2. Giustificazione, verità, corrispondenza
p. 41-54
Texte intégral
Come giustificare una teoria morale
1Nel corso della lezione sull’eterogeneità della morale ho parlato del problema generale che consiste nello scoprire la struttura interna della nostra esperienza morale, e ho proposto una spiegazione di che cosa sia questa struttura interna. Ho concluso che in definitiva non si tratta di un unico principio, ma di un insieme di principi fondamentali del ragionamento morale.
2Ovviamente, quando ho cominciato ad analizzare quella che chiamo la nostra “esperienza morale”, non ho semplicemente passato in rassegna tutte le diverse cose che le persone dicono e provano quando si esprimono su quello che la morale richiede. Piuttosto, mi sono concentrato esclusivamente su ciò che chiamo i nostri “giudizi morali ponderati”, ed è a partire da questa definizione che ho elaborato la teoria del ragionamento morale che ho proposto. Ho quindi preso in considerazione e ho sempre fatto riferimento ai giudizi morali ponderati così definiti, cioè a quegli elementi della nostra esperienza morale che consideriamo nelle sue espressioni migliori e massimamente capaci di rispondere al bene degli altri. Pertanto la teoria del ragionamento morale da me proposta si è sviluppata e, se si vuole, è stata testata, in riferimento a un modello, o a un’interpretazione, della nostra esperienza morale.
3Quest’interpretazione è essa stessa nondimeno passibile di essere messa in dubbio; io faccio riferimento a quelli che io penso siano i nostri giudizi ponderati, ma qualcun altro potrebbe ritenere che la mia interpretazione dell’esperienza morale sia difettosa in vari modi. Si potrebbe pensare che ciò a cui faccio ricorso per giustificare la mia teoria del ragionamento morale sia quindi solo il risultato di un mio modo peculiare di interpretare l’esperienza morale e che un’altra persona potrebbe darne una versione molto differente.
4Dal momento che ho presentato la mia teoria in riferimento a un modello interpretativo della nostra esperienza morale o dei nostri giudizi ponderati, ci si potrebbe a questo punto domandare in base a quale criterio io pretenda di affermare che la mia teoria è vera. In altri termini, ci si può chiedere se posso affermare che la mia teoria corrisponde o, meglio, rispecchia, la reale natura della moralità in se stessa, solo perché ho messo in luce che la teoria dell’eterogeneità della morale combacia con una certa interpretazione della nostra esperienza morale (che ho definito come i “nostri giudizi morali ponderati”).
5Ora, questo solleva una domanda ancor più generale, che va al di là della particolare teoria morale da me proposta, così come di qualsiasi altra specifica teoria della morale. E questa domanda molto generale è la seguente. Ogni qual volta affermiamo che una certa teoria è giustificata, lo diciamo in riferimento a quello che riteniamo essere la realtà del suo oggetto. Ovviamente ci rendiamo conto che la realtà alla quale stiamo cercando di adattare la teoria alla luce di certe credenze e convinzioni, che noi forse possiamo considerare salde o ben ponderate, è tuttavia sempre un’immagine della realtà che, in linea di principio, può essere messa in dubbio. In altri termini, gli altri potrebbero non essere d’accordo non solo con la teoria proposta, ma potrebbero anche, e a ragione, essere autorizzati a mettere in dubbio la stessa concezione dell’esperienza morale sullo sfondo della quale si è sviluppata o alla quale voleva essere congruente la nostra teoria. Quindi, in generale, nei termini cioè di una domanda filosofica veramente generale, dobbiamo chiederci: in che senso possiamo affermare che una proposizione o una teoria giustificata è vera, se il senso in cui è vera è che corrisponde alla realtà, e la realtà alla quale la teoria dovrebbe adattarsi è una realtà che conosciamo alla luce di certe credenze, convinzioni e interpretazioni che sono esse stesse rivedibili? Si potrebbe perfino arrivare a dire – come tanti filosofi hanno fatto – che la sola cosa che possiamo ragionevolmente dire a proposito di una qualsiasi teoria giustificata è che, nella migliore delle ipotesi, essa è adeguata al modo in cui vediamo il mondo e la realtà, e non che è giustificata in riferimento al mondo o alla realtà stessa.
