6. Storia e verità
p. 131-148
Texte intégral
1La storia, secondo Schopenhauer, dà una sola lezione: eadem, sed aliter – si ripetono sempre le stesse cose, però in modo diverso. «Una volta che uno ha letto Erodoto, ha studiato già abbastanza storia, sotto l’aspetto filosofico»31. Se, come Schopenhauer, contempliamo le vicende umane da lontano, assumendo la posizione di uno spettatore neutrale, sospendendo tutti i nostri interessi e impegni, saremo certo d’accordo con lui. Da tale distanza, che altro vediamo se non, come egli afferma, infinite variazioni sullo stesso antico tema: uomini e popoli che inseguono sogni che non vedranno mai realizzati, o troveranno deludenti quando lo saranno?
2Prendiamo i casi principali in cui la storia sembra fare più che ripetersi, in cui sembra mostrare una direzione e un progresso. Teorie accettate dagli scienziati in un’epoca vengono confutate in quella successiva. Innovazioni tecnologiche intese a migliorare la condizione umana contribuiscono a creare nuovi bisogni e nuovi problemi. Le democrazie moderne, malgrado le loro promesse, non pongono fine al dominio dei pochi sui molti. Il progresso è destinato ad apparire un’illusione, se osserviamo la vita dal di fuori, facendo astrazione dalle nostre convinzioni sulla natura e sui beni umani. Così, infatti, non possiamo capire in che misura i nostri predecessori, nonostante le loro sconfitte, fossero comunque sulla strada giusta. Tutto quello che riusciamo a scorgere è il loro inevitabile fallimento nel realizzare i fini che si erano posti. La storia servirà solo a ricordarci che le mete dell’uomo sono sempre al di là della sua portata.
3Normalmente, però, pensiamo al passato, e in particolare all’età moderna, ben diversamente da come faceva Schopenhauer. Riflettendo sul corso degli ultimi cinque secoli, siamo soliti concludere che sono stati realizzati grandi progressi nella conoscenza della natura e nella creazione di una società più giusta. Se esaminiamo le concezioni dominanti della natura e del metodo scientifico, dei diritti individuali e del pieno sviluppo della persona, emergono schemi di progresso scientifico e morale. Diciamo allora che la meccanica classica ha rappresentato un progresso sulla fisica aristotelica, perché è giunta più vicina alla verità su materia, forza e movimento, e ha colto in modo più chiaro l’importanza di risultati esprimibili in forma di leggi matematiche. E così anche in ambito morale: pur con tutte le sue imperfezioni, il sorgere della democrazia liberale ha rappresentato una svolta verso il meglio, se commisurata alla convinzione che la vita politica, in particolare quando è in gioco la coercizione, deve rispettare l’eguale dignità di tutti i suoi partecipanti.
Scetticismo storicista
4Quando abbandoniamo il punto di vista “da nessun luogo” (quello che vuol porsi al di fuori di ogni punto di vista: the view from nowhere) e ci volgiamo a valutare il passato con i nostri criteri attuali, sorgono però nuovi dubbi. Dipendendo necessariamente dalle nostre idee correnti su cosa è vero, importante e giusto, i nostri giudizi sul progresso possono apparire irrimediabilmente provinciali. Possiamo chiederci se non si riducano a lodare gli altri in proporzione a quanto sono diventati simili a noi. La nozione di progresso non è in fondo uno strumento di autocompiacimento? Cosa possiamo dire a chi ci obbietta che il nostro punto di vista presente è soltanto nostro, e non ha più diritti di altri di emettere verdetti su epoche passate?
5Un modo di affrontare questa preoccupazione ha avuto a lungo una enorme influenza; anzi, si inserisce in una corrente dominante della filosofia occidentale. Fin da Platone, i filosofi hanno creduto nell’esistenza di un corpo di principi eterni, universalmente validi, che regolano il modo in cui dobbiamo pensare e agire; hanno creduto inoltre che dobbiamo scoprire questi principi diventando noi stessi, per così dire, eterni. Se ci ritiriamo da tutto ciò che le contingenze storiche hanno fatto di noi, e guardiamo il mondo sub specie aeternitatis, possiamo orientarci per mezzo della sola ragione32.
6Le teorie del progresso scientifico e morale sono un fenomeno moderno, ovviamente. Ma l’Illuminismo, con cui sono nate, trovava ancora congeniale l’ideale antico della ragione come trascendenza, quando articolava la sua visione della dinamica progressiva del pensiero moderno. Un esempio eminente di questa tendenza è il celebre saggio sul progresso di Condorcet (Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, 1793). Una volta che i popoli occidentali, sostiene Condorcet, si sono liberati dal giogo della tradizione e hanno riconosciuto che la conoscenza nasce solo da generalizzazioni accurate a partire dai dati sensibili, il progresso scientifico e il perfezionamento morale sono destinati ad accelerare, come è successo a partire dal xvii secolo.
7In uno spirito simile, possiamo credere che il nostro punto di vista attuale sia qualcosa di più dello stato corrente dell’opinione, poiché abbiamo accuratamente elaborato le concezioni esistenti alla luce della ragione. Possiamo ritenere di avere instaurato una distanza critica nei confronti della nostra epoca, proprio evitando il distacco dello spettatore neutrale di Schopenhauer. La ragione, infatti, non è un punto di vista “da nessun luogo”. Essa ordina il mondo da una prospettiva specifica, definita dai principi di pensiero e azione incorporati nella ragione stessa. Questa ci permette di determinare quale delle nostre convinzioni attuali può servire correttamente da criterio per la valutazione del passato. Di conseguenza, i giudizi che formuliamo sul progresso scientifico e morale non esprimono semplicemente le nostre abitudini mentali.
