5. Liberalismo politico
p. 99-130
Texte intégral
Natura della politica
1La lezione di questa mattina sarà suddivisa in due parti: nella prima affronterò in termini generali la natura della politica, mentre nella seconda parlerò più specificamente del liberalismo politico.
2Come ho già detto nella prima lezione, sono convinto che il nostro pensiero politico non dovrebbe fare affidamento su tutta la verità di cui pensiamo di disporre, almeno quando esso concerne gli scopi della politica. Quello a cui mi riferisco è la nostra riflessione politica volta a stabilire le norme e i principi della società politica, in modo tale che quanti entreranno a far parte di questa associazione politica saranno in grado di vedere, discutere e riconoscere questi principi; è in questo senso che parlo di scopi della politica. Come ho già detto, non credo che dovremmo sentirci in alcun modo tenuti a ricercare la verità completa e, anzi, forse sarebbe saggio non volerlo fare, dal momento che l’intera verità che abbiamo raggiunto riguardo a certi principi politici potrebbe non promuovere affatto gli scopi della politica, ovvero il modo in cui le regole della nostra vita politica si “adattano” l’una all’altra.
3Esistono altre situazioni, nelle quali diventa importante per noi capire il modo in cui concepiamo la vita politica in un contesto più ampio, perché desideriamo conoscere meglio quale sia la nostra prospettiva generale sul mondo, e forse anche quella delle altre persone; potremmo avere voglia di discutere e di mettere a confronto le diverse concezioni della verità totale di cui disponiamo26 e potremmo avere il desiderio di conoscere quale posto occupi in esse la vita politica. Ma occorre distinguere fra le domande di autocomprensione e le discussioni che possiamo avere l’uno con l’altro in un contesto essenzialmente privato, e la riflessione politica rivolta agli scopi della politica attraverso la quale si mira a stabilire i principi politici in un modo che sia comprensibile, riconoscibile e, si spera, convincente anche per le altre persone.
4Lasciatemi dire qualche cosa che ho già anticipato all’inizio e che avrò occasione di ripetere anche più avanti: ho cominciato questa lezione presentandovi la mia definizione di politica, ma non voglio supporre neppure per un momento che la mia definizione di politica sia – per usare un termine infelice – neutrale. Non voglio fare finta nemmeno per un istante che la mia definizione di politica non favorisca alcuni concetti di politica a scapito di altri. E non credo neppure che possa esistere una qualunque concezione di politica che non favorisca un concetto di politica rispetto ad altri. Non esiste una definizione neutra di politica. Per esempio, se si parte dal presupposto che la politica sia costituita solo dalla contrapposizione fra amico e nemico (Carl Schmitt prende le mosse da questa definizione), allora è chiaro che ci si indirizzerà in una direzione piuttosto che in un’altra. Allo stesso modo, quando ho iniziato il mio discorso e ho detto che nel momento in cui ci impegniamo in una riflessione politica, che persegue obiettivi politici, non ci basiamo sull’intera verità così come la vediamo, ma solo sulla verità che concepiamo come rilevante agli scopi della politica, questo, sebbene possa suonare come un’ovvietà, non lo è affatto e anzi privilegia un certo modo di pensare alla politica rispetto ad altri.
5Ma torniamo a parlare di ciò di cui si occupa la politica, ovviamente secondo il mio punto di vista. Ritengo che la società politica abbia come obiettivo principale la soluzione di problemi comuni per mezzo di regole e decisioni che abbiano un’autorità collettivamente vincolante: vincolante nel senso che queste regole e decisioni dipendono in definitiva dall’uso legittimo della forza o della coercizione necessarie per ottenere conformità. Questa definizione di associazione politica non implica affatto che la politica non abbia nessun rapporto con la morale. A volte, quando viene introdotta l’idea di forza e di coercizione, alcuni pensano che questo significhi che la morale non debba più essere tenuta in conto. Ma è esattamente il contrario, perché fin tanto che l’associazione politica è strutturata per mezzo di leggi che sono sostanzialmente coercitive, la domanda essenziale è: quali sono le norme che dovrebbero essere imposte e quali non dovrebbero esserlo? E questa è essenzialmente una domanda morale.
6Tuttavia, per tornare nuovamente al punto che ho formulato all’inizio riguardo all’“intera verità”, non ogni cosa che crediamo essere buona – non ogni cosa che crediamo essere moralmente buona – è qualche cosa che vogliamo che gli altri siano costretti a soddisfare attraverso il ricorso alla coercizione, se necessario. Quindi, in altre parole, abbiamo bisogno di alcuni principi morali per determinare quali norme della vita comune – quali regole che vorremmo che organizzassero la nostra vita comune – dovrebbero godere della forza di legge; e questi principi che servono a determinare quali regole dell’associazione politica debbano essere coercitivamente imposte appartengono alle norme morali. Essi costituiscono quella che definisco morale essenziale, che non ha nulla che vedere con tutta la verità morale così come la concepiamo, ma che concerne la comprensione morale che pensiamo si sviluppi da una prospettiva politica o che sia adatta a scopi politici.
7Ci sono due elementi che fanno parte della morale essenziale della visione politica a cui mi sto richiamando: per prima cosa, i principi morali fondamentali che usiamo per determinare quali regole della vita comune debbano godere della forza di legge; e, in secondo luogo, quei principi stessi che pensiamo debbano essere resi principi politici, ovvero principi coercitivi, e che sono essi stessi, in un certo senso, principi dal contenuto morale. Questi due tipi di principio morale formano una “morale essenziale”, adatta agli obiettivi politici. Aggiungo quest’ultima precisazione perché ci sono altri modi in cui si può parlare di “morale essenziale”, ovvero di quei principi morali che pensiamo che ognuno dovrebbe riconoscere; ma si tratta di principi che non si deve necessariamente pensare che debbano essere imposti politicamente. Probabilmente chiunque abbia un qualche senso morale sosterrà che le persone dovrebbero mantenere le promesse – se questo non è un principio morale, che cosa lo è? Ma da qui non si passa necessariamente a rendere un principio politico il fatto che le persone dovrebbero mantenere le loro promesse. Probabilmente non abbiamo ragioni per volere che venga istituito un principio che faccia valere l’obbligo di mantenere le promesse attraverso l’uso della forza, anche se forse desideriamo che alcuni tipi di promesse abbiano il sostegno e godano della forza della legge. A ogni modo, quando qui parlo di moralità essenziale intendo una moralità adatta a scopi politici. Per essa dobbiamo determinare in definitiva quali principi morali dovrebbero essere necessariamente imposti con la forza al fine di raggiungere una soluzione per i problemi collettivi che affrontiamo nel corso della vita politica.
8Come si può vedere, la vita politica che sto delineando si può descrivere come l’unione di due concezioni. La prima è la concezione weberiana di associazione politica. Si tratta infatti di una concezione molto simile alla famosa definizione che Weber fornì dell’associazione politica nella sua grande opera – grande in ogni senso del termine – Economia e società. Egli scrive che l’associazione politica è quel tipo di associazione che riposa sull’uso legittimo della forza per assicurare la conformità alle proprie norme. Questo è il primo aspetto della concezione generale della vita politica che ho chiamato “elemento weberiano”. Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che un’associazione politica, secondo questa definizione, è quel tipo di associazione che rivendica l’uso legittimo della forza, anche se questo uso della forza potrebbe non essere affatto legittimo. In questo caso essa non cessa di essere un’associazione politica, ma diventa una “cattiva” associazione politica.
9Il secondo elemento che fa parte di questa concezione fa riferimento a un’idea di politica che riposa su quella che si potrebbe chiamare l’arte della separazione, per citare un famoso saggio che Michael Walzer ha scritto circa venti anni fa, e che si intitola appunto Liberalism and the Art of Separation27. L’arte della separazione è quell’arte che permette di determinare quali regole della vita comune dovrebbero essere imposte con la forza, se necessario, e quali non dovrebbero esserlo. Si tratta di un’arte della separazione, ma in ultima analisi essa è guidata da principi morali, dal momento che alla fine sono i principi morali a suggerirci quali regole della vita comune dovrebbero godere della forza della legge, cioè dovrebbero essere imposte con la forza della coercizione, se necessario.
10Come ho detto all’inizio, non pretendo neanche per un momento di dire che questa concezione della politica sia neutrale; mi spiace sempre moltissimo usare questo termine, non solo in questo particolare contesto, ma in qualsiasi contesto; è una brutta parola da usare. È come dire che qualcuno è “più grande”; più grande di chi o più grande rispetto a che cosa? Quando si dice che qualche cosa è neutrale, si deve anche specificare rispetto a che cosa sia neutrale. A ogni modo, nella mente delle persone è implicito che quando si usa la parola “neutrale”, in questo caso nel contesto politico, si sta parlando di qualche cosa che è neutrale rispetto alla morale, ossia di qualche cosa di moralmente neutrale. Ma a questo punto dovrebbe essere piuttosto chiaro che la concezione della vita politica che sto delineando non si possa considerare affatto una concezione moralmente neutrale. Ritengo infatti che la vita politica sia il tentativo di risolvere i problemi comuni attraverso norme e decisioni che hanno un’autorità collettivamente vincolante, nel senso che, se necessario, sono rese obbligatorie attraverso l’uso della coercizione nei confronti di coloro che a essa sono soggetti. E, come ho già detto, siamo noi a stabilire quali regole e decisioni dovrebbero godere della forza della legge sulla base di principi morali; e dunque questa non può essere una concezione moralmente neutrale.
