3. L’autonomia della morale
p. 55-75
Texte intégral
Osservazioni preliminari
1C’è una domanda filosofica che certamente tutti voi conoscete, vi siete posti, e, se insegnate filosofia, probabilmente avete sollevato con i vostri studenti, chiedendo loro di riconoscerla come un problema filosofico fondamentale: “perché devo agire moralmente?”. È una domanda antica quanto la storia stessa della filosofia morale. La troviamo per esempio nella Repubblica di Platone, all’inizio del libro ii, quando Glaucone e Adimanto chiedono a Socrate di persuaderli «che il giusto è in ogni caso migliore dell’ingiusto» (Repubblica, 357b). Questo era il modo particolare di Platone di porre la questione.
2È importante però distinguere, cosa che spesso i filosofi non fanno, tra il contesto in cui tale domanda si pone in ognuna delle nostre vite e la prospettiva dalla quale i filosofi stessi di solito hanno cercato di rispondervi. Il contesto in cui la domanda sorge è normalmente un contesto in cui abbiamo già una serie di impegni morali, ma ovviamente abbiamo anche molti altri interessi, e ci accade di renderci conto che a volte è molto difficile, se non impossibile, perseguire i nostri interessi, rispettando allo stesso tempo gli obblighi morali che ci vincolano. Quindi, in casi simili, ci troviamo in una situazione di conflitto tra le esigenze della morale in base alle quali abbiamo agito fino ad allora e altri nostri interessi, e non sappiamo che via scegliere, perché vediamo che, se teniamo fede alle esigenze della morale, siamo costretti a compromettere, o forse addirittura ad abbandonare, quegli interessi. Penso che questo sia il contesto in cui normalmente sorge la domanda al di fuori della filosofia, nella vita quotidiana.
3Ma questo contesto va perduto nel modo in cui i filosofi affrontano la questione “perché devo agire moralmente?”. Essi infatti di solito cercano una risposta non rispondendo direttamente al conflitto, così come esso sorge nella vita quotidiana, bensì muovendo da un punto di vista esterno alla morale nel suo insieme. Si tende infatti a trovare una risposta a partire da un punto di vista ricostruito nel modo seguente: si suppone di non avere, da principio, nessun impegno morale e si inizia invece con una descrizione di certi interessi e capacità di base che presumibilmente tutti gli esseri umani hanno in quanto tali – per esempio, la capacità di ragionare, l’interesse alla sopravvivenza… – e che si suppone precedano ogni obbligo morale. Un’altra componente di questo punto di vista sono alcuni dati fondamentali della condizione umana, come la mortalità, la vulnerabilità fisica, il fatto che ci troviamo necessariamente in interazione con altri esseri umani… Quindi i filosofi, a partire da questa rappresentazione generale degli esseri umani e della condizione umana, cercano di mostrare che abbiamo delle ragioni per assumere il punto di vista morale. In altri termini, l’ambizione filosofica è di persuaderci razionalmente a entrare nella morale a partire da un punto di vista definito al di fuori di essa.
4Le differenze tra i due punti di vista, quello dei filosofi e quello della vita quotidiana, vanno messe in evidenza. Nella vita quotidiana la domanda sorge come un conflitto interno a noi stessi, tra una fedeltà ad alcuni impegni morali e il coinvolgimento in alcuni nostri interessi; siamo così di fronte a due parti di noi stessi in conflitto l’una con l’altra, non in generale, ma nelle particolari circostanze in cui tale domanda sorge. Di solito il modo in cui affrontiamo e risolviamo tale conflitto è di considerare più da vicino gli impegni in causa: cerchiamo di comprendere cosa significhino, perché essi siano importanti per noi e cosa comportino, al fine di soppesare quale di questi impegni in conflitto, nelle circostanze date, sia quello che abbiamo migliori ragioni di perseguire. Questo è il modo in cui normalmente si tratta qualsiasi tipo di conflitto tra interessi o impegni contrapposti. Ciò che di solito invece non facciamo, quando ci troviamo in tali conflitti, è di sospendere del tutto la nostra fedeltà a quegli impegni in conflitto; e soprattutto, ciò che di solito non facciamo è di sospendere la nostra fedeltà alla classe intera degli impegni, di cui gli impegni particolari in conflitto sono parte. Nel contesto quotidiano in cui la domanda sorge ci troviamo di fronte a certi nostri impegni morali che entrano in conflitto con certi altri nostri interessi, e cerchiamo di determinare quale impegno abbia un maggiore diritto su di noi. Quindi in generale in tali casi non solo non sospendiamo la fedeltà a ognuno di questi impegni, ma sicuramente non la sospendiamo nei confronti di tutta la classe degli impegni morali. Tuttavia, questo è proprio ciò che fa il filosofo, poiché traduce la domanda “perché devo agire moralmente?”, che sorge da un conflitto tra impegni morali specifici e altri nostri interessi specifici, in una domanda generale: si chiede infatti se in generale dobbiamo avere un impegno nei confronti della morale nel suo insieme. Il filosofo cerca di assumere un punto di vista esterno alla morale, muovendo dalle capacità umane fondamentali e dai dati fondamentali della condizione umana, per mostrare che sulla base di simili presupposti ognuno di noi avrebbe delle ragioni per fare propria la morale nel suo insieme.
5Si potrebbe difendere l’approccio adottato solitamente dai filosofi osservando che, quando nella vita quotidiana alcuni dei nostri impegni morali ci sono d’impaccio perché ci richiederebbero di abbandonare o compromettere alcuni nostri interessi, il problema potrebbe effettivamente porsi in termini generali. Anche nella nostra vita quotidiana, in casi simili, potremmo iniziare a chiederci perché dobbiamo essere morali in generale, dal momento che siamo portati a pensare: «se è possibile infrangere questo particolare impegno morale, perché non dovrei liberarmi del tutto degli impegni morali, perché non dovrei pormi al di fuori della morale, comportarmi come chi la rinneghi?». Certo questo può accadere, è possibile pensare che, se si può tradire un impegno morale particolare, si può tradire la morale in generale. Può accadere ad alcune persone, ma è un fenomeno minoritario. Nei Pensieri di Leopardi troviamo un esempio di questo tipo di delusione morale14. Leopardi osserva che alcuni diventano malvagi non perché nati, per così dire, con una disposizione al male, non perché si preoccupino solo dei propri interessi, non perché siano mossi dalla ricerca sfrenata del piacere, ma piuttosto perché sono indignati dal fatto che le altre persone sono malvagie, e quindi vogliono come vendicarsi, diventare malvagi anch’essi. Queste sono persone veramente molto pericolose, perché hanno già un’esperienza della virtù, sanno cosa vuol dire agire moralmente; sono talmente offesi dalla bassezza morale degli esseri umani che vogliono vendicarsi dell’umanità intera, e quindi fanno una scelta generale di essere malvagi, diventando quasi degli eroi del male. Non penso però che la maggior parte delle persone faccia così, perché sono di solito delle persone comuni. Normalmente, quando ci si chiede se comportarsi immoralmente si cerca solo di fare un’eccezione. La gente non si dice: «se infrango questa regola, infrango la morale, allora perché non dovrei abbandonare la morale tutta intera?». Nient’affatto, non sono queste le cose che ci si dice quando si cede alle tentazioni morali. Ci si dice piuttosto: «infrangerò la regola solo questa volta, non è una cosa così grave, dopo mi comporterò come sempre …». Rimane quindi un’impressionante disparità tra il contesto in cui la domanda “perché devo agire moralmente?” sorge nella vita quotidiana, e il tipo di approccio o prospettiva che i filosofi normalmente hanno adottato per affrontarla.