8O almeno così sembra. Il guaio è che la nostra concezione delle pretese della ragione porta sempre il segno della nostra epoca e situazione. Certo, alcune regole di ragionamento, come quelle che ci insegnano a evitare le contraddizioni e a perseguire il nostro bene, si riscontrano in ogni epoca. Ma possono fare ben poco, da sole, per orientare il nostro pensiero e la nostra condotta; devono essere integrate da principi più sostanziali, se dobbiamo ricavarne una guida affidabile. La ragione a cui ci appelliamo quando esaminiamo criticamente le nostre opinioni esistenti deve quindi combinare entrambi questi fattori. E tuttavia gli aspetti più concreti di ciò che intendiamo per ragione includono principi che abbiamo accolto a causa del loro apparente successo in passato, o a causa della nostra visione generale riguardo alla posizione che la mente occupa nella natura. Quando cambiano queste credenze di sfondo, cambia anche la nostra concezione della ragione, e le concezioni precedenti a volte vengono a sembrare del tutto sbagliate.
9Ancora una volta, il saggio di Condorcet offre di ciò una perfetta illustrazione. La sua fiducia nell’esistenza di sensazioni elementari, non influenzate da presupposti e schemi concettuali, appartiene a un genere di empirismo, trionfante ai suoi tempi grazie all’influenza di Locke, che noi non possiamo più accettare33. La nostra nozione di ragione, per quanto ci sembri autoevidente, può andare incontro allo stesso destino. E anche se non verrà rifiutata, apparirà certamente datata, plasmata nella sua formulazione dal percorso storico particolare che la nostra esperienza e la nostra riflessione hanno preso finora.
10Dubbi simili intorno al progresso si sono intensificati negli ultimi due secoli, nel corso dei quali la ragione stessa è apparsa meno un tribunale collocato al di fuori della storia che un codice che esprime le nostre mutevoli convinzioni su come dovremmo pensare e agire. Già in questo spirito, Hegel intraprese l’opera di “storicizzare” la ragione, benché in un modo destinato a tenere ferma l’idea di progresso. L’“esaltazione bacchica” in cui una concezione della ragione segue all’altra mostra retrospettivamente, per Hegel, uno sviluppo secondo una necessità interna: ogni interpretazione della ragione si è dimostrata insoddisfacente in se stessa – per esempio, i suoi metodi e i suoi obbiettivi si sono rivelati incoerenti – e ha potuto essere corretta solo da quella seguente, fino a che non è sorta la nostra (o piuttosto di Hegel) attuale concezione, la sola che tiene fede alle proprie aspettative.
11Oggi il nostro senso della contingenza è troppo acuto perché una simile storia sembri credibile. Certo possiamo credere che la nostra concezione attuale della ragione sia migliore delle precedenti, che a loro volta hanno corretto gli errori di quelle che le hanno precedute. Però dobbiamo ammettere che sarebbero stati possibili sviluppi diversi, e che anche la nostra concezione attuale potrà un giorno essere rivista. Per quanto i criteri che invochiamo per giudicare noi stessi e il passato funzionino perfettamente, essi possono apparire troppo legati al caso e alle circostanze per giustificare qualsiasi conclusione sul progresso.
Crescita e progresso
12Per comprendere il vero significato di questi dubbi, dobbiamo soffermarci sulla differenza cruciale tra crescita e progresso. Prendiamo il caso della scienza moderna della natura. Nessuno può considerarla plausibilmente come una mera successione di teorie differenti, ognuna delle quali essendo una nuova speculazione sul mondo. Nell’Antichità e nel Medio Evo, lo studio della natura appariva spesso così – e così appare una parte delle scienze sociali ancora oggi. A partire dal xvii secolo, però, la fisica e poi la chimica e la biologia si sono trasformate in imprese cumulative. Esse fondano le loro concezioni su conclusioni accertate, abbastanza solide da essere trasmesse come premesse che guidino indagini future. È stata in larga parte la combinazione di matematica e sperimentazione a rendere possibile ciò; le leggi sperimentali in forma matematica si prestano a prove precise e, una volta confermate, è poco probabile che vengano screditate in seguito, anche se devono essere affinate in presenza di nuovi dati. Allo stesso tempo, la loro precisione serve a orientare la ricerca futura, ponendo dei limiti alle ipotesi che da lì in avanti possono essere prese sul serio. Non a caso, la storia della scienza moderna mostra una chiara linea di sviluppo che porta alla nostra concezione attuale della natura. Ogni stadio lungo questa via ha esteso e corretto i risultati di quelli che l’hanno preceduto. In questo senso, la crescita è inequivocabile.
13A dire il vero, la crescita non si è realizzata sempre per semplice accumulo. A volte nuove teorie si sono appropriate di risultati precedenti ricollocandoli in vocabolari concettuali molto diversi. Altre volte teorie ben corroborate sono state respinte perché non sono riuscite ad accordarsi con nuovi dati empirici. E a volte questi due tipi di cambiamento teorico si sono abbinati, come nelle “rivoluzioni scientifiche” care a Thomas Kuhn, in cui un paradigma sostituirebbe un altro per mezzo di un riorientamento della Gestalt (Gestalt-switch). È vero però che le rivoluzioni realizzatesi all’interno delle moderne scienze naturali, al contrario di quelle che le hanno precedute o inaugurate, normalmente portano con sé uno stock accumulato di leggi sperimentali. Le equazioni di Maxwell, per esempio, sono sopravvissute all’avvento della teoria della relatività, anche se hanno dovuto essere riformulate in modo da non fare riferimento a un etere luminifero.