11Si tratta di una concezione molto ampia, ma ci sono sicuramente modi di intendere la vita politica che ne sono esclusi; se non altro, perché sin dall’inizio ho affermato che la filosofia politica rappresenta un sottoinsieme della filosofia morale. In effetti la concezione della vita politica che sto delineando in un certo senso considera la filosofia politica come filosofia morale applicata – anche se in altri sensi non è così. In alcuni saggi, che ebbero un riconoscimento tardivo solo dopo la morte dell’autore, Bernard Williams accusa gran parte della filosofia politica contemporanea di essere «filosofia morale applicata»28. Credo che ci sia qualche cosa di giusto nella critica di Williams, ma vi trovo anche qualche cosa di profondamente ambiguo e sbagliato. Il senso in cui è vero che la filosofia politica è filosofia morale applicata è questo: è solo sulla base della nostra comprensione morale che possiamo o dobbiamo determinare quali principi morali dovrebbero regolare l’uso della coercizione e quindi dovrebbero avere forza di legge. Quindi in questo senso la filosofia politica è filosofia morale applicata. Ma naturalmente in un altro senso essa non è filosofia morale applicata, e questo è l’aspetto che ho menzionato in precedenza: non è solo perché pensiamo che qualche cosa sia moralmente vero, né perché siamo convinti che gli altri vivranno una vita moralmente difettosa, e neppure perché crediamo che gli altri andranno letteralmente all’inferno se non seguiranno certi principi morali, che pensiamo che tali principi morali dovrebbero essere principi politici e godere della forza di legge, e quindi diventare principi coercitivi. Data la concezione della vita politica che ho delineato, la domanda che dobbiamo porci, in definitiva, è: per quanto importante crediamo che questo principio morale sia per il bene del genere umano, dobbiamo volerne fare un principio coercitivo? Per rispondere a tale domanda dobbiamo prima capire che cosa sia effettivamente la coercizione, che cosa implichi, che cosa comporti per coloro che le sono sottoposti e che cosa si possa ottenere attraverso di essa. Dobbiamo chiederci quale sia la vera natura della coercizione per capire quali principi morali riteniamo debbano avere un’autorità politica. Così, in questo senso la filosofia politica non è filosofia morale applicata, perché non tutta la verità morale che vediamo e che crediamo essere urgente è necessariamente rilevante dal punto di vista politico. E certamente in politica molti danni provengono dalle persone che pensano che la politica sia etica applicata.
12C’è un altro modo di concepire l’autonomia della politica dalla morale, che è declinabile in due sensi. Il primo, deplorevole, è che osserviamo di continuo che vengono prese decisioni politiche che non perseguono alcuno scopo plausibile o giustificabile. Questo è un fatto della vita politica. Non c’è bisogno di guardare alla politica per accorgersene, basta osservare come le azioni umane spesso non perseguano alcun obiettivo morale ragionevole o giustificabile; le persone sono “malvagie”, e le persone al potere sono anche peggio. Questa è una verità della condizione umana, contro la quale potremmo, da un punto di vista politico, tentare di prendere delle precauzioni e cercare di limitare i danni che i “malvagi” possono arrecare. Questo è un buon motivo per avere elezioni periodiche (anche se, ciononostante, talvolta ne risulta un cattivo presidente).
13Ma, in un altro senso, non accade soltanto che esistano, in politica, persone malvagie che perseguono fini che non sono affatto giustificabili dal punto di vista etico (per esempio inventandosi dei fatti per giustificare l’entrata in guerra, come ha fatto l’attuale presidente degli Stati Uniti), accade altresì che si riconosca ai leader politici e ai political decision makers il diritto di prendere decisioni che non avrebbero il diritto di prendere come comuni cittadini. Così, per esempio, si potrebbe pensare che un leader politico abbia delle ragioni giustificabili per impegnarsi in una guerra giusta che comporta la deliberata consapevolezza di causare la morte di soldati e di persone innocenti al fine di raggiungere alcuni fini. Se si tenta di bombardare i nemici, ci si aspetta che nel corso dei combattimenti rimangano uccise anche persone innocenti. Non per questo pensiamo che i singoli individui – i privati cittadini – abbiano il diritto di prendere delle decisioni che, in modo consapevole anche se non intenzionale, causino la morte di altre persone per raggiungere alcuni fini. Ciò significa allora che la politica sia autonoma dalla morale? No, non penso affatto che sia così. Significa piuttosto che nel contesto politico, dato il tipo di problemi che ci si trova ad affrontare, i leader politici hanno il diritto morale di prendere delle decisioni che non avrebbero il diritto di prendere se fossero dei comuni cittadini. Per citare le parole che Weber ha usato nella sua opera La politica come professione, ci attendiamo che i leader politici operino secondo un’“etica della responsabilità” in modi che non ci si aspetteremmo da parte di privati cittadini. E questo perché dopotutto si suppone che essi siano rappresentanti politici che affrontano problemi che riguardano non solo il singolo individuo, ma l’intera collettività. Dal momento che rappresentano la comunità politica, crediamo che abbiano il diritto morale di fare cose che nessun privato cittadino, rappresentando esclusivamente se stesso, sarebbe autorizzato a fare.
14Tuttavia questo non si può propriamente definire come “autonomia della politica dalla morale”, ma più giustamente come il fatto che coloro che ricoprono una posizione politica, e in particolare una posizione che riteniamo che in qualche modo li autorizzi a rappresentare la loro comunità politica, abbiano il diritto – moralmente parlando – di agire (entro certi limiti) in una determinata maniera. Ma le loro decisioni devono essere davvero giustificate: per esempio, deve esserci un nemico e il nemico deve possedere davvero armi di distruzione di massa. Crediamo che le ragioni morali li rendano autorizzati ad agire in un certo modo. Questo non significa – come direbbe qualcuno – che i politici abbiano semplicemente le “mani sporche”; essi sono autorizzati ad avere le mani sporche per ragioni morali. A volte diventa molto difficile per loro prendere certe decisioni perché, se da una parte sono dei leader politici che rappresentano la comunità, dall’altra sono anche degli individui le cui decisioni avranno enormi conseguenze in termini di vita o di morte per le persone che saranno oggetto di tali decisioni. E certamente il leader politico discute in continuazione di questo: da un lato è consapevole di dover mandare l’esercito in guerra perché presumibilmente ci sono motivi legittimi per farlo; ma allo stesso tempo è conscio di essere sul punto di mandare molte persone incontro alla morte. Spesso questa situazione è molto difficile, perché costoro non cessano di essere singoli individui nel momento in cui ricoprono anche il ruolo di rappresentanti politici. Essi si sporcano le mani perché devono prendere innumerevoli decisioni che nessuno, in quanto singolo, prenderebbe mai. Ma, politicamente parlando, pensiamo che questo sia quello che il rappresentante di una comunità politica talvolta deve fare. In certi casi possiamo pensare che il leader politico abbia superato il limite di ciò che – moralmente parlando – è autorizzato a fare, anche se in molte circostanze è alquanto difficile determinare con esattezza dove si collochi il confine di questo limite. Per esempio, la decisione di Harry Truman di sganciare la bomba atomica sul Giappone fu legittima o no? Questa è una questione molto controversa. Credo che sia essenzialmente questo il senso (e il limite) in cui si può parlare di “autonomia della politica”.
15Credo che talvolta le espressioni “autonomia” e “politica”, usate per separare la politica dalla morale, siano comprensibili, ma credo anche che siano affermazioni che creano confusione se vengono assunte come descrizioni di ciò che implicano realmente. So bene che le persone spesso dicono che bisogna distinguere tra politica e morale, perché ciò di cui hanno paura è che altre persone possano pensare che solo perché qualche cosa è vero moralmente, dovrebbe di conseguenza essere imposto politicamente. In altre parole, costoro si oppongono al moralismo, ma opporsi al moralismo non è la stessa cosa di espellere la morale dalla politica costituzionale. Ciò che tali persone intendono, quando dicono di voler distinguere tra politica e morale, è che una qualche convinzione morale – qualunque importanza possa avere per gli individui che la sostengono – non ha rilevanza politica. Questo però non significa che ciò che è politicamente rilevante possa essere determinato senza riferimento ad alcun principio morale. Bisogna dunque pensare a un modo per determinare quali principi morali siano rilevanti da un punto di vista politico.
16Esiste una certa scuola di politica internazionale che si proclama “realista”. Ci sono due cose da dire riguardo al realismo. In primo luogo, vorrei dire qualcosa sul realismo nelle relazioni internazionali. Chicago vanta una lunga tradizione in questo campo, una tradizione che è riuscita a piazzare certe persone in cariche pubbliche dell’attuale amministrazione, come per esempio Paul Wolfowitz. I realisti degli affari internazionali ritengono che il modo in cui uno stato dovrebbe agire nei confronti di un altro consista nel mantenere e assicurare il proprio vantaggio e potere. Pensano quindi che la politica internazionale abbia al suo centro il potere e vogliono raggiungere un equilibrio di potere utile solamente a proteggere l’interesse e il potere di ogni singolo stato. Ma perché i realisti dicono questo? Perché pensano che i leader politici siano responsabili prima di tutto nei confronti dei cittadini che rappresentano. E, dal momento che nelle relazioni con altri stati rappresentano certi interessi, quelli dei loro concittadini, essi dovrebbero mirare a mantenere e forse anche ad aumentare il potere dei loro concittadini intesi come la collettività che rappresentano. Fin tanto che i realisti discutono in questo modo, non stanno veramente discutendo senza fare appello a principi morali. Infatti quando parlano di responsabilità, della responsabilità fondamentale che un leader politico ha nei riguardi di chi rappresenta, pretendono di addurre una giustificazione (in ultima analisi etica) del fatto che il leader politico si ponga nei confronti degli altri stati esclusivamente in termini di potere realisticamente inteso. La cosiddetta teoria realista degli affari internazionali, quindi, in un certo senso poggia su premesse morali, ovvero sulla fondamentale responsabilità che il leader politico ha nei confronti di coloro che rappresenta.
17Ovviamente questa è una premessa morale che presenta almeno due aspetti controversi. In primo luogo, essa è ambigua, nella misura in cui il leader politico prende decisioni che non hanno effetti solo sul proprio elettorato, sui propri cittadini, ma su chiunque altro viva in qualsiasi parte del mondo. E allora perché mai gli effetti di tali decisioni, che hanno ripercussioni anche sulle persone che vivono al di fuori di quello stato, non dovrebbero essere moralmente rilevanti? In secondo luogo, anche se il leader politico concepisce se stesso esclusivamente come rappresentante dei propri elettori, egli non sempre rappresenta quello che i cittadini vorrebbero dire. Il leader politico che considera se stesso come il rappresentante dei propri cittadini dovrebbe pensare di agire sulla scorta di un mandat impératif, cioè rappresentare gli interessi di questi ultimi così come essi li esprimono, o dovrebbe assumersi il compito di rappresentare quelli che sono i veri interessi delle persone? Forse il vero interesse degli elettori è che le loro azioni nel mondo, attraverso i loro rappresentanti politici, abbiano effetti sulle altre persone in accordo con principi generali di umanità.
