4. La natura dell’io
p. 77-97
Texte intégral
1La lezione di oggi ha per oggetto il problema della natura dell’io, ed è suddivisa in due parti. La prima parte, negativa, esplora le difficoltà ricorrenti che incontrano i più importanti approcci all’io e alla soggettività nella filosofia moderna. La seconda parte, più positiva, delinea i fattori fondamentali della mia concezione dell’io. Cercherò di mostrare in che modo ritengo che essa sia un progresso rispetto alle teorie tradizionali.
I
Osservazioni preliminari
2La natura della soggettività e dell’io è uno dei temi principali della filosofia moderna. Sarebbe interessante comprendere non tanto perché è diventato un tema così importante per il pensiero moderno, quanto perché sembra essere, a uno sguardo retrospettivo, relativamente assente nella filosofia precedente. Non ho una spiegazione soddisfacente per questo fatto. Certo, si potrebbe affermare che essa vada cercata nella nascita dell’individualismo moderno, questa però non è una spiegazione, ma una descrizione di ciò che bisogna spiegare. A ogni modo, la soggettività è non solo uno dei temi dominanti nel pensiero moderno, ma anche una delle aree di maggior oscurità, e in modo non estrinseco. La maggior parte dei filosofi moderni ha sfortunatamente compreso la natura dell’io in modo tale da renderla paradossale (cioè autocontraddittoria), o essenzialmente misteriosa. Certo, so che esistono filosofi per i quali le cose sono in se stesse paradossali o autocontraddittorie, e altri per i quali sono in sé misteriose; non appartengo a queste due categorie, né credo che i grandi filosofi vi appartengano, perché se qualcosa è paradossale o misterioso, il problema non è nell’oggetto, ma in noi, nelle nostre concezioni, che sono inadeguate e devono essere corrette. Penso che in fin dei conti nessun filosofo si riterrebbe soddisfatto di una concezione che ritrae la natura dell’io come paradossale o misteriosa. Così, se dico che gli autori moderni hanno nondimeno, con alcune eccezioni, descritto l’io in questi modi, non voglio dire che questa fosse la loro intenzione, ma piuttosto l’impressione che hanno prodotto.
3Inoltre i filosofi moderni hanno avuto la tendenza non solo a rappresentare l’io in maniera paradossale o misteriosa, ma anche ad attribuirgli almeno due caratteristiche che mi sembrano, a ben rifletterci, molto poco plausibili; si tratta di due attributi che sono stati riferiti all’io consapevolmente e propriamente, quindi non in termini paradossali o misteriosi. Ritengo che i filosofi moderni si siano trovati obbligati ad attribuirli all’io a causa del punto di partenza assunto nell’approccio all’idea stessa di soggettività19.
4Il primo di questi attributi è l’idea che il soggetto sia essenzialmente trasparente a se stesso; la trasparenza, intesa nel senso che l’io deve essere in qualche modo fondamentale intimamente cosciente di tutto ciò che gli appartiene, diventa un attributo corrente dell’io nella filosofia moderna; in linea di principio, in tutti i suoi aspetti essenziali, l’io deve essere accessibile a se stesso, non nascosto a se stesso. Questo è il presupposto da cui muove la critica alla filosofia del soggetto da parte di molti autori francesi, come Foucault, Lacan, o di autori strutturalisti e poststrutturalisti, che insistono sulla non-trasparenza del soggetto. Eppure l’idea di trasparenza dell’io non è solo appannaggio di loro avversari francesi, è presente anche nel pensiero anglo-americano. Penso che tanto i filosofi anglo-americani quanto quelli continentali siano stati spinti a parlare di trasparenza da considerazioni della stessa natura: le ragioni che i primi hanno avanzato per introdurre questo attributo sono le stesse (cattive) ragioni che hanno avanzato i secondi. Si tratta infatti di un attributo molto poco plausibile; non c’è bisogno di aver letto Freud per rendersi conto che di solito non conosciamo molto di noi stessi.
5La seconda caratteristica che i filosofi moderni hanno usualmente attribuito all’io è l’idea che il soggetto sia, in un certo senso, “sovrano”: infatti, dato che tutte le esperienze dipendono in qualche modo dal soggetto, questo deve essere sovrano nei loro confronti. Troviamo quindi nella filosofia moderna il linguaggio di un “soggetto che costituisce l’esperienza”; se il soggetto costituisce l’esperienza, vuol dire che è esso stesso l’autore dei principi e delle regole per mezzo dei quali l’esperienza prende la forma fondamentale che ha. Kant, ovviamente, ha dato l’esposizione più influente di questa teoria. Ma, di nuovo, se si riflette su questa idea, non sembra giusta, anzi appare piuttosto stravagante; in che modo l’io è capace di “costituire” l’esperienza? L’io non può costituire l’esperienza, non può essere l’autore delle regole e dei principi in base ai quali essa funziona: infatti non c’è altro modo di comprendere i principi in base ai quali l’io opera, se non come principi che l’io ha ragioni per adottare, di fare propri.
6Che i filosofi moderni abbiano attribuito all’io trasparenza e sovranità non è una mossa arbitraria da parte loro; avevano buone ragioni per farlo e, come ho suggerito, ragioni radicate nel modo stesso in cui cercavano di rendere conto dell’io. Naturalmente molti autori, e tra di essi soprattutto Kant, erano consapevoli del fatto che non sembriamo sempre trasparenti a noi stessi, e che non sempre siamo sovrani; così molti hanno affermato che il soggetto di cui parlano non è effettivamente, in senso stretto, un soggetto in carne e ossa, come me e voi, e hanno introdotto la distinzione tra “io empirico” e “io trascendentale”. Quindi io e voi, qui, siamo tutti io empirici, e possiamo essere all’oscuro rispetto a noi stessi, non particolarmente “sovrani” nei confronti della nostra esperienza, perché in quanto io empirici non coincidiamo con l’io trascendentale, il quale godrebbe invece delle qualità di trasparenza e sovranità. Penso che questa distinzione sia sbagliata; so che importanti filosofi, come Kant o Husserl, hanno fondato su di essa la loro analisi. Credo però che un io sia sufficiente, non ce ne servono due. Qualcosa deve essere andato storto, se si è reso necessario introdurre tale distinzione, e dobbiamo analizzare da vicino ciò che ha spinto a introdurla, che cosa ha spinto ad attribuire all’io trasparenza e sovranità, caratteristiche che manifestamente non abbiamo, e quindi a supporre un io trascendentale che le possegga.
7Per un certo periodo, intorno alla metà del xx secolo, l’impresa di rendere conto del soggetto è apparsa disperata, e si è creduto di dover abbandonare l’idea stessa di soggettività. Si possono citare per esempio: il behaviorismo e gli eredi di Wittgenstein negli Stati Uniti, lo strutturalismo e il poststrutturalismo in Francia (penso ai discorsi su la mort du sujet, la mort de l’homme). In una certa misura, questa reazione alle difficoltà e alle contraddizioni della filosofia del soggetto era comprensibile; ma negli ultimi anni è apparso evidente che essa era unilaterale, che la soggettività esiste realmente, e che il problema è il modo sbagliato in cui la filosofia tradizionale ha cercato di pensarla. Così, negli ultimi anni è sorto un interesse rinnovato per la soggettività, in particolare in Europa, con importanti filosofi come Dieter Henrich, Manfred Frank, e molti altri, e negli Stati Uniti con autori come Castañeda o John Perry.