14Kuhn lamentava il fatto che i libri di scienza scrivano la storia della loro disciplina a ritroso partendo dal presente, trasfigurando così le drammatiche svolte di tale storia in progressivi contributi all’edificio presente della conoscenza34. È indubbio che essi distorcano il passato. Eppure solo nell’epoca moderna tali testi hanno avuto un ruolo importante, e ciò è in sé un fatto significativo. Solo recentemente è diventato possibile (e anzi essenziale per la formazione scientifica) che i risultati passati siano esposti come un corpo sistematico di dottrine, accompagnato da una serie di problemi e soluzioni. L’importanza stessa di questi testi attesta il carattere cumulativo della scienza moderna.
15Crescita, tuttavia, non vuol dire progresso. Progresso significa movimento in direzione di una meta, mentre crescita è essenzialmente un concetto retrospettivo, che si riferisce a un processo in cui nuove formazioni emergono costruendosi su quelle precedenti. Il progresso in genere implica la crescita, ma in aggiunta presuppone un traguardo verso cui si pensa che tale crescita stia avanzando. Ora, l’opinione comune ritiene che la scienza tenda alla verità e che quindi la sua crescita sorprendente nella modernità rappresenti un progresso in direzione di questo obbiettivo. Senza dubbio una concezione così semplicistica richiede alcune immediate specificazioni. Le scienze naturali moderne non cercano la verità in generale, come se la conoscenza scientifica fosse l’unica conoscenza degna di essere posseduta (pregiudizio scientista). Esse hanno per oggetto il mondo della natura, e consacrano le proprie energie non semplicemente ad accumulare verità (come se di più fosse meglio), ma a mettere insieme verità che possano aiutare a spiegare il funzionamento della natura. Inoltre, la cosiddetta “ricerca della verità” in realtà comprende in sé due obbiettivi distinti: acquisire la verità ed evitare l’errore (per notare la differenza, si osservi che se fossimo interessati solo all’acquisizione della verità, crederemmo a tutto, e se volessimo solo evitare l’errore, non crederemmo a niente); gli scienziati devono perseguire entrambi gli obbiettivi insieme, secondo la loro disponibilità al rischio di commettere errori al fine di ottenere nuove informazioni sul mondo35. Infine, la verità cui tende la scienza non è necessariamente un ordine delle cose unico e riduttivo, come viene definito per esempio dalla microfisica. La natura può comprendere (e io credo che in effetti comprenda) una pluralità irriducibile di livelli di realtà.
16Tuttavia, queste correzioni non rimuovono l’obiezione fondamentale sollevata contro la concezione comune della scienza moderna: cioè che l’idea di progresso scientifico appare sospetta, una volta che riconosciamo la contingenza storica dei criteri da noi usati per giudicare il presente e il passato. Se la nostra visione corrente della natura è considerata ben fondata solo in riferimento a una concezione della ragione emersa a sua volta dalle vicissitudini dell’esperienza, come possiamo sostenere che il suo miglioramento rispetto alle visioni precedenti rappresenti un progresso verso la verità? La domanda non pone in questione l’esistenza della crescita scientifica: è evidente che, a partire dai secoli xvi e xvii, c’è stata una costante accumulazione di leggi sperimentali, e che quando teorie passate sono andate incontro a difficoltà sono state corrette in modo da produrre il corpo di conoscenza oggi esposto nei libri di testo delle varie discipline. Ma con quale diritto possiamo affermare che questo processo porti ad altro se non alle opinioni oggi prevalenti? Perché dovremmo supporre che esso, allo stesso tempo, ci ha portato più vicini all’obbiettivo di scoprire la verità sulla natura?
17Kuhn era un esponente eloquente di questo diffuso genere di scetticismo. Benché continuasse a riferirsi al “progresso”, questo termine per lui aveva solo il significato di un’accresciuta abilità nel risolvere problemi. La nozione di progresso verso la verità gli sembrava oziosa, irrilevante per l’analisi della scienza moderna: «È veramente d’aiuto immaginare che esista una descrizione della natura completa, oggettiva, vera, e che il metro appropriato del successo scientifico sia la misura in cui esso ci avvicina a questo scopo finale?». La sua risposta era no, perché «per la ricerca della scienza non è disponibile nessun piano di Archimede oltre a quello già dato dalla nostra situazione storica»36. Gli scienziati non decidono tra teorie rivali invocando la verità come criterio. O se lo fanno, la verità è solo un concetto di comodo per riassumere i principi ai quali effettivamente si appoggiano, cioè i metodi e i valori scientifici sanzionati dallo stato presente della ricerca. La verità – cioè, la natura come è in se stessa – ha senso come obbiettivo solo finché si ritiene che la ragione offra i mezzi per avvicinarsi sempre più a essa. Una volta che l’ideale della ragione come trascendenza perde la sua plausibilità, lasciando il posto al riconoscimento che la scienza si appoggia sempre a un corpo di conoscenze storicamente determinato, la nostra comprensione dei fini della scienza deve diventare, similmente, più modesta. Il suo scopo, per Kuhn, consiste nella soluzione dei problemi che lo stato corrente della dottrina pone.
18Questo tipo di argomento è diventato un ritornello familiare in molte aree del pensiero contemporaneo. Esso alimenta, per esempio, l’ampia famiglia di teorici postmoderni per i quali l’idea di una scienza che progredisce verso la verità è il paradigma di quelle narrazioni illusorie, o “metanarrazioni”, con cui la modernità ha cercato di dare alle sue realizzazioni una legittimità universale37. A mio parere, gli attacchi storicisti al realismo scientifico (per dar loro un nome) traggono origine da una intuizione importante. Contrariamente a una delle più profonde aspirazioni dell’Illuminismo, se non della filosofia in generale, la ragione non ci scioglie dalle contingenze del tempo e dello spazio. I principi sostanziali di razionalità si formano sempre alla luce di credenze e pratiche trasmesse da un passato che avrebbe potuto andare altrimenti.