6Questa è la questione controversa che affronto in Storia e verità10. In quel contesto ho provato a suggerire che l’argomentazione scettica che cerco adesso di ricostruire è frutto di un errore. Tale argomentazione scettica sostiene questo: qualsiasi teoria che sia giustificata lo è sulla base di quella che consideriamo la realtà del suo oggetto, e ciò che intendiamo con “realtà” non è altro che l’oggetto stesso per come lo vediamo, cioè una certa sua interpretazione, che è esposta a dubbi tanto quanto la teoria stessa; ma se questo è vero, possiamo veramente supporre che una teoria che è giustificata corrisponda alla realtà del suo oggetto, anziché essere semplicemente una teoria che si adatta alla nostra interpretazione di tale oggetto? In che senso possiamo dire che una nostra teoria che è giustificata corrisponde alla realtà, anziché a una sua interpretazione? Questa è una dottrina scettica che è stata formulata da molti filosofi, e in molti modi diversi. Probabilmente uno dei più famosi – e anche, dato l’autore, uno dei più oscuri – è Nietzsche, con una frase che in realtà non compare in nessuno dei suoi libri pubblicati, ma solo nelle lezioni postume. Nietzsche scrive: «Non ci sono fatti, solo interpretazioni»11. Altri hanno in seguito rielaborato questa idea.
7Come tento di mostrare in Storia e verità, ritengo che questa linea di argomentazione scettica sia frutto di un errore. In un certo senso, è vero che tutte le giustificazioni avvengono all’interno di una cornice di credenze esistenti: quando giustifichiamo una teoria lo facciamo in riferimento ad altre credenze che abbiamo a disposizione. E questa cornice di credenze esistenti all’interno della quale ci muoviamo per giustificare qualsiasi proposta teorica è essa stessa passibile di essere messa in discussione. Pertanto anche questa cornice di credenze può essere ragionevolmente concepita come un’interpretazione dell’oggetto in questione. Testiamo la validità di una teoria mettendola a confronto con l’oggetto così come lo vediamo e l’interpretiamo. Così, per esempio, per tornare alle questioni etiche trattate in queste lezioni, io propongo una teoria del ragionamento morale che difendo facendo appello a quello che ho definito i miei “giudizi morali ponderati”, i quali, come voi potreste giustamente ricordarmi, altro non sono che il mio modo personale di interpretare l’esperienza morale. Ma ovviamente voi potreste avere un’idea molto differente di che cosa si debba intendere per esperienza morale e di ciò che voi considerate come giudizi morali ponderati. Perciò, fino a qui, il percorso dell’argomentazione scettica è corretto. Quando parliamo di giustificare una qualche teoria partiamo sempre dalla struttura di credenze esistenti di cui disponiamo, ossia dal modo in cui abbiamo rappresentato l’oggetto in questione. E anche in questo caso si tratta di un’interpretazione. Quindi non solo la teoria, ma anche l’oggetto della teoria è interpretato in maniera tale da rimanere esso stesso, in linea di principio, passibile di essere messo in discussione.
8Ma ho anche cercato di dimostrare che non possiamo concepire questo modo di giustificare la teoria come una giustificazione che fa appello a un’interpretazione della teoria in quanto interpretazione. Non riusciamo a comprendere che cosa significhi giustificare un’opinione all’interno di una cornice di credenze esistenti se affermiamo che ciò che giustifica la teoria è una qualche nostra credenza o una qualche interpretazione. Ciò che ci occorre per giustificare la teoria che proponiamo è piuttosto la presunta verità di quella interpretazione. Di conseguenza – e lo aggiungo a quanto detto nella scorsa lezione – la teoria giustificata (giustificata in relazione al modo in cui comprendiamo il suo oggetto) deve essere considerata vera, ed è vera perché combacia con la realtà effettiva delle cose.
9Ciò che sto cercando di dire è che per un certo verso è vero che giustifichiamo una teoria sulla base di una struttura di credenze esistenti e la giustifichiamo facendo riferimento al nostro modo di comprendere l’oggetto in questione; ma ciò che serve realmente a giustificare una teoria non è il fatto che concepiamo l’oggetto in un certo modo, bensì la presunta verità della nostra interpretazione dell’oggetto. Il punto, in altre parole, è questo: io non potrei in alcun modo giustificare la teoria del ragionamento morale da me proposta affermando che la ragione per cui io credo che sia vera è che io credo in tale teoria, ossia credo che i giudizi morali ponderati siano esattamente come ve li ho descritti. Non avrei alcuna possibilità di giustificare la teoria del ragionamento morale che vi ho proposto se dicessi che essa è giustificata perché io credo che l’esperienza morale abbia determinate caratteristiche. Il fatto che Larmore creda qualche cosa, infatti, non conta nulla; che importa che cosa crede Larmore? È solo una persona fra le tante, con il suo insieme di credenze.
