delle prossime lezioni (la iv) come questo abbia una rilevanza per la mia teoria del libero arbitrio. In questi casi più articolati, si compie un’azione compiendone altre. Le relazioni che ci sono fra le varie azioni possono essere relazioni causali, ma può esserci anche una relazione di costituzione, ovvero quando fare qualcosa costituisce il fatto di farne un’altra. Ad esempio, Gavrilo Princip uccide Francesco Ferdinando a Sarajevo perché vuole colpire l’Austria e vendicare la Serbia. Cosa fa per realizzare la sua intenzione? Molte cose, fra cui:
(1) premere il grilletto |
(2) far partire il colpo |
(3) sparare all’arciduca |
(4) uccidere l’arciduca |
(5) colpire l’Austria |
(6) vendicare la Serbia |
65Tutte queste cose costituiscono le condizioni di soddisfazione di un’intenzione complessa. Le condizioni di soddisfazione coinvolgono anche le relazioni fra di loro: fra le prime quattro c’è una relazione causale, ma fra la quarta e la quinta, e la quinta e la sesta c’è una relazione di costituzione. Uccidere l’arciduca costituisce – e non causa – un colpo all’Austria. La stessa relazione di costituzione c’è anche fra
(E) Emettere un certo suono dalla bocca
(P) Proferire un enunciato
66C’è un effetto fisarmonica dell’intenzione (accordion effect): un’intenzione complessa può implicare il compimento di molte azioni, sia “verso l’alto” che “verso il basso” nella catena di connessioni causali e non. I confini di tale effetto sono stabiliti dall’intenzione precedente. Il tipo di relazione fra le varie azioni è stabilito anche dall’intenzione precedente, congiuntamente alle credenze e alle capacità di Sfondo. Questa situazione ci consente anche di capire cosa sia un’azione di base: un’azione di base è un’azione che siamo in grado di compiere senza dover compiere nessun’altra azione. In pratica, è ciò che uno semplicemente fa. Ovviamente, per stabilire che cosa conta come azione di base, bisogna vedere quali sono le abilità che uno possiede.
67Più in generale, ci sono dei vincoli sull’intenzione precedente e sull’intenzione in azione44. Adesso, per esempio, non posso formare l’intenzione precedente di saltare sopra questo edificio. Posso avere il desiderio di farlo, ma non l’intenzione precedente. Perché? La ragione è che, siccome l’intenzione precedente ha una componente causale, devo credere o dare per scontato che quello che intendo fare sia possibile. Dunque, posso avere l’intenzione di saltare sul tavolo, anche se non ne sono in grado, perché penso che sia comunque possibile, però non posso avere l’intenzione di saltare sull’edificio, perché non credo che sia possibile. Ci sono persone che credono che alcune cose che non sono possibili siano in realtà possibili. Queste persone sono creature irrazionali e nei casi estremi diciamo addirittura che sono pazze. Tuttavia ci sono forme di intenzionalità precedente che sono forme folli di intenzionalità precedente (e questo non è escluso logicamente). È importante distinguere il caso in cui uno si auguri semplicemente di poter fare – come quello che dice “Ah, come mi piacerebbe saltare sull’edificio” – dal caso in cui qualcuno intende farlo seriamente – il tipo irrazionale che dice “Basta la forza di volontà e ce la fai”. Il punto è che per avere l’intenzione di fare qualcosa devi credere che sia possibile e se chi vuole saltare sull’edificio crede che sia possibile, allora quel tipo ha un’intenzione precedente, anche se molto probabilmente si tratta di un’intenzione precedente pazza; ciononostante rimane un’intenzione precedente. Colui che ha un’intenzione precedente irrazionale ha comunque un’intenzione precedente. Negli Stati Uniti c’erano – e ci sono – certe persone che irrazionalmente pensano di poter diventare i presidenti degli Stati Uniti. Ce n’erano molte qualche anno fa, per fortuna sono diminuite, ma ce ne sono ancora. Le intenzioni precedenti di queste persone non erano razionali, non erano ragionevoli: magari non si trattava di pazzi completi, in ogni caso non erano persone ragionevoli.