6Nel saggio The Autonomy of Morality15 sostengo due tesi intorno agli approcci filosofici a tale tema: la prima tesi è che le giustificazioni filosofiche della morale, che cercano di convincerci razionalmente ad aderire alla morale (to reason us into morality) partendo da un punto di vista esterno a essa, falliscono sempre; la seconda è che ciò non è sorprendente, perché l’approccio filosofico a questa domanda è un fraintendimento, una distorsione della natura stessa della domanda in una forma in cui tale problema non ci si porrà mai. Ho già in parte chiarito la seconda tesi; mi concentrerò qui in particolare sull’argomentazione della prima tesi.
7Prima di procedere nell’analisi, occorre fare una precisazione. Ho affermato che, nella vita quotidiana, il modo di trattare la domanda “perché devo agire moralmente?” consiste nel prestare maggiore attenzione agli impegni morali particolari da noi accettati e agli interessi particolari il cui perseguimento è reso più difficoltoso dai primi, e nel soppesare quale tra essi abbia una maggiore importanza. Ma non presumo affatto che in tutti i casi in cui dobbiamo decidere in un simile conflitto dovremmo pensare che le esigenze morali abbiano più autorità degli altri interessi; in altri termini, non assumo, come hanno fatto molti filosofi morali, che le rivendicazioni morali debbano sempre essere collocate in una posizione suprema. Non vedo alcuna ragione per farlo.
Morale come vantaggio reciproco
8Vediamo ora più da vicino la prima tesi, vediamo cioè perché la giustificazione filosofica, che cerca di convincerci razionalmente ad accedere alla morale nel suo insieme da un punto di vista collocato al di fuori di essa, fallisca sempre. Ritengo che il fallimento sia più evidente nel caso di una particolare versione di questa strategia filosofica, che ha avuto una lunga storia e ha dato origine a una tradizione oggi ancora molto vivace: la tradizione che ha in Thomas Hobbes il suo capostipite, la cui eredità è raccolta da numerosi filosofi (penso ad autori come David Gauthier, per esempio, e a molti altri), per i quali per giustificare perché dobbiamo essere morali dobbiamo dimostrare che la morale è a favore del vantaggio razionale di ogni individuo. Questi approcci hobbesiani, così li chiamerò, cercano di introdurci alla morale mostrando che essa è un sistema di regole di vantaggio reciproco, che ognuno di noi ha ragione di adottare. Un simile approccio ha tra i suoi presupposti due concezioni fondamentali: una certa concezione della morale e, legata a essa, una certa idea della ragione, poiché in fondo quello che vuole mostrare è che ognuno di noi ha delle ragioni per rimanere fedele alla morale. Ritengo che entrambe queste concezioni, della morale e della ragione, siano sbagliate.
9Per quel che riguarda la prima concezione, la morale è pensata come un sistema di vantaggio reciproco, un insieme di regole la cui autorità su di noi si regge sul fatto che, se vi si aderisce, ognuno di noi starà meglio che se ne rimanesse al di fuori. Essa è cioè pensata come un insieme di regole la cui essenza è di essere di vantaggio per tutti, assumendo naturalmente che ognuno di noi vi si conformi. La morale viene così definita come un sistema di cooperazione o di vantaggio reciproco. Per quel che riguarda la seconda concezione, l’approccio hobbesiano opera con una specifica nozione di ragione, perché cerca di mostrare in che modo abbiamo delle ragioni per sviluppare una fedeltà a tale sistema di vantaggio reciproco. Secondo tale concezione, la ragione consiste nel perseguimento efficiente dei propri interessi; l’ho chiamata una concezione strumentale della ragione. Chiamandola così, non intendo implicare che questo sia ciò che ogni filosofo intende con l’espressione “concezione strumentale della ragione”, e soprattutto non intendo pregiudicare fin dall’inizio che essa sia una nozione “cattiva” della ragione. So che per esempio nell’ambito della Scuola di Francoforte parlare di ragione strumentale implica un giudizio negativo. Non faccio nessuna assunzione di questo genere. Chiamandola strumentale intendo solo che, secondo questo modello, quello che facciamo quando ragioniamo, e ragioniamo intorno a ciò che dovremmo fare, è cercare di soddisfare in modo efficiente il nostro interesse, qualsiasi cosa esso sia. Si tratta di una nozione molto intuitiva di ragione, che per esempio è al centro della teoria della scelta razionale, secondo cui il principio fondamentale della ragione è di massimizzare le utilità attese. Dati i nostri interessi e desideri, dovremmo sempre agire in modo tale da scegliere l’opzione che massimizza le utilità attese, cioè quella per cui la quantità delle utilità che soddisfano questi desideri è maggiore. È una nozione molto diffusa, non necessariamente sinistra, della ragione. Notate che, definita in termini così generali, non viene detto nulla sulla natura degli interessi che stiamo cercando di perseguire efficientemente; in particolare in nessun modo viene presupposto che gli interessi di una persona siano interessi rivolti a se stesso. Non viene assunto in partenza che essi siano rivolti al proprio benessere; possono essere egualmente interessi per il benessere di qualcun altro. La cosa importante è che siano interessi che uno ha; si può essere interessati al benessere della propria famiglia, o dei propri correligionari; si può avere ogni sorta di interessi, anche per il benessere dell’umanità intera (nel caso, per esempio, di Teresa di Calcutta). Il tratto caratterizzante della concezione strumentale della ragione è che ognuno di noi ha un insieme di interessi, che possono essere rivolti a se stessi, o rivolti ad altre persone, in vari modi; in ogni caso, la cosa razionale da fare è cercare di soddisfarli efficientemente, quali che essi siano. Questa è la concezione strumentale della ragione che si trova dietro l’approccio hobbesiano.