19Allo stesso tempo, però, lo scetticismo contemporaneo sul progresso si nutre anche di un falso presupposto, da esso condiviso con l’ideale di ragione trascendente che respinge. I dati della storia non sono ostacoli, ma piuttosto mezzi. Ragionare dal punto in cui ci troviamo è proprio il modo in cui noi confrontiamo le nostre asserzioni con il mondo. Per quanto possiamo essere creature esposte al caso, il mondo in sé resta l’oggetto del nostro pensiero, e le ragioni che troviamo per preferire una credenza all’altra devono essere comprese come le ragioni che abbiamo per pensare che ci stiamo avvicinando alla verità.
Accordo e uso
20Non c’è modo migliore per sviluppare questo punto che analizzare più in dettaglio la posizione del più famoso scettico di questi ultimi tempi. Intendo dire Richard Rorty, un “kuhniano di sinistra” con un suo stile peculiare, che ci fornisce l’esempio più illuminante di tutto quello che c’è di giusto – ma anche di sbagliato – nelle filosofie antirealiste così diffuse nella nostra cultura. Diversamente però da altri amici della verità e del progresso, non intraprenderò una stroncatura di Rorty al fine di dichiarare vittoriose, per così dire per abbandono, tutte le concezioni ortodosse che egli voleva rovesciare. Ho già detto abbastanza, credo, per mettere in evidenza la mia simpatia per il concetto storicizzato di ragione che fa da trampolino al suo pensiero. Intendo invece portare alla luce la linea unitaria di argomentazione che, tra le mutevoli formulazione e i copiosi riferimenti ad altre figure, tiene insieme tutta la sua opera. Il mio obbiettivo è individuare precisamente il punto debole di quest’argomentazione, il punto in cui l’intuizione si trasforma in errore.
21Il senso comune dice che c’è un mondo “là fuori”, mondo che esiste indipendentemente dalla mente umana, e Rorty saggiamente negava di voler contestare un fatto così evidente. Anche quando manipoliamo il mondo per realizzare i nostri scopi, procediamo sfruttando le leggi della natura operanti nelle cose intorno a noi. Ma la verità, insisteva Rorty, non è “là fuori” allo stesso modo. La verità è una proprietà degli enunciati che proferiamo, una proprietà che giudichiamo essi abbiano in virtù di criteri da noi stessi fissati. Benché a volte il criterio pertinente possa esigere semplicemente che guardiamo il mondo fisico e lasciamo che sia esso a determinare la verità o falsità di una data asserzione (per esempio: “il gatto è sul tappeto”; “il protone ha attraversato la camera a nebbia”), l’idea stessa di quando una percezione può decidere una questione, così come l’interpretazione che diamo di ciò che vediamo, dipende da un’intera rete di altre credenze e modi di rapportarci al mondo. Dichiarare vera un’asserzione, sostiene Rorty, vuol dire che quanti condividono con noi un certo sistema di credenze hanno egualmente ragione di fare propria tale asserzione. La sola cosa sostanziale che possiamo intendere quando parliamo di verità è che una data asserzione è coerente, in un modo autorizzato dai criteri attuali, con il nostro corpo di credenze accettate. Sostenere che una proposizione vera “corrisponde” al mondo così com’è non significa più di questo, poiché tutto quello che possiamo intendere per “mondo” è «tutto ciò a cui si ritiene si riferiscano correntemente la maggior parte delle nostre credenze correntemente non contestate»38.
22Naturalmente, essere vero non equivale a essere giustificato. Però per Rorty il fatto che un’asserzione giustificata dalle nostre credenze possa risultare falsa significava solo che può sopraggiungere una migliore visione delle cose in cui l’asserzione non supera più l’esame. La distinzione tra “vero” e “giustificato” aveva soltanto, secondo lui, una funzione cautelativa, ricordandoci che possiamo sempre trovare delle ragioni per cambiare opinione. “Vero” non si riferisce a un punto di vista finale che ci sforziamo di raggiungere e che, una volta conquistato, ci mostrerà il mondo così com’è. O, più esattamente, la posizione di Rorty era che non abbiamo bisogno di pensare in questi termini. L’idea di un simile punto di vista non gioca nessun ruolo nelle nostre decisioni reali su ciò che dobbiamo credere. Poiché la verità non è “là fuori”, essa non costituisce un fine della ricerca, e il progresso scientifico non può consistere nell’avvicinarsi alla verità. Per lui, come per Kuhn, il progresso, a rigore, non era affatto progresso, ma crescita: un’accresciuta abilità di fare predizioni riuscite e di risolvere i problemi posti dalle dottrine esistenti39.
23«Il mondo non parla», amava scherzare Rorty, «solo noi lo facciamo». Non abbiamo altri vocabolari oltre ai giochi linguistici da noi stessi inventati. Poiché la verità è sempre giudicata per mezzo di tali giochi, egli si spingeva a proclamare, nell’evidente desiderio di sconcertare, che la verità è qualcosa di prodotto (made), piuttosto che trovato (found) in una realtà collocata al di fuori delle nostre forme linguistiche40. Sarebbe facile ritorcere che, mentre le nostre proposizioni sono evidentemente una nostra creazione, non lo è ciò che le rende vere o false, cioè il mondo. Le asserzioni vere sono prodotte, ma la loro verità non lo è: è scoperta41. Questa facile replica, però, non coglie il punto. Essa non rende giustizia all’intuizione storicista che ispira il rifiuto, da parte di Rorty e molti altri, delle idee tradizionali di verità e progresso. Che senso ha sostenere che la verità viene trovata, se i criteri in virtù dei quali determiniamo il vero e il falso – in altri termini, il ruolo che facciamo giocare al mondo nel formare il nostro pensiero – sono un prodotto della storia umana tanto quanto le credenze che essi servono a valutare? La ragione, sembra allora, non ci insegna come far sì che il mondo in sé renda vere o false le nostre asserzioni; ci mostra in che rapporto sta il mondo così come è concepito in questo momento con le asserzioni che facciamo. Se la verità non è qualcosa che troviamo, perché allora non concluderne che deve essere prodotta?