68Va notato inoltre, che c’è una forte analogia fra l’azione intenzionale e la percezione. In particolare, anche le condizioni di soddisfazione della percezione sono autoreferenziali. Un’azione è intenzionale quando si verifica il movimento corporeo rappresentato nell’intenzione e questa intenzione causa quel movimento. Similmente un atto di percezione è soddisfatto, ossia si ha la percezione veridica, quando un certo stato di cose rappresentato esiste, e quando questo stato di cose causa l’esperienza percettiva. È anche importante precisare che la percezione di oggetti o eventi ha come “contenuto intenzionale” sempre l’oggetto e l’evento percepito, e non solo le parti che sono direttamente coinvolte nei processi fisiologici sottostanti. Quando vedo un tavolo vedo semplicemente un tavolo, in tre dimensioni, non vedo una superficie. La differenza fra vedere un tavolo e vedere la superficie di un tavolo è quella che passa fra vedere una casa vera e propria, e vedere una casa in un set di Hollywood, quando sai che c’è solo la facciata. Una volta che lo sai, ha un aspetto differente e non perché accada qualcosa di fisiologicamente diverso nel mio sistema visivo, ma perché ho delle informazioni e delle capacità di Sfondo diverse. Nel caso ordinario, non è che io sia conscio della superficie del tavolo, ma credo inconsciamente che ci sia qualcosa sotto la superficie. Ciò di cui sono conscio è il tavolo, io vedo il tavolo. La domanda da fare a questo punto è: come è possibile che io sia capace di vedere il tavolo, quando di fatto soltanto la sua superficie ha propriamente un’influenza sui miei organi di senso? Vedo il tavolo perché ci sono molte presupposizioni e capacità di Sfondo che mi permettono di vedere il mondo a partire da certi stimoli. È vero che la fisiologia coinvolge solo ciò che la superficie del tavolo riflette, ma l’apparato percettivo è strutturato in modo tale che lo si veda come un tavolo intero. Gli stessi stimoli possono produrre esperienze diverse a seconda di come il cervello le interpreta. Sulla base di credenze di Sfondo diverse elaboriamo esperienze diverse: ad esempio se sai di vedere una casa vera o un fondale di cinema, avrai esperienze diverse anche se lo stimolo di partenza è lo stesso. Normalmente interpretiamo gli “input” visivi come collegati a oggetti solidi. Se qualcuno mi chiedesse: “Hai visto Michele ieri?”, e io ieri avessi incontrato Michele per strada e gli avessi parlato per qualche minuto, risponderei “Sì”. Se mi chiedessero ancora: “Ma l’hai visto tutto? Hai controllato che non ci fosse solo una superficie vuota senza nulla dietro? Hai fatto il giro attorno per accertartene?”, risponderei che questo è irrilevante. Quando vedo qualcuno certamente lo vedo solo da un punto di vista e ne vedo quindi solo una parte. Ma questo comunque conta come vedere una persona.
