1. L’eterogeneità della morale
p. 27-40
Texte intégral
Teorie monistiche della morale: utilitarismo e deontologia
1Spesso si dice che Talete è stato il padre della filosofia. I suoi scritti, com’è noto, non sono arrivati fino a noi; ma ci sono due cose principali che sappiamo su di lui. La prima è che mentre camminava guardando il cielo cadde in una buca e una giovane donna gli raccomandò di stare più attento (forse questo ci dice qualcosa di importante sulla filosofia). La seconda cosa famosa attribuita a Talete è il detto «tutto è acqua». Questa non è un’ipotesi scientifica alla quale si presti molta attenzione ai nostri giorni. Tuttavia, quando ha affermato che tutto, nel mondo naturale, è fatto di acqua, Talete ha detto due cose importanti. La prima consiste nel proporre una spiegazione del mondo naturale che non fa appello all’azione degli dei. La seconda cosa implicata dalla sua affermazione che tutto è acqua è la proposta di spiegare tutto il mondo naturale nei termini di un’unica sostanza o principio fondamentale, cioè l’acqua.
2Penso che Talete avesse ragione sulla prima cosa, mentre aveva torto sulla seconda, nella misura in cui essa è servita da modello per la filosofia in generale. Penso che in filosofia non si debba fare appello agli dei; su questo Talete aveva ragione. Ma, almeno nel caso della filosofia morale, il genere di visione che si può immaginare sosterrebbe qualcuno come Talete (anche se naturalmente non si è occupato specificamente di filosofia morale) è che tutta la nostra esperienza morale è fondamentalmente basata su un qualche singolo principio morale o forma di ragionamento morale fondamentale. E penso che questo sia un errore riguardo alla natura della nostra esperienza morale. Chiamerò “monismo” questa concezione. La visione che cercherò di confutare in questa lezione è proprio il monismo riguardo alla morale.
3Credo che in epoca moderna ci siano state due fondamentali teorie monistiche della morale. Non si tratta tanto di teorie specifiche, quanto piuttosto di tradizioni di pensiero, ciascuna delle quali è stata monista in quanto ha tentato di dare conto della nostra esperienza morale come fondata su una forma di ragionamento morale o su un principio morale unico, finale e prioritario. La prima di queste tradizioni è quella utilitarista, che in realtà comincia prima di Jeremy Bentham e dell’inizio del xix secolo, sebbene Bentham sia stato il grande teorico del primo utilitarismo. La seconda tradizione monista della filosofia morale è il kantismo. Il suo progenitore naturalmente è Kant, ma il kantismo ha continuato a svilupparsi in diversi modi, talvolta differenziandosi da Kant per alcuni aspetti importanti, per arrivare fino al xxi secolo.
4Sia l’utilitarismo sia il kantismo hanno in comune, per così dire, con Talete la credenza che non abbiamo bisogno di fare appello a Dio per fare filosofia morale. Penso che questo sia fondamentalmente giusto, o almeno è fondamentalmente giusto nel senso che non ha senso appellarsi a Dio per capire l’autorità dei principi morali, per le ragioni indicate molto tempo fa da Platone nell’Eutifrone. In fin dei conti, perché Dio dovrebbe contare come fonte dei principi, a meno che non si pensi che Dio stesso sia un essere morale? Questo significa che non si può capire quale autorità Dio possa mai avere se non alla luce di principi morali che già possediamo.
5Tuttavia, come ho detto, l’utilitarismo e il kantismo sono stati accomunati anche dall’idea che esista un principio morale o una forma di ragionamento morale unico e fondamentale, che sta alla base di ogni nostra esperienza morale o dei nostri giudizi morali ponderati.
6Prima di passare alle differenze fra l’utilitarismo e il kantismo, vorrei dire qualcosa su ciò che intendo per “morale”, o “punto di vista morale”. Vorrei definire il punto di vista morale in termini molto generali, tali per cui possiamo vedere per esempio l’utilitarismo e il kantismo come due tentativi differenti di cercare di spiegare il punto di vista morale. Ma che cos’è il punto di vista morale in generale? Propongo la seguente definizione: il punto di vista morale consiste nel vedere nel bene di un’altra persona – e per il fatto stesso che si tratta del bene di quella persona – una ragione per agire. Noi non abbiamo nessun problema a vedere nel nostro bene una ragione per agire; questo ci è molto naturale. È un po’ più difficile essere morali, perché essere morali significa vedere nel bene di un’altra persona una ragione per agire. E anzi penso che, in senso proprio, il punto di vista morale consista nel vedere nel bene di un’altra persona una ragione per agire tanto immediata quanto quella che vediamo del tutto naturalmente nel nostro bene5.