10Bisogna aggiungere che, oltre a questo, c’è un altro modo di intendere la ragione strumentale, un altro senso che però non è oggetto della mia analisi qui. A volte si parla infatti della ragione strumentale in termini di razionalità mezzi/fini (la Zweckrationalität di Max Weber), secondo cui essa viene definita come scelta dei mezzi più efficienti per realizzare fini dati. Questa seconda definizione non dice niente sulla natura dei fini, non dice neanche che tali fini siano fondati nei propri interessi, quali che essi siano. I fini dati, che cerco di realizzare al meglio scegliendo i mezzi più adatti, non sono necessariamente interessi miei, ma possono consistere semplicemente nel bene di un’altra persona. Se mi prendo cura del bene di un’altra persona e vedo in esso, proprio perché è il bene di un’altra persona, una ragione per agire, devo pensare strumentalmente in questo secondo senso se voglio fare del mio meglio per soddisfare il bene di questa persona, devo cioè scegliere i mezzi più efficienti per farlo. Tale seconda accezione non entra quindi in conflitto con un’idea non strumentale di ragionamento morale che cercherò di difendere più avanti; non entra in conflitto perché non presuppone che l’unico modo per accettare razionalmente un imperativo morale sia di legarlo in qualche modo ai miei interessi, e non presuppone questo perché accetta l’idea che i fini del nostro agire possono essere di qualsiasi natura, non necessariamente interessi propri. Il modello di razionalità strumentale che vorrei sottoporre a critica parte invece dal presupposto che i fini del nostro agire siano sempre interessi propri; per questo deve spiegare in che modo il bene di un’altra persona possa diventare mio a partire dagli altri miei interessi, dal momento che il punto di vista morale, come vedremo, è appunto il fatto di agire secondo il bene degli altri.
11L’argomento hobbesiano procede come segue: presupposto che siamo agenti razionali, definiti in questi termini, cioè operanti secondo il principio della razionalità strumentale, presupposto inoltre che abbiamo certi interessi di base, come per esempio quello alla sopravvivenza, e presupposti infine certi dati fondamentali della condizione umana (siamo vulnerabili, prosperiamo di più se beneficiamo della cooperazione degli altri…), ognuno di noi ha interesse ad aderire a un sistema di regole di vantaggio reciproco, e tale sistema è precisamente la morale.
Critica della morale come vantaggio reciproco
12Io penso tuttavia che questo argomento sia errato, per due ragioni fondamentali. La prima è che, come dato di fatto, se concediamo all’hobbesiano le assunzioni sulla base delle quali opera, cioè la concezione strumentale della ragione e la concezione dei dati della condizione umana, in realtà non abbiamo ragioni strumentali per diventare membri permanenti di un sistema di regole di vantaggio reciproco. Al massimo, abbiamo ragione di far credere agli altri che saremo fedeli a un sistema di regole di vantaggio reciproco, tenendoci però sempre pronti a sottrarvici quando ciò possa tornare a maggiore vantaggio dei nostri interessi, quali che essi siano. Quello che gli hobbesiani possono dimostrare è che ognuno di noi ha interesse a portare gli altri a credere che aderiamo al sistema di regole, perché gli altri ci minacciano a loro volta alla stessa maniera. Ma sulla base di questo modello non abbiamo ragioni per aderire sinceramente, e incondizionatamente, a un sistema di regole di vantaggio reciproco. Questo è il primo difetto nell’approccio hobbesiano: l’argomento non funziona nei suoi propri termini; non mostra veramente che ognuno di noi ha ragioni per accettare in modo permanente un sistema di regole di vantaggio reciproco, mostra solo che ognuno di noi ha ragioni per aderire a esso condizionatamente.
13Il secondo errore – che credo sia ancor più fondamentale – è implicito nelle due assunzioni che, come ho detto, guidano l’approccio hobbesiano fin dall’inizio: le concezioni soggiacenti della morale e della ragione. Prendiamo la morale come un sistema di regole di vantaggio reciproco. Ritengo che questa sia una concezione gravemente inadeguata della morale, e non nel senso che essa ne trascuri alcuni aspetti, ma perché non coglie l’essenza stessa della morale. Ciò che essa non coglie, ciò per cui essa non ha alcuno spazio, sono i doveri che abbiamo nei confronti di coloro che non possono recarci vantaggio in alcun modo, per esempio perché sono fisicamente o mentalmente invalidi, o perché sono in circostanze tali da non arrecarci alcun beneficio. Chiamo queste persone in generale i deboli, non necessariamente dal punto di vista fisico, ma perché sono incapaci di recarci un effettivo beneficio in un sistema di vantaggio reciproco. Una concezione della morale che non abbia alcuno spazio per i doveri nei confronti dei deboli non solo trascura alcuni doveri importanti, appunto quelli nei confronti dei deboli, ma non comprende la natura stessa dei doveri che abbiamo nei confronti dei forti (chiamiamoli così), cioè di quanti sono in grado di recarci vantaggio, dal momento che, da un punto di vista morale, la ragione per cui abbiamo obblighi nei confronti dei forti è la stessa per cui li abbiamo nei confronti dei deboli. Infatti, se da un punto di vista morale ho una ragione per rispettarti come persona, perché sei un altro essere umano, questa è una ragione per rispettarti comunque, che tu possa o no recarmi vantaggio. Invece, nella prospettiva hobbesiana, se sei debole non ho nessuna ragione per rispettarti; mentre avrei una ragione per rispettarti se sei forte, cioè se puoi recarmi vantaggio. Ma in realtà, dal punto di vista morale, non è questa la ragione per cui devo rispettarti; anche se sei forte ti devo rispettare, per la stessa ragione per cui ho un dovere di rispettare un debole che non può recarmi vantaggio. Il fatto che la concezione hobbesiana della morale come un sistema di vantaggio reciproco non faccia spazio ai doveri nei confronti dei deboli non inficia solo una parte della teoria, bensì l’intera concezione.
14Inoltre, tale concezione della morale omette non solo i doveri nei confronti dei deboli, ma anche i doveri nei confronti degli estranei, cioè di quelle persone che possono non essere deboli nel senso che abbiamo detto, ma che non si trovano in un’interazione stabile con noi, perché le incontriamo solo una volta e non le incontreremo più. Perché dovrei comportarmi correttamente con una persona, se non la incontrerò più in futuro? Una delle analisi più raffinate e convincenti della tesi della fondazione della morale sul vantaggio reciproco si trova nel libro dello psicologo americano Robert Axelrod, The Evolution of Cooperation16. Essa però mostra che la cooperazione sociale, in particolare se definita da una regola che Axelrod stesso ha chiamato tit-for-tat (colpo su colpo), è nell’interesse razionale di ogni individuo, ma solo a certe condizioni. La regola tit-for-tat ingiunge di aspettare di vedere cosa fa l’altra persona; se questa coopera, tu cooperi a tua volta; se l’altra persona non coopera, ma compie qualcosa di aggressivo o che non tiene conto del tuo interesse, allora tu ritorci, solo però nella misura in cui questa persona ha mancato di agire cooperativamente con te. Questa strategia tuttavia funziona solo in certe circostanze e, in particolare, solo nella circostanza che gli individui vedano se stessi come interagenti l’uno con l’altro indefinitamente nel futuro. Cioè, una volta che uno qualsiasi di questi individui può prevedere che a un certo momento l’interazione finirà, non sarà più nel suo interesse agire secondo la regola tit-for-tat.