Intenzionalità e causalità: azione e percezione come forme basilari dell’intenzionalità
69Vorrei aggiungere qualcosa sul ruolo della causalità, della nostra idea di causa nelle condizioni di soddisfazione delle intenzioni. Hume ci ha tramandato un’altra idea che ancora persiste: l’idea che nel mondo non ci sia una reale relazione causale e che in realtà ci siano soltanto delle regolarità. Se colpisco la bottiglia e la faccio cadere, non c’è connessione reale fra il mio colpire la bottiglia e il suo cadere: è solo una regolarità che viene esemplificata da questi due eventi, ma non c’è un nesso causale fra i due. La causalità non è una caratteristica reale del mondo, è solo un’illusione della mente, creata dalla costante congiunzione di esempi simili. Ritengo che questa idea sia profondamente sbagliata: se vuoi sapere se la causalità fa parte del mondo, basta che prendi una pietra e la lanci contro quel vetro, te ne accorgerai subito. La nozione basilare di causalità è far accadere qualcosa. Ma come facciamo a sapere che esiste davvero nel mondo, empiricamente? La risposta è che la esperiamo in continuazione. Guarda, ho causato questo movimento del mio braccio. È parte del contenuto della mia esperienza, dell’intenzione in azione, che questa causi le sue condizioni di soddisfazione. Percepiamo tutto il tempo connessioni causali. Certo potremmo essere vittime di un’allucinazione, in alcuni casi, comunque il carattere dell’esperienza è quello della percezione causale. Quindi Hume aveva torto nel dire che non percepiamo mai la causalità in natura, al contrario, lo facciamo in continuazione. Aveva torto anche nel sostenere che l’unica realtà della causalità è la regolarità, ossia la congiunzione costante di certe esperienze, perché in realtà ci sono moltissime cause alle quali non corrisponde alcuna regolarità, e moltissime regolarità che non sono causali. Il punto fondamentale qui è che la nozione basilare di causalità è “far accadere qualcosa”. Come facciamo a saperlo? Perché continuamente o facciamo accadere cose, o siamo affetti causalmente dalle cose esterne – come nella percezione. Quindi suggerisco di allontanarci dall’epistemologia empirista e vedere il carattere effettivo dell’esperienza, così da capire che la struttura dell’intenzionalità conscia contiene la concezione di causa.
70Forse qualcuno potrebbe obiettare che nella mia teoria non si fornisce nessuna spiegazione dell’origine dell’idea di causa, dandola in qualche modo semplicemente per scontata45. Innanzitutto vorrei sottolineare che l’idea ordinaria di causa non è un’idea problematica. C’è il problema di conciliarla con la meccanica quantistica, ma il fatto è che io non capisco cosa dica la meccanica quantistica e, per quanto ne so, nessuno lo capisce. Richard P. Feynman ha detto che puoi capire le equazioni della meccanica quantistica, ma non puoi capire che cosa significhino. Allora c’è sicuramente un problema filosofico qui – come accomodare la meccanica quantistica con la nostra immagine del mondo – ma è un problema per tutti e non soltanto per la mia teoria. Molti paradossi nascono dalla meccanica quantistica, e questo è un problema serio. Nella nozione ordinaria di causalità non ci sono però problemi di questo tipo. La nozione ordinaria è semplicemente l’idea di qualcosa che fa accadere qualcos’altro e naturalmente si tratta di un esempio di regolarità, perché tutto è un esempio di regolarità: se uno dice questa è una sedia, puoi assumere che continuerà a esistere come una sedia. Ma non è una caratteristica speciale della causalità, piuttosto, è una caratteristica dell’universo, fa parte delle presupposizioni di Sfondo. In altri termini, la causalità è semplicemente percepita, piuttosto che pensata o elaborata a partire da altro. Io percepisco il mio causare il movimento del braccio e, come tutte le percezioni, è fallibile, può essere un’illusione. Posso pensare che le condizioni di soddisfazione della mia azione intenzionale siano realizzate, quando invece mi sbaglio. Può essere un’illusione che io stia muovendo il braccio. Nei film dei fratelli Marx ci sono molti casi del genere: Groucho alza il braccio e la finestra si alza, poi abbassa il braccio e questa si abbassa; lo fa molto velocemente, e la finestra fa lo stesso, e lui pensa di percepire una connessione causale. Tuttavia, come tutti i fenomeni intenzionali, anche la percezione della causalità ha che fare con come le cose ci sembrano, e quindi possiamo sempre sbagliarci. Se questo tavolo mi sembra verde, non ho la garanzia che sia verde, ma il fatto di non avere una garanzia non implica che non veda un tavolo: io vedo un tavolo verde. Similmente posso sbagliarmi sulla causalità della mia azione intenzionale, posso credere che causi il movimento del mio braccio in direzione della bottiglia, quando in effetti non lo causa. Ma in ogni caso l’effettivo contenuto intenzionale della percezione è che io alzo la bottiglia, e la mia intenzione in azione causa il mio movimento del braccio, che causa il sollevamento della bottiglia. La causalità è dunque percepita piuttosto che pensata, ma come ogni percezione, una percezione di causalità è sempre fallibile.