18Insomma mi sembra chiaro che le teorie realiste delle relazioni internazionali non sono teorie che non basano la politica su alcun principio morale, dal momento che basano le politiche internazionali su un particolare tipo di principio morale, ossia sull’obbligo morale che un leader politico ha nei confronti dei cittadini che rappresenta. E allora la domanda che dobbiamo porci è se tale obbligo morale sia quello corretto; e quindi c’è ancora spazio per il dibattito morale. Il teorico realista, così, darebbe una rappresentazione distorta di sé se si descrivesse come qualcuno che guarda le relazioni internazionali da una prospettiva a-morale, quando invece quella che sta adottando è proprio una particolare prospettiva morale. E questa particolare prospettiva morale è discutibile da un punto di vista morale per le due ragioni che abbiamo visto.
19Ma qualcuno potrebbe sostenere che le ragioni politiche sono primitive, sui generis, e fanno capo a criteri che sono loro peculiari, come per esempio l’efficacia, la forza o la prudenza. Non voglio affatto discutere il loro importante valore politico, ma certamente l’efficacia, la forza e la prudenza non dicono niente su quali siano gli obiettivi politici da perseguire. I leader politici dicono come le mete politiche debbano essere perseguite: devono essere perseguite in modo effettivamente efficace. E tali obiettivi devono essere perseguiti in ultima istanza anche attraverso l’uso della forza, anche con mezzi coercitivi. Infine, se il leader politico sarà saggio – politicamente parlando – allora li perseguirà con prudenza. Ma questo non ci dice nulla su quali obiettivi debbano essere conseguiti. E se si dicesse semplicemente a un leader politico: “Guarda, io voglio che tu sia efficace, voglio che tu usi la coercizione, e voglio che tu sia prudente”, il leader risponderebbe: “Grazie tante, ma ora esattamente che cosa ci si aspetta che io faccia?”. Immaginando di sapere che cosa debba fare, ci sarà allora bisogno di molte altre cose oltre a quelle menzionate.
20Inoltre, quando pensiamo all’efficacia e alla forza, e in particolare a quel che intendono le persone quando parlano di efficacia e forza, quel che abbiamo in mente è che i leader politici agiscano sulla base di quei principi morali che Weber ha definito come “etica della responsabilità”. Ci aspettiamo che il leader politico persegua alcune politiche servendosi dei mezzi necessari per implementare quelle politiche, anche se tali mezzi possono comportare una certa dose di danno per gli altri individui, perché questo è quello che pensiamo debba essere moralmente vincolante. Questi tre criteri politici sui generis – efficacia, forza e prudenza – sono in primo luogo insufficienti a dirigere nell’azione il leader politico, e in secondo luogo sono essi stessi dei principi chiaramente morali, e più precisamente dei principi morali consequenzialisti.
21Quindi io penso che, se si vuole parlare di ciò che il leader politico dovrebbe fare, anziché semplicemente descrivere quello che fa, alla fine si dovrà necessariamente fare ricorso a certi principi morali. La vera domanda non è se si ha intenzione di fare appello a principi morali, ma a quale principio morale si ha intenzione di fare riferimento al fine di guidare il leader politico nelle sue funzioni. Diventa allora più chiaro che cosa accade quando al posto di usare un linguaggio che parla dell’“autonomia della politica dalla morale” si mettono tutte le carte in tavola: si riesce a capire che le persone adottano quel linguaggio perché sono preoccupate da tutti i moralisti nel mondo che pensano che la politica debba occuparsi di salvare le anime.
Il liberalismo classico
22Come ho anticipato – e come probabilmente avrete già capito – la definizione di politica che ho cominciato a presentarvi nel corso della prima parte della lezione è funzionale alla discussione che ho intenzione di affrontare in questa seconda parte, che riguarda il particolare modo in cui interpreto la concezione della vita politica che ho chiamato liberalismo politico. Prima di addentrarmi nel tentativo di spiegazione di che cosa specificamente intendo quando parlo di liberalismo politico, voglio dire una cosa riguardo a quello che ho chiamato liberalismo classico, facendo riferimento alla tradizione liberale e al pensiero politico così come lo troviamo espresso ed elaborato da pensatori quali Locke, Kant e J.S. Mill. E vorrei specificare che cosa intendo come caratteristico del liberalismo classico, ossia quello che è il problema fondamentale a cui va incontro il liberalismo classico, e perché ritengo che la mia concezione di liberalismo politico possa essere una risposta a quel problema e un tentativo di riformulare la cornice liberale.
23Ma, prima ancora di parlare di questo, ho bisogno di fare una precisazione che risulta particolarmente opportuna in alcuni paesi europei, tra i quali includerei l’Italia: quando parlo di liberalismo in relazione alla tradizione classica del liberalismo politico, in primo luogo ho in mente la filosofia politica. Non penso ad alcun tipo di filosofia economica. Ho presente che la parola liberalismo, sicuramente in Francia e immagino anche in Italia, è spesso usata come sinonimo o eufemismo per libero mercato, o come un altro modo per indicare il capitalismo e, in ogni caso, qualcosa che riguarda alcuni degli aspetti della vita economica. Ma questo non ha niente che vedere con il mio modo di intendere il liberalismo. Concepisco il liberalismo essenzialmente come una filosofa politica; i termini in cui desidero parlare del liberalismo come di una filosofia politica non definiscono, all’interno del liberalismo come teoria della giustizia politica, quali siano le giuste istituzioni alla base del sistema economico. Presumibilmente, ci saranno certi vincoli che il sistema economico deve rispettare. Ma, verosimilmente, nel mio modo di intendere il liberalismo, quali che siano i vincoli che in qualsiasi ordinamento economico seguiranno dai principi politici, essi saranno probabilmente dei vincoli troppo deboli, da soli, per determinare una qualsiasi preferenza per un’economia capitalista o per un’economia socialista. È importante ricordare a questo proposito J.S. Mill, il quale non fu soltanto uno dei più grandi pensatori liberali in questo senso politico, ma anche uno dei più importanti teorici e addirittura fondatori della tradizione del socialismo di mercato. Sfortunatamente, non sempre le persone che leggono la sua filosofia politica leggono anche i suoi Principi di economia politica, e così facendo ne fraintendono il pensiero: infatti Mill non aveva di certo in mente alcuna intima connessione tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e la filosofia politica liberale, così come era solito intenderla. È anche importante ricordare, per esempio, che John Rawls, in Una teoria della giustizia, nella quale elabora una filosofia politica liberale, in definitiva non pensa che il miglior ordinamento economico sia quello che è tipicamente chiamato capitalismo o economia di libero mercato, ma piuttosto quella che egli definiva una “democrazia proprietaria”. Ma in ogni caso è importante tenere a mente che quando parlo di “liberalismo”, in riferimento sia al liberalismo classico, sia al liberalismo politico, quello di cui parlo è una filosofia politica, e che rimane una questione aperta determinare quali conseguenze avrà esattamente questa filosofia politica sull’ordinamento economico.
24È anche importante specificare che quello che io chiamo liberalismo non è nemmeno il libertarismo. Il libertarismo è una particolare versione di liberalismo che tenta di fondare o sostenere una stretta connessione tra la filosofia politica e la filosofia economica: non è pertanto la dottrina politica di cui intendo parlare. Ritengo che il libertarismo sia fondamentalmente sbagliato già sul piano politico. Qualsiasi associazione con la dottrina libertaria e con l’opera di pensatori quali Friedrich Hayek e, più recentemente, Robert Nozick, così come di qualunque altro esponente europeo del cosiddetto “libertarismo”, esula da ciò che avevo in mente.
25Torniamo quindi al primo punto. Ho intenzione di parlare di una versione di liberalismo che io chiamo “liberalismo politico”, mettendolo in contrapposizione al liberalismo classico29. Quello che io chiamo liberalismo classico fu, per le ragioni che accennavo, una filosofia politica molto “espansiva”. In termini generali, si è trattato di una filosofia politica che legava i principi politici liberali a una concezione individuale comprensiva della vita e del bene umano. Quello che chiamo liberalismo politico, invece, opera una sorta di restringimento del liberalismo come dottrina politica, distinguendola da una concezione individualista generale della vita. Non ho però ancora spiegato che cosa io intenda per concezione individualista generale della vita.
26Per spiegarlo, comincerei ora a presentare quello che penso che sia il liberalismo classico, che è una specie di punto di riferimento per ciò di cui parlerò successivamente: la versione di liberalismo espressa dai grandi teorici classici del liberalismo come John Locke, Immanuel Kant e J.S. Mill. Questi pensatori, in maniera evidente anche a una prima analisi, appaiono oggi chiaramente diversi fra loro; diversi non solo per quel che riguarda in generale la loro filosofia, ma ampiamente differenti anche per quel che riguarda specificamente la filosofia politica. Tuttavia nelle loro riflessioni sul liberalismo politico si può notare una sorta di comune denominatore, che ho definito una concezione individualista comprensiva della vita. Ciò che caratterizza il liberalismo classico è una visione della vita politica e dei principi che dovrebbero definire la nostra vita politica che si basa o si giustifica in riferimento a una più ampia concezione individualista della vita. Esso nacque come un approccio alla politica – e più specificamente alla politica liberale – che si occupava di trovare una giustificazione per i valori liberali all’interno di una visione molto più comprensiva del bene umano (che io sto chiamando individualismo).
27Oggi, in quanto pensatori liberali, dovremmo andare oltre quello che io chiamo liberalismo classico, in direzione di ciò che chiamo “liberalismo politico”, ma non penso che questa sarebbe stata necessariamente una mossa saggia da fare nel corso del xvii e xviii secolo (anche se, date le circostanze storiche attuali, credo che possa essere una mossa saggia da fare ora). Ciò che intendo dire è che, da un punto di vista storico, forse è stato essenziale alla vittoria – o alla relativa vittoria – dei principi politici liberali all’inizio dell’epoca contemporanea che questi principi siano stati legati a una concezione generale individualistica della vita. Se non fosse andata così, forse non sarebbero riusciti a ottenere abbastanza successo nella vita politica delle democrazie “nordatlantiche”, come vengono talvolta definite. Ma non vorrei addentrarmi in questo argomento; penso che potrebbe essere un oggetto interessante per una ricerca storica e teorica stabilire se, come ho già detto, il fatto di cercare una giustificazione rivolgendosi a una concezione più ampia della vita umana e del bene umano (ciò che chiamo individualismo comprensivo) sia stato indispensabile o meno per la vittoria dei principi politici liberali in epoca moderna. Ora mi interessa solo chiarire per quale motivo, nelle circostanze storiche attuali, ritengo che il fatto di andare oltre il liberalismo classico diventi una responsabilità nei confronti di noi stessi, e che faremmo meglio a cercare una giustificazione dei principi politici liberali senza fare riferimento a una concezione generale dell’individualismo. Il tipo di giustificazione della quale parleremo è quella che a mio avviso è sempre stata la reale giustificazione dei principi liberali. Non ho intenzione di ricadere in un qualche tipo di relativismo storico, ma sappiamo tutti che, talvolta, ciò che può essere la ragione corretta in un determinato periodo, potrebbe anche non essere la ragione più efficace, dal momento che bisogna tener conto dell’esistenza di altre ragioni e dei punti di vista degli altri.