24Nondimeno, proprio perché considerava la verità così poco rilevante nelle decisioni reali concernenti le nostre credenze, Rorty evitava nelle sue formulazioni più accurate il contrasto tra fare e trovare. Se la verità è realmente una nozione di poco interesse, non merita di essere oggetto di una teoria così notevole. La sua ambizione di liberarci come di un vuoto slogan dell’idea che scienza e morale cerchino “la verità” sulla natura e sul bene umano, comunque venga intesa la verità. L’intento più profondo di Rorty era far sì che impariamo a considerare scienza e morale come attività il cui scopo è espandere gli orizzonti dell’accordo intersoggettivo, integrando nuove esperienze e interessi fino ad allora trascurati o repressi. La contrapposizione da lui favorita diventò allora quella tra oggettività e solidarietà. Se oggettività significa fondarsi sulla realtà stessa, essa deve lasciare il campo, per Rorty, all’ideale più coerente di una ricerca della solidarietà, dell’accordo non coercitivo con gli altri. La nostra più alta aspirazione dovrebbe diventare la speranza piuttosto che la conoscenza, il ragionare insieme piuttosto che la conformità al mondo42. La scienza stessa infatti non si occupa di scoprire quanto più possibile della verità sul funzionamento della natura. Il suo scopo è invece, sosteneva Rorty, quello di ideare per mezzo di argomenti razionali delle sintesi sempre più soddisfacenti di teorie e esperimenti. Allo stesso modo, anche il nostro pensiero morale viene inteso più proficuamente se finalizzato non a determinare ciò che dobbiamo veramente gli uni agli altri, ma a costruire comunità sempre più inclusive in cui la discussione libera e aperta sostituisca l’uso della forza. “Accordo”, non “verità”, era il termine preferito da Rorty per esprimere il proprio “pragmatismo”.
25Ora, il pragmatismo classico (Peirce, James e Dewey) considerava sempre con sospetto l’abitudine filosofica di costruire dualismi, in particolare quelli che oppongono l’assoluto e il permanente al relativo e mutevole. Teoria e pratica, ragione ed esperienza, dovere e desiderio, non si escludono reciprocamente, insistevano questi autori, ma collaborano insieme da diversi angoli visuali nell’aiutarci a dare senso al mondo. Anche Rorty si è sempre vantato di essere un antidualista. Tuttavia non è mai riuscito a formulare la sua posizione senza ricadere in dualismi filosofici di tal genere – se non “trovare” vs. “costruire” la verità, allora “oggettività” vs. “solidarietà”. Questa retorica dualista non è accidentale. Le style, c’est l’homme même. Rorty amava contrapporre un concetto storicizzato di ragione all’idea che la ricerca mira alla verità. L’antitesi tradizionale tra verità eterna e mutevolezza umana strutturava il suo pensiero fin dall’inizio, e certo egli non sfuggiva alla sua presa argomentando, come faceva, che solo l’ultima, non la prima, conta.
26Qui si trova l’errore fatale di Rorty. Si noti infatti come non sia affatto ovvio che la solidarietà si opponga all’oggettività. L’accordo con gli altri può assumere diverse forme, a seconda dei motivi che spingono a cercarlo. A volte, per esempio, seguire qualsiasi cosa dicano i nostri compagni genera un confortevole senso di appartenenza. Ma cosa rende un accordo ragionato qualcosa di degno di essere realizzato, se non il fatto che esso rafforza la nostra possibilità di cogliere le cose così come sono realmente? L’opposizione tra solidarietà e oggettività si dimostra illusoria. Il modo migliore di vederlo è riprendere in esame, questa volta più da vicino, la natura della ragione e della giustificazione.
Superare i dualismi
27Deliberare se accettare un’asserzione problematica consiste, come Rorty giustamente sosteneva, nel determinare in che misura essa concorda con le nostre credenze esistenti. La ragione può guidare la valutazione, ma i requisiti che essa impone riflettono la mutevole autocomprensione della comunità di ricerca cui apparteniamo. Tutto ciò è corretto.
28Tuttavia ciò non offre una base per negare che la verità costituisca l’oggetto dei nostri sforzi – e la verità concepita come corrispondenza con la realtà nel senso non-tecnico e quotidiano di “corrispondenza”, che significa semplicemente adeguazione al mondo così com’è. In realtà, la pratica della giustificazione non ha alcun senso senza questa idea. Infatti, ciò che serve a giustificare o rifiutare un’asserzione sotto esame non è il fatto psicologico che ci accade di avere le credenze a cui ci appelliamo. Il nostro stato mentale, in sé e per sé, non ha alcuna incidenza sulla questione. La considerazione probativa è piuttosto che le credenze, per quanto noi presumiamo, sono vere; in altri termini, che il mondo è come esse lo descrivono. (Altrimenti, potremmo “giustificare” l’asserzione riferendoci a concezioni che prendiamo soltanto in considerazione, ma non affermiamo come vere). Giustificare con successo un’affermazione significa, quanto a lui, mostrare che essa merita di porsi a fianco delle nostre credenze accettate, d’unirsi a esse nel ruolo di premesse per la soluzione di dubbi futuri. Ne consegue che quando esaminiamo le credenziali di una proposizione problematica, la nostra intenzione è stabilire se concorda con il mondo così com’è. Naturalmente, le credenze di sfondo possono essere a loro volta errate. Possiamo sempre sbagliare in quello che diciamo sulla realtà. La fallibilità, però, non impedisce che la verità sia il nostro scopo. Rorty aveva ragione nel sostenere che la giustificazione procede facendo appello a ciò che già crediamo, cercando conclusioni che altre persone fornite di credenze simili possano considerare anch’esse di aver ragione di accettare. Però questa stessa attività è indissolubile dal rendere il nostro pensiero ricettivo al mondo. Solidarietà e oggettività vanno di pari passo. Come criterio di verità la coerenza ha senso solo se la verità a sua volta è intesa come corrispondenza con le cose così come sono realmente.