7Di tutto questo parleremo più in dettaglio nella terza lezione. Per adesso diciamo che il punto di vista morale, in generale, consiste nel vedere nel bene di un’altra persona – per il semplice fatto che è il bene di un’altra persona – una ragione per l’azione da parte nostra. Ma una volta che abbiamo detto questo non sappiamo ancora come dovremmo ragionare riguardo a ciò che dobbiamo fare per il bene di un’altra persona. Il punto di vista morale ci dice soltanto che il bene di un’altra persona è di per sé una ragione per l’azione da parte nostra, ma in che modo determiniamo come dobbiamo agire per il bene di un’altra persona? Gli utilitaristi e i kantiani offrono due risposte diverse e antagoniste a questa domanda sulla natura del ragionamento morale. Così, se vogliamo, offrono due concezioni differenti di che cos’è un’azione moralmente giusta, se si intende in generale l’azione moralmente giusta il rispondere al bene di un’altra persona assumendo ciò come ragione per l’azione da parte nostra.
8La risposta utilitarista riguardo a come dovremmo ragionare moralmente è che l’azione moralmente giusta è quell’azione che produrrà il maggior bene fra tutti coloro – imparzialmente considerati – il cui benessere può essere influenzato dalla nostra azione in un modo o nell’altro. In altre parole, la risposta utilitarista è che, per determinare come dovremmo agire moralmente, dovremmo vedere quale azione fra quelle disponibili produrrà il maggior bene totale per tutti coloro che possono essere toccati dalla nostra azione, quando consideriamo le persone imparzialmente. Come recita il famoso detto di Bentham, «ciascuno conta per uno, e nessuno per più di uno». Questa è la risposta utilitarista.
9La risposta kantiana alla domanda su come dovremmo ragionare moralmente è molto diversa. La risposta kantiana è che l’azione moralmente giusta è quell’azione la cui “massima” (uso qui il termine kantiano), ossia il cui principio, fine o ragione è tale per cui posso allo stesso tempo volere agire in base a essa e anche volere che ciascun altro agisca egualmente in base a essa. Più esattamente, questa sarebbe un’azione moralmente permissibile. Le azioni moralmente obbligatorie sarebbero quelle azioni la cui massima è tale per cui la massima opposta non potrebbe essere un principio sulla base del quale vorremmo agire, volendo al tempo stesso che ciascun altro agisca in base a esso. Per fare un esempio utilizzato dallo stesso Kant, supponiamo che il mio principio di azione, ossia la mia massima, sia di fare delle promesse quando mi conviene, ma senza avere alcuna intenzione di mantenerle. Tale massima, secondo Kant, sarebbe moralmente permissibile solo se uno potesse al tempo stesso voler agire in base a essa e volere che ciascun altro agisca allo stesso modo. Ma Kant pensa che io non possa volere coerentemente queste due cose. Infatti, se volessi che ciascuno agisse in base alla massima che dice di fare promesse quando ci conviene, ma senza alcuna intenzione di mantenerle, in realtà vorrei un mondo – come dice Kant – in cui lo stesso istituto della promessa non esisterebbe più. Se tutti agissero in base al principio che dice di fare promesse quando conviene, senza avere intenzione di mantenerle, allora ovviamente nessuno crederebbe alle promesse di nessun altro. Di consegueza nessuno farebbe mai delle promesse. Ma quando io agisco in base a tale massima, naturalmente conto sul fatto che tutti gli altri non agiranno in base a essa. Intendo approfittare delle altre persone. Perciò tale massima non è una massima moralmente permissibile.
10La visione kantiana è un esempio di una visione più ampia riguardo al ragionamento morale, che è profondamente opposta a quella utilitarista. La visione utilitarista, come ricorderete, è l’idea che l’azione giusta, dal punto di vista morale, è quell’azione che produrrà la maggior quantità di bene totale fra tutti coloro che ne sono toccati, laddove ciascuno è considerato imparzialmente. Espresso in termini così generali, l’utilitarismo è un caso di quello che oggi viene chiamato “consequenzialismo”. Penso che questa concezione sia equivalente alla visione che Max Weber, nel suo saggio sulla Politica come professione, ha chiamato “etica della responsabilità”6. Essenzialmente, infatti, ciò che afferma il consequenzialista o l’utilitarista è che dal punto di vista morale dobbiamo essere pronti a compiere qualsiasi azione produca la maggiore quantità di bene per ciascuno imparzialmente considerato. Ciò significa che in alcuni casi dobbiamo essere pronti a compiere delle azioni che altrimenti penseremmo che siano moralmente sbagliate, ma che in circostanze particolari risultano essere quelle azioni che produrranno la maggiore quantità di bene totale, una volta che si sia tenuto conto, per esempio, del modo in cui gli altri probabilmente reagiranno a ciò che facciamo noi.