15C’è una splendida storia che illustra questo punto, raccontata dallo stesso Axelrod nel suo libro; è una storia meravigliosa sulla Prima guerra mondiale. Negli anni della guerra di trincea, sul fronte occidentale – l’esercito anglo-francese da un lato, quello tedesco dall’altro – accadde una cosa singolare. Dopo un certo tempo, i soldati dei due lati smisero di uccidersi reciprocamente; smisero cioè di uccidere abbastanza soldati nemici da poter soddisfare i rispettivi comandi. Di fatto, tanto i soldati anglo-francesi quanto quelli tedeschi, quando sparavano, evitavano apposta di uccidere i soldati della trincea opposta. Facevano capire ai soldati nemici che avrebbero potuto ucciderli se avessero voluto, arrivando vicini al farlo; ma di fatto non li uccidevano. E questo non avvenne perché i soldati si fossero riuniti, avessero parlato e preso una risoluzione comune; semplicemente da entrambe le parti avevano immaginato che la loro possibilità di sopravvivere sarebbe stata molto maggiore, se avessero agito così: sparare in modo da mostrare di potere uccidere, se avessero voluto, ma non in modo tale da uccidere, perché altrimenti anche gli altri avrebbero sparato per uccidere e le loro possibilità di venir fuori da quella orribile guerra di trincea sarebbero diminuite. Il risultato fu che non morirono soldati in quantità sufficiente da soddisfare i comandi anglo-francesi da una parte e quelli tedeschi dall’altra; e quindi i comandi, di nuovo non perché si fossero riuniti, ma semplicemente chiedendosi che cosa avrebbero dovuto fare per riportare il conto dei morti a un livello “appropriato”, cominciarono a spostare frequentemente e arbitrariamente le unità da una trincea all’altra, così che i soldati che si trovavano di fronte non fossero gli stessi di quelli del giorno prima né del giorno dopo. In altri termini, i soldati della trincea nemica diventavano estranei. E dal momento che diventavano estranei, perché non ucciderli, e cercare di ucciderli bene, dato che altrimenti essi avrebbero ucciso a loro volta? Questa infatti è un’interazione di una sola volta (one-time interaction) tra un soldato francese, per esempio, e il soldato tedesco che gli sta di fronte. Così, ruotando costantemente e in modo imprevedibile i soldati da una trincea all’altra, i comandi poterono soddisfare le loro esigenze.
16Questa è un’illustrazione molto efficace del fatto che se si concepiscono le regole morali in termini di vantaggio e cooperazione reciproca, esse sono realmente nell’interesse razionale dei partecipanti solo finché questi si pensano in un’interazione costante con gli altri, che prosegue indefinitamente nel futuro; se invece l’interazione ha luogo una sola volta, qualsiasi ragione per cooperare tende a scomparire, come mostra questo esempio piuttosto cruento. Qui è uno degli errori fondamentali nelle assunzioni soggiacenti alle teorie hobbesiane e alla scelta razionale: un errore che dipende dall’idea stessa di morale con cui esse operano.
Critica della ragione strumentale
17Penso inoltre che ci sia qualcosa di sbagliato anche nell’idea di ragione con cui operano tali teorie, la concezione strumentale secondo la quale agire razionalmente significa perseguire e soddisfare nel modo più efficiente i propri interessi, quali che essi siano. Ora, se si suppone in generale, come io faccio, che la ragione consista nell’essere capaci di riconoscere ragioni, perché il bene di un altro, solo in quanto è il bene di un’altra persona, non può offrirmi una ragione per perseguirlo? Perché il bene di un’altra persona dovrebbe darmi una ragione per perseguirlo solo se è visto già come parte del mio proprio bene, o a esso legato ? Naturalmente questo è proprio ciò che assumono gli hobbesiani. Ma perché il bene di un’altra persona non può semplicemente darmi, per se stesso, una ragione per agire? Io penso che il punto di vista morale sia tutto qui. Perché allora la ragione sarebbe essenzialmente incapace di riconoscere ragioni di tale sorta? Perché si deve supporre che la ragione può essere solo, in questo senso, strumentale? Cosa parla realmente in favore di ciò? Come ho detto, se si deve assumere veramente il punto di vista morale, si deve vedere nel bene di un’altra persona, proprio perché è il bene di un’altra persona, una ragione per agire da parte nostra indipendente dal fatto che possa essere connesso con il nostro bene. Questo è per esempio quanto afferma Rousseau, o meglio non lui direttamente, ma il Vicario Savoiardo, nel libro iv dell’Emilio: «La conscience dépose pour elle-même»17. La morale parla da sé, è ciò che la coscienza ci dice: le richieste morali parlano per se stesse, non devono essere fondate, in un modo o nell’altro, nel nostro proprio bene, nella soddisfazione dei nostri interessi, quali che essi siano. Il semplice fatto che si tratta del bene di un’altra persona è una ragione sufficiente per perseguirlo.
18È possibile pensare che tale “voce della coscienza”, comunque la si interpreti, sia frutto di una evoluzione naturale a partire dall’interesse razionale per il proprio bene? Non credo, perché penso che questa voce della coscienza sia frutto tanto di una capacità naturale quanto di un’educazione culturale. La capacità di vedere noi stessi alla terza persona, dall’esterno, come una persona tra altre, è probabilmente innata, e ci separa dagli altri animali; non sembra essere una realizzazione culturale, ma una capacità inerente alla ragione. Come la acquisiamo, non lo so; ma forse non è così importante. Tutti noi abbiamo questa capacità di guardarci dall’esterno. Guardandoci dall’esterno possiamo quindi vedere che il bene di un’altra persona è importante quanto il nostro bene. Questo però non basta, perché posso riconoscere che il bene di un’altra persona è importante quanto il mio, dal punto di vista dell’universo, ma questo non decide ancora niente. Perché dovrei agire da questo punto di vista, e non dal mio, per quanto io veda anche il primo? È qui che entra in gioco la cultura, è in questo senso che veniamo acculturati alla morale. Il processo culturale consiste nell’insegnarci ad assumere quel punto di vista esterno come base per prendere le nostre decisioni, in modo tale che ci interessiamo al bene dell’altro per se stesso. Penso quindi che il punto di vista morale abbia le sue radici tanto nella natura stessa della ragione quanto nell’addestramento, nell’abitudine, nella cultura. Perciò non è possibile convincere razionalmente qualcuno ad assumere il punto di vista morale dicendogli semplicemente: “solo perché sei un essere razionale puoi adottare la prospettiva della terza persona per giudicare te stesso, puoi vedere che dal punto di vista dell’universo tu non sei più importante di chiunque altro”. Provate a mostrare a qualcuno che egli, dal punto di vista dell’universo, non è più importante di chiunque altro. Certo, potete anche riuscirci, perché però dovrebbe prendere le sue decisioni proprio a partire da tale punto di vista? Le prenderà invece dal suo punto di vista, che è quello dei suoi interessi. È qui che probabilmente interviene la cultura, grazie alla quale veniamo educati a basare le nostre decisioni sulla prospettiva della terza persona.