Verità e corrispondenza
10Se esiste una qualche giustificazione della teoria del ragionamento morale che vi ho proposto, essa non si basa sul fatto che io credo che l’esperienza morale abbia una certa forma, bensì sulla presunta verità della credenza che l’esperienza morale abbia una certa forma. Ciò che giustifica qualsiasi teoria – anche se la giustificazione avviene all’interno di una cornice di credenze esistenti – non sono le credenze stesse, nel senso degli stati psicologici di coloro che la difendono o la mettono alla prova, bensì ciò che le credenze dicono a proposito del loro oggetto. Ciò che serve a giustificare la teoria del ragionamento morale è la verità di quello che credo sulla natura dell’esperienza morale. E la verità delle credenze che vengono usate per giustificare una teoria può significare solo una cosa, e cioè che le credenze che vengono usate per giustificare hanno ragione su com’è fatta la realtà – cioè, nel nostro caso, la morale.
11“Verità” può solo significare “corrispondenza”. Il senso in cui è la verità delle mie credenze sulla natura dell’esperienza morale che giustifica la mia teoria del ragionamento morale è che le mie credenze sulla natura dell’esperienza morale riflettono quella che è realmente la natura dell’esperienza morale. Quindi, dal momento che questo è ciò che si deve intendere per “verità” delle credenze che vengono usate per giustificare una certa teoria, e dal momento che giustificare una proposizione significa mostrare perché è vera, allora la teoria giustificata deve essere considerata vera nel senso più proprio della parola, ossia, nel nostro caso, come vera a proposito della natura reale del ragionamento morale.
12Perciò, per anticipare un tema di Storia e verità, ciò che ho cercato di dire in quel contesto è che, la giustificazione delle credenze – e cioè lo stesso tentativo di giustificare le teorie – alla fine ha senso solo in termini di verità, e di verità intesa come corrispondenza con la realtà.
13Forse a questo punto dovrei chiarire che cosa intendo per “corrispondenza”. Di sicuro, questa espressione non è semplicemente “metaforica”. L’idea della verità come corrispondenza deve essere chiarita, ma non necessariamente qualcosa che ha bisogno di essere chiarito è una metafora.
14Innanzitutto chiarisco che una proposizione corrisponde alla realtà quando descrive correttamente il modo in cui stanno le cose delle quali parla. Se la proposizione è vera, allora quello è esattamente il modo in cui stanno le cose. Dire che una credenza è vera non significa per esempio che sia giustificata avendo valutato tutte le evidenze pertinenti. Si tratta di due cose diverse, perché potrei essere la persona più dogmatica del mondo, e tuttavia, nonostante tutti i limiti che ho come essere umano, io potrei credere molte cose vere. Il fatto che io abbia un certo atteggiamento nei confronti del mondo, che io sia di ampie vedute, o di vedute ristrette, pronto a sperimentare, o dogmatico, non influenza minimamente la verità o falsità di ciò che dico. Anche i dogmatici dicono delle verità. Magari è probabile che le persone dogmatiche non arrivino a conoscere tante verità quante le altre persone. Ciò potrebbe essere vero. Potrebbe accadere che, essendo una persona di ampie vedute, io abbia maggiori probabilità di sapere come stanno le cose. Ma non penso affatto che si possa spiegare che cosa sia la verità come corrispondenza nei termini dell’atteggiamento della persona che ha una certa credenza. La verità della credenza è una relazione tra la credenza stessa e ciò che descrive nel mondo, mentre gli atteggiamenti sono solo nella testa e nella mente delle persone12.
15Quindi la corrispondenza non è una metafora; resta però vero che bisogna darne una definizione. Ma io credo che l’unico genere proprio di definizione sia quello che descrive il modo in cui una credenza si rapporta al mondo. Secondo la definizione aristotelica, la corrispondenza consiste nel fatto che le cose stanno come una proposizione dice che stanno. Magari questo non vi sembrerà molto informativo. Se pensate che il solo modo di fornire un resoconto informativo della verità sia in termini di atteggiamenti delle persone che hanno delle credenze, penso che questo genere di resoconto non sembrerà avere successo, ma il fatto che una credenza sia vera o meno non ha niente che vedere con gli atteggiamenti delle persone. La verità di una credenza non è niente di psicologico, ma dipende dal fatto che abbia ragione sul fatto che il mondo è come dice.