71Forse c’è una domanda profonda che sto evitando: perché l’universo è causale? Qual è l’origine della causalità? Non so come potremmo rispondere a simili domande. Ci sono quattro forze di base in natura: la gravità, l’elettromagnetismo, la forza nucleare forte e quella debole. Ecco lo scandalo: non capiamo la forza di gravità, ci viviamo dentro, ma non capiamo perché debba esserci, perché debba esserci attrazione fra gli oggetti. Forse è un fatto bruto della natura, forse non c’è altra spiegazione, forse semplicemente la natura è così e basta. Intellettualmente è insoddisfacente perché vorremmo qualche spiegazione più profonda, ma non conosciamo la risposta a questa domanda, così come non conosciamo la risposta alla domanda sul perché ci sia la causalità in natura. Le domande a cui possiamo rispondere sono domande più specifiche: com’è che un organismo ha sviluppato la capacità di avere coscienza della causalità? La risposta è che è una capacità fondamentale per la sopravvivenza: è indispensabile per capire come manipolare gli oggetti nel mondo, e per capire come ci possano essere delle relazioni causali fra gli oggetti. La nostra cognizione della causalità ha una spiegazione evoluzionistica ovvia, e un ovvio vantaggio evolutivo. Ma nell’universo cos’è, metafisicamente, che fa sì che ci sia una struttura causale? Di questa domanda non conosciamo la risposta e non so nemmeno bene come possiamo formularla. L’esempio della forza di gravità è un esempio di una forza in natura che non capiamo, una forza che diamo per scontata. Quando Newton ha formulato le sue leggi, gli hanno risposto che non potevano essere giuste perché implicavano l’azione a distanza. Come è possibile che la luna lassù muova le maree quaggiù? È stato risposto, correttamente, che c’è un campo di forza. Ma in un certo senso questa risposta è un imbroglio, perché quel che diciamo, in realtà, è che c’è azione a distanza perché la luna influisce sulla terra anche se non è connessa con essa, ossia non c’è una corda che le leghi assieme o qualcosa del genere. C’è un campo, ed è l’intero campo a connetterle. Questo è solo un altro modo di riformulare la relazione che tentavamo di spiegare. L’evidenza per sostenere che esista il campo è che c’è una relazione causale: quindi postuliamo il campo per rendere la relazione causale più accettabile. Ma non penso che si possa davvero porre la domanda: da dove viene la causalità? La causalità la troviamo nel mondo, semplicemente, viviamo con essa e in essa, e non possiamo fare a meno di presupporla. Dire che la troviamo nel mondo vuol dire che la percepiamo o che la esperiamo: esperisco la causalità quando sento me stesso compiere un’azione; percepisco la causalità quando percepisco te compiere un’azione; la relazione che esperisco quando faccio qualcosa è la relazione che posso osservare quando vedo altra gente fare qualcosa; infine, se c’è una leva che causa qualcosa, e non c’è un essere umano coinvolto, posso percepire la relazione causale, anche se non c’è alcuna intenzionalità implicata. Avendo basato la concezione causale sulla mia esperienza, posso vedere che la stessa relazione esiste in natura, indipendentemente dall’esistenza di altre persone. Ecco perché siamo capaci di dire che ci sono relazioni causali fra pianeti in sistemi solari diversi dal nostro.
72Queste riflessioni sulla causalità ci aiutano a capire che le forme basilari di intenzionalità sono la percezione e l’azione intenzionale.