19Il punto di vista morale, quindi, non è “deducibile” dalla ragione strumentale e dalla cooperazione sociale come sistema di vantaggio reciproco, perché, quando arriviamo a riconoscere delle ragioni morali, siamo già dentro tale punto di vista, in parte grazie al processo di acculturazione. La risposta alla domanda “perché devo agire moralmente?”, se affrontata nei termini generali in cui i filosofi l’hanno posta, cioè chiedendosi non se devo aderire a un particolare obbligo morale, ma se in generale devo aderire alla morale, non è un argomento che possa convincerci a riconoscere la morale da qualche punto di vista esterno a essa. Tutto quello che possiamo fare è semplicemente vedere le ragioni che la morale stessa ci dà, tutto ciò che dobbiamo fare è vedere e riconoscere le ragioni che il bene di un’altra persona ci dà, in e per se stesso, solo perché è il bene di un’altra persona.
20Per tornare quindi al problema delle ragioni, la mia domanda è: perché supporre che la ragione sia incapace di fare ciò, perché supporre, come fanno gli hobbesiani, che io possa vedere nel bene di un’altra persona una ragione per agire solo se ho degli interessi in qualche modo connessi con esso? Perché il bene di un’altra persona, in se stesso, non può darci una ragione per agire? Se non riusciamo a capire questo, non riusciremo a capire l’ingiunzione biblica «Ama il prossimo tuo come te stesso». Questa frase vuol dire «prendi interesse al bene del tuo prossimo, un interesse diretto e immediato come quello che hai naturalmente per te stesso». Amare il proprio prossimo come se stessi significa vedere il bene di un altro come una ragione immediata di azione, da parte propria, come si vede nel proprio bene una ragione di azione. Se vogliamo capire come la ragione possa fare ciò, dobbiamo abbandonare la concezione strumentale della ragione.
21Bene, a questo punto gli “strumentalisti”, hobbesiani o teorici della scelta razionale, direbbero senza dubbio che sto diventando misterioso: come è possibile vedere o riconoscere nel bene di un’altra persona una ragione per agire? Questo è solo un dichiarare con un fiat che la loro concezione è sbagliata e la mia è giusta. Risponderò nel modo seguente. Prendiamo in esame il caso della prudenza in se stessa, cioè il caso in cui si vede nel proprio bene una ragione per agire. Si può essere convinti da un’argomentazione a prendere il proprio bene come una ragione per agire? L’hobbesiano, lo strumentalista, sostiene infatti che abbiamo bisogno di un argomento per essere convinti a vedere nel bene di un’altra persona una ragione per agire, e di un argomento che mostri in qualche modo che il bene dell’altro è connesso con il nostro. Ma prendiamo la prudenza in sé, cioè il fatto di vedere nel nostro bene una ragione per agire. Perché dovremmo aver bisogno di un argomento che ci convinca a vedere nel nostro bene una ragione per agire? Come potrebbe essere fatto un simile argomento? Ovviamente, non serve a niente rispondere “è prudente essere prudenti”, perché è un’argomentazione manifestamente circolare. In realtà non è neanche concepibile un qualsiasi argomento che ci convinca che il nostro bene è una ragione per agire in un certo modo. Quindi, in che modo vediamo nel nostro bene una ragione per agire? Di nuovo, penso che la risposta sia piuttosto ovvia: non per via di un argomento, ma perché vediamo, riconosciamo nel nostro bene una ragione per agire da parte nostra, cioè vediamo le ragioni che ci sono per essere prudenti, dato che è il nostro bene, e che non è momentaneo ma dura nel tempo. Questo è il modo in cui riconosciamo le ragioni della prudenza, non perché veniamo convinti da una serie di argomentazioni, ma semplicemente riconoscendole, perché esse sono là per essere riconosciute. Qual è dunque la difficoltà nel dire la stessa cosa di ragioni che sono fondate nel bene di un’altra persona? Non è necessario, e forse nemmeno possibile, essere persuasi razionalmente a riconoscere la loro autorità; riconosciamo la loro autorità precisamente allo stesso modo in cui riconosciamo l’autorità che ha il nostro bene come fonte di ragioni per le nostre azioni. C’è quindi una grande saggezza nella frase «Ama il tuo prossimo come te stesso», perché contiene una critica dello strumentalismo.
22Le due critiche che ho condotto, alla concezione della morale e alla concezione della ragione, mostrano perché sia impossibile derivare la morale in senso proprio da un sistema di vantaggio reciproco e dal solo uso della ragione strumentale quale è definita dai teorici della scelta razionale. Esiste però una posizione che cerca di rispondere a queste critiche con una concezione evolutiva, secondo la quale le convenzioni si formano tramite un processo. È una ipotesi formulata, tra gli altri, da Hume. Una convenzione, intesa come un insieme di regole che permettono di trattarci l’un l’altro, è radicata in primo luogo nella cooperazione sociale, e viene costituita in un primo momento da coloro che traggono beneficio da tale sistema. Ma in seguito viene investita da un riconoscimento normativo e quindi inizia ad assumere la forma della morale. Ora, mi piacerebbe davvero sapere cosa significa “investita da un riconoscimento normativo”, perché ho l’impressione che l’unico modo in cui qualcosa può essere investito da riconoscimento normativo in modo da essere riconoscibile come morale è di lasciarci alle spalle l’idea di vantaggio reciproco18. Devo ammettere che ho poca pazienza con la filosofia fatta sulla base dell’evoluzione, perché spesso si tratta di teorie evolutive elaborate a tavolino, difficilmente sostenute da dati empirici. Proviamo però a fare questa filosofia evolutiva a tavolino. Supponiamo che gli esseri umani abbiano iniziato, a partire da ogni genere di bisogni e necessità, con lo sviluppare sistemi di cooperazione sociale e che quindi, nella storia dell’umanità, si siano formate queste regole di vantaggio reciproco. In fondo è del tutto possibile che sia successo. A tal proposito, direi che naturalmente anche oggi, dal punto di vista psicologico, siamo mossi molto di più da ragionamenti strumentali, volti a soddisfare i nostri interessi, che da ragionamenti morali. Ci basta leggere i giornali o interagire con alcune persone per vedere che la motivazione morale ha un ruolo marginale nella vita sociale. Il proprio bene è, agli occhi di ciascuno, il più rilevante. Immaginiamo quindi che nella storia dell’umanità gli esseri umani abbiano sviluppato anzitutto sistemi di regole per promuovere i propri interessi, tramite la cooperazione con gli altri. Ma, continuando in questa ricostruzione ipotetica, si può presumere che a un certo punto tutti presupponessero ormai l’esistenza di un sistema di cooperazione sociale. Ciò vuol dire che, già solo sulla base della cooperazione sociale, ognuno dovesse poter assumere il punto di vista della terza persona su se stesso, perché, se voleva farsi un’idea di come agire, doveva vedere se stesso come gli altri lo avrebbero visto, dal momento che la sua azione dipendeva da come egli poteva prevedere quella degli altri, e tale capacità di previsione dipendeva a sua volta da come gli altri guardavano a lui. Quindi, non era possibile attivare la cooperazione sociale se non si era capaci di assumere la prospettiva della terza persona. Ma supponiamo che a questo punto arrivi una persona particolarmente intelligente, chiamiamola per esempio Mosè, che dica: dato il punto di vista della terza persona, che ci permette di vedere come gli altri perseguono il loro proprio bene, non possiamo decidere il promuoverlo, indipendentemente dalla misura in cui, cooperando con noi, possono procurarci dei vantaggi? Questa persona intelligente estende il punto di vista della terza persona, che è già implicito nella cooperazione sociale, lo amplia e vi vede delle nuove risorse. Vede che dal punto di vista della terza persona si può fare qualcos’altro, che lo si può usare non solo per cercare di muoversi nel modo migliore per i propri interessi, ma per vedere che qualsiasi individuo ha un proprio bene da perseguire, e che ognuno di essi ha altrettanta ragione di perseguire il bene degli altri che di perseguire il proprio bene.