16Ci sono teorie causali della verità che potrebbero sembrare essere sulla strada giusta. Tali teorie sostengono che una proposizione è vera solo se è in qualche modo causalmente dipendente dal mondo. Penso che molto probabilmente ciò non funzioni. Penso che la conoscenza possa essere causalmente dipendente dal mondo, ma non la verità. Non si può realmente sapere qualche cosa, se, oltre a credere che sia vera, il fatto di conoscere quella verità non è in qualche modo causalmente dipendente dal mondo stesso. Ma le persone potrebbero non sapere veramente una certa cosa e nonostante questo essere nel giusto a proposito di essa. Come ho detto, questo potrebbe darsi nel caso delle persone dogmatiche, che forse non potrebbero a buon diritto sostenere di sapere qualcosa, poiché non hanno veramente esaminato le loro credenze. Facciamo un esempio. Ora vi propongo due proposizioni, una delle quali è vera, anche se non sono assolutamente in grado di stabilire quale delle due lo sia: “In questo momento il numero delle stelle è pari” e “In questo momento il numero delle stelle è dispari”. Una delle due proposizioni è vera, anche se non posso dire quale; e lo è indipendentemente da qualsiasi atteggiamento io possa avere: indipendentemente dal fatto che io sia dogmatico, di vedute aperte, o che io abbia passato del tempo a guardare le stelle.
17Quindi, se pensate che una teoria informativa della verità sia una teoria che guarda agli atteggiamenti delle persone che hanno credenze, oppure una teoria che guarda a come le credenze sono causalmente dipendenti dal mondo, ritengo che stiate rendendo la verità più complicata di quanto sia in realtà, e che vi stia sfuggendo la natura della verità. La sua natura è realmente semplice, e in fin dei conti non ha bisogno di spiegazioni approfondite. Se non capite l’idea di verità come il fatto che le cose stanno come una preposizione vera dice che stiano, allora vi rimarrà inintelligibile, e probabilmente non ci sarà alcuna speranza di spiegarvi che cosa sia la verità.
18Non c’è alcuna teoria interessante della verità. Alcuni dicono che la verità è un “primitivo”. Va benissimo, se con ciò si intende una “nozione primitiva”. Ciò significa che non esiste alcuna teoria interessante di che cosa sia la verità. Quando dico che la verità è corrispondenza, non intendo proporre una teoria interessante della verità; voglio solamente dire che una proposizione è vera se corrisponde alla realtà, e con ciò intendo semplicemente che le cose stanno esattamente come dice che stanno quella proposizione. Niente di più e niente di meno.
19Occorre precisare che la corrispondenza non è un “criterio” di verità. Generalmente, quando le persone usano il termine “criterio”, intendono uno standard di giudizio. Io non penso affatto che la corrispondenza sia uno standard attraverso il quale noi determiniamo se una teoria sia vera o meno. Penso che ci siano casi molto fondamentali per i quali qualcuno potrebbe voler dire che la corrispondenza funziona come un criterio. Ma si tratta di casi estremamente elementari, nei quali non si giustifica una credenza facendo appello ad altre credenze, ma la si giustifica semplicemente ricorrendo all’osservazione. Per esempio, se mi chiedete perché credo di avere due mani, io vi faccio vedere le mie mani. Così, forse, e dico forse, in questo caso, che è un caso estremamente elementare fondato sulla percezione, si può pensare alla corrispondenza come a un criterio.
20Io ho parlato della corrispondenza non come di un criterio di verità, ma come del significato della verità, ossia ciò che intendiamo quando diciamo che una proposizione o una teoria è vera. Questo non è ciò cui facciamo appello, o gli standard che usiamo, per concludere che una certa proposizione o una certa credenza è vera, ma piuttosto ciò che significa che esse sono vere: significa dire che corrispondono alla realtà. Il che, come ho detto, non è nulla di particolarmente straordinario. Si tratta semplicemente di descrivere correttamente il modo in cui stanno le cose. E questo è ciò che penso significhi “verità”.
Verità e credenza
21Questo modo di intendere la verità è un ingrediente di qualsiasi processo di giustificazione. Infatti, quando cerchiamo di giustificare una qualche credenza o una qualche teoria guardiamo normalmente alle nostre altre credenze; per così dire, operiamo all’interno di una cornice di credenze. La questione è: che cosa giustifica la teoria che proponiamo? Non il semplice fatto che crediamo che le premesse della sua giustificazione siano vere, perché il semplice fatto che Larmore creda qualcosa non significa nulla. Se le credenze che io invoco, per esempio riguardo a come è fatta l’esperienza morale, giustificano la teoria del ragionamento morale che propongo, questo è perché le credenze che invoco sono vere. E con ciò intendo che quelle credenze sono nel giusto, riguardo a com’è fatta la nostra esperienza morale.