Forme base dell’intenzionalità Percezione azione intenzionale |
73Si pensi all’evoluzione, ossia ad animali che acquisiscono la capacità della percezione dalla quale alcuni animali derivano poi la capacità di andare oltre la percezione per formare azioni intenzionali; se l’animale è abbastanza sofisticato, avrà inoltre anche la capacità di formare stati intenzionali che sono come delle cause. A questo punto ci sarà molta più flessibilità, perché si possono avere desideri che non sono causati da ciò che si desidera, e si possono avere credenze che non sono causate da ciò che si crede. C’è un altro sviluppo possibile, ed è quando ci si libera del tutto dalla connessione mondo-a-parola: ecco entrare in scena l’immaginazione46. Si può immaginare anche senza impegnarsi nei confronti della direzione di adattamento mondo-a-parola o parola-a-mondo. Io posso semplicemente immaginare come potrebbero stare le cose. Si pensi di nuovo ai progressivi gradi di sofisticazione: si inizia con animali semplici, che hanno relazioni causali immediate con l’ambiente; poi si va a un livello di sofisticazione in cui l’animale ha sì una connessione causale con l’ambiente, ma non immediata. È perché adesso ricorda che cosa è accaduto nel passato che può progettare cosa fare in futuro: ha memoria e intenzione precedente. Poi c’è un livello ancora maggiore di sofisticazione in cui l’animale ha desideri e credenze nei quali la connessione causale si rompe: nonostante ci possa essere, ovviamente, una connessione causale, non è essenziale ai desideri e alle credenze il fatto di essere causati da ciò che si desidera o crede, o di causare l’attuarsi delle loro condizioni di soddisfazione. La sofisticazione ultima, che è un po’ come la decadenza, se vogliamo, è l’immaginazione: si può immaginare qualsiasi cosa. Vedremo nelle prossime lezioni quanto l’immaginazione sia fondamentale per la creazione della civilizzazione umana. Un fatto assolutamente incredibile dei bambini piccoli, molto piccoli, anche di cinque o sei anni, è che possono immaginare di fare delle cose, e persino di essere delle cose che di fatto non sono. I bambini possono dire: io sono Adamo, tu sei Eva, e questa è la mela. Questa è un’impresa intellettiva incredibile se uno ci pensa. Nessun cane può fare nulla del genere. Questo è precisamente ciò che ci permette di creare la società umana attraverso l’immaginazione, anche se abbiamo bisogno di raggiungere livelli molto sofisticati di immaginazione.
74Quest’excursus ci permette di capire qual è la connessione fra intenzionalità e normatività47: l’intenzionalità è completamente normativa, il che significa che se c’è l’intenzionalità c’è anche un sistema di vincoli razionali. Tali vincoli razionali non sono qualcosa che si aggiunge alle rappresentazioni, ma sono caratteristiche costitutive delle rappresentazioni stesse. È un ennesimo errore dei filosofi credere che la razionalità sia un fenomeno separato, qualcosa che proviene dall’esterno. Ma le cose non stanno così, infatti, se si hanno rappresentazioni proposizionali, queste – automaticamente e internamente – sono vincolate dalla razionalità. Nella mia teoria, l’intenzionalità è interamente normativa: la nozione di successo e fallimento, di condizioni di soddisfazione, sono nozioni normative; le nozioni di forme razionali e irrazionali di intenzionalità, le norme di credenza ben fondata o di desiderio razionale, sono tutte nozioni che esprimono vincoli razionali. Anche qui vado contro la tradizione. Hume aveva un argomento: sosteneva che non è contrario alla ragione preferire la distruzione del mondo intero al graffiarsi un mignolo. Io penso che sia contrario alla ragione. Immaginiamo che Bush vada in tv e dica che, dopo aver discusso col congresso e con il gabinetto, ha deciso che lui preferisce la distruzione del mondo intero al graffiarsi un mignolo. Noi diremmo – usando un tono da xviii secolo – che “ha perso la ragione”, e sarebbe giusto, perché una cosa simile è contraria alla ragione. La nostra teoria della razionalità è sbagliata se ci porta a concludere che non è contrario alla ragione e anzi che sia tanto ragionevole quanto molte altre cose. Certo, ci sono persone che hanno questo punto di vista – sono chiamati “economisti”, o “teorici della decisione (decision theorist)”. Io penso che preferire la distruzione dell’universo al graffiarsi un mignolo sia contrario alla ragione, e dobbiamo avere una teoria dell’intenzionalità e una della razionalità che lo mostri. Ve lo mostrerò meglio nelle prossime lezioni. Adesso mi interessa sottolineare che l’intenzionalità è un fenomeno biologico che è sia causale sia soggetto a vincoli normativi. Questo va contro la tradizione secondo la quale la biologia riguarderebbe i livelli bassi, mentre l’intenzionalità sarebbe lassù, nel terzo regno di Frege. Io non penso che quest’idea sia corretta e credo che la biologia umana contenga proprietà semantiche (ovvero che queste siano parte dei fenomeni biologici) e che queste abbiano condizioni di soddisfazione che sono soggette a vincoli razionali e che sono interamente normative.