23Quindi, con un atto d’immaginazione teoretica, ciò che all’origine era un modello di cooperazione sociale viene trasformato in ciò che è, nel pieno senso della parola, morale. Se è questo che vuol dire “investito da un riconoscimento normativo”, allora sono d’accordo, perché significa esercitare l’immaginazione teoretica, estendendo il punto di vista della terza persona e vedendo in esso potenzialità di natura morale. Penso che ciò sia accaduto nell’evoluzione umana in generale, non solo per la morale, ma anche in altri ambiti, per esempio con il linguaggio. Probabilmente gli esseri umani non hanno inventato il linguaggio per diventare poeti; se hanno sviluppato questa facoltà, si può supporre che ciò sia avvenuto per rispondere a esigenze di sopravvivenza. Ma con il linguaggio potevano fare altre cose, oltre a sopravvivere; potevano fare poesie, per esempio. Ci voleva però qualcuno di particolarmente intelligente per vedere in quello che originariamente era uno strumento, utile alla sopravvivenza, una nuova potenzialità. E penso che lo stesso possa essere accaduto con la cooperazione sociale, nel momento in cui si è trasformata in qualcosa di totalmente diverso, cioè la morale. Quindi, ciò che io intendo con “investita da riconoscimento normativo” è che fu realizzato un grande salto, cioè il salto dalla cooperazione sociale alla morale.
Ragione, ragioni e autonomia
24Spero di avere reso convincente l’idea che le ragioni sono là per essere riconosciute, siano esse relative al nostro bene o a quello di altri. Il problema è quali ragioni ci sono, e lo scopriamo occupandoci di noi stessi e degli altri, e vedendo quali ragioni ci sono per credere o fare qualcosa. In generale, la ragione stessa, intesa come facoltà mentale, è una capacità il cui esercizio consiste nel rispondere a delle ragioni. L’italiano, come l’inglese, ha lo svantaggio di usare lo stesso termine per la capacità e per l’oggetto, “ragione”. Non credo che il tedesco sia “il” linguaggio filosofico, come sostengono alcuni filosofi tedeschi, ma esso in effetti ha il vantaggio di usare due termini diversi, Vernunft e Grund. Così, in tedesco, direi: die Vernunft ist das Vermögen, Gründe anzuerkennen. La ragione è la capacità il cui esercizio consiste nel riconoscere le ragioni e nel rispondere a esse. Si tratta di una concezione generale della ragione di cui la morale è un caso particolare. Per questo penso che, dal momento che le ragioni sono là per essere riconosciute, non si può dire, come sostiene Kant, che esse traggano la loro autorità dalla ragione: i Gründe non traggono la loro autorità dalla Vernunft, perché la ragione come facoltà è solo la capacità di rispondere alle ragioni che ci sono. Kant non coglie il punto più importante, poiché ritiene che la ragione (non solo dal punto di vista morale, la ragion pratica, ma in generale: si veda la Premessa alla seconda edizione della Critica della ragion pura) sia autrice dei suoi propri principi, ossia essenzialmente autolegislatrice. Ma tale nozione kantiana di autonomia è incoerente proprio perché la ragione (Vernunft) è la capacità il cui esercizio consiste nel rispondere alle ragioni, e non nell’autorizzare le ragioni (Gründe), o nell’istituire le ragioni, o nel legiferare le ragioni.
25Una precisazione. Ciò che critico nella nozione kantiana di autonomia è la relazione tra la ragione (la facoltà) e le ragioni intese come le regole e i principi che guidano il nostro pensiero e la nostra azione, cioè l’idea di autonomia come autolegislazione, per la quale Kant usa il termine Autonomie. Non intendo però affatto criticare un altro uso attuale del termine, che riguarda non la relazione tra la ragione e i suoi principi, ma piuttosto la relazione tra la ragione di un individuo e altri individui. L’autonomia, ai nostri giorni, è spesso riferita all’individuo, cioè al diritto di pensare e agire per se stessi, e di non essere sottoposti all’influenza o al potere di altre persone o delle consuetudini. Sono del tutto favorevole a una simile autonomia individuale, per quanto veda in essa alcuni problemi. Non sto criticando questo concetto ora. Penso che sia degno di nota che Kant stesso non usi mai il termine Autonomie per parlare della relazione tra la ragione di un individuo e quella di un altro. Nel celebre saggio Che cos’è l’illuminismo?, in cui difende il diritto dell’individuo di pensare per se stesso, il termine Autonomie non viene mai usato, lo è solo negli scritti teoretici come la Fondazione della metafisica dei costumi o la Critica della ragion pratica, dove il tema è il rapporto tra la ragion pratica e i suoi principi.
26Penso che non possiamo rendere sensata l’idea che la ragione sia autrice dei suoi propri principi. Indubbiamente esistono alcuni casi in cui siamo autori delle nostre stesse regole, in cui l’unica autorità della regola è il fatto che noi, individualmente o collettivamente, l’abbiamo imposta a noi stessi. Le regole della circolazione, per esempio. Perché devo guidare sul lato destro della strada? Perché è una convenzione che abbiamo imposto a noi stessi, e che potrebbe essere del tutto diversa. È quindi una regola la cui autorità poggia interamente su di noi come autolegislatori, non individualmente ma collettivamente. E, individualmente, io posso imporre a me stesso di seguire un certo tipo di regola; per esempio, conoscendo le mie debolezze, non prendere in prestito troppo dagli altri. Impongo quindi a me stesso una regola la cui autorità è radicata nella mia capacità di dettare legge a me stesso. Ma vediamo cosa succede in questi due casi di autolegislazione. Sono regole che imponiamo a noi stessi perché pensiamo di avere delle ragioni per fare così. Ci sono ottime ragioni per regolare il traffico in due direzioni distinte e separate. E se sono debole di carattere, ho delle ragioni per non prendere in prestito denaro dagli altri. Ma le ragioni che abbiamo per imporre da autolegislatori delle regole a noi stessi non sono a loro volta frutto di questa autolegislazione, individuale o collettiva. Sono invece ragioni che riconosciamo come buone ragioni per imporci collettivamente o individualmente delle regole. Quindi, l’idea kantiana della ragione (Vernunft) come qualcosa che è nella sua essenza autolegislazione, l’idea kantiana di autonomia, è incoerente. E che sia così è, come abbiamo visto, facile da dimostrare.