22Questo è quindi il senso in cui, quando noi cerchiamo di giustificare una teoria, facciamo appello a prove che crediamo vere. E ciò che intendiamo quando pensiamo che queste prove siano vere è che queste prove sono nel giusto riguardo a come è fatto il mondo. Se poi concludiamo che la nostra teoria è giustificata dalle prove, diciamo che la teoria è vera. E ciò che intendiamo quando diciamo che la teoria è vera è che la teoria stessa è nel giusto riguardo alla natura del suo oggetto. Quindi la corrispondenza entra necessariamente in questa storia come significato di ciò che intendiamo quando diciamo che certe prove sono vere o che la teoria giustificata dalle prove è vera. Ma la corrispondenza non dice molto sulla relazione fra le prove e la teoria, eccetto che per il fatto che bisogna supporre che le prove siano vere affinché possano fungere da prove.
23Ovviamente si può pensare che le prove che ho fornito siano assolutamente vere, e che tuttavia esse non giustifichino la teoria. Così, per esempio, si può pensare che tutto ciò che ho detto sulla natura dell’esperienza morale fosse abbastanza giusto, ma che di fatto non giustifichi la teoria dell’eterogeneità della morale. In questo caso, quello che si sta dicendo è che c’è qualcosa che non va nella giustificazione. C’è qualcosa di sbagliato nel criterio che ho utilizzato per dire che la teoria è vera, o nell’uso che ne ha fatto. Ma ciò su cui voglio insistere è che non si può comprendere la relazione di giustificazione se non in termini di una relazione fra le prove da una parte e le proposizioni o la teoria dall’altra relazione che presuppone che le prove siano vere, e ciò che si deve intendere con “vero” è la corrispondenza alla realtà. E se le prove giustificano la teoria e concludiamo che la teoria è vera, di nuovo, anche in questo caso, quando diciamo che la teoria è vera, ciò che intendiamo dire è che la teoria corrisponde alla realtà.
24È molto importante essere consapevoli di un’ambiguità della parola “credenza”. Infatti essa può significare due cose: lo stato psicologico in cui consiste credere qualcosa, ma anche ciò che è creduto. Una delle cose famose che ha detto Donald Davidson è che «solo una credenza può giustificare una credenza». Questo è vero, perché l’unica maniera di giustificare una credenza normalmente è di collegarla a una struttura di credenze già esistenti. Ma il problema è che la parola “credenza” è una parola ambigua e, se non si fa attenzione a quest’ambiguità, si può leggere la frase di Davidson, che di per sé è giusta, come se implicasse una qualche forma di antirealismo, di idealismo, o d’incapacità ad andare oltre alle nostre credenze per accedere al mondo stesso. Infatti, se per “credenza” si intende un qualche stato psicologico di una persona, allora ciò significa che non possiamo mai andare oltre ai nostri stati psicologici per accedere al mondo. Ma il senso in cui è vero che solo una credenza può giustificare una credenza non può essere che solo una credenza come stato psicologico giustifica una credenza, perché le credenze in quanto stati psicologici non giustificano proprio nulla. Come ho detto, il fatto che io creda qualcosa non giustifica nulla di ciò in cui credo. L’unico senso in cui può essere vero che solo una credenza giustifica una credenza è che la prima occorrenza della parola “credenza” non indichi uno stato psicologico, ma l’oggetto della credenza stessa, e in particolare la verità della credenza. Una credenza giustifica un’altra credenza solo in virtù del fatto che la prima credenza è vera, ed è la verità della prima credenza che, propriamente parlando, giustifica la seconda. Le credenze in quanto stati psicologici non giustificano nulla. È solo la verità delle credenze che serve a giustificare le credenze. Ma che cosa intendiamo per “verità delle credenze che giustificano altre credenze”? Con ciò non possiamo intendere nulla di psicologico, nessun atteggiamento. La verità della credenza consiste nel fatto che la credenza è nel giusto riguardo a come è il mondo. Questo è ciò che comunemente pensiamo, nella scienza così come nella vita di tutti i giorni. Se affermo qualche cosa e vi fornisco diverse prove di ciò che credo, sarà la verità di queste prove a giustificare la credenza, non il fatto che io creda a queste prove. Quindi penso che sia molto importante tenere a mente che la parola “credenza” è ambigua. È vero che solo una credenza può giustificare qualcosa, ma quest’affermazione non comporta che non si possa parlare di verità come corrispondenza, perché il solo modo in cui una credenza può giustificare una credenza è in riferimento alla verità della credenza, la verità concepita come corrispondenza.