8Un ultimo punto prima di concludere queste osservazioni preliminari. Utilizzerò i termini io (self) e soggetto come intercambiabili, ma la mia preferenza è per il primo. Per due ragioni. In primo luogo, penso che self, “io”, sia un termine più vicino alle nostre nozioni quotidiane, in quanto quasi ognuno di noi pensa di essere o di avere un io, anche se non sappiamo quale sia la sua natura; “soggetto” è invece un termine filosofico, il cui significato deve essere esplicitato. In generale cerco di mantenere la filosofia vicina alla nostra esperienza quotidiana, ai fenomeni a noi familiari, altrimenti essa perde facilmente senso. Il secondo vantaggio nell’usare il termine self è che in esso, come anche nel tedesco Selbst, o nei termini usati in altre lingue, come io, moi…, è inscritto il fatto stesso che si tratta di qualcosa che ha un rapporto con se stesso. Quando si parla di io si intende quell’essenziale rapportarsi a sé in virtù del quale un io è un io. Penso infatti che questo sia il fenomeno fondamentale, e anche la difficoltà fondamentale, che si è sempre presentata nel tentativo di comprendere la natura dell’io e della soggettività.
9Il termine “soggetto”, invece, non ha inscritto in sé il fatto che un soggetto è essenzialmente in rapporto con se stesso. Anzi, tale termine è fonte di alcune ambiguità. Un io, un soggetto nel senso specifico che stiamo indagando qui, non è un qualsiasi soggetto di una predicazione, e non è semplicemente“qualcosa che fa qualcosa”. Prendiamo l’enunciato: “la tempesta ha distrutto la casa”. In questo caso la tempesta non è un soggetto allo stesso modo di un “io”, perché un io viene definito come un agente che agisce consapevolmente, come un agente che produce un’azione sapendo di compierla. Non si può definire un soggetto semplicemente come un agente, nel senso più largo, se s’intende per agente “ciò che fa qualcosa”, perché ci sono molte cose di cui diciamo che producono eventi nel mondo ma che non chiameremmo mai “soggetti” (tranne, ovviamente, nel senso di soggetti di una predicazione, ma questo senso del termine soggetto non è quello che qui ci interessa). Che cosa manca alla tempesta, che si trova invece, per esempio, nel cane e in noi? È il fatto che sia il cane che noi abbiamo un qualche genere di rapporto con noi stessi, in virtù del quale non siamo solo “fonti”, in senso causale, di eventi nel mondo, come la tempesta; questo tipo di relazione con sé è l’oggetto della nostra indagine. Se esiste un soggetto, se esiste la soggettività, ci deve essere un qualche rapporto che il soggetto ha con se stesso, in virtù del quale esso è tale. Ogni filosofo che parla del soggetto intende o afferma che esso è in qualche modo essenzialmente in rapporto con se stesso; perciò, per esempio, è molto comune che molti autori parlino di “interiorità”. Che cosa intendono con interiorità? Intendono che la soggettività è in qualche modo connessa con se stessa, rivolta a se stessa, e anche qui non come un’opzione, che il soggetto possa adottare, ma nel senso che non può esserci soggetto se non interno a se stesso, in qualche maniera intimamente in rapporto con se stesso20.
10Non è possibile pensare l’io senza questo rapporto essenziale con se stesso. Vincent Descombes21, nella sua teoria, ha cercato di farlo, interpretando l’io solo in termini di “capacità di azione”. Il problema è che ci sono numerosi agenti, intesi in questo senso largo, cioè semplicemente in quanto agenti che producono fatti nel mondo, che non sono soggetti; si pensi alla chimica, per esempio. Descombes allora afferma: certo, ma quello che intendiamo per soggetto è un agente che agisce secondo ragioni. Però, una volta che si definisce il soggetto come un agente che agisce secondo ragioni, come si può rendere conto di tale agire secondo ragioni, se non supponendo che questo tipo di agente abbia un qualche genere di rapporto a sé, dal momento che deve essere capace di “rispondere” alle ragioni? Deve vedere le ragioni come ragioni “per lui” di pensare o agire in un certo modo, come ragioni alle quali deve conformarsi. Quindi non si può realmente rendere conto della capacità umana d’azione (human agency, intendendo questa come “agire secondo ragioni”) senza spiegare che cos’è questo rapporto che abbiamo con noi stessi, in virtù del quale siamo capaci di agire secondo ragioni. Non penso che si possa evitare di affrontare questo rapportarsi a sé essenziale.
11Su queste basi, si potrebbe allora parlare non di agente in generale, ma di “agente intenzionale”. È legittimo, com’è legittimo il termine soggetto, purché s’intenda con ciò un io, cioè quel particolare rapportarsi a sé che costituisce un io. Ciò che dobbiamo spiegare allora è proprio che cosa sia un agente intenzionale. Va notato però che non si può imparare a essere un agente intenzionale. Una tempesta non può imparare a essere un agente intenzionale. Tramite l’apprendimento possiamo sviluppare la nostra natura di agenti intenzionali, ma non è possibile che qualcosa diventi un agente intenzionale tramite l’apprendimento. Si può imparare a essere un agente più consapevole, ma non è possibile dire che impariamo a essere un agente in senso fondamentale. Certo, un neonato probabilmente non è un agente intenzionale, ma, se lo prendete sei mesi dopo, lo è; non però perché ha imparato a essere un agente, ma perché si è sviluppato naturalmente. Come si può imparare a essere un agente intenzionale, se l’apprendimento stesso è un’attività intenzionale? Il problema è come trattare questo fenomeno fondamentale. Inoltre, per comprendere meglio questo problema, voglio sottolineare che il tipo di rapporto che abbiamo con noi stessi, in virtù del quale siamo un io, non è la totalità dei modi in cui possiamo metterci in rapporto con noi stessi. Nel corso della nostra vita, sviluppiamo modi sempre più sofisticati di rapportarci a noi stessi, la cultura, l’immaginazione, eccetera, e questo processo di apprendimento si arresta solo con la nostra morte. Tuttavia, niente di tutto questo potrebbe accadere, se non ci fosse questo modo fondamentale di essere in rapporto con noi stessi, in virtù del quale siamo agenti e soggetti in generale. Quello che stiamo cercando di comprendere qui è cos’è questo rapportarsi a sé fondamentale, sotteso a tutte le altre forme sofisticate e acquisite di rapporto a sé.
12Quindi le ragioni fondamentali per cui preferisco il termine self al termine soggetto sono che il primo è una nozione del linguaggio quotidiano, e che dobbiamo comprendere come l’io sia in rapporto con se stesso in modo essenziale. Ci sono molti casi in cui l’io può essere in rapporto con se stesso in modo non essenziale. Se parliamo invece di rapporto essenziale, intendiamo dire che senza di esso non potrebbe esserci affatto un io. Ed è proprio questa la difficoltà. In generale quando parliamo di casi in cui l’io ha un rapporto con qualcosa, intendiamo riferirci a relazioni che possono essere assunte, ma che, anche quando hanno incidenza riflessiva, non sono essenziali per la definizione dell’io. Se per esempio mi definisco un attore, e dunque includo una relazione con me stesso sulla base del fatto di essere attore, non asserisco però al tempo stesso che non posso essere chi sono se non definendomi come attore. Ma se, per definirmi, posso prescindere da ciò che ho indicato essere un modo del rapporto con me stesso (essere attore), ne viene che un io però esiste già. Come vedete, il terreno è maturo per una gran confusione.