27Ci si potrebbe chiedere allora: perché Kant ha sostenuto una simile tesi? Io penso che spesso in filosofia pensatori molto acuti formulino tesi insensate perché non vedono alternative. Arrivati a un certo punto di un ragionamento, ritengono di non poter più andare avanti, se non pensano che una certa cosa è vera. Quindi, se vogliamo capire perché Kant ha sostenuto questa nozione di ragione, autonomia e autolegislazione, dobbiamo vedere cosa lo preoccupava. Penso che la diagnosi sia la seguente. Kant voleva pensare alla ragione come a un’autorità, voleva riscattarla dallo scetticismo humiano, ma allo stesso tempo era anche convinto che il mondo dell’esperienza fosse quello descritto da Newton: tutto ciò che si trova nella realtà è ciò che ci dicono le scienze naturali. E ovviamente, come è noto, il mondo descritto dalla meccanica classica di Newton non ha spazio per niente di normativo, né valori, né norme, né ragioni. Kant voleva riscattare la ragione, ma non poteva dire che esistessero nel mondo delle ragioni, dal momento che il mondo cui faceva riferimento era quello descritto da Newton. Quindi è costretto a giungere all’idea della ragione come autolegislatrice, come unico modo possibile per tenere la descrizione newtoniana della realtà e insieme considerare la ragione come una facoltà capace di guidarci nel pensiero e nell’azione. Perciò è necessario che la ragione sia in se stessa l’autrice, l’origine, la fonte delle ragioni. Ma come ho detto, questa concezione per se stessa, se la si considera da vicino, collassa molto rapidamente.
La natura normativa delle ragioni
28Alcune parole ora sulle ragioni, e sulle ragioni come qualcosa a cui noi rispondiamo. Come ho detto, le ragioni sono lì, dato che si risponde a esse. Ma cosa sono le ragioni? Penso che sia utile iniziare con un esempio ordinario. Supponiamo che fuori stia piovendo e che questo fatto ci dia una ragione per prendere un ombrello. Se diciamo questo, è perché pensiamo che il fatto fisico che fuori stia piovendo conti a favore di una certa azione da parte nostra: prendere un ombrello quando usciamo. Questo è ciò che intendiamo normalmente quando diciamo che abbiamo una ragione di prendere un ombrello: abbiamo una ragione di prendere un ombrello perché un certo fatto, uno stato di cose nel mondo – il fatto che sta piovendo, uno stato di cose fisico – conta a favore di una certa possibilità di azione da parte nostra, la possibilità di prendere un ombrello. Ciò indica che le ragioni sono essenzialmente di carattere relazionale: esse consistono nella relazione costituita dal rapporto di certi fatti nel mondo (in questo caso fisici) con le nostre possibilità di azione. Ovviamente a volte non sono tanto fatti fisici nel mondo, quanto fatti psicologici che ci danno una ragione di fare qualcosa. Se per esempio tu credi che fuori stia piovendo, e la tua generale affidabilità nel riportare il tempo che fa può darmi una ragione per prendere un ombrello, anche se io non vedo questo fatto fisico nel mondo, allora un certo fatto psicologico relativo a te può darmi una ragione di prendere un ombrello: tu affermi così e generalmente sei affidabile.
29Le ragioni, quindi, sono di carattere relazionale e consistono nel modo in cui certi fatti nel mondo – fisici o psicologici – possono contare a favore di certe possibilità di azione da parte nostra. Ma oltre a essere relazionali, esse sono anche normative; infatti, se ho una ragione di prendere un ombrello, allora è vero che dovrei prendere un ombrello. Il fatto di contare a favore della relazione è in se stesso manifestamente una relazione normativa. In generale possiamo tradurre una frase come “Mary ha una ragione di prendere un ombrello” nella frase “Mary dovrebbe prendere un ombrello”. Quindi le ragioni sono non solo relazionali, poiché mettono in relazione un fatto nel mondo con una certa possibilità di azione, ma anche normative. Infine, oltre a essere relazionali e normative, sono reali. Intendo con ciò che noi scopriamo le ragioni, cerchiamo di trovare quali sono le ragioni di fare o di credere qualcosa; possiamo quindi sbagliarci su quali ragioni esistano effettivamente. Perciò in generale sostengo che noi rispondiamo alle ragioni. In tale senso le ragioni sono reali: esse sono cose – relazioni normative – intorno alle quali possiamo formare credenze false o vere. Possiamo pensare che abbiamo delle ragioni di fare o credere qualcosa, ma possiamo anche sbagliarci al riguardo, quindi c’è una realtà che stiamo cercando di cogliere correttamente: le ragioni che esistono per fare o pensare qualcosa. Ecco perché le ragioni sono reali, oltre a essere normative e relazionali.
30Io stesso ho chiamato la mia posizione platonismo, ma questa definizione va specificata. Non penso che le ragioni occupino un regno speciale, separato, che si trovino in qualche cielo o qualcosa del genere; in fondo, sono di natura relazionale, e ciò significa che non ci sarebbero ragioni se non ci fossero esseri umani. O forse più in generale: non ci sarebbero ragioni se non ci fossero esseri nel mondo (di cui forse gli esseri umani sono solo un genere, se contiamo anche gli animali) che hanno possibilità di azione, e possibilità tra le quali essi scelgono sulla base di ciò che vedono essere vero nel mondo. Se non ci fossero esseri che possono rispondere al mondo scegliendo tra possibilità di cui dispongono non ci sarebbero ragioni. Cioè non ci sarebbero ragioni, se non ci fossero esseri che possono agire sulla base di ragioni. Ma allo stesso tempo queste ragioni sono reali, cioè sono parte della realtà, perché sono indipendenti dalle nostre credenze intorno a quali ragioni abbiamo, dal momento che tali credenze possono essere sbagliate, e molto spesso lo sono. Le ragioni sono indipendenti dalla mente nel senso che sono indipendenti dalle credenze intorno alle ragioni realmente esistenti. Ma non sono indipendenti in sé, perché se non ci fossero nel mondo esseri con menti, non ci sarebbero esseri con la possibilità di scegliere, e quindi non ci sarebbero ragioni. Perciò in quest’altro senso si può dire che le ragioni sono dipendenti dalla mente. Ma ciò non implica che le ragioni siano “mentali”, che esse siano “nella mente”, che siano parte della mente. Le credenze e i desideri sono parte della mente, e rispondono alle ragioni che ci sono, correttamente o scorrettamente. Le ragioni non esisterebbero se non ci fossero delle menti, ma le ragioni non sono mentali. Esse sono cose, nel senso più ampio del termine, intorno alle quali possiamo essere nel giusto o sbagliarci.
31Un’ulteriore precisazione. Ho usato spesso l’espressione “vedere le ragioni”. Che senso ha la parola “vedere” in questo contesto? Ovviamente, non intendo niente che riguardi il vedere fisico, la sensazione; in tale senso l’uso di questo verbo è accidentale, potrei infatti servirmi allo stesso modo del verbo “riconoscere”, che non comporta nessun genere di visione nel senso abituale. Ma il senso in cui l’espressione “vedere una ragione” non è accidentale è che vedere è un modo di rapportarsi al mondo che ha un aspetto essenzialmente “ricettivo”: ciò che si vede è ciò che si trova lì, e quando lo si vede si risponde, si reagisce a esso. È questa ricettività che intendo incorporare nella mia concezione del modo in cui “scopriamo” ragioni per agire moralmente: noi rispondiamo, reagiamo alle ragioni che ci sono. In questo senso la scelta della parola “vedere” non è accidentale; ma ovviamente non è un vedere in senso letterale.