Verità e realtà
25Ho detto che la verità consiste nel catturare il modo in cui stanno realmente le cose. Questo vale non solo per le cose fisiche, ma anche per i pensieri, i fatti psichici, quelli normativi o morali, i principi, le ragioni e così via. Supponiamo che in questo momento io abbia una certa credenza riguardo a quello che pensa un’altra persona. Il fatto che questa credenza sia vera o meno dipende da come stanno le cose, ossia da quali siano i pensieri di quella persona. Non c’è nessun problema riguardo all’idea che la verità corrisponda alla realtà, perché ciò su cui verte la mia credenza è qualcosa che fa parte del mondo, cioè quello che pensa quella persona. E la mia credenza è corretta se è nel giusto riguardo a quello che pensa quella persona.
26Ovviamente potrei benissimo formarmi delle credenze anche sui miei pensieri, e il fatto che queste credenze sui miei pensieri siano vere o meno dipende dal mio essere nel giusto su quali siano i miei pensieri. E non credo che ci sia nulla di problematico su questo punto. Formiamo credenze su ogni genere di cose, per esempio sui tavoli e sulle sedie, su quello che le altre persone pensano, e su quello che noi stessi pensiamo; ma in tutti questi casi quello che rende le credenze vere è la medesima cosa. La credenza è vera se è nel giusto riguardo a ciò che dice sul proprio oggetto, sia che si tratti di tavoli e sedie, sia che riguardi quello che pensano gli altri, o ciò che pensiamo noi stessi. Non trovo alcun genere di problema in tutto questo, né nell’idea della verità come corrispondenza.
27Utilizzare l’espressione “là fuori” per riferirsi alla realtà può essere pericoloso: anche i miei stessi pensieri, infatti, sono là fuori. Gli altri possono formarsi ogni genere di credenza riguardo ai miei pensieri. Ma tutte queste cose fanno parte del mondo: anche dal mio punto di vista tra le cose che appartengono al mondo ci sono i miei pensieri e io posso avere ragione o meno su quali siano i miei pensieri. In realtà spesso commettiamo errori anche molto gravi su quello che realmente pensiamo.
28Ciò che ho detto può indurre a pensare che la mia teoria della verità sia “metafisica”. Non trovo che questa possa essere un’obiezione, dal momento che non credo che la metafisica sia in se stessa un errore. In questo Heidegger ha fatto un grande danno alla filosofia, soprattutto assumendo che esista una sola cosa chiamata “metafisica”, che sarebbe poi l’oggetto della cosiddetta “fine” della metafisica.
29Ma il punto è che non esiste una singola cosa chiamata “metafisica”; non esiste alcuna teoria unitaria o un’unica proposizione o un solo modo di pensare che corrisponda al “modo metafisico” di pensare. Se si dovesse scrivere una storia della metafisica, che cosa si farebbe rientrare in essa? La storia della filosofia non è piena di teorici che hanno scritto in fronte “sono un metafisico”; che cosa si vuole definire “metafisica” è una questione di interpretazione. Probabilmente siamo tutti d’accordo nel definire “metafisici” Aristotele, Platone, Tommaso, Plotino, Descartes, Spinoza, Leibniz, Kant, Locke, Berkeley, Hume. Ma che cosa hanno in comune di “metafisico” questi pensatori? Penso che a essere importante in questi autori è ciò che li divide, non quello che hanno in comune. Altrimenti non ci sarebbe ragione di leggerli tutti; basterebbe leggerne uno solo.
30Quindi, non esiste un’unica cosa che si possa chiamare metafisica, e di conseguenza non ha molto senso parlare di fine della metafisica a meno che non si intenda con ciò semplicemente la fine della filosofia. E se volete definire “metafisica” la mia nozione di verità come corrispondenza, va bene; anzi, in un certo senso dà lustro a quello che dico. E se volete dire che Larmore sarà il nuovo Aristotele fra i grandi pensatori metafisici vi ringrazio per il complimento. Se qualcuno vuole chiamare quello che faccio “metafisica” va bene, perché non penso ci sia niente di fondamentalmente negativo nell’idea di metafisica.