13Riassumendo, nello studio dell’io il problema è comprendere se l’io sia qualcosa di reale, e che cosa sia questo particolare tipo di rapportarsi a se stesso in virtù del quale esso è un io. Ora, la mia opinione è che la via tradizionalmente seguita dai filosofi per cercare di comprendere questo rapporto essenziale dell’io con se stesso abbia condotto a paradossi o misteri, e come ho detto considero questi risultati inaccettabili.
L’io paradossale
14Parliamo del primo modello, che fa del rapporto dell’io con se stesso qualcosa di essenzialmente paradossale. Questo è probabilmente, in termini storici, il primo approccio, emerso fin dall’inizio della filosofia del soggetto, con Descartes, diventato dominante nel corso del xvii secolo. Secondo questa tesi il rapporto che il cogito ha con se stesso è di natura essenzialmente cognitiva, è un rapporto di conoscenza. L’io è un io, il soggetto, l’ego cogito è un io in virtù del fatto che ha un rapporto di conoscenza con se stesso, e tale rapporto è fondamentalmente dello stesso tipo di quello che ha nei confronti degli oggetti nel mondo. Certo, c’è la differenza che gli oggetti nel mondo sono estesi, mentre l’io è una sostanza pensante, senza estensione; ma il rapporto è fondamentalmente dello stesso tipo. Penso che un’ottima formulazione di questa concezione sia quella che si trova in John Locke, che era per molti aspetti debitore della teoria di Descartes: «Pensare consiste nell’essere consapevoli che si sta pensando (…). È impossibile che qualcuno percepisca senza percepire che sta percependo (…). In tal modo ognuno è per se stesso ciò che egli chiama io (self)»22.
15Quando percepiamo le cose nel mondo, percepiamo allo stesso tempo che stiamo percependo, ed è questo che fa di ognuno di noi un io. Vedete cosa fa Locke qui; egli afferma che noi abbiamo un rapporto essenzialmente cognitivo, la percezione, con gli oggetti nel mondo, e che abbiamo esattamente lo stesso tipo di rapporto con noi stessi nello stesso momento in cui percepiamo qualcosa nel mondo. Percepiamo il nostro stesso percepire qualcosa nel mondo, ed è questo “percepire il nostro percepire” che fa di noi un io. In questo primo modello abbiamo due fattori che definiscono l’io: 1) il rapporto che l’io ha con se stesso – la percezione – è di natura cognitiva; 2) esso è lo stesso tipo di rapporto che l’io ha con gli oggetti nel mondo, che sono oggetti di conoscenza. Troviamo questo primo approccio in Descartes e in molti altri filosofi del xvii e xviii secolo. Ho chiamato, in accordo con una certa tradizione filosofica, questo primo modello riflessivo: il rapporto cognitivo che l’io ha con se stesso è essenzialmente un rapporto di riflessione. Locke non usa a questo proposito la parola riflessione (me ne servo perché la usa Fichte, che affronteremo più avanti), ma la ragione per affermare che in questo modello l’io è cognitivamente consapevole di se stesso per mezzo della riflessione, è che quest’ultima condivide alcune proprietà distintive con le altre relazioni di conoscenza che abbiamo con gli oggetti nel mondo. Quali siano questi fattori distintivi lo vedremo analizzando la celebre critica di Fichte a questo modello.
16Prima di affrontare le critiche di Fichte, voglio osservare subito che questo modello non può funzionare. Perché? Perché ogni volta che si ha una percezione o una conoscenza di oggetti, c’è una distinzione tra il soggetto conoscente e l’oggetto della conoscenza. Ogni volta che abbiamo conoscenza di oggetti nel mondo, presupponiamo una differenze tra noi come conoscenti e gli oggetti nel mondo che sono presumibilmente gli oggetti della nostra conoscenza. Questo perché, affinché ci sia conoscenza di oggetti nel mondo, si deve presupporre che gli oggetti nel mondo preesistano al nostro sforzo per conoscerli. Essi esistono indipendentemente dal nostro sforzo di conoscerli, perché quello che stiamo cercando di fare, venendo a conoscerli, è ottenere credenze corrette su di essi. Ciò è caratteristico di qualsiasi rapporto di conoscenza che abbiamo con oggetti nel mondo. Si presume che l’oggetto della conoscenza preesista allo sforzo del soggetto conoscente di conoscerlo, poiché questo, per conoscerlo, deve trovare le credenze più adatte. E, inversamente, il soggetto conoscente deve preesistere al suo stesso sforzo di conoscere l’oggetto nel mondo, altrimenti non potremmo dire che il soggetto conoscente cerca di rappresentarsi come è fatto il mondo, che cerca di percepire correttamente come è fatto il mondo. Quindi, ogni volta che c’è un rapporto di conoscenza con il mondo, dobbiamo presupporre che l’oggetto che cerchiamo di conoscere preesista al nostro sforzo di conoscerlo, e dobbiamo presumere che il soggetto conoscente preesista al proprio sforzo di conoscere l’oggetto. È questo il modo in cui, nel rapporto cognitivo con oggetti nel mondo, deve esserci in qualche modo una distinzione presupposta tra il soggetto e l’oggetto.
17In questo modello dell’io il rapporto dell’io con se stesso è, in primo luogo, un rapporto di conoscenza, e, in secondo luogo, un rapporto dello stesso tipo di quello che abbiamo con gli oggetti nel mondo. Nella terminologia di Locke, quando percepiamo oggetti nel mondo, percepiamo anche il nostro percepirli. Ma ciò significa che nel rapportarsi a sé dell’io deve esserci una differenza tra l’io che si mette in rapporto e l’io oggetto di questo rapporto. Bene, ora siamo in un bell’imbroglio, perché se c’è una differenza tra l’io che si mette in rapporto (con se stesso) e l’io che è oggetto di questo rapporto (instaurato da se stesso), allora l’io non può essere identico con il suo rapportarsi a se stesso: l’io oggetto del rapporto deve preesistere all’io che si pone in rapporto con esso, e l’io che si pone in rapporto con esso deve preesistere al proprio sforzo di mettersi in rapporto con l’io che esso è. Penso che qui si trovi una contraddizione: si cerca di dire allo stesso tempo che non si può essere un io senza essere essenzialmente in rapporto con se stessi, ma che questo rapporto a sé è tale per cui i due poli del rapporto sono differenti l’uno dall’altro, così come deve essere in qualsiasi rapporto di conoscenza con oggetti nel mondo. Così si è costretti a dire allo stesso tempo che l’io è identico a se stesso e che l’io non è identico a se stesso. Questo è paradossale o, per dirla in altri termini, è autocontraddittorio. A meno di supporre che qualcosa possa essere reale e autocontraddittorio, come direbbe Engels, quando parla di materialismo dialettico e di “contraddizioni oggettive nel mondo”. Non penso però che esistano contraddizioni oggettive nel mondo, ma solo nella nostra mente. Quindi qui qualcosa è sbagliato, c’è un paradosso.