28In definitiva, per liberalismo classico intendo quella versione del liberalismo che si basa su un certo individualismo comprensivo. Forse dovrei aggiungere un’altra precisazione introduttiva: userò in una maniera abbastanza approssimativa l’espressione principi liberali, sperando che voi riusciate a capire nella sostanza quello che intendo. Con l’espressione principi liberali faccio riferimento a una specie di catalogo, o elenco, delle libertà individuali fondamentali: libertà legali, civili, politiche. Questo elenco di libertà individuali va assieme a un secondo tipo fondamentale di principi liberali. Il loro obiettivo è di assicurare a tutti i cittadini le risorse materiali e sociali necessarie per l’esercizio effettivo di tali libertà. Questa è una definizione davvero molto generale. Userò l’espressione principi liberali perché per rispondere alla nostra domanda – che cosa giustifica i principi liberali? – abbiamo bisogno di capire meglio in che cosa consistano i principi liberali stessi.
29Io concepisco quindi i principi liberali come composti essenzialmente da due aspetti: (a) da un lato una lista di libertà di base, alcune delle quali sono legali, altre civili e altre ancora politiche; esse rappresentano un insieme di libertà fondamentali; (b) dall’altro l’impegno ad assicurare a tutti i cittadini le risorse sociali e materiali necessarie per trarre vantaggio da tutte queste libertà.
30Ora, questa definizione è stata appositamente presentata in modo vago: si tratta di una lista di libertà fondamentali, legali, civili e politiche. Come ben sappiamo, nel corso della storia del pensiero liberale – e anche della storia di quello che io chiamo liberalismo classico – ci furono molti cambiamenti riguardo alle libertà che figurano in quella lista. Per esempio, certe libertà legali comparvero su quella lista praticamente dall’inizio, mentre questo non vale per le libertà politiche; come sappiamo, il suffragio universale fu garantito nelle attuali società solo a cavallo fra il xix e il xx secolo. In realtà, persino se si leggono certi pensatori liberali, come per esempio Kant, non si trova alcuna adesione al principio del suffragio universale. Kant distingueva tra “cittadini attivi” e “passivi”. Questi ultimi includevano circa la metà della popolazione, cioè principalmente le donne, e coloro che non possedevano un certo quantitativo di risorse materiali che avrebbe assicurato loro l’indipendenza. Solo i cittadini attivi avevano – dal punto di vista di Kant – il diritto di voto. Ed egli non fu propriamente un bigotto nel sostenere questa distinzione, o un misogino nel promuovere questa concezione restrittiva del diritto al voto, dal momento che pensava che il diritto di voto dovesse essere prerogativa solo di coloro che potevano esercitarlo in maniera autonoma. Era certamente un fatto che le donne non godessero di quella autonomia, dal momento che dipendevano dagli uomini, sia che fossero sposate sia che non lo fossero (in un caso dipendevano dal marito, nell’altro caso dal padre). Anche tutti coloro che non disponevano di una certa quantità di risorse materiali non erano indipendenti. Ovviamente coloro che non erano autonomi dovevano dipendere dal volere di qualcun altro per poter avere il necessario per vivere; per questo motivo sarebbe stato sbagliato dare loro il diritto di voto, perché sarebbe stato come dare due voti alla persona dalla quale dipendevano.
31Non intendo aprire una discussione su tutte queste affermazioni, ma voglio solo richiamare il fatto che per i motivi che ho appena menzionato esisteva un argomento per limitare il diritto di voto; e voglio anche puntualizzare che quella che ho presentato come lista di libertà fondamentali è una lista che si è modificata – una lista variabile – nel corso di tutto il periodo che ho definito “liberalismo classico”, e non solo nelle società effettivamente esistenti, ma anche tra i filosofi e i pensatori. E insisto anche sul fatto che questa è una lista, e con ciò intendo dire che non esiste nessun metodo a priori attraverso il quale sia possibile determinare quali siano le libertà fondamentali. Talvolta i filosofi hanno supposto che si debbano prendere le mosse da alcuni principi generali – per esempio che ogni individuo dovrebbe avere quanta più libertà possibile compatibilmente con il principio di un’eguale libertà per tutti – e che, in questo senso, ci basiamo su una sorta di formulazione generale del principio di libertà. In qualche modo, saremmo poi in grado di “dedurre” le libertà particolari che vogliamo includere fra le libertà fondamentali dell’ordinamento politico. Questo non funziona affatto30. Io preferisco pensare ai principi liberali come a una lista di libertà che abbiamo sviluppato e ampliato, e anche limitato, in maniera significativa. Mentre alcune sono state limitate, altre, per fortuna, sono state aggiunte. Quindi, sto parlando di una lista di libertà, ed è un vantaggio pensare a esse proprio come a una lista.
32Il secondo principio fondamentale che fa parte di quelli che chiamo “principi liberali” consiste nel garantire a qualsiasi individuo le risorse sociali e materiali necessarie per esercitare effettivamente queste libertà. Ma, naturalmente, che cosa siano queste risorse materiali e sociali, e quante di esse dovrebbero essere necessarie per permettere agli individui di esercitare effettivamente queste libertà, è una cosa che questo stesso principio non definisce e che anzi neppure dovrebbe definire, perché è l’esperienza storica che ci insegna e continua a insegnarci quali e quante risorse materiali siano necessarie per dare effettive garanzie agli individui.
33Uso dunque l’espressione principi liberali per intendere questa lista fondamentale di libertà assieme all’impegno di garantire le risorse materiali e sociali necessarie per l’effettivo esercizio di quei principi. Questa è una descrizione dei principi liberali che è intenzionalmente vaga, perché ritengo che a questo punto i filosofi liberali dovrebbero avere imparato quello che ancora non avevano appreso e che non sapevano all’inizio, e cioè che non c’è modo di riuscire a capire a priori, e una volta per tutte, per mezzo della semplice riflessione filosofica, quali libertà siano nell’elenco, né quali risorse sociali e materiali siano necessarie. Solo attraverso la pratica politica, il tipo di pratica politica che accumuliamo vivendo in una democrazia liberale e prendendovi parte, incominciamo a farci un’idea di cosa significhino più specificamente questi due principi liberali.
34Ma, come ho già detto, in questo momento non mi prefiggo di parlare di questi due principi di base. Mi interessa di più analizzare come i pensatori liberali abbiano cercato di giustificare questi principi liberali, e vorrei parlare di liberalismo classico per evidenziare come i classici pensatori liberali quali Locke, Kant e Mill supponessero che il modo per giustificare questi principi liberali fondamentali, così come li intendevano, fosse quello di fare appello a una concezione individualista comprensiva del bene umano.
35Ma che cosa intendo per individualismo comprensivo? Si tratta dell’idea che la nostra adesione a una qualsiasi interpretazione sostanziale del bene umano (la nostra fedeltà nei confronti di qualsiasi stile di vita concreto che comporti una specifica struttura di scopi, significati e attività, o un’esistenza plasmata da una certa tradizione culturale o, per esempio, da una certa religione) dovrebbe sempre essere fondamentalmente contingente, ossia rivedibile alla luce di una riflessione da parte dell’individuo. Secondo questa concezione individualistica generale, in definitiva, ciascuno di noi deve decidere esercitando le proprie capacità individuali di ragionamento e immaginazione. Alla fine siamo noi a dover decidere e a essere pronti a riconsiderare – sempre facendo uso delle nostre capacità individuali – il motivo per il quale dovremmo aderire, sia che lo facciamo oppure no, a una qualche concezione sostanziale del bene umano.
36Una concezione del bene umano è qualcosa per cui abbiamo una certa idea degli scopi che dovremmo avere, di quali cose contino, di quali siano rilevanti e quali no, di quali siano le attività che dovremmo perseguire, di quali siano quelle adeguate per il raggiungimento dei nostri obiettivi; in generale, tale concezione concerne il modo concreto in cui siamo impegnati a condurre la nostra vita. L’individualismo comprensivo afferma in definitiva che spetta a ogni individuo decidere autonomamente della propria vita, attraverso l’esercizio della propria ragione e sulla base della propria immaginazione, per poi accettare criticamente – o non accettare affatto – il tipo di concezione sostanziale del bene umano al quale egli dà il proprio assenso. Questa lealtà dovrà sempre essere fondamentalmente contingente, ossia passibile di cambiamento ogni qualvolta le persone, esercitando le loro capacità individuali di ragionamento, troveranno delle ragioni per modificarla.
37Che cosa significa esercitare la capacità individuale di ragionamento e immaginazione quando si valuta se aderire o meno a una determinata concezione del bene umano? Questa è una domanda alla quale i tre pensatori che abbiamo menzionato hanno risposto in modi diversi. Per esempio, il modo in cui Locke pensava che dovessimo esercitare la nostra ragione nel determinare se una cosa sia un bene era notoriamente differente dal modo in cui lo intendevano Kant e Mill. Locke faceva appello alla legge naturale, Kant all’autorità di autolegislazione della ragione, mentre Mill fu, in un certo senso del termine, un utilitarista. In definitiva, esiste una grande varietà di idee su che cosa significhi per un individuo valutare criticamente e dare la propria adesione – in ogni caso sempre rivedibile – a una qualsiasi concezione sostanziale. Ciò che accomuna tutte queste visioni è, in termini molto generali, un approccio individualista: ogni individuo ha la possibilità di decidere autonomamente – e decide effettivamente in maniera autonoma – a quale concezione sostanziale del bene umano dare la propria adesione. Decidere autonomamente significa essere anche preparati, se necessario, quando cambiano le circostanze, a re-indirizzare la propria fedeltà, a modificarla, oppure, a cambiare prospettiva. Questo è l’approccio del liberalismo classico, così come lo intendo io.