29Un verdetto simile si applica al dualismo affine, da Rorty spesso sviluppato, tra “fare uso” (coping) e “copiare” (copying). Egli osservava giustamente che diverse descrizioni di una stessa cosa possono dimostrarsi adeguate secondo gli scopi che ci poniamo e il pubblico al quale ci rivolgiamo. A volte parliamo di acqua come di un insieme di molecole di H2O, altre come di una sostanza nutritiva essenziale per ogni forma di vita. Questo significa, come sosteneva Rorty, che il nostro discorso mira solo a essere utile, non a rappresentare o “copiare” il mondo così com’è? Ancora una volta, ci viene proposta una falsa alternativa; utilità e verità sono inseparabili. Non possiamo fare uso con successo delle cose intorno a noi finché non prendiamo in considerazione come appare il mondo dall’angolo particolare che abbiamo scelto. Siamo d’accordo, nessuna singola descrizione è la sola e unica descrizione vera. Ma l’esistenza di molte descrizioni egualmente vere rispecchia il fatto, cui abbiamo alluso prima, che il mondo stesso comprende livelli di realtà molteplici e irriducibili43. L’acqua è entrambe queste cose e molte altre ancora.
30Queste osservazioni compsortano che la crescita scientifica vada considerata anche un progresso verso la verità, quando la serie di nuove teorie basate su teorie precedenti genera elementi della nostra attuale comprensione del mondo naturale. Non intendo suggerire che i due concetti – crescita e progresso – siano in fondo sinonimi. Ma l’unico caso in cui la crescita non può diventare progresso è quando non riesce a produrre credenze come quelle che abbiamo ragione di adottare. (Così la teoria geocentrica si accrebbe in sofisticazione con Tolomeo, senza però avvicinarsi alla verità sul movimento dei pianeti). Poiché credere qualcosa significa riteneva vera la credenza in questione, e nella misura in cui le nostre credenze correnti sulla natura sono il risultato di un processo auto-correttivo, quale la storia della scienza moderna è indubbiamente diventata, possiamo a ragione considerare tali credenze come il frutto di un progresso verso la verità. Quando le concezioni passate non concordano con le nostre convinzioni presenti possono essere giudicate false, e quando, essendo state corrette, hanno portato alle concezioni che sosteniamo ora, dobbiamo concludere che siamo più vicini a cogliere il mondo così com’è.
31Certo, allora la verità viene giudicata a partire da criteri attuali. Tuttavia, si potrebbe chiedere, quali altri criteri dovremmo usare al loro posto? Come Rorty, molti altri oggi continuano ad accettare un presupposto costitutivo della nozione tradizionale di progresso che intendono rovesciare. Essi presuppongono che avremmo solo diritto a considerarci più vicini alla verità rispetto ai nostri predecessori se potessimo innalzarci al di sopra della nostra situazione storica e rivendicare le nostre concezioni presenti da un punto di vista privilegiato al di fuori dei variabili insegnamenti dell’esperienza. Perciò, dimostrando correttamente che la nostra idea di ragione è partecipe del nostro mutevole tessuto di credenze, essi procedono poi a rifiutare la verità come scopo della nostra ricerca.
32Proprio questo presupposto, però, è il dogma che dobbiamo combattere. La vera rivoluzione in filosofia sarebbe quella di considerare le contingenze della storia come i soli mezzi con i quali ci impadroniamo della realtà. Non possiamo guardare indietro (come supponeva Hegel) e vedere negli sviluppi che portano al nostro corpo presente di credenze un percorso che il genere umano era destinato a fare. Ciò che possiamo fare è mostrare in che modo le nostre concezioni attuali rappresentino un miglioramento sulle precedenti e risolvano i problemi che esse lasciano irrisolti; e nella misura in cui possiamo fare ciò, dovremmo concluderne che le ragioni per preferire le nuove concezioni alle vecchie sono ragioni per pensare che ora abbiamo una comprensione migliore di come è fatto il mondo.
33I principi in base ai quali formuliamo questi giudizi possono cambiare a loro volta con il cambiare della nostra concezione della natura. Ma la ragione, anche se intesa in modo storicizzato, non perde la sua autorità di regolare il nostro pensiero e di determinare il progresso che abbiamo realizzato. Avere buoni motivi per modificare le nostre credenze significa avere appreso dai nostri errori, e questi sono i termini in cui dovremmo vedere i cambiamenti cui è andata soggetta la nostra stessa nozione di ragione. Come dimostra la storia della scienza, abbiamo appreso ad apprendere nel corso dello stesso processo di apprendimento sul mondo naturale44. I principi di razionalità che siamo giunti ad accettare sono anch’essi delle verità, scoperte che abbiamo fatto su come dovremmo pensare e condurre le nostre indagini sulla natura. In generale, infatti, i principi di pensiero e di azione sono criteri che indicano il tipo di ragioni esistenti per credere o fare qualcosa; quelli che vengono chiamati principi di razionalità sono i più fondamentali tra questi criteri. Sia le ragioni sia i principi che le identificano sono oggetti di conoscenza, e le nostre credenze intorno a essi hanno gli stessi fattori di base delle nostre credenze intorno ad altri generi di cose45. I principi di razionalità che adottiamo sono quelli che presumiamo validi universalmente e senza limiti di tempo, così come ogni credenza vera è quella che non può cambiare il proprio valore di verità. Ma nella misura in cui la nostra comprensione dei principi è il risultato di un processo di apprendimento, è possibile che essi non riescano a essere sempre accessibili, così come la base per accettare altri tipi di credenze può dipendere dal modo in cui la nostra esperienza si è svolta.