L’io misterioso
18Vorrei mettere in evidenza quali sono le due assunzioni che hanno prodotto questa posizione paradossale, condivisa da Locke, Descartes e molti altri filosofi. Anzi sarebbe meglio parlare di tre assunzioni, la prima delle quali sembra tuttavia essere corretta. Eccole: 1) non si può essere un io senza essere in rapporto con se stessi (condivido questa assunzione con la tradizione filosofica); 2) il rapporto che l’io ha con se stesso, e in virtù del quale esso è un io, è di natura cognitiva, una relazione di autoconoscenza (assunzione condivisa da Descartes e Locke, ma anche da molti che li hanno criticati, mentre io la rifiuto); 3) questo rapporto di conoscenza che l’io ha con se stesso, in virtù del quale esso è un io, è fondamentalmente dello stesso tipo del rapporto di conoscenza che l’io ha con oggetti nel mondo. Quest’ultima assunzione è condivisa da Descartes e da Locke, e da qui nascono le conclusioni paradossali. Il paradosso nasce dal fatto che, se deve esserci una differenza tra soggetto e oggetto, non è possibile che proprio questa conoscenza di sé sia ciò che costituisce il soggetto in quanto tale.
19Ci sono due modi di reagire a questo paradosso. Uno è quello di respingere la seconda assunzione. Infatti, poiché la terza assunzione cerca di rendere più chiaro il tipo di rapporto di conoscenza che il soggetto ha con se stesso, si potrebbe dire che, con la seconda, si è presa la strada sbagliata. Come può, in generale, esserci conoscenza, di qualsiasi cosa, senza che ci sia una distinzione tra il conoscente e il conosciuto? Se questa è inscritta nella natura stessa della conoscenza, e se il rapportarsi a sé è essenziale per l’io, allora tale rapporto non è un rapporto di conoscenza. È una reazione possibile, anzi sarebbe quella giusta, ma non è stata la reazione comune dei filosofi che hanno criticato il modello lockiano.
20L’altra reazione, la più diffusa, è stata invece di accettare la seconda assunzione, presupponendo che il rapporto a sé dell’io sia cognitivo, ma di rifiutare la terza, sostenendo che Locke avrebbe sbagliato nel supporre che la conoscenza che l’io ha di se stesso è come quella che l’io ha di oggetti nel mondo. La conoscenza di oggetti nel mondo implica una distinzione essenziale tra il soggetto e l’oggetto, ma proprio tale distinzione sarebbe responsabile dei paradossi a cui porta il modello lockiano. La seconda risposta al collasso di tale modello sostiene che, anche se il rapportarsi dell’io con se stesso è di tipo cognitivo, è però un rapporto cognitivo che non implica una distinzione tra soggetto e oggetto, ma comporta invece un identità assoluta tra i due. Non c’è alcun modo, in questo tipo peculiare di conoscenza, di vedere o di discernere alcuna differenza tra conoscente e conosciuto, tra soggetto-conoscente e soggetto-conosciuto. Il modo in cui il soggetto conosce essenzialmente se stesso ed è consapevole di se stesso, la sua autocoscienza, è tutt’uno con il suo stesso essere un soggetto; un modo che il soggetto ha di essere intimamente familiare con se stesso, una familiarità così immanente da non permettere nessuna distinzione tra l’io che è cosciente e l’io di cui si è coscienti. L’autocoscienza è l’essere stesso del soggetto.
21Fichte, il cui più grande merito è stato, credo, di aver visto chiaramente per primo i paradossi cui conduceva il modello lockiano, ha preso questa seconda strada, ritenendo che il soggetto (das Ich) sia essenzialmente consapevole di se stesso, ma consapevole in modo così intimo da non lasciare nessuna possibilità di distinzione tra soggetto e oggetto. Quindi non c’è spazio per quei paradossi. Come è noto, Fichte ha chiamato questo rapporto a sé “intuizione intellettuale”. In realtà, non fu il primo, perché fu Schelling, in una recensione a Fichte, a sostenere che l’oggetto della sua teoria era appunto l’intuizione intellettuale. A ogni modo, il problema è che, comunque la si chiami (intuizione intellettuale, intima familiarità con se stessi…), si tratta di un’idea assolutamente misteriosa. Come può esserci un rapporto di conoscenza così intimo da non ammettere nessuna possibilità di distinzione tra conoscente e conosciuto? Certo, è possibile affermare una cosa del genere, ed è comprensibile perché Fichte, per rispondere ai problemi posti dal modello lockiano, lo abbia sostenuto. Ma ciò non vuol dire che tale concezione sia intelligibile: come è possibile che esista un rapporto di autoconoscenza in cui non c’è nessuna distinzione tra soggetto e oggetto? È vero, nella vita quotidiana abbiamo una conoscenza di noi stessi, limitata senza dubbio, ma in casi simili c’è una distinzione tra soggetto e oggetto, c’è il punto di vista che si sta cercando di conoscere e c’è il punto di vista che sta cercando di conoscere il primo, e non sono la stessa cosa. Ovviamente è la stessa persona, in senso lato, che è insieme conoscente e conosciuta, ma l’io come conoscente non è fondamentalmente identico all’io come conosciuto, nei nostri casi quotidiani di conoscenza di sé. Tuttavia ciò di cui stiamo parlando, l’intuizione intellettuale di Fichte, è un tipo di conoscenza di sé del tutto diversa da qualsiasi tipo di autoconoscenza quotidiana che abbiamo, perché si presume che sia un modo di essere intimamente familiari con se stessi, intimamente consci di se stessi, che non ammette nessuna distinzione tra soggetto e oggetto. Certo, lo si può affermare, ma con questo non si afferma nulla di intelligibile.
22Questa è la concezione essenzialmente misteriosa. Se il modello lockiano (o cartesiano) è destinato a rivelarsi essenzialmente paradossale, cioè autocontraddittorio, il modello fichtiano, invece, risulta essere essenzialmente misterioso. Inoltre, non si può dire che il modello fichtiano sia limitato alle sue “brumose origini” nella filosofia tedesca (del resto, non penso che Fichte sia “brumoso”); ci sono molti altri filosofi ritenuti “chiari”, filosofi analitici, che affermano sostanzialmente qualcosa di non meno misterioso, autori come Sidney Shoemaker, o Richard Moran. Essi sostengono che esista un certo genere di intima familiarità con se stessi, di consapevolezza di sé. Elizabeth Anscombe ritiene che, come agenti intenzionali, abbiamo una conoscenza di quello che stiamo facendo, conoscenza che non è basata né sull’osservazione né sull’inferenza: un terzo tipo di conoscenza che abbiamo di noi stessi23. La si può chiamare come si vuole, ma in ogni caso non è chiaro di che cosa si tratti. Qualsiasi conoscenza noi abbiamo è basata o sull’osservazione o sull’inferenza, anche quella che abbiamo di noi stessi. Si può certo affermare che abbiamo questo terzo tipo di conoscenza, precisamente a causa dei presupposti filosofici da cui sia Fichte sia Anscombe partono, ovvero dalla convinzione che l’agente intenzionale abbia un tipo di rapporto con se stesso che sia di natura cognitiva. Ma non può esistere un rapporto di conoscenza in cui non c’è spazio per la distinzione tra soggetto e oggetto, un rapporto così intimo da escludere l’errore perché non è fondato né sull’osservazione né sull’inferenza. Si può comprendere perché lo affermano, ma ciò non significa che si comprenda meglio ciò di cui stanno parlando. E questo è vero tanto per Fichte quanto per Anscombe.