38Occorre notare che l’individualismo non è tanto un’ipotesi psicologica che riguarda il modo in cui agiamo, quanto piuttosto una prospettiva etica. Noi dovremmo essere individualisti. E infatti Locke, Kant, Mill erano convinti che i loro contemporanei non fossero così individualisti come avrebbero dovuto essere. Locke era molto preoccupato dal fatto che i suoi contemporanei fossero guidati dalle convenzioni e dalle tradizioni religiose e dal fatto che, di conseguenza, non pensassero con la propria testa. Mill scrisse un’opera che è diventata un classico dell’individualismo, ovvero il Saggio sulla libertà. Egli era convinto che i suoi contemporanei fossero governati dal conformismo dei costumi sociali e si rendeva conto di come questo non fosse affatto un fenomeno marginale. Kant scrisse il saggio Che cos’è l’Illuminismo?, che riguarda il pensare autonomamente, e lo scrisse proprio perché riteneva che molti dei suoi contemporanei non osassero farlo e che si lasciassero semplicemente guidare dalle consuetudini tradizionali, dal momento che erano stati abituati in quella maniera e non era mai capitato loro di dover analizzare criticamente le varie concezioni sostanziali del bene umano. Nella società c’erano infatti altre autorità che si arrogavano questo compito: una di queste era spesso, ma non esclusivamente, la chiesa.
39Pertanto l’individualismo è una visione etica e una prospettiva che tutti questi pensatori credevano non fosse tenuta nella dovuta considerazione dai loro contemporanei. E vorrei aggiungere che costoro ritenevano che le possibilità per la politica liberale sarebbero aumentate quanto più essi fossero riusciti a far entrare i loro contemporanei nell’ottica dell’individualismo. Il liberalismo classico, così, è una prospettiva etica; non si tratta di un’ipotesi psicologica che riguarda il modo in cui il pensiero umano funziona realmente; in effetti, il punto di vista di questi pensatori è che di fatto il pensiero umano è influenzato dal potere, dalla tradizione, dalla coercizione, e dalle intimidazioni. Questo è il modo in cui la maggior parte degli individui forma le proprie credenze, ed è esattamente quello che non va; per questo motivo l’individualismo rappresenta un rimedio per tutti loro.
40Ma, come ho detto, questi pensatori non aderirono semplicemente all’individualismo inteso come una generale visione etica in base alla quale ognuno di noi dovrebbe comportarsi rispetto a qualsiasi considerazione sostanziale del bene umano alla quale abbia deciso di aderire. Essi pensavano anche che questa concezione etica dell’individualismo fosse il corretto tipo di giustificazione per i principi politici liberali. La ragione per la quale la nostra vita politica dovrebbe essere organizzata in accordo con i principi liberali si basa sul fatto che, in generale, dovremmo essere individualisti e che i principi politici dovrebbero essere liberali sia per esprimere tale individualismo, sia per incoraggiare e dare tutela politica a questa etica individualista generale. Ovviamente sto parlando in termini molto generali; sto omettendo, da un punto di vista filosofico, importanti differenze tra il pensiero di Locke, Kant e Mill e altri ancora che si potrebbero aggiungere a questa lista. Mi sembra che un comune denominatore delle loro riflessioni sia quella che ho cercato di definire in generale come un’etica individualista. Naturalmente sappiamo tutti che la modernità (questo è uno dei luoghi comuni che ci raccontiamo sull’epoca moderna che ha avuto inizio nel Rinascimento) vide un’espansione generale dei modi di pensiero individualisti. Forse all’inizio fu soprattutto una lotta per affrancarsi dal controllo della chiesa, ma non fu solo quello; si svolse in molti modi. Non fu naturalmente un caso il fatto che ci fossero – come già c’erano – varie forme di cultura, che erano espressione di questa etica individualista; e quei pensatori ritennero che tale etica individualista avesse un certo risvolto politico e che giustificasse il liberalismo.
41Una delle ragioni per le quali penso che l’individualismo abbia avuto una così ampia diffusione nei tempi moderni e sia stato invocato per scopi politici dai tre filosofi liberali classici che ho menzionato, è che tra i pensatori moderni si fece sempre più spesso l’esperienza seguente: le visioni sostanziali del bene umano sono naturalmente oggetto di disaccordo ragionevole, e se in passato le persone non sono state in disaccordo su quale fosse la vera religione, ciò è avvenuto solo perché non fu loro permesso di impegnarsi in una discussione libera e aperta su quale fosse la vera religione. Inoltre, si sa come dato di fatto che, quando le persone si impegnano in una discussione libera e aperta su quale sia la sostanziale natura del bene umano, è inevitabile che si verifichi una naturale tendenza al disaccordo. È importante capire che cosa sia questo disaccordo. Che le persone non siano d’accordo sul bene umano è una cosa che si sapeva da molto tempo. Si pensi all’inizio dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Il primo libro si apre con l’affermazione: tutti concordano sul fatto che la felicità è la natura del bene ultimo, ma c’è un ampio disaccordo su quale sia la natura della felicità. Alcune persone sostengono si tratti del piacere, altre dicono l’onore, altre la ricchezza, altre la virtù, altre ancora meditare su quale sia la verità eterna. Aristotele mette chiaramente in luce che c’è un ampio disaccordo su che cosa sia il bene umano. Questa è una cosa che si sa da molto tempo. Ma ciò che Aristotele non ha mai preso in considerazione è il fatto che ci possa essere un disaccordo ragionevole sulla natura del bene umano: non c’è nell’Etica Nicomachea né altrove alcun riferimento al fatto che le persone ragionevoli potrebbero essere in disaccordo con le conclusioni alle quali arrivò lo stesso Aristotele. Al contrario, egli indica esattamente che cosa si debba ragionevolmente credere – la sola cosa che è ragionevole credere – a proposito della natura della felicità e del bene umano.
42Ciò che voglio dire è che – contrariamente a quanto sosterrebbe qualcuno come Aristotele – a mio avviso, nei tempi moderni, di fronte a domande come “qual è la natura del bene umano?” vi fu un disaccordo ragionevole. L’idea – la stessa idea che ritroviamo in pensatori della tradizione scettica quali Montaigne, ma anche in John Locke quando per esempio parla di religione e di quale sia la vera interpretazione della fede cristiana – è che le persone ragionevoli, cioè le persone che fanno uso della ragione umana al massimo delle sue potenzialità, anche se cercano di essere eque e imparziali, e anche se tentano di analizzare criticamente i diversi punti di vista e di ascoltare ciò che gli altri hanno da dire, ciononostante, se si discute abbastanza, e in maniera libera e aperta, tendono naturalmente a pervenire a conclusioni differenti. Quindi, come disse proverbialmente Montaigne, quando si è in tanti a discutere su che cosa sia il bene umano, ci si ritrova naturalmente ad avere tante opinioni quante sono le persone. Anzi, ciascuno di noi ha più di una opinione ponderata su che cosa propriamente sia il bene umano. Ritengo che tutto ciò fosse alla base dell’adesione all’etica individualista tra gli autori di cui sto parlando. E questo perché il bene umano è materia di discussione tra gli individui ragionevoli, ovvero tra coloro che decidono liberamente, nel modo migliore che possono, a quale concezione del bene aderire, riconoscendo tuttavia che ci potrebbero essere altre persone in disaccordo e che loro stessi potrebbero cambiare idea nel corso della loro esperienza, e che quindi la loro fedeltà ad alcune concezioni del bene umano dovrebbe essere, in linea di principio, rivedibile e passibile di essere rimessa in discussione. Infatti, ci si può trovare persino in disaccordo con se stessi, man mano che le nostre esperienze cambiano, proprio così come è possibile che altre persone ragionevoli siano in disaccordo sulle nostre conclusioni.
43Ma ciò non significa che questi pensatori liberali fossero scettici. Talvolta Montaigne viene definito come uno scettico, ma penso che questo sia sbagliato, se per scettico si intende qualcuno che non ha credenze o convinzioni; Montaigne, infatti, aveva credenze e convinzioni. Ma aveva capito che ciò che credeva in un dato momento avrebbe potuto cambiare il giorno dopo. Non è vero che non avesse opinioni, o che non si interessasse di nulla. Egli diceva solo che non poteva garantire che non avrebbe cambiato opinione nel caso fossero subentrate nuove ragioni. Ovviamente, ritengo che la tradizione scettica fosse molto importante all’inizio dell’età moderna, e in un senso molto ampio del termine si potrebbe includere Montaigne tra i pensatori scettici; di sicuro, egli non fu un pensatore dogmatico, e non pensava che la natura del bene umano si potesse definire una volta per tutte. Nel senso più vasto del termine si potrebbe parlare dello scetticismo come di una delle fonti dell’individualismo generale di cui sto parlando. Ma, come ho già detto, una delle principali ragioni a favore di quest’etica individualista fu l’esperienza interiore che le persone iniziarono ad avere all’inizio dell’età moderna: se avessero potuto intrattenere una discussione ragionevole, libera e aperta sul bene umano, sarebbe stato possibile pervenire a opinioni differenti, dal momento che le persone usano la loro capacità di ragionamento in modi diversi, in direzioni diverse, riguardo a cose differenti, attraverso diverse esperienze, e così via; quindi, a ogni individuo conviene decidere autonomamente, in modo aperto e critico – ritrattabile in qualsiasi momento – a quale concezione sostanziale della vita buona aderire.
44Quella che io vedo come la struttura generale di ciò che ho chiamato “liberalismo classico”, ovvero una certa idea dei principi liberali, subì un mutamento di contenuto nel corso di questo periodo. Tuttavia si può osservare come, politicamente parlando, Locke, Kant e J.S. Mill sostenessero tutti e tre in maniera in qualche modo simile questi principi liberali. Essi pensavano che tali principi liberali in definitiva dovessero essere giustificati dall’etica individualista generale – dal momento che questa è l’etica giusta –, data l’esperienza dalla quale essi furono così tanto impressionati, e cioè che, quando si tratta della natura del bene umano, gli individui ragionevoli entrano in continuazione in disaccordo non solo l’uno con l’altro, ma persino con se stessi.