Progresso morale
34Fin qui mi sono concentrato soprattutto sul progresso scientifico, trascurando l’idea di progresso morale. Ma quest’idea si presta a una ricostruzione simile, anche quando il termine “morale” venga preso in senso abbastanza ampio da comprendere tutti i differenti elementi di una vita vissuta bene e non solo i doveri che abbiamo nei confronti degli altri. (A volte, si introduce qui un’opposizione tra “morale” e “etica”, ma non seguirò quest’uso). In misura significativa, possiamo dire in effetti che ci sia stato qualcosa come un progresso morale. Ma, vorrei suggerire, qui dobbiamo muoverci con molta cautela e aggiungere alcune importanti specificazioni. La ragione di ciò è che dobbiamo distinguere tra il nostro pensiero morale, da un lato, e la morale effettiva manifestata dalle nostre azioni e istituzioni, dall’altro. Le due cose non possono essere separate del tutto, ovviamente. Se ci sia stato o meno un effettivo progresso morale dipende in parte dall’eventualità di un progresso nella nostra comprensione morale. Tuttavia, si può concludere facilmente (basta un rapido sguardo al xx secolo) che i progressi nella conoscenza morale non sono andati di pari passo con un gran miglioramento nel modo in cui realmente ci trattiamo reciprocamente.
35Ora, qualcuno contesterà che “progresso” sia un termine applicabile correttamente al pensiero morale, preso in se stesso. Infatti il progresso morale in tal senso presuppone che possa esserci qualcosa come una conoscenza morale, ed è stato a lungo controverso se i nostri giudizi morali mirino realmente alla conoscenze, e se c’è qualcosa nel mondo su cui essi possano essere detti veri o falsi. Ho cercato di mostrare altrove perché la conoscenza morale è sia una possibilità sia una realtà46. Essa è, ho sostenuto, la conoscenza che possediamo di certi generi di ragioni per agire. Non riprenderò questo argomento, né giustificherò l’altra tesi che a me sembra corretta, cioè che la storia del pensiero morale è in realtà una storia del progresso nell’apprendimento della verità intorno a ciò che dobbiamo agli altri e intorno a ciò che rende possibile il pieno sviluppo della persona. Voglio invece concentrarmi sul punto in cui il parallelo tra progresso morale e progresso scientifico, nondimeno, finisce. È l’ambito della vita stessa, dove il pensiero lascia il campo all’azione. In parte, come ho indicato, questa differenza è dovuta alla nostra manifesta incapacità di vivere all’altezza degli ideali che professiamo. Ma essa riflette anche un fattore intrinseco di ciò su cui verte il nostro pensiero morale.
36Da soggetti agenti, e non solo conoscenti, quali siamo, vogliamo non solo approfondire la nostra comprensione del giusto e del bene, ma anche agire meglio nei nostri rapporti con gli altri e contribuire a creare un mondo migliore. Certo, per più di una ragione la storia offre nondimeno ben pochi segni di un progresso sull’ultimo punto. Sicuramente, le persone restano in generale deboli, irriflessive, egoiste e crudeli come sono sempre state, a dispetto di tutta la loro migliore conoscenza di ciò che si devono reciprocamente. Ma è vero anche questo: una delle verità morali che siamo arrivati a comprendere, e che illustra il progresso da noi compiuto sul piano della riflessione morale, è che in generale nessun modo di vita può incarnare certe cose preziose se non a spese di altri valori. Il bene umano non è tutto d’un pezzo. Esso abbraccia una molteplicità eterogenea di fini fondamentali che vanno in direzioni opposte ed entrano facilmente in conflitto nella pratica. Il valore militare mette fuori gioco l’umiltà cristiana; la democrazia moderna può dimostrarsi incompatibile con conquiste culturali di alto valore. Quest’atteggiamento “pluralista”, che Isaiah Berlin ha difeso in modo memorabile nella nostra epoca, ci ha insegnato correttamente ad aspettarci che i guadagni siano senza eccezione accompagnati da perdite47. Come risultato, troviamo spesso difficile, se non impossibile, affermare che una forma di vita, non solo per certi aspetti, ma presa nel suo insieme, rappresenti un progresso morale rispetto a un’altra.
37La scienza non persegue una tale varietà di fini. Poiché scopi come il potere esplicativo o la precisione contano solo in quanto servono a portare la ricerca più vicina al suo obbiettivo ultimo, cioè la conoscenza del mondo naturale, i nostri giudizi sul progresso scientifico non richiedono un bilanciamento così problematico di vantaggi e svantaggi. C’è solo bisogno, come ho osservato sopra, di pesare l’uno contro l’altro i due scopi costitutivi nella ricerca della conoscenza, cioè acquisire la verità ed evitare gli errori. Anche il nostro pensiero morale, mirando a comprendere cos’è giusto e buono, non affronta ostacoli essenzialmente maggiori rispetto a quelli che affronta la teorizzazione scientifica. Ma la vita è diversa. Possiamo ammettere senza esitare che la democrazia moderna rappresenti un progresso rispetto ad altre forme precedenti di governo politico. Però, se guardiamo anche alle sue conseguenze culturali, al livellamento e alla mercificazione che sembrano inevitabilmente accompagnarla, possiamo essere meno certi della sua superiorità come forma di vita, nel suo insieme, su altre forme di vita del passato.