23Ora, questo secondo modello, per così dire, finisce nel mistero. Esso ha preso inizio dalla prima assunzione, che esiste un qualche tipo di rapporto essenziale che abbiamo con noi stessi; il problema è come comprendere che cosa sia questo rapportarsi a sé. Tale assunzione è condivisa da tutti coloro che studiano la soggettività; ovviamente la condivido anch’io. La seconda assunzione, condivisa da Descartes e Locke quanto da Anscombe e Fichte, è che questo rapportarsi a sé sia un rapporto di conoscenza. Autori come gli ultimi due sostengono tuttavia che questa conoscenza non possa essere affatto dello stesso tipo di conoscenza che abbiamo di oggetti nel mondo, e neanche del tipo di conoscenza di sé quotidiana che abbiamo per mezzo della riflessione, perché questi sono casi in cui c’è una distinzione essenziale tra soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto, e se supponiamo che questa distinzione sia un ingrediente del rapporto essenziale che l’io ha con se stesso, in virtù del quale esso è un io, siamo ricondotti al modello paradossale. Si parla quindi di una sorta di intimo rapporto di conoscenza che l’io ha con se stesso. Ma in definitiva, tutto quello che può essere detto di quest’intima conoscenza di sé, è che non è come tutti gli altri tipi di conoscenza che abbiamo. Nel caso di Fichte, che cos’è l’intuizione intellettuale? È quel tipo di conoscenza che abbiamo di noi stessi in cui non c’è distinzione tra soggetto e oggetto. In buona filosofia, non può esistere una conoscenza senza questa distinzione. Per Anscombe, è una conoscenza che l’agente intenzionale ha di se stesso, da lei chiamata conoscenza pratica; ma, di nuovo, non è conoscenza osservativa, non è inferenziale, e allora, che cosa è? È un tipo di conoscenza completamente diversa da qualsiasi altro tipo di conoscenza con cui veniamo in contatto, poiché qualsiasi conoscenza con cui veniamo in contatto è fondata sull’osservazione o sull’inferenza. Quando si parla di questo tipo di conoscenza di sé, ci viene detto solo che cosa non è, e cioè che non è come il modello, paradossale, lockiano o cartesiano. Perciò è essenzialmente misteriosa.
24A questo punto ci troviamo di fronte a tre vie. Una possibilità è di pensare, come fanno molti autori del xx secolo, per esempio Daniel Dennett, che l’errore sia nel supporre che esista qualcosa come un rapportarsi a sé essenziale, mentre in realtà questa è solo un’illusione, una finzione continuata; non è affatto una realtà. Si tratta quindi di rifiutare la prima assunzione. Un’altra via, e questa mi sembra una via disperata, è di affermare che la soggettività esiste, ma è paradossale, o misteriosa. Infine, la terza via è invece di rivedere la seconda assunzione, comune tanto al modello cartesiano e lockiano, quanto a quello di Fichte e Anscombe, cioè l’idea che il rapporto che abbiamo con noi stessi, in virtù del quale siamo dei soggetti, sia un rapporto di conoscenza. Questo è il terreno comune tra queste teorie, tra Locke e Anscombe, e Descartes e Fichte, ma potrebbe proprio qui essere il presupposto da rifiutare. Non esiste una maniera di intendere questo rapportarsi a sé come un qualcosa che non sia un rapporto di conoscenza, di nessun genere, né paradossale né misterioso? Questa è la via che intendo seguire.
II
Credenze e desideri
25Veniamo ora alla parte positiva della mia esposizione. La via che intendo percorrere accetta l’assunzione che c’è un rapportarsi a sé fondamentale che fa di ognuno di noi un io. Questo rapportarsi a sé non è riflessione, qualsiasi senso di questo termine si assuma, perché la riflessione è qualcosa che facciamo a volte, che non facciamo altre volte, ed è in ogni caso, normalmente, un tentativo di acquisire una conoscenza su noi stessi. Quindi essendo opzionale e rivolta alla conoscenza, la riflessione non può essere un candidato per ciò di cui stiamo parlando, che è invece un essenziale rapportarsi a sé dell’io. Uso il termine rapporto a sé (self-relatedness) in un senso che non va reso con riflessività; certo, quest’ultimo termine, in senso strettamente logico, indica il rapporto di una cosa con se stessa, ma nell’uso comune rinvia alla riflessione, e per questa ragione preferisco non usarlo, per non creare confusione. Il rapporto a sé di cui sto parlando non ha niente che vedere con la riflessione. Il punto di partenza è quindi che esiste una realtà dell’io, cioè questo rapportarsi a sé che costituisce il soggetto. Il problema è come intenderlo. I due modelli che abbiamo visto finora, quello cartesiano-lockiano e quello fichtiano, lo interpretano come un rapporto di conoscenza, benché interpretino diversamente il tipo di conoscenza in questione. È proprio tale assunzione (la seconda assunzione) che io rifiuto, e cercherò di mostrare come questo rapporto a sé non sia un rapporto di conoscenza.
26Iniziamo guardando agli elementi della mente. Prenderò in esame credenze e desideri, in quanto sono due degli elementi più importanti che la mente presenta. Preciso però che non ritengo che tutto ciò che si trova nella mente sia o credenza o desiderio, e che neanche ho scelto questi due perché sottoscrivo la teoria secondo cui non possiamo agire sulla base delle sole credenze, e abbiamo bisogno di desideri per agire. Credo che questa teoria sia falsa. Ho scelto credenze e desideri come fattori della mente su cui concentrarmi semplicemente perché credo che essi ne siano delle componenti fondamentali. Cercherò quindi di analizzare attentamente cosa significa avere una credenza e cosa significa avere un desiderio. Vedremo che avere una credenza o un desiderio implica che la persona che ha una credenza o un desiderio deve avere un certo rapporto con se stessa; notate però che affermerò questo senza supporre che questa persona abbia alcun tipo di conoscenza di quali credenze o desideri essa ha. Presupporrò che abbiamo numerose credenze o desideri senza sapere di averli. Essi spesso sorgono come nuovi, a volte creandoci imbarazzo. Spesso abbiamo desideri e credenze che non sapevamo, prima, di avere. Parleremo quindi di alcuni elementi fondamentali della mente, come credenze e desideri, che esistono prima di diventare conoscibili dalla mente stessa come propri.
27Esaminiamo quindi credenze e desideri in sé, e poniamoci una domanda fondamentale, iniziando con le credenze: che cosa significa credere qualcosa, ovvero che cosa è una credenza? Ci sono alcune concezioni che non possono essere considerate risposte convincenti a questa domanda. Una teoria della credenza sostiene che la credenza è un’idea di fronte alla mente, idea che ha una particolare vividezza o intensità; quindi la differenza tra semplicemente pensare che fuori c’è il sole e credere che fuori c’è il sole, sta nel fatto di avere l’idea di bel tempo vividamente di fronte alla mente. Questa è la teoria di Hume: la differenza tra pensare che qualcosa sia in un certo modo, e credere che qualcosa sia in un certo modo significa avere tale idea molto vividamente di fronte alla mente. Ma non è così che le cose funzionano; le cose in cui crediamo possono non essere particolarmente vivide di fronte alla mente. Anzi, posso pensare a qualcosa di immaginario che sia più vivido di fronte alla mia mente rispetto ad altre cose che credo. La vividezza (della concezione) non è ciò in cui consiste la credenza.