31Vorrei approfondire e in un certo senso radicalizzare la linea di ragionamento che ho seguito finora. Ciò che ho detto fino a questo momento è che non possiamo capire le giustificazioni se non in termini di verità, e che la verità non può essere intesa se non nel senso di corrispondenza. Che questo sia vero o meno, è quello che ho detto fin ora. Ma vorrei spingermi oltre. Quello che voglio dire è che non si può concepire il pensiero stesso, e non solo la giustificazione, se non nei termini di verità come corrispondenza. Penso che non ci sia alcun modo in cui alla fine si possa fare a meno dell’idea di verità come corrispondenza. Potrei dimostrare ciò appellandomi a quello che lo stesso Gianni Vattimo ha scritto in un noto capitolo della sua opera Oltre l’interpretazione13. Ma non c’è abbastanza tempo adesso per parlare di Vattimo, e quindi vi fornirò solo l’idea generale: non è solo la giustificazione a non aver alcun senso se non nei termini di verità come corrispondenza ma, più in generale, neanche lo stesso pensiero.
32È questo il tipo di argomento che ho in mente: l’idea stessa di “pensiero” non ha alcun senso se non come il credere certe cose. È vero che molte volte si pensa senza credere a quello che si sta pensando; perché, per esempio, a volte pensiamo provando a immaginare come potrebbero essere le cose, ma non crediamo nulla di quello a cui stiamo pensando. Immaginiamo solamente come potrebbero essere le cose, ma non crediamo che esse siano effettivamente come le abbiamo immaginate. Quindi, alcuni tipi di pensiero non consistono nel credere qualcosa a proposito di ciò a cui si sta pensando. Ma anche quando si immaginano delle cose, come per esempio un unicorno, non si può farlo senza affidarsi ad altre cose che si credono. Che cosa si può dire di un unicorno? Che è un cavallo con un corno. Quindi non posso neppure immaginare cosa sia un unicorno senza rifarmi alle mie credenze su cavalli e corna. Pertanto, anche quando immaginiamo cose che non riteniamo essere vere, non possiamo farlo se non in termini di altre cose che crediamo. Quindi, in generale, non si può neanche pensare se non si crede in qualche cosa, anche se quello a cui si sta pensando non è qualcosa che si crede essere vero, ma qualche cosa che si sta semplicemente immaginando. Ogni pensiero dipende da credenze.
33Ma consideriamo ora che cosa voglia dire credere; che cosa significa credere qualcosa? È risaputo che non si può credere volontariamente, cioè non si può semplicemente decidere di credere in qualcosa. Non posso semplicemente decidere di credere che il numero delle stelle è dispari. Posso affermarlo, posso dirvelo, posso battere il pugno sul tavolo ribadendo che il numero delle stelle è dispari, ma ciò non significa che credo in ciò che dico; non posso credere che il numero delle stelle è dispari. E perché no? Perché in generale non si può credere qualcosa a meno che non si vedano le ragioni per farlo. E proprio perché non vedo nessuna ragione per supporre che il numero delle stelle sia dispari piuttosto che pari, non riesco a credere che il numero delle stelle sia dispari. In generale, non si può credere in qualcosa senza che ci sembrino essere delle ragioni per credere. E ciò significa che non si può credere in qualcosa senza concepire la credenza come giustificata. Pertanto, se, come ho detto prima, la stessa giustificazione ha senso solo in termini di verità come corrispondenza, allora il fatto stesso di credere non può aver alcun senso se non nei termini di verità come corrispondenza. Se non si può neppure pensare senza credere qualche cosa, allora non si può neppure pensare senza fare appello, a un certo punto, all’idea di verità come corrispondenza.
34Si potrebbe osservare che molte volte ci convinciamo a credere una certa cosa anche se sappiamo che non si tratta di una cosa giustificata e così facendo inganniamo noi stessi. Passiamo molto tempo a ingannarci, e sprechiamo molte energie a farlo. Ma come si verifica quest’autoinganno? Supponiamo che ci sia qualche cosa che posso capire che è vera, ma che non voglio credere che sia vera, perché voglio credere il contrario. Per esempio: ho molte prove che mia moglie mi è infedele, ma non voglio crederlo. Così, voglio ingannare me stesso, e voglio indurmi a credere che sia fedele. Come posso farlo? Non posso semplicemente decidere che è fedele, a dispetto di tutte le prove che suggeriscono il contrario; devo fare qualcosa. Ma che cosa? Devo raccontarmi una storia, una storia in cui tutte quelle prove non siano decisive, ma si possano interpretare in maniera differente.