45Questa è a mio avviso la configurazione del liberalismo classico. Ma in seguito subentrò una complicazione. Questa complicazione iniziò a prendere forma verso la fine del xviii secolo, per arrivare a una piena fioritura all’inizio del xix secolo. Essa fu forse in qualche modo accelerata dalla rivoluzione francese, e fu chiaramente connessa con alcuni filoni di quello che viene chiamato “romanticismo”. Si cominciò a prendere consapevolezza che l’etica individualista che ho descritto è essa stessa l’oggetto di un disaccordo ragionevole. Le domande che le persone ragionevoli possono sollevare sui termini e sugli stessi principi di quest’etica individualista diventano oggetto di un disaccordo ragionevole. Infatti, l’atteggiamento di distacco che ci consente di mettere in questione i modi di vita ereditati, dopotutto non è esso stesso un valore? E un valore non potrebbe entrare in conflitto con altri valori? Non potrebbe essere il caso che questo valore di riflessione critica abbia – come tutti gli altri valori – un certo costo? E che renda difficile – se non forse impossibile – realizzare altri valori? E che, a seconda del significato che attribuisce agli altri valori, si potrebbe pensare che la riflessione critica sia di per se stessa qualcosa che dovrebbe essere circoscritto, qualcosa a cui non ci dovremmo dedicare completamente? Quindi, sembra che certi tipi di vita, in particolare certi modi tradizionali di vita, forse, rappresentino un bene, un bene che possiamo condividere con altre persone – con altri membri di questa tradizione culturale o religiosa – solamente se non pensiamo alla nostra fedeltà a quelle tradizioni di pensiero come oggetto di decisioni, come esaminata criticamente da noi stessi, ossia, in altre parole, come questione di scelta. Perché parte del bene di questi modi di vivere dipende dal fatto che vediamo questi stili di vita come costitutivi di ciò che riteniamo fornire la stessa cornice all’interno della quale possiamo compiere scelte significative. Alcuni stili di vita condivisi sembrano avere un valore che è accessibile ai loro membri solo se questi non intendono la loro lealtà a tali stili di vita come una questione di scelta, in linea di principio rivedibile, dal momento che essi ritengono che questo stile di vita offra la stessa struttura al di fuori della quale per loro non può esserci alcun tipo di scelta significativa. Penso che le tradizioni religiose siano forse l’esempio più ovvio, con il quale tutti potremmo avere dimestichezza. Alcune persone pensano che sia un valore il fatto di non concepire i principi cristiani come scelti o criticamente rivedibili; infatti, che genere di fede in Dio o Gesù sarebbe mai questa? Essi sono piuttosto la struttura, il modo in cui vediamo il mondo, e la sola maniera con la quale siamo in grado di comprendere che cosa sia o non sia una scelta significativa.
46Ma non si tratta solo della religione; i romantici parlavano anche di consuetudini, di legami particolari, o del linguaggio, che traggono il loro valore dal fatto che essi forniscono una cornice di scelta, e non vengono compresi a loro volta come oggetto di scelta. Giacché, dopo tutto, non ci può essere alcuna scelta senza una cornice di scelta. Non ci può essere una scelta significativa a meno che certe cose non vengano considerate come stabilite, e anzi come stabilite una volta per tutte, e non rivedibili. Per esempio, quando ripensiamo ad autori come Locke, Kant e Mill, ci rendiamo conto che c’erano alcuni principi che essi non consideravano come passibili di revisione: Locke si basava sulla legge naturale, Kant sulla legge morale, ossia su regole di condotta del pensiero su cui non decidiamo o scegliamo di essere fedeli. La legge naturale e la legge morale, rispettivamente per Locke e per Kant, costituiscono dunque la sola struttura nella quale possono avvenire scelte significative. Quindi, essi avrebbero dovuto ammettere questo fatto riguardo a certi principi morali fondamentali; ma allora per quale motivo non potrebbero esistere altre fonti di principio che svolgano nelle nostre vite un ruolo costitutivo di quell’orizzonte di scelta, anziché diventare esse stesse oggetto di scelta?
47Questo è un modo di pensare che talvolta viene chiamato tradizionalismo, altre volte critica dell’Illuminismo; si possono usare vari nomi, con accezioni più o meno positive. Non voglio dire che il modo di pensare che ho appena sintetizzato – questa critica dell’individualismo – sia giusto o sbagliato. Io penso che sia giusto, ma ciò non ha davvero importanza in questo momento. Il punto non è se sia giusto o sbagliato, ma se il tipo di critica all’individualismo che ho appena delineato sia un tipo di critica sul quale le persone ragionevoli possono non essere d’accordo. Alcune persone la potrebbero trovare ragionevolmente convincente, altre forse no, e potrebbero muovere obiezioni e trovare punti deboli al suo interno. Ma dopotutto c’è qualche cosa di vero nella debolezza che questa critica ha scoperto nell’individualismo stesso, e io sono convinto che se noi tutti ora ci sedessimo intorno a un tavolo potendo disporre di un tempo adeguato, proprio per il fatto che siamo tutti persone ragionevoli, non arriveremmo ad alcun accordo sul fatto che l’individualismo, o la critica dell’individualismo, sia il modo corretto di pensare alla natura della nostra adesione alla concezioni sostanziali del bene. In altre parole, lo stesso individualismo cominciò a essere visto come un oggetto di disaccordo ragionevole.
48Ora, mi pare che ciò significhi che il liberalismo sia stato obbligato ad affrontare una scelta su come procedere. L’individualismo stesso, che nei tempi passati aveva svolto così spesso il ruolo di “ultimo appello” per i principi liberali, è sembrato essere oggetto di disaccordo ragionevole. Che cosa dovrebbero fare i pensatori liberali? Siamo di fronte a un bivio, e ci sono sostanzialmente due modi in cui il liberalismo può procedere in tali circostanze. Una prima strada consiste nel sostenere che non si può realmente separare il liberalismo dall’individualismo comprensivo. Ci sono ancora pensatori che sostengono questa visione, per esempio nel mondo anglo-americano Brian Barry o Jeremy Waldron. Essi sostengono che nessuna filosofia politica è scevra da presupposti o assunti morali; e non si può fare in modo che tutti siano d’accordo su di essi. Ogni filosofia politica, così, esclude qualcuno, e bisogna prendere atto del fatto che il liberalismo è una filosofia politica individualista. Questa è una delle due strade che si possono imboccare. È la strada che sostiene che il liberalismo è effettivamente l’espressione politica di un’etica individualista generale.
49Magari questo è vero. Ma si può capire che questa è una concezione del liberalismo, intesa come continuazione della tradizione classica, che presenta dei problemi, o manifesta una certa debolezza. I suoi sostenitori direbbero che questa debolezza deve essere accettata. Essa però comporta certe conseguenze: che coloro che tra di noi trovano una ragione per dubitare di un’etica individualista non saranno più in grado di riconoscersi e riconoscere i propri impegni fondamentali nei principi di base di un ordinamento politico liberale. Non si tratta necessariamente di criminali, e questo non porta necessariamente alla rivoluzione e all’abbattimento dell’ordinamento politico. Ma ciò significa che in un certo senso essi sono fondamentalmente esclusi, e che devono negoziare per conto proprio le ragioni prudenziali sulle quali fare affidamento per vivere in un sistema politico liberale, e magari anche sostenerlo in via condizionale, nonostante sia basato su un’etica che essi ritengono profondamente errata. Magari troveranno delle ragioni per dare la loro adesione, ma nei confronti dell’ordinamento politico non avranno la stessa relazione – lo stesso tipo di riconoscimento – di coloro che sono individualisti, le cui dottrine pertanto incorporano le stesse basi dell’ordinamento politico liberale, se si intende l’ordinamento politico liberale nella versione classica.
Liberalismo politico: il principio dell’eguale rispetto
50La domanda da porsi è se questa prima via sia l’unica strada percorribile. Mi sembra infatti che ci possa essere anche un’altra strada, e cioè quella che cerca di riformulare il liberalismo come una filosofia politica, ma senza fare appello a un’etica individualista generale. Questa seconda via è ciò che chiamo liberalismo politico. Esso continua a essere una filosofia liberale, intendendo con ciò una filosofia della politica, e necessariamente, dato quello che ho detto in precedenza, sarà una concezione politica che riposa su basi morali. Ma la speranza è che queste premesse o principi morali non implicheranno l’adesione a un’etica individualista, e precisamente per il fatto che un’etica individualista è essa stessa oggetto di disaccordo ragionevole. In che modo prende forma questa seconda alternativa che ho definito liberalismo politico?
51Il liberalismo politico ci richiede di riflettere su quale sia stato il principio morale fondamentale che ha ispirato i liberali classici: potrebbe esserci stato un principio fondamentale anche più profondo dell’etica individualista sulla cui base avevano costruito una politica liberale. In altre parole, nel liberalismo classico l’individualismo, o l’etica individualista, furono o no i principi morali fondamentali più decisivi adottati dai liberali classici? Non avrebbe potuto esserci un principio morale più profondo a fondamento del liberalismo classico, che ora potremmo rendere esplicito e usare come un fondamento di un ordinamento politico liberale senza associarlo a quest’etica individualista generale?
52Ritengo che questo sia il modo in cui procede il liberalismo politico. Penso che di fatto esista un principio morale che sta a fondamento del liberalismo classico, un principio ancora più profondo dell’etica individualista. Credo anche che tale principio morale fondamentale sia sufficiente a fondare le basi dell’ordinamento politico liberale. Questo principio altro non è che quello che io chiamo il principio dell’eguale rispetto. A mio avviso non è un principio campato in aria, basato solo su una mia intuizione personale speciale, ma piuttosto un principio che ritengo abbia continuato a operare per tutto questo tempo, sebbene non sia stato espressamente riconosciuto dagli architetti del liberalismo classico.
53Che cos’è il principio dell’uguale rispetto? Questo: «i principi di base dell’associazione politica, essendo di tipo coercitivo, dovrebbero essere tali per cui tutti i cittadini che vi sono sottoposti dovrebbero avere ragione di sostenerli, assumendo che siano impegnati a organizzare l’associazione politica sulla base di regole che possano incontrare il consenso razionale di tutti».
54Ciò che intendo con “di base” è che questo è un principio il cui scopo è quello di permetterci di determinare quali siano i principi fondamentali dell’associazione politica. In particolare faccio riferimento a quei principi che comunemente sono chiamati “principi costituzionali”. Può accadere tuttavia che, per molte buone ragioni, i nostri principi costituzionali comportino che debbano essere prese alcune decisioni ulteriori, per esempio con la regola della maggioranza nelle assemblee. In questo caso non bisogna assolutamente pensare che tali regole più specifiche incontrino il consenso razionale di tutti. Quello che ho enunciato è un principio che cerca di determinare quelli che si potrebbero definire “principi costituzionali” della vita politica. Come distinguere tra i principi costituzionali e le decisioni più specifiche è ovviamente oggetto di controversia. Chiaramente questo principio da solo non ci dirà molto sul modo in cui risolvere la questione. In ogni caso, il fatto che stiamo parlando di principi “di base” ha lo scopo di sottolineare che si tratta di un principio che riguarda solo quei principi fondamentali della vita politica, e lascia in pregiudicato quali debbano essere le decisioni più specifiche prese a maggioranza, se non per il fatto che esse non possono violare i principi costituzionali. I principi costituzionali determinano ciò sulla cui base le varie istituzioni politiche dovranno democraticamente decidere.