28Un’altra teoria proposta da alcuni autori sulla natura della credenza, per esempio da Descartes nella Quarta meditazione, è che credere qualcosa significhi assentire a essa. Quindi, si crede che fuori c’è il sole, se si ha un’idea di cosa significa che ci sia il sole fuori e se si dà il proprio assenso a quest’idea. Non è una questione di vividezza della concezione, ma ciò che fa la differenza tra pensare che fuori c’è il sole e credere che fuori c’è il sole è che nel secondo caso si dà un assenso all’idea, mentre quando lo si pensa soltanto si ha l’idea ma non le si dà l’assenso. Tuttavia, neanche questa teoria della credenza funziona. Ci sono infatti molte cose che crediamo alle quali non stiamo assentendo. Gli atti di assenso sono eventi. Non facciamo degli atti di assenso per tutto il tempo in cui crediamo qualcosa. Fondamentalmente una credenza non è un evento mentale: non è l’evento di una concezione particolarmente vivida, non è un atto di assenso, perché la credenza non è affatto un evento, è una disposizione. Le credenze sono fondamentalmente delle disposizioni mentali, una sorta di abitudine. La credenza è uno stato disposizionale. È una disposizione che può essere attivata in vari momenti; in quanto disposizione, è distinta dalle sue manifestazioni, cioè da quegli eventi a cui può condurre la credenza come disposizione. È perché credete che tra poco si pranzerà che adesso state assentendo all’idea che tra poco pranzerete.
29La credenza è quindi una disposizione che ha un certo tipo di rapporto con quegli eventi mentali, quei nostri atti (in senso lato), che prendiamo come manifestazioni di quella credenza. Chiamiamo queste manifestazioni “comportamento”, in senso generale. La credenza è una disposizione che porta a un comportamento di un certo genere, il quale viene pensato così come una manifestazione di una credenza di una certa persona. Il problema è: qual è il rapporto tra la disposizione e il comportamento che questa provoca? Soltanto se comprendiamo questo, possiamo comprendere il tipo particolare di disposizione che è una credenza. Il rapporto tra la credenza e il comportamento che la manifesta è un rapporto che dobbiamo intendere nel senso che la credenza dà all’individuo una ragione per agire in quel modo. È perché credete che tra poco si pranzerà che ora assentite all’idea che tra poco sarà ora di pranzo. È perché credete che tra poco pranzerete che l’idea del pranzo è ora particolarmente vivida di fronte alla vostra mente. È perché credete che tra poco pranzerete che all’una andrete via comunque, che io abbia finito o meno. Tutti questi frammenti di comportamento sono tali per cui ci sono delle ragioni per intraprenderli. Questo è un modo di esprimersi piuttosto artificiale, perché il comportamento che è manifestazione di una credenza non è manifestazione di una singola credenza, ma è legato ad altre credenze e desideri che si hanno. A ogni modo, il punto fondamentale è che il modo in cui una credenza si manifesta nel comportamento è che la credenza dà all’individuo delle ragioni per intraprendere quel comportamento. Possiamo quindi dire in modo generale che il rapporto delle credenze con le proprie manifestazioni è normativo. Per normativo intendo che esso riguarda ragioni e ricettività nei loro confronti. Quindi, cos’è una credenza? È una disposizione a pensare e agire in certi modi, modi per i quali la credenza stessa ci dà delle ragioni di agire.
30Veniamo ai desideri. Che cosa è un desiderio? Qui la cosa è un po’ più complicata, perché i desideri non sempre sono delle disposizioni; a volte parliamo dei desideri come disposizioni, a volte ne parliamo come eventi. Si può avere un desiderio durevole di pranzare, e se parliamo di desideri durevoli parliamo di disposizioni, ma a volte parliamo di desideri come eventi particolari che hanno luogo nelle nostra mente (sento proprio ora il desiderio di pranzare). Questi sono detti, nel linguaggio filosofico, desideri “occasionali” (occurrent), in quanto opposti ai desideri “stabili” (standing). Ma in ogni modo, in entrambi i casi, possiamo dire che il desiderio rappresenta il suo oggetto come qualcosa che ho ragione di perseguire. Torna la mia idea di ricettività, secondo cui si è sensibili, meglio, ricettivi alle ragioni e alle loro forze. Desiderare qualcosa significa vedere la cosa che si desidera come desiderabile, in modo tale che ci siano ragioni per desiderarla. Possiamo spingerci a dire, insieme a S. Tommaso, che desiderare qualcosa significa vederla sub specie boni, vederla sotto l’aspetto del bene, come buona. Nella misura in cui si desidera qualcosa, la si considera desiderabile; nella misura in cui si desidera qualcosa, si vede una ragione per perseguirla e quindi la si vede come buona. Questo vale anche per i desideri cattivi; nella misura in cui si ha un desiderio, in quella misura l’oggetto di quel desiderio appare come qualcosa che abbiamo una ragione di perseguire, qualcosa di desiderabile, quindi di buono. È impossibile desiderare qualcosa e, in quanto lo si desidera, non vederlo come desiderabile in nessun modo. C’è un caso celebre, spesso discusso nella filosofia americana, chiamato Radio Man24. Radio Man è una persona che accende qualsiasi radio che incontra; non lo fa perché vuole sentire le notizie, o perché vuole sentire qualcosa alla radio, o perché è terrificato dal silenzio, né per una passione per l’elettronica o per vedere come funziona una macchina. Non lo fa per nessuna ragione affatto, buona o cattiva; semplicemente, ogni volta che vede una radio la accende. Non pensa che sia desiderabile, in nessun modo, accendere la radio. È intelligibile il comportamento di questa persona? Può esistere Radio Man? No, non può esistere. Desiderare qualcosa vuol dire vedere l’oggetto del desiderio, in quella misura, come buono, tale per cui c’è una ragione per perseguirlo. Un comportamento provocato da un desiderio è un comportamento per cui ci deve essere una ragione, per l’agente, di agire in quel modo.
31Vediamo ora più da vicino credenze e desideri. La credenza è una disposizione il cui rapporto al comportamento che produce consiste nell’indicare alla persona la ragione per comportarsi in quel modo. Vediamo meglio che tipo di disposizione è una credenza. Una credenza è una disposizione che dà all’individuo delle ragioni per agire in un certo modo, perché è una disposizione che consiste in un impegnarsi (to commit oneself) a pensare e agire in accordo con la presunta verità di ciò che viene creduto. Se si crede qualcosa, si ha una disposizione, consistente nell’essere tenuti a pensare e agire in accordo con la presunta verità di quello che viene creduto. Se qualcuno afferma “Credo che fuori ci sia il sole”, ma agisce invece in un modo che è apertamente in contrasto con azioni che si baserebbero sulla presunta verità di quella affermazione, allora concluderemmo: questa persona dice di credere che fuori c’è il sole, ma in realtà non lo crede. Una persona crede qualcosa, se si impegna a pensare e agire in accordo con la presunta verità di quello che crede. Ovviamente, a volte non riusciamo ad agire realmente in accordo con la presunta verità di quello che crediamo; quando scopriamo queste “mancanze” le chiamiamo così proprio per questo, perché c’è qualcosa di sbagliato in esse, non in senso morale, ma in quanto quello che facciamo infrange uno dei nostri impegni: se credo una certa cosa, non dovrei fare in un certo modo, e invece l’ho fatto.