38Una cosa è chiara, però. Riflettendo sulla natura di scienza e morale, dobbiamo infrangere la presa che i vecchi dualismi ancora esercitano sullo spirito filosofico, persino tra quanti pretendono di combatterli. Superare i dualismi non significa, naturalmente, abolire le distinzioni. Possiamo continuare a distinguere, per esempio, tra rendere i nostri pensieri rispondenti al mondo (answerable to the world) e cercare accordi ragionevoli con gli altri, tra oggettività e solidarietà. Il punto cruciale è capire che non siamo costretti a scegliere tra due concezioni della ricerca, ognuna basata su uno di questi obbiettivi a esclusione dell’altro, poiché la distinzione coglie aspetti interdipendenti di un singolo processo.
39La verità in sé è atemporale; se la meccanica newtoniana ci appare oggi errata in modo significativo, allora era sempre falsa, anche al suo apice. Il nostro pensiero, al contrario, prende forma necessariamente nel tempo, e non ha altre risorse se non quelle che il passato e la nostra immaginazione possono fornirci. Tuttavia la finitezza che segna ogni nostro passo segue le tracce del mondo che c’è al di là. Ragionare da dove ci troviamo significa ragionare intorno alle cose così come sono. Come scriveva T.S. Eliot in Burnt Norton, «solo col tempo si conquista il tempo» (only through time time is conquered)48.
Notes de bas de page
31 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Ergänzungen, § 38; trad. it. G. De Lorenzo, Supplementi al “Mondo come volontà e rappresentazione”, Roma-Bari, Laterza, 1986, cap. xxxviii, p. 461.
32 Alludo qui a una distinzione importante ma spesso trascurata tra due significati di “universale”, se riferito a principi: “universalmente vincolante” e “universalmente accessibile o giustificabile”. Ho discusso tale distinzione in modo approfondito in The Morals of Modernity, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, capitolo 2, paragrafo 5. Essa si dimostrerà pertinente nell’analisi che segue.
33 Si prenda la stessa frase di apertura dell’Esquisse di Condorcet: «L’uomo nasce con la facoltà di ricevere sensazioni: di percepire e di discernere le sensazioni semplici che le compongono, di ricordare, di riconoscerle, di combinarle; di raffrontare tra loro queste combinazioni; di afferrare ciò che hanno in comune e ciò che le differenzia; di attribuire un segno a ogni cosa per riconoscerle meglio e per agevolarne nuove combinazioni». (Condorcet, I progressi dello spirito umano, trad. it. G. Calvi, Roma, Editori Riuniti, 1995, p. 47).
34 Th. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, University of Chicago Press, 1970, pp. 136 sgg.; trad. it. A. Cargo, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1978, pp. 168 sgg.
35 Per un’analisi più dettagliata, cfr. Ch. Larmore Descartes and Scepticism, in S. Gaukroger, a cura di, The Blackwell Guide to Descartes’ Meditations, Oxford, Blackwell, 2005.
36 Th. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, cit., p. 171; trad. it. cit., p. 205; Idem, The Road Since Structure, Chicago, University of Chicago Press, 2000, p. 95.
37 Cfr. J.-F. Lyotard, La condition post-moderne, Paris, Minuit, 1979; trad. it. C. Formenti, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981.
38 R. Rorty, The World Well Lost (1972), in Consequences of Pragmatism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1982, p. 14; trad. it. F. Elefante, Conseguenze del pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986.
39 R. Rorty, Truth and Progress, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, p. 5; trad. it. G. Rigamonti, Verità e progresso, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 39.
40 R. Rorty, Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 6-7; trad. it. G. Boringhieri, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Roma-Bari, Laterza, 1991.
41 Cfr. J. Searle, Rationality and Realism, “Dædalus”, vol. 122, n. 4, 1993, pp. 55-83.
42 R. Rorty, Philosophy and Social Hope, Londra, Penguin, 1999; Idem, Solidarity or Objectivity, in Objectivity, Relativism and Truth, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 21-34; trad. it. Solidarietà od oggettività?, in Scritti filosofici, a cura di A.G. Gargani, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 29-46.
43 Cfr. J. Dupré, The Disorder of Things, Cambridge (ma), Harvard University Press, 1993.
44 D. Shapere, Reason and the Search for Knowledge, Dordrecht, Reidel, 1984, p. 233.
45 Che le ragioni siano un oggetto di conoscenza è un tema discusso con Alain Renaut nel libro Ch. Larmore, A. Renaut, Débat sur l’éthique, Paris, Grasset, 2004; trad. it. R. Capovin, Dibattito sull’etica, Roma, Meltemi, 2007 e in Ch. Larmore, The Autonomy of Morality, cit., capitoli 3 e 5.
46 Cfr. Ch. Larmore, The Morals of Modernity, cit., capitolo 5 (Moral Knowledge), e The Autonomy of Morality, cit., capitoli 3 e 5.
47 Cfr. I. Berlin, The Poursuit of the Ideal (1988), in The Crooked Timber of Humanity, New York, Knopf, 1991, pp. 1-19; trad. it. G. Ferrara degli Uberti, La ricerca dell’ideale, in Il legno storto dell’umanità, Milano, Adelphi, 1994, pp. 17-42.
48 Th. S. Eliot, Quattro quartetti; trad. it. F. Donini, Milano, Garzanti, 1989, p. 10.
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