55La seconda parola che ho sottolineato è “assumendo”, e ora vorrei esplicitare che cosa intendo. Per riferirmi a questa condizione userò la parola “clausola” (proviso). Sono un po’ restio a servirmi di questo termine, perché in filosofia politica esso viene spesso usato in riferimento alla teoria della proprietà di Locke. Ma ciò non ha nulla a che vedere con quello di cui sto parlando ora; sto solo usando lo stesso termine e non ci sono altre associazioni da fare. Quindi, che cosa significa “clausola” e a che cosa faccio riferimento quando dico “assumendo”? Quando dico “assumendo” non intendo dire che crediamo veramente che tutti siano impegnati a organizzare l’associazione politica sulla base di regole che possano incontrare il consenso razionale di tutti. “Assumere” è in relazione con la prima parte del principio, e serve a determinare quali siano le regole di base della vita politica, stabilendo se esse possano incontrare il consenso ragionevole di tutti. Ma come determiniamo se i principi incontreranno il consenso razionale di tutti?
56La nostra intenzione non è semplicemente quella di controllare a quali principi – come dato di fatto – le persone hanno ragione di dare il loro assenso sulla scorta di quelle che sono le loro credenze e i loro desideri effettivi. Probabilmente, questi principi sarebbero pochi – o forse nessuno – se le persone avessero ragione di accettare tali principi solo sulla base di quelli che possono essere effettivamente i loro desideri e le loro credenze. I criminali professionisti, per esempio, non hanno ragioni per sostenere i principi fondamentali che le altre persone, che non sono criminali, potrebbero avallare. Io non so quali sarebbero i principi politici che tutti avrebbero ragione di sostenere, qualsiasi siano le loro altre credenze. Ciò che questo principio vuole dire è che i giusti principi politici sono quelli che le persone avrebbero ragione di accettare se fossero impegnate a fondare la vita politica su principi razionalmente accettabili da tutti. Naturalmente questo escluderebbe i criminali che ho appena menzionato. Ma verrebbero anche esclusi i fanatici religiosi, dal momento che costoro ritengono per esempio che i giusti principi politici siano quelli che ognuno avrebbe ragione di sostenere se tutti vivessero come dovrebbero sotto la legge di Dio. Sto sostenendo che il principio di eguale rispetto afferma che i principi politici giusti sono quelli che tutti hanno ragione di accettare sulla base della “clausola”, cioè a condizione che anch’essi siano impegnati a fondare l’associazione politica su principi ragionevolmente accettabili da tutti.
57Il senso del principio politico di eguale rispetto – per cui occorre rispettare anche le persone che non s’impegnano a fondare un’associazione politica su principi accettabili da tutti – è quello di determinare ciò che costoro avrebbero ragione di accettare, se essi fossero al contrario impegnati a costruire una vita politica sulla base di principi accettabili da tutti. Quindi anche coloro che non soddisfano le condizioni della “clausola” saranno in un certo qual modo rispettati da questo principio, dal momento che i principi politici, per avere autorità, devono essere accettabili anche per loro, ma devono essere accettabili assumendo – in questo caso, in via controfattuale – che essi siano impegnati a fondare la vita politica su principi accettabili da tutti. Dunque ciò che dovremmo fare è prestare attenzione a quali siano le loro convinzioni e desideri, eliminando quelli che negano che la vita politica dovrebbe essere basata su principi accettabili da tutti, e tenendo quello che rimane; e questa è la base su cui determinare se i principi politici siano accettabili per loro oppure no. Questo è il significato di quell’“assumere.” Ciò non vuol dire che noi stiamo assumendo che ognuno sia impegnato a sostenere questo principio. In teoria infatti questo principio potrebbe accompagnarsi alla credenza che nessuno parta o sia mai partito dal quel presupposto.
58Alcuni filosofi morali contemporanei hanno proposto qualcosa di simile a questo principio (tranne la parte sulla coercizione) come principio fondamentale della morale. Il filosofo morale che più si avvicina a questa formulazione è Thomas Scanlon. Secondo Scanlon, in generale, i principi morali sono quei principi che individui ragionevoli hanno ragione di accettare (o, meglio, non hanno ragione di rifiutare). La sua è una visione che si propone come una teoria generale della morale, mentre io non sto proponendo una visione generale della morale. Ritengo che tale prospettiva, come visione generale della morale, innanzitutto non sia plausibile e, in secondo luogo, abbia seri problemi di circolarità e inadeguatezza. Non è il caso qui di dilungarci su questo punto; sto solo dicendo che penso ci sia una grande differenza tra il mio pensiero e quello di Scanlon riguardo a due aspetti. Per prima cosa, io sto parlando solo di principi coercitivi, e non sto parlando della morale nel suo complesso; in secondo luogo, ho aggiunto la “clausola”, mentre Scanlon, almeno esplicitamente, non l’ha inclusa, sebbene potrebbe implicitamente fare affidamento su di essa. Questa è la causa dei problemi cui facevo riferimento. Inoltre il mio principio è un principio politico, perché mira a stabilire quali principi coercitivi siano giustificabili, e non fa alcun tipo di affermazione su quale sia la natura della morale nel suo complesso.
59Potrebbe sembrare che dipingendo il principio dell’eguale rispetto come principio politico fondamentale io stia subordinando il modo di ragionare consequenzialista al principio deontologico, dal momento che tale principio è essenzialmente un esempio di principio deontologico. Ci si può domandare come sia possibile, visto ciò che sostengo a proposito dell’eterogeneità della morale. Ma tale tesi non sostiene che non si abbia mai ragione di subordinare un principio di ragionamento morale a un altro. Ciò che dico è semplicemente che i tre principi che ho menzionato sono tutti principi del ragionamento morale e che noi dobbiamo decidere a seconda delle circostanze quale tipo di principio debba avere la priorità. In ambito politico, e in particolare laddove esso assume una forma liberale, un certo principio deontologico, quello proposto, dovrebbe essere fondamentale, e i modi di ragionare consequenzialisti dovrebbero essergli subordinati. Così, per esempio, gli sforzi fatti da un governo per promuovere il benessere generale – sforzi che spesso dovrebbero essere condotti con spirito consequenzialista – dovrebbero essere tuttavia assoggettati o subordinati a questo principio del rispetto, che è di natura deontologica. Ma ribadisco che si tratta solo di un principio politico, di un principio morale per la vita politica. E non ne consegue nulla riguardo al fatto che in altri contesti le forme di ragionamento consequenzialiste debbano essere assoggettate o subordinate in generale ai principi deontologici. Questo è un particolare principio deontologico, e ritengo che sia il miglior modo per capire che cosa ci sia di distintivo in un ordinamento politico liberale, dato che si tratta di un ordinamento politico, che quindi fa uso della coercizione. Questo è un esempio di cosa ho cercato di dire fin dal primo giorno: il fatto che noi abbiamo una pluralità eterogenea di principi fondamentali non significa che non abbiamo mai alcuna ragione per determinare, in una qualche circostanza particolare, quale tipo di ragionamento morale dovrebbe avere priorità. Dal mio punto di vista questo principio deontologico è l’unico principio deontologico che dovrebbe avere priorità sui modi di ragionamento consequenzialista; ed è piuttosto compatibile con questo principio il fatto che altri principi deontologici, anche all’interno dell’ambito politico, possano essere subordinati ai modi di ragionamento consequenzialista.
60La ragione per cui ho chiamato il principio in questione “principio dell’eguale rispetto” riguarda ciò in cui consiste la coercizione. La coercizione comporta che si usino le persone come mezzi. Quando le obblighiamo a rispettare i principi politici è perché vogliamo raggiungere un certo fine politico. Quindi quando usiamo le persone come mezzi, al fine di stabilire o ristabilire l’ordine sociale, le obblighiamo ad aderire al principio, e in questo senso le usiamo come mezzi, quando applichiamo loro la coercizione. Magari vogliamo anche migliorarle in quanto persone, ma in ogni caso il nostro scopo principale è quello di mantenere l’ordine sociale, così come i principi politici che lo definiscono e lo fanno osservare. Ma se utilizziamo gli altri semplicemente come mezzi, non li stiamo realmente rispettando come persone. Ciò che ci dà la garanzia di rispettare gli altri in quanto persone è che i principi che costoro sono stati costretti a osservare sono ciononostante principi ai quali essi avrebbero ragione di dare il proprio assenso. E questo perché, nonostante noi stiamo usando quelle persone come mezzi, in quel caso non le staremmo usando solo come mezzi, ma, per usare la terminologia kantiana, in un certo senso le staremmo rispettando in quanto fini, perché i principi che li obblighiamo a osservare sono principi che assumiamo debbano incontrare il loro consenso razionale, benché soggetto alla “clausola”. Questo è ciò che spiega l’uso della parola rispetto. Il punto di vista di Kant talvolta viene riassunto in maniera scorretta. Si attribuisce a Kant l’idea che non si dovrebbero mai trattare le persone come mezzi. Ma ciò non va bene. Se infatti non potessimo mai trattare le persone come mezzi, saremmo perduti. Per esempio: se si chiede a qualcuno la strada per raggiungere un qualche luogo, si sta usando la persona a cui si chiede l’informazione come un mezzo per cercare di arrivare a destinazione. Se non si utilizzasse la persona in questione come un mezzo, letteralmente ci si perderebbe. Ciò che Kant esclude, a mio avviso correttamente, è il fatto di usare le persone solo come mezzi. Quindi è importante tenere a mente questa distinzione. Per Kant si possono usare le persone come mezzi tanto quanto si vuole, purché al contempo le si tratti anche come fini. Quindi, quando usiamo la coercizione nei confronti di altre persone, le stiamo usando come mezzi per stabilire o mantenere l’ordine sociale. Tuttavia, nella misura in cui e finché le obblighiamo a osservare dei principi che dovrebbero incontrare anche il loro consenso razionale, le trattiamo anche come fini.