32Quindi è inscritto nella natura stessa della credenza un impegnarsi, una sorta di vincolo normativo, a pensare e agire in modi che sono in accordo con la presunta verità di ciò che si crede, un impegno al quale talvolta possiamo mancare. Di conseguenza, se una credenza è un essere tenuti a pensare e agire in modi che concordano con la presunta verità di ciò che è creduto, ciò ha origine nella natura stessa della credenza: essere tenuti a pensare e agire in accordo con la verità presunta della credenza è un rapporto che la persona convinta di quella credenza ha con se stessa. Non sto parlando di un rapporto della credenza con se stessa, ma del rapporto che la persona persuasa di una credenza ha con se stessa. Se credo qualcosa, se mi impegno a pensare e agire in accordo con la presunta verità di ciò che credo, questo è un rapporto che io ho con me stesso: in tal modo io impegno me stesso a pensare e agire nelle maniere appropriate. Qui abbiamo il rapporto che colui che crede ha con se stesso, solo in virtù del fatto di avere una credenza, un rapporto per cui ci si impegna, si è tenuti a pensare e agire in accordo con la presunta verità di ciò che è creduto.
33E così è anche per il desiderio. Se desiderare qualcosa consiste nell’avere una ragione per perseguirla, nel vedere la cosa desiderata come buona, allora, nella misura in cui si ha questo desiderio (e solo in questa misura), ci si impegna a pensare e agire in accordo con la presunta bontà o valore o desiderabilità (non verità in questo caso) della cosa desiderata. Desiderare qualcosa significa che in questa misura si è tenuti a pensare e agire in accordo con la presunta desiderabilità, bontà, valore, di ciò che si desidera.
34Si tratta qui di un rapporto che colui che crede o colui che desidera ha con se stesso solo in virtù del fatto di credere o desiderare qualcosa, e non si è ancora detto niente riguardo al fatto che colui che crede o desidera abbia alcun tipo di conoscenza su cosa crede o desidera. Un desiderio rappresenta una cosa come desiderabile. Quindi è normale che chi ha un desiderio abbia una certa rappresentazione di ciò che desidera. Ma ciò non vuol dire che necessariamente egli sia al corrente di avere un desiderio, che conosca qualcosa intorno al desiderio che ha. Può essere completamente all’oscuro del fatto di avere quel desiderio. È una questione aperta quanto si sa dei propri desideri. Un desiderio può incorporare una certa conoscenza del proprio oggetto, ma questa è una cosa molto differente dall’eventualità che la persona che ha il desiderio abbia una qualche conoscenza del desiderio o di se stessa. La misura in cui una persona può conoscere cosa crede o desidera resta quindi del tutto aperta; ma ciò nonostante c’è un rapporto che colui che crede o desidera deve avere con se stesso solo in virtù del fatto di avere una credenza o un desiderio. Tale rapporto comporta un impegno a pensare e agire in accordo con la presunta verità o desiderabilità della cosa creduta o desiderata.
L’io normativo
35Penso che così siamo sfuggiti al paradosso e al mistero, perché tutti i paradossi e i misteri nascevano dal fatto che il rapportarsi a sé essenziale a noi stessi veniva pensato come un rapporto cognitivo. Ora, qui non abbiamo bisogno di supporre che le persone sappiano che cosa credono o desiderano. Nondimeno, il fatto stesso di avere una credenza o un desiderio implica che la persona che lo ha, in quella misura, ha un certo tipo di rapporto con se stessa, il rapporto di essere tenuta, in quella misura, a pensare e agire in accordo con la presunta verità o desiderabilità della cosa creduta o desiderata. Il rapporto a sé che abbiamo trovato qui non è un rapporto cognitivo. L’ho chiamato a volte un rapporto “pratico”, ma forse “normativo” sarebbe un termine migliore, per definirlo. È un rapporto normativo perché è un rapporto di impegno, un essere tenuti a pensare e agire in un modo che si accordi con le presunta verità o desiderabilità della cosa creduta o desiderata. Quindi questo rapporto in sé non è cognitivo, perché non dice nulla sulla eventualità che il soggetto sappia qualcosa della cosa creduta o desiderata, ma è comunque un rapportarsi a sé essenziale. Questa differenza viene a espressione quando giungiamo (non siamo obbligati a farlo) a qualche genere di conoscenza riflessiva di cosa sono le nostre credenze o i nostri desideri. Supponiamo di fare qualcosa, comportandoci in un certo modo, da una parte, e che poi, per una ragione o per un’altra, ci rendiamo conto, magari per la prima volta, che crediamo una cosa che sia incompatibile con le premesse della nostra azione. Può darsi che qualcun altro ci mostri che lo crediamo (ciò mi sembra una buona dimostrazione del fatto che è possibile a chiunque parlare di costituzione sociale dell’io, in un senso ragionevole), e che scoprire che crediamo questa cosa sia una sorpresa per noi. “Bene”, supponiamo di affermare, “lo credo, mi hai convinto”, rendendoci conto così che il comportamento da noi intrapreso non è coerente con quello che crediamo. A questo punto, o dobbiamo pensare che questo non è il tipo di comportamento che dovremmo assumere, oppure dobbiamo cambiare la credenza in questione. Questo esempio rivela la natura essenzialmente normativa, anche se non consapevole, delle credenze.
36Penso di avere evitato paradossi e misteri, ma ricordate che avevo mosso una terza critica alle teorie tradizionali della soggettività: oltre a essere paradossali e misteriose, esse non sono plausibili. Richiamo le due ragioni per cui ritengo che tali teorie non siano plausibili: 1) le teorie tradizionali pensano l’io come trasparente a se stesso, mentre è evidente che non siamo affatto trasparenti a noi stessi; 2) lo considerano “sovrano” nei confronti della propria esperienza, mentre è evidente che non lo è affatto. Il problema è quindi se la teoria che ho appena tracciato dia risposte migliori su questi due punti, se eviti autotrasparenza e sovranità.
37Ritengo che niente nel modello di soggettività che ho tracciato implichi che il soggetto debba essere particolarmente consapevole delle proprie credenze e desideri. La questione se le credenze o i desideri che il soggetto ha siano a lui noti è rimasta del tutto aperta; ed è compatibile con questa teoria il fatto che altre persone possano essere altrettanto informate quanto noi, e anche di più, delle nostre credenze e dei nostri desideri, penso anzi che questa sia una delle verità fondamentali dell’esperienza umana. Tale teoria sostiene che nelle credenze e nei desideri c’è un rapportarsi a sé che non è cognitivo, ma un rapporto a sé in virtù del quale si è tenuti a pensare e agire in accordo con la presunta verità e desiderabilità di ciò che viene creduto o desiderato. Ora, se è vero che altre persone possono conoscerci meglio di noi stessi, è anche possibile, ovviamente, che noi talvolta ci conosciamo meglio degli altri. Ma da dove viene questa conoscenza? Da un rapporto intimo con noi stessi che ci darebbe una conoscenza speciale di noi stessi? No, la cosa è molto più semplice. Ci occupiamo molto di noi stessi. Ci conosciamo meglio semplicemente perché abbiamo un maggiore interesse in noi stessi, un interesse mal riposto, forse, ma tutti siamo particolarmente affascinati da noi stessi; quindi, occupandoci molto di noi stessi, apprendiamo molte cose su di noi, raccogliamo molte informazioni. Ciò significa che non c’è niente nella natura stessa della soggettività che ci predisponga a diventare degli “esperti” di noi stessi, come se il fatto di essere un soggetto o un io ci desse una sorta di approccio “privilegiato” a noi, per cui necessariamente dovremmo avere più informazioni su noi stessi che su qualsiasi altra persona nel mondo. Ognuno di noi diventa però uno “specialista” di se stesso, perché ci troviamo interessanti e raccogliamo quindi molte informazioni su noi stessi. Non abbiamo nessuna “abilità speciale” di ottenere conoscenze su noi stessi, abilità che gli altri non avrebbero, anche perché le altre persone, collettivamente, sanno di noi più di quanto sappiamo noi; e a volte anche singole persone, in ragione di una certa specializzazione da parte loro (forse fuori luogo) nella conoscenza del nostro io, ci conoscono meglio di noi stessi.