75In conclusione lasciatemi chiarire ulteriormente la mia posizione nei confronti della percezione e del realismo. Io dò per scontato che vediamo il mondo reale e, se qualche volta non lo vediamo, è perché c’è qualche problema. Ma nelle situazioni percettive normali, se questo è il tavolo e questo sono io, allora la mia intenzionalità raggiunge il tavolo, e il motivo di ciò è che il tavolo causa la mia percezione del tavolo. Questo punto di vista ha un nome: “realismo”. Dalle persone che non lo condividono è spesso chiamato “realismo ingenuo”. Bene, non puoi essere più ingenuo di quanto io lo sia. Sono un realista ingenuo! Il problema per questa posizione è sempre stato quello di fornire una spiegazione plausibile delle allucinazioni: che dire di quando vedo il tavolo, ma il tavolo non c’è? Semplicemente succede che hai l’esperienza, ma non c’è nulla dall’altra parte. Puoi avere la stessa esperienza, anche se non c’è nulla. È giunto il momento di trattare del più grande errore nella filosofia degli ultimi trecento anni. Ce ne sono stati tanti di errori, ma questo è il più grande. Da Descartes, Berkeley, Leibniz, e Hume, tutti lo hanno commesso, poi diventa più grave in Kant, per non dire cosa diventa in Hegel: non ci voglio nemmeno pensare. L’errore è sostenere che siccome non vedi il tavolo nel caso dell’allucinazione allora non dovresti dire che vedi il tavolo nemmeno nella situazione ordinaria. In entrambi i casi ciò che vedi è la tua stessa idea, il tuo stesso dato di senso (sense datum). Allora il problema diventa quello di stabilire qual è la relazione fra l’idea che vedi e il tavolo che non vedi. La storia della filosofia occidentale degli ultimi trecento anni è costituita da una serie di risposte disastrose a questa domanda. La risposta di Berkeley è che il tavolo semplicemente è una collezione di idee. Secondo Hume, Berkeley ha ragione, anche se non si può credere una cosa del genere, bisogna credere che ci sia comunque un tavolo. Poi è forse arrivato Kant a salvarci? Niente affatto! Kant dice che non puoi vedere il tavolo stesso – la Ding an sich – ciò che vedi è solo l’apparenza del tavolo, la rappresentazione del tavolo. Allora chiaramente la realtà diventa inconoscibile. Queste sono le tre possibili posizioni: il realismo ingenuo e le altre due. Ma se non vedi davvero l’oggetto, e vedi solo l’idea, allora qual è la relazione fra l’idea e l’oggetto? Per Descartes e Locke non vedi l’oggetto stesso, ma un’immagine dell’oggetto. È la teoria rappresentazionale, secondo la quale, strettamente parlando, non vediamo il mondo reale ma vediamo un film del mondo che ha luogo nella testa. La testa a sua volta è un film, ma questo è un altro problema che non possiamo trattare qui. Quindi quello che noi vediamo non è il mondo reale, però le cose che vediamo assomigliano al mondo reale perché è il mondo a causarle. Questa teoria ha un versante causale e un versante rappresentazionale. Berkely, che forse non era un filosofo grandioso, sostenne in ogni caso qualcosa di molto giusto, ossia che questa posizione era insensata: come è possibile che qualcosa che vedi assomigli a qualcosa di invisibile? Se qualcuno dicesse: “Ho due macchine in garage, sono molto simili, ma una delle due è totalmente invisibile”, noi giudicheremmo quanto dice come qualcosa di completamente insensato. Ecco quindi ciò che ha fatto Berkeley, ha detto: liberiamoci del versante causale e ammettiamo che ci siano solo menti e idee. Secondo Hume è vero quello che Berkeley sostiene – perché questo è precisamente ciò che la nostra razionalità ci porta a pensare – anche se, purtroppo, noi non siamo esseri completamente razionali e quindi non riusciamo a smettere di credere che ci sia un tavolo davanti a noi quando lo vediamo e anche quando nessuno lo percepisce.