32Quest’agente morale, capace di vedere le ragioni, di rispondere a esse, potrebbe sembrare una sorta di agente senza luogo né identità, e questa sarebbe una visione piuttosto ristretta non solo di cosa è una persona ma di cosa è in gioco nella morale. Noi infatti non siamo semplicemente all’inseguimento di ragioni morali, abbiamo anche una concezione di noi stessi, un senso del nostro io, di ciò a cui teniamo, di cosa vuol dire tradire o affermare noi stessi… In particolare, sul terreno pratico, non siamo solo alla ricerca di ragioni per agire, ma cerchiamo di restare fedeli a ciò a cui teniamo, forse anche dopo un eventuale tradimento. In effetti, la rappresentazione che ho dato della morale non rende del tutto giustizia a questo aspetto del nostro io. Va detto però che, se è vero che le concezioni di noi stessi sono importanti, esse sono fondate nella nostra abilità di cercare ragioni; non possiamo infatti rendere conto della nostra concezione di noi stessi, di cosa significa essere fedeli a noi stessi, se non nei termini di essere fedeli a ciò che per noi conta come una buona ragione per agire. Penso quindi che la concezione di sé sia sempre fondata nelle ragioni che si hanno per fare qualcosa; non esiste modo di avere un’idea di sé che non sia fondata in quest’abilità di riconoscere le ragioni.
33Infine, un’altra possibile obiezione è che se esistono realmente ragioni morali, qualcuno potrebbe essere capace di trovare quali sono e di capire cosa richiede la morale. Perché dovremmo pensare che siamo davvero capaci di riconoscere le ragioni morali, dal momento che dopo tutto siamo molto limitati come esseri umani, nelle nostre capacità cognitive? L’obiezione può essere sviluppata come segue. Supponiamo che esistano ragioni morali per l’azione e che siano così un oggetto di conoscenza allora la morale sarebbe più o meno come la scienza, in quanto solo una élite specializzata potrebbe arrivare a conoscerla, e quindi questi esperti morali ci direbbero cosa è giusto fare, così come gli esperti ci dicono che cosa è vero per esempio nella meccanica quantistica. Quindi ci rimetteremmo al giudizio degli esperti morali, così come ci affidiamo a quello dei fisici. Se la morale è fondata nella conoscenza di ragioni morali, ciò vuol dire che solo alcuni sanno cosa è giusto, e gli altri dipendono in questo dagli esperti. Ma così si perderebbe ciò che riteniamo essenziale della morale, cioè che ognuno di noi, solo in quanto essere umano, dovrebbe essere capace come ogni altro di determinare quello che deve fare moralmente. C’è quindi qualcosa di sbagliato, prosegue l’argomento, nell’idea che la morale sia un tipo di conoscenza. La morale non è affatto una forma di conoscenza, non è una questione di trovare che cosa è vero nel senso di indipendente, di appartenente a un regno morale esterno a noi; essa appartiene invece a ognuno di noi, quando esercita la propria ragion pratica, non conoscendo cose, ma con la capacità di autolegislazione a partire da principi razionalmente evidenti. Questo ragionamento è frequente, dal punto di vista kantiano. Molti kantiani pensano che se si fonda la morale nella conoscenza di fatti morali, si autorizza la possibilità che ci siano esperti in conoscenza morale, e questo sarebbe un tradimento della morale. Ho discusso a lungo su questi temi con Luc Ferry e Alain Renaut.
34Penso però che in un certo senso esistano davvero degli esperti morali. È vero che le ragioni morali sono accessibili a tutti; almeno i principi elementari della morale sono tali che ognuno di noi, con una ragione normalmente funzionante, è capace di coglierli. Ciononostante esistono esperti morali, e non credo che questo dovrebbe inquietarci. Di che genere sono questi esperti? Supponiamo di essere tutti egualmente convinti che sia giusto ridistribuire la ricchezza in modo tale che i poveri abbiano abbastanza risorse da poter esercitare effettivamente i loro diritti di cittadinanza su una base di eguaglianza con coloro che hanno più risorse. Tuttavia, sapere esattamente cosa vuol dire avere abbastanza risorse in questo caso non può essere determinato facilmente da chiunque. È per questo che abbiamo gli scienziati sociali, delle persone incaricate in modo speciale di definire come implementare certi principi fondamentali. Ritengo quindi che nell’impresa della morale ci sia una sorta di divisione del lavoro, tra i principi, che tutti noi siamo in grado di vedere, e la loro messa a punto, implementazione e specificazione, che devono essere lasciate agli esperti. Sono essi che devono definire quale può essere il livello adeguato di risorse perché un individuo possa esercitare i propri diritti di cittadinanza; ma quando fanno questa ricerca, applicano la loro conoscenza morale. So che spesso l’idea degli esperti morali inquieta. Ma non ce n’è ragione; ci sarebbe soltanto se i principi fondamentali della morale fossero accessibili esclusivamente a loro.
35La morale filosofica di tutto questo è che il naturalismo è sbagliato. Per naturalismo intendo una concezione della realtà straordinariamente influente ai nostri giorni, secondo la quale possono essere dette reali in senso proprio solo la natura e la mente, cioè gli stati di cose fisici e psicologici. Nella versione di Kant: tutto ciò che è reale è il mondo descritto da Newton. Spesso anche i fatti psicologici vengono ridotti ai fatti fisici. Nel mondo quindi non esiste niente che sia essenzialmente normativo. Si tratta di un’ideologia estremamente diffusa (la chiamo ideologia perché è molto influente e quasi incontestata nonostante le sue debolezze), che si estende ben oltre l’ambito filosofico, unendo persone molto lontane su altre questioni specifiche. Essa influenza non solo filosofi “ufficialmente” naturalisti, come per esempio Daniel Dennett, ma guida anche pensatori razionalisti come Kant, o spiriti religiosi come Pascal; sembra trascendere ogni tipo di differenza filosofica, mettendo d’accordo autori così diversi. Ma penso che sia fondamentalmente falsa, se cerchiamo di rendere conto della nostra esperienza.
Notes de bas de page
14 G. Leopardi, Pensieri, xvi.
15 Cfr. Ch. Larmore, The Autonomy of Morality, in The Autonomy of Morality, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, capitolo 5.
16 Cfr. R. Axelrod, The Evolution of Cooperation, New York, Basic Books, 1984; trad. it. R. Petrillo, Giochi di reciprocità. L’insorgenza della cooperazione, Milano, Feltrinelli, 1985.
17 J.-J. Rousseau, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1969, vol. iv, p. 600.
18 Cfr. Ch. Larmore, The Autonomy of Morality, cit.
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