38Il secondo aspetto non plausibile delle teorie tradizionali era che esse rendevano il soggetto “sovrano” nei confronti della propria esperienza, ma mi sembra chiaro che la teoria da me delineata non contiene niente di simile. Essa infatti implica che l’io sia ricettivo alle ragioni e non costitutivo dell’intelligibilità della sua esperienza: si è un io in quanto si credono certe cose e si desiderano certe cose, e ciò avviene in quanto ci si impegna a pensare e agire in accordo con la presunta verità e desiderabilità di ciò che si crede o desidera. In questa misura si deve essere ricettivi alle ragioni che la presunta verità o desiderabilità delle cose credute o desiderate forniscono. Questa è una teoria che vede due rapporti nella costituzione della soggettività, e due rapporti che sono, per così dire, parti di uno stesso rapporto: il primo è il rapporto che l’io ha con se stesso, ed è un rapporto che consiste nell’essere impegnati in vari modi; questo, a sua volta, è un rapporto che consiste nel fatto che l’io è ricettivo alle ragioni, è un essere in rapporto con ragioni, in un certo senso. Quindi la chiave per comprendere la natura della soggettività è di vedere come questi due rapporti siano inseparabili l’uno dall’altro: il rapporto che abbiamo con noi stessi, in virtù del quale siamo impegnati, ci costituisce, ma è un rapporto di impegno che è inseparabile da una ricettività alle ragioni, perché è solo essendo così ricettivi che ci impegniamo a comportarci secondo ciò che le nostre credenze e i nostri desideri implicano. Quindi questi due rapporti devono essere considerati come parti della stessa struttura della soggettività; lasciare fuori uno dei due e concentrarsi solo sull’altro significa non comprendere cosa è la soggettività. C’è una complessità interna, qui. Infatti, il rapporto che è ricettività alle ragioni non è un rapportarsi a sé, è una ricettività del soggetto nei confronti di qualcosa che è altro dal soggetto, cioè le ragioni; ma questo rapporto che il soggetto ha con altro da sé è parte integrante del rapporto che ha con se stesso in quanto si impegna in vari modi, i modi per i quali ha ragioni di agire, o vede ragioni di agire in una certa maniera. In breve, i due rapporti vanno insieme, ma solo uno dei due è un rapportarsi a sé, l’altro è un rapporto di ricettività nei confronti delle ragioni.
39C’è un altro corollario importante della mia teoria. Ho detto che il modo fondamentale in cui siamo in rapporto con noi stessi, che costituisce la nostra fondamentale soggettività, è un modo inscritto nel fatto stesso di avere credenze e desideri. Ne consegue quindi che ogni essere che ha credenze e desideri si qualifica come un io; o, detto più in generale, ogni essere che ha una mente è un soggetto. Questo può sorprendere, perché siamo abituati a pensare che altri animali abbiano una mente, ma non che siano degli “io”, o dei soggetti. Non vedo perché fare questa distinzione. Se hanno una mente, sono dei soggetti. Forse non sono dei soggetti “elaborati”, o “sofisticati” come lo siamo noi; il loro “repertorio mentale”, le loro abilità mentali sono meno sviluppati delle nostre, ma nella misura in cui attribuiamo una mente agli altri animali, in quanto attribuiamo loro credenze e desideri, in quella misura dobbiamo pensare a essi come a dei soggetti. Non è chiaro se tutti gli animali abbiano una mente; un ragno ha una mente? Non saprei dire. Un’ameba? Probabilmente no. Cani e gatti hanno sicuramente una mente. È quindi un corollario della mia teoria che qualsiasi essere che riteniamo abbia una mente venga considerato un io.
40Questo è quindi lo schema generale della teoria. Aggiungo solo una cosa per chiudere. Ogni teoria ha dei punti deboli, e uno dei punti deboli di questa è la questione dell’incorporazione. Non credo che sia un’obiezione decisiva, che mi costringa ad abbandonare l’intera teoria, ma è certo un punto debole, che mi ha colpito recentemente, dopo la pubblicazione del mio libro, nel cercare di rispondere a delle osservazioni giuntemi da alcuni recensori, ed è un problema che cerco di affrontare nel saggio Le moi et ses raison d’être25. In che modo il fatto che noi siamo un oggetto nel mondo che ha una relazione speciale con se stesso, cioè con il proprio corpo, incide sulla teoria dell’io che ho sviluppato? Il nostro corpo ha una relazione speciale con noi, perché è un corpo che è il nostro corpo vivente, il nostro corps propre; c’è un certo “essere proprio” del nostro corpo che è diverso da quello di qualsiasi altro corpo nel mondo. Il fatto che siamo incorporati, e in un corpo che è nostro in modo peculiare, come deve essere compreso nell’ambito di questa teoria? Nella sesta sezione del saggio citato cerco di affrontare il problema e, forse inadeguatamente, di proporre una soluzione, ma non ne sono ancora del tutto soddisfatto.
Notes de bas de page
19 Come vedremo, entrambi questi attributi vengono riferiti all’io in quanto tale, indipendentemente dal tipo di rapporto che l’io intrattiene, nelle diverse teorie, con la “mente”, la “persona” o il corpo.
20 Questo tipo di rapporto a sé (self-relatedness) non compare invece così direttamente nel termine mente (mind); inversamente, però, non si può dare un senso alla mente se non come dipendente da un io.
21 V. Descombes, Le complément de sujet, Paris, Gallimard, 2004.
22 «Thinking consists in being conscious that one thinks […]. It [is] impossible for anyone to perceive without perceiving that he does perceive […]. By this every one is to himself that which he calls self»: J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, ii.1.19 e ii.27.9.
23 E. Anscombe, Intention, Oxford, Blackwell, 1962.
24 W. Quinn, Morality and Action, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, capitolo 12.
25 Ch. Larmore, Le moi et ses raisons d’être, in V. Descombes, Ch. Larmore, Les dernières nouvelles du moi, Paris, PUF, 2008. Il problema mi è stato posto da alcuni dei primi recensori del mio libro Les pratique du moi, Paris, PUF, 2004 (trad. it. Pratiche dell’io, Roma, Meltemi, 2006), e tra di essi in particolare da Mauro Piras, che ne è tra l’altro il traduttore.
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