76Ci sono poi problemi come quelli dell’arto fantasma48. Amo questa parte della filosofia, con questi magnifici esempi. È incredibile come questi filosofi si oppongano al realismo ingenuo. Hume a un certo punto dice: se credete nel realismo ingenuo, premetevi un occhio e sarete costretti ad ammettere che tutto si sia raddoppiato! Dobbiamo ammettere che ci siano due oggetti, anche se sappiamo perfettamente che non ce ne sono due? Il realista ingenuo potrebbe semplicemente rispondere che abbiamo una doppia esperienza dello stesso oggetto (e, se avessimo tre occhi, potremmo avere un’esperienza tripla). Questa è una conseguenza banale della visione binoculare: vedi un dito e lo vedi in modo doppio. Non c’è nulla di filosoficamente profondo. Passo adesso a trattare brevemente il caso dell’arto fantasma in cui una persona continua a lamentarsi del dolore nel proprio arto, anche dopo che questo è stato amputato. Come è possibile che succeda qualcosa del genere? Succede perché le terminazioni nervose che una volta erano connesse al suo dito continuano a stimolare le parti del cervello che producono l’immagine del suo dito. Nel cervello c’è un’immagine del corpo e nei casi normali, non patologici, l’immagine del corpo corrisponde al corpo reale, quindi, se sento la mia mano che si muove, è perché si muove. Si possono tuttavia anche produrre illusioni sistematiche: ad esempio, si può continuare ad avere lo stimolo interno anche quando non c’è la cosa esterna. La situazione interna è esattamente come quella del caso standard, ma qui non c’è l’oggetto esterno, quindi si ha uno stimolo adeguato all’oggetto esterno anche se non c’è alcun oggetto. Ecco perché è possibile che una persona abbia uno stimolo adeguato a un dito ferito, senza avere più il dito. Una volta che si descrive così la situazione, non c’è nulla di metafisicamente problematico. C’è un aspetto per cui tutte le nostre esperienze sono esperienze simili a quella dell’arto fantasma, nel senso che tutte hanno luogo all’interno del cervello. Il cervello produce un’immagine corporea che corrisponde al corpo. Sarebbe tuttavia un errore pensare che, dal momento che c’è la possibilità di essere nella situazione dell’arto fantasma, allora non si percepisce propriamente mai il proprio dito, e tanto meno si percepiscono gli oggetti esterni. Questo non segue.
77Kant poi è colpevole di un ulteriore disastro. Per Kant il problema è risolto in partenza, dal momento che, secondo lui, noi vediamo solo l’apparenza, nonostante ci sia una realtà (che è assolutamente inconoscibile) dietro l’apparenza. La Ding an sich. Non la si può conoscere, ma fornisce il Grund – e avrebbe dovuto usare un altro termine, visto che “Grund” è un termine ordinario. La Ding an sich c’è, ma non ha nessuna relazione con ciò che si vede. Dopo Kant, le cose sono ulteriormente peggiorate, con Hegel e con altri filosofi tedeschi il cui nome inizia con la lettera “h”. Non so bene cosa dire su di loro, ma la mossa che ha dato inizio a tutto ciò è stato l’allontanamento dal realismo ingenuo. Ha dato inizio a trecento anni di confusione. Lasciatemi finire la lezione spiegando il problema che ho con gli autori che si situano nella tradizione fenomenologica – tuttavia devo ammettere di non sapere molto al riguardo. Il punto è che mi sembrano idealisti, mi sembra che condividano molto con l’idealismo tradizionale. Husserl, in particolare, mi sembra che sia mosso dal progetto idealistico di fondare la conoscenza del mondo reale nell’intenzione e nel noema. Questo progetto è molto diverso dal mio. Si potrebbe pensare che in Heidegger le cose vadano meglio, ma in realtà vanno peggio. Heidegger vuole far rientrare tutto nell’ambito del Dasein, e dice cose da toglierti il fiato come: “Due più due fa quattro, ma soltanto nella misura in cui il Dasein esiste, perché se il Dasein non esistesse, non è che due più due farebbe cinque, ma semplicemente non ci sarebbe nulla come il fatto che due più due fa quattro”. Questo è idealismo puro, è mettere tutto nell’ambito del Dasein49.