35Ovviamente, nei casi in cui inganno me stesso, cioè nei casi in cui mi autoinganno, mi racconto una storia alla quale io stesso in fondo non credo veramente. Però non posso ingannare me stesso se non raccontandomi una storia. Ma perché è così? Perché non posso credere ciò che so bene che non dovrei credere, senza prima aver creato ad arte delle ragioni alle quali mi persuado di dover credere. In generale, quindi, non si può credere nulla – neanche quando ci si autoinganna – senza vedere che ci sono delle ragioni per credere alle cose che si credono. È possibile credere solo nella misura in cui si considerano le credenze come giustificate.
36Ma se ho ragione sul fatto che si può dare un senso alla giustificazione solo nei termini di verità come corrispondenza, allora si può dare un senso al credere solo nei termini di verità come corrispondenza. E se non è neppure possibile pensare se non si crede qualche cosa, allora non si può pensare senza pensare, a un certo punto, di vedere giusto su come è fatto il mondo. E penso che alla fine si possa dimostrare che persino i filosofi che hanno negato che l’idea di verità come corrispondenza possa avere un significato, prima o poi, hanno finito per affermare che «questo è il modo in cui stanno veramente le cose».
37Questa, dunque, è la tesi che vorrei avanzare: l’idea di verità come corrispondenza è essenziale per avere un’idea intelleggibile di che cosa è il pensiero. E quindi, quando facciamo del nostro meglio, come nel caso della filosofia morale, per stabilire che cosa sia veramente l’esperienza morale, e quando cerchiamo di capire quali siano le forme fondamentali del ragionamento morale che usiamo, ebbene, tutto ciò è realmente inseparabile dal fatto di essere nel giusto riguardo a che cos’è la morale. Non si tratta solo di un esercizio ermeneutico, ma si tratta anche del tentativo di vedere giusto su che cosa sia la morale. Per questo motivo ritengo che tutte queste preoccupazioni riguardo al realismo e alla verità alla fine possano essere messe da parte, per poterci occupare delle cose realmente importanti, cioè cercare di capire come sia fatta veramente la morale, perché così facendo capiremo quale sia la verità sulla morale.
Notes de bas de page
10 Il riferimento è all’ultimo capitolo di questo libro che riporta il testo della conferenza pubblica tenuta da Charles Larmore in concomitanza con le lezioni che sono pubblicate nei primi cinque capitoli [N.d.C.].
11 Fr. Nietzsche, Aurora e frammenti postumi (1879-1881), trad. it. M. Montanari e F. Masini, in Opere, vol. v, t. i, Milano, Adelphi, 1964, p. 299.
12 In questa lezione non parlo di conoscenza; parlo invece di verità, credenza e giustificazione. Il problema è questo: a partire da Platone e dai suoi dialoghi (in particolare il Teeteto), e fino al 1963, era diffusa l’idea che la conoscenza consistesse in credenze vere giustificate: si conosce quando si crede qualcosa, quello che si crede è vero, e se ne ha una giustificazione adeguata. Poi è arrivato un incredibile filosofo americano, Edmund Gettier («Is Justified True Belief Knowledge?», “Analysis”, vol. 23, pp. 121-123), che ha cambiato un’intera disciplina. Ciò che egli ha mostrato è che ci sono molti casi in cui la verità e la giustificazione di ciò che si crede sono insufficienti a far sì che si sappia qualcosa. E penso che sia legittimo affermare che la storia dell’epistemologia e della teoria della conoscenza, dopo Gettier, consiste in una serie di tentativi di trovare un’idea migliore e più generale di conoscenza che possa sostituire la concezione tradizionale della conoscenza come credenza vera giustificata. Gli ultimi quarant’anni sono caratterizzati dal fatto che non esiste consenso su quale potrebbe essere una teoria generale migliore. Di fatto la teoria della conoscenza o epistemologia si trova in una condizione piuttosto difficile. Credo sia abbastanza chiaro che non è possibile avere alcun tipo di conoscenza a meno che non ci siano verità e credenze; quello che è diventato oggetto di controversia è il senso in cui anche la giustificazione gioca un ruolo.
Ma qui non mi sto occupando di conoscenza. Ciò di cui sto parlando è la giustificazione, e la verità; sto dicendo che la giustificazione ha senso solo nei termini di verità come corrispondenza; e sosterrò più avanti che non si può capire il pensiero stesso se non come qualcosa che dipende in vari modi dalle credenze. Pertanto, la conclusione generale è che non è affatto possibile concepire il pensiero se non in termini di verità come corrispondenza.
13 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, Bari, Laterza, 1994, appendice 2.
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