61Parlo di un principio di eguale rispetto, ma non pretendo affatto che questo principio sia in grado di esaurire qualsiasi significato del termine “rispetto” o qualunque significato morale di rispetto. Immagino che tutti noi abbiamo nozioni di rispetto che sono molto più ampie e contengono molte più cose di quelle che dice questo principio. Questo è uno degli inconvenienti dell’uso della parola “rispetto” che ricorre in questo principio. So che William Galston per esempio ha detto che talvolta rispettiamo gli altri quando li costringiamo ad aderire a principi che non avrebbero mai ragione di accettare, ma forniamo loro comunque delle spiegazioni sul perché avrebbero ragione di accettarli. Questo è rispetto? Non ne sono tanto sicuro: a ogni modo se io ti obbligo a osservare le leggi dell’Islam, non importa affatto che io ti spieghi quali siano le leggi dell’Islam; questo non è il tipo di rispetto necessario per fondare un ordinamento politico liberale. Perciò quello a cui mi riferisco è solo un genere molto specifico di rispetto, che ritengo necessario per la definizione di un principio politico liberale.
62Si noti che questo principio non dice che i principi politici legittimi sono quelli che tutte le persone ragionevoli avrebbero ragione di accettare; se dicesse questo, non ci sarebbe la “clausola”. Ritengo che non esista nessun principio politico che chiunque potrebbe ragionevolmente accettare, indipendentemente da premesse morali sostanziali. E questa non è una conclusione scettica, ma una conclusione molto importante. Io penso che si debba riconoscere che non esiste alcuna filosofia politica che si basi su principi politici fondamentali che possono derivare solo dalla ragione umana. Non esiste nessun corpo di principi politici di cui si possa provare che è razionalmente accettabile da tutti gli esseri umani in quanto tali, indipendentemente dalle loro altre convinzioni. Ciò significa che ogni filosofia politica, anche una filosofia politica liberale, esclude qualcuno. Non c’è politica senza esclusione. So che quest’affermazione può essere interpretata in modi diversi, con i quali probabilmente non tutti saremmo d’accordo. Ma non c’è modo di avere un insieme di principi politici che non escluda qualcuno, non esiste cioè un insieme di principi politici che sia razionalmente accettabile da tutti (ovviamente resta da stabilire come debbano essere trattati coloro che sono esclusi). Qualcuno resterà escluso.
63Fin qui, e solo fin qui, sarei d’accordo con Carl Schmitt. Questo significa che nessuna filosofia politica e nessun insieme di principi politici può pretendere di essere universale, se per “universale” si intende “universalmente accessibile a tutti”, o “universalmente sostenibile da tutti”, indipendentemente da quello che credono. In questo senso il liberalismo non è affatto universale. Ma c’è un altro significato di “universalità” che direi essere invece una caratteristica del liberalismo, dal momento che c’è una distinzione tra l’accessibilità universale, che consiste in ciò che ogni individuo umano in quanto tale avrebbe ragione di sostenere, e quella che io chiamo validità universale, la quale riguarda quei principi che di fatto sono vincolanti per ognuno di noi. E non esiterei neppure per un momento ad affermare che questo principio dell’eguale rispetto è giusto e corretto e importante per chiunque. Non esiterei nemmeno per un momento a dire che tutte le società dovrebbero essere liberali. I principi liberali sono universalmente validi in questo senso. È solo che non possiamo presumere che i principi liberali, e in particolare quelli definiti dal principio che stiamo discutendo, siano principi che ogni individuo, indipendentemente da quello che crede, avrebbe ragione di accettare, poiché la clausola è qualcosa che molte persone credono di aver ragione di rifiutare. Tutte le concezioni teocratiche della politica, che come sappiamo non sono pezzi da museo della storia umana, e di cui infatti leggiamo quotidianamente sui giornali, sono concezioni che negano proprio la clausola, perché queste concezioni partono dal presupposto che la cosa più importante riguardo ai principi politici non è che siano accettabili per tutti, ma che siano graditi a Dio. E se non sono graditi a Dio non sono accettabili, indipendentemente da quanto siano accettabili da tutti quelli che ne sono vincolati. Quindi la clausola non è qualcosa che si possa per così dire “estrarre” dalla stessa ragione umana. Si tratta di un punto di vista che io penso sia caratteristico della visione liberale, ma ciò su cui vorrei insistere è che proprio in virtù di questa clausola è evidente che questo non è un principio che ogni essere umano ha ragione di accettare – indipendentemente dalle altre cose che crede.
64L’ultimo punto che voglio sottolineare è che il principio dell’eguale rispetto mette in evidenza il bisogno di istituzioni democratiche come istituzioni definite in primo luogo dai principi costituzionali che devono essere accettati e compresi come razionalmente accettabili da chiunque; e istituzioni democratiche, inoltre, che non solo vengono definite da quei principi costituzionali di base, ma che devono anche rispondere a domande politiche più specifiche. Quindi, per riprendere la vecchia controversia su quale sia il rapporto tra liberalismo e democrazia, è mia opinione che, da un punto di vista liberale, si possono vedere le istituzioni democratiche come i mezzi di gran lunga migliori per raggiungere fini liberali fondamentali. Ecco qual è il legame tra liberalismo e democrazia. Ma c’è un aspetto molto importante da sottolineare, e cioè che questo principio dell’eguale rispetto, così come è stato qui formulato, non può essere inteso come se avesse lo stesso genere di autorità dei principi politici che autorizza. Questi sono quei principi politici che incontrano il consenso razionale di tutti, nel rispetto della “clausola”. Sono tali da poter essere intesi come principi che traggono la loro l’autorità dalla volontà collettiva delle persone espressa dal loro accordo razionale su quei principi, sempre nel rispetto della clausola. Ma l’autorità dello stesso principio dell’uguale rispetto non dipende dalla volontà collettiva; la sua autorità è antecedente – logicamente antecedente – alla volontà collettiva, perché il principio di eguale rispetto, dopo tutto, ci dice quale ruolo dovrebbe giocare la volontà collettiva nella determinazione dei principi politici. Il principio dell’eguale rispetto, in altre parole, ci dice che cosa significhi esattamente la volontà collettiva, mentre pensiamo agli altri principi politici come espressioni della volontà collettiva. E quindi c’è un principio politico fondamentale, cioè il principio dell’uguale rispetto, la cui autorità trascende il volere collettivo come un’autorità indipendente, perché serve a definire che cosa significhi la volontà collettiva. Esso ci dice fino a che punto i principi politici dovrebbero basarsi sulla volontà collettiva. Quindi il principio dell’eguale rispetto ha un’autorità indipendente.
65Questo è molto importante, soprattutto in riferimento ad alcuni pensatori contemporanei che parlano di politica democratica. Jürgen Habermas, per esempio, sostiene che tutti i principi politici devono trarre la loro autorità dalla volontà collettiva. Habermas pensa che debba essere così, perché viviamo in quella che lui chiama età “postmetafisica”. Ma io credo che la prospettiva di Habermas sia incoerente, perché ci devono essere dei principi – e io propongo il principio dell’eguale rispetto – che definiscono esattamente che cosa significhi la volontà collettiva e il modo in cui la volontà collettiva funge da fonte di autorità per i principi politici. E quel principio che definisce che cosa si intenda per volontà collettiva, e come essa servirà da fondamento, non può avere un’autorità fondata sulla volontà collettiva; ha invece un’autorità indipendente. Quindi non si può dire che in democrazia tutti i principi politici dipendano dalla volontà collettiva, perché sarebbe fondamentalmente incoerente. E non sarebbe solo logicamente incoerente, ma anche profondamente fuorviante o ingannevole riguardo ad alcuni fatti molto importanti della politica democratica, e cioè che la politica democratica poggia su principi che hanno un’autorità antecedente, come quello proposto. Questo spiega perché molte persone sincere detestino la politica democratica: esse non la detestano perché sono male intenzionate, cattive, disoneste, o criminali, ma perché non sono convinte della verità – sono convinte piuttosto della falsità – della clausola contenuta nel principio dell’eguale rispetto. Esse pensano che la cosa più importante riguardo ai principi politici sia che essi dovrebbero essere accettabili non per quelli che ne sono vincolati, ma alla luce di qualche istanza più alta. E così di queste persone potremmo dire che hanno torto, e che forse possono costituire un pericolo per noi; ma non che sono confuse, o che non sono sincere. Quindi solo se capiremo che i principi della politica democratica hanno origine al di fuori della stessa volontà collettiva, potremo intendere quale sia l’origine dell’opposizione nei confronti della democrazia moderna.
Notes de bas de page
26 Avrete ormai capito che l’intera verità di cui parlo è una cosa molto vasta, molto ambiziosa, e in quanto tale a volte controversa, e profondamente metafisica. Non mi sembra che gli argomenti che abbiamo affrontato nelle scorse lezioni avessero alcuna diretta rilevanza politica, sebbene ritenga che ci siano importanti punti di intersezione tra alcune delle cose che abbiamo detto e quello di cui parlerò qui riguardo alla politica in generale e al liberalismo politico in particolare.
27 M. Walzer, Liberalism and the Art of Separation, “Political Theory”, vol. 12, n. 3, 1984, pp. 315-330 (trad. it. Il liberalismo come arte della separazione, in “Biblioteca della Libertà”, 92, 1986).
28 Cfr. B. Williams, In the Beginning was the Deed. Realism and Moralism in Political Argument, Princeton, Princeton University Press, 2005; trad. it. C. Del Bo, In principio era l’azione. Realismo e moralismo nella teoria politica, Milano, Feltrinelli, 2007.
29 Questa distinzione tra il liberalismo classico e il liberalismo politico assume un significato particolare in inglese, proprio perché liberalism indica essenzialmente una filosofia politica, e occorre quindi una distinzione tra liberalismo classico e liberalismo politico come quella da me proposta per parlare delle due versioni della dottrina politica chiamata liberalismo.
30 Infatti, come è noto, questa fu una delle principali modifiche che J. Rawls apportò a A Theory of Justice, Cambridge (ma), Harvard University Press, 1971 (trad. it. U. Santini, a cura di S. Maffettone, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 19893), in risposta a una critica decisiva mossagli dal teorico del diritto britannico H.L.A. Hart (Rawsl on Liberty and Its Priority, “University of Chicago Law Review”, vol. 40, n. 3, 1973, pp. 551-555). La prima edizione di Una teoria della giustizia introduceva l’idea di libertà nei termini di questo principio generale: massima libertà per ciascuno compatibilmente con il principio di libertà eguale per tutti.
Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Volontà, destino, linguaggio
Filosofia e storia dell’Occidente
Emanuele Severino Ugo Perone (éd.)
2010
Estraneo, straniero, straordinario
Saggi di fenomenologia responsiva
Bernhard Waldenfels Ugo Perone (éd.)
2011