Notes de bas de page
31 Cfr. J.R. Searle, Speech Acts: An Essay in Philosophy of Language, Cambridge, CUP, 1969; trad. it. G.R. Cardona, Atti Linguistici. Saggio di Filosofia del Linguaggio, Torino, Bollati e Boringhieri, 1976.
32 Cfr. Lezione iii.
33 D. Marr, Vision: A Computational Investigation into the Human Representation and Processing of Visual Information, San Francisco, W.H. Freeman, 1982.
34 L’osservazione è di Giuliano Torrengo [N.d.T.].
35 R.M. Chisholm, Freedom in Action, in K. Lehrer (a cura di), Freedom and Determinism, New York, Random House, 1966.
36 D. Davidson, Freedom to Act, in T. Honderich (a cura di), Essay on Freedom of Action, London, Routledge and Kegan Paul, 1973.
37 L’osservazione è di Claudio Corradetti [N.d.T.].
38 H. Putnam, The Meaning of ‘Meaning’, in Philosophical Papers, vol. 2, Mind, Language and Reality, Cambridge, Cambridge University Press, 1975, pp. 215-271; trad. it. R. Cordeschi, Il significato di ‘significato’, in Mente, linguaggio, realtà, Milano, Adelphi, 1987, pp. 239-298.
39 Searle qui si riferisce alla teoria semantica freghiana dei nomi propri. A differenza della teoria di Putnam e di Kripke, la teoria di Frege riconosce ai nomi propri una componente concettuale e descrittiva. Come le espressioni linguistiche di ogni categoria, per Frege, i nomi hanno non solo un riferimento, ma anche un senso. Ad esempio, “Fosforo” era il nome che veniva dato al primo corpo celeste a comparire nel cielo al mattino, mentre “Espero” era il nome che veniva dato all’ultimo corpo celeste visibile la sera, prima della scoperta che si trattasse in entrambi i casi del pianeta Venere. I nomi propri “Fosforo” e “Espero” hanno dunque lo stesso riferimento, ossia il pianeta Venere, pur avendo due sensi diversi, corrispondenti – grossomodo – alle descrizioni “la stella del mattino” e “la stella della sera”. Cfr. G. Frege, Über Sinn und Bedeutung, “Zeitschrift fuer Philosophie und philosophische Kritik”, 1892: pp. 25-50; trad. it. S. Zecchi, Senso e Riferimento, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano, Bompiani, 1973 [N.d.T.].
40 L’osservazione è di Elisa Grimi [N.d.T.].
41 Osservazione di Andrea Borghini [N.d.T.].
42 Osservazione di Davide Quattrocchi [N.d.T.].
43 D. Velázquez, Museo del Prado, Madrid; P. Picasso, Museo Picasso, Barcelona. Qui Searle fa riferimento a Las Meninas di Pablo Picasso. Si tratta di un ciclo di dipinti e studi in cui Picasso si dedica all’interpretazione del dipinto di Diego Velázquez. Picasso dipinge ben 58 variazioni sul tema di Velázquez, cambiando completamente la penombra in una raggiante luminosità mediterranea e continuando a cambiare posto alle figure. Cfr. J.R. Searle, Las Meninas and the Paradoxes of Pictorial Representation, “Critical Inquiry”, 6, 1980, 3 [N.d.T.].
44 Osservazione di Andrea Borghini [N.d.T.].
45 Osservazione di Davide Poggi [N.d.T.].
46 L’osservazione è di Elisa Grimi [N.d.T.].
47 L’osservazione è di Andrea Borghini [N.d.T.].
48 Osservazione di Carola Barbero [N.d.T.].
49 Osservazione di Gemmo Iocco [N.d.T.].
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