11La concezione kantiana di come dovremmo ragionare moralmente è un esempio particolarmente influente di una prospettiva molto diversa, che nella filosofia anglo-americana contemporanea è chiamata “deontologia”, e che penso corrisponda a ciò che Weber denomina “etica della convinzione”. Essenzialmente, un’etica deontologica, o un ragionamento morale deontologico, dice che ci sono certe proibizioni riguardo ai modi in cui ci è consentito agire nei confronti degli altri; tali vincoli concernono il modo in cui dobbiamo rispettarli, e non dovremmo mai infrangere tali vincoli al fine di produrre ciò che altrimenti potrebbe essere un bene maggiore, del tipo che potrebbe essere ambito dal consequenzialista. Esistono certe proibizioni o certe regole che non dovremmo mai violare, e che riguardano ciò che dobbiamo agli altri.
12Così, per esempio, se si guarda alla visione kantiana su che cosa significa ragionare moralmente, si vedrà che Kant, nel fare il “test di universalizzabilità”, guarda sì alle conseguenze, ma non guarda alle conseguenze effettive del nostro agire in un certo modo particolare. Per Kant, ciò che dobbiamo fare è guardare a quelle che sarebbero le conseguenze ipotetiche che si avrebbero se ciascuno agisse in base alla massima che noi ci proponiamo di seguire, e chiederci se potremmo volere che ciascuno agisca in base alla nostra massima, con tutto ciò che questo comporta, mentre noi agiamo in base a essa.
13Così, nell’esempio che ho fatto, ho detto che Kant sostiene che, se dovessi volere che ciascuno facesse delle promesse quando gli conviene, ma senza avere l’intenzione di mantenerle, ciò significherebbe volere un mondo in cui l’istituto della promessa scomparirebbe. Tuttavia, quando considera le conseguenze, Kant guarda solo alle conseguenze ipotetiche: che cosa succederebbe se ciascuno agisse come mi propongo di fare. E quindi egli si chiede se possiamo volerlo e volere allo stesso tempo agire in base alla massima. Ma ciò che secondo Kant non dovremmo mai fare, quando decidiamo come agire, è considerare il modo in cui le altre persone agiranno effettivamente, o agiranno probabilmente, in conseguenza del modo in cui agiamo noi. Così, nel caso molto famoso – o forse dovrei dire famigerato – del dibattito con Benjamin Constant, Kant sostenne che non dovremmo mai dire bugie, ossia non dovremmo mai dire a una persona qualcosa che sappiamo essere falsa, anche se dire una bugia a una persona potrebbe salvare la vita di qualcun altro che è ricercato ingiustamente. Non dovremmo mai dire bugie; che cosa succederebbe, infatti, se tutti dicessero bugie? La fiducia tra gli uomini verrebbe distrutta, mentre il bugiardo vuole ovviamente trarre profitto della sua esistenza. Così, ciò che secondo Kant non dovremmo mai fare è guardare alle conseguenze effettive del modo in cui agiamo. Ovviamente la conseguenza effettiva nel caso in esame è che, quando dico alla guardia che il mio amico – ricercato ingiustamente – è nascosto nella mia cantina, consegno il mio amico alla morte certa per mano della polizia7.
14La visione di Kant, nel caso particolare che stiamo considerando, è che dovremmo dire la verità a tutti. Non nel senso che dovremmo andare in giro a dire la verità, ma nel senso che se qualcuno mi fa una domanda, e mi sta chiedendo di dirgli la verità, dovrei dirgliela. E questo è ciò che significa rispettare quella persona. Se a una persona che mi chiede la verità dovessi dire una cosa che so essere falsa, allo scopo di fare in modo che quella persona faccia qualcosa che non farebbe altrimenti, allora starei semplicemente usando quella persona, e non la starei rispettando come qualcuno che mi ha chiesto di dirgli la verità. Così, quello che non dovrei fare per salvare il mio amico – secondo Kant – è trattare il poliziotto con meno rispetto di quello che devo a ogni essere umano imparzialmente considerato, giacché, a ogni persona che me lo chiede, devo la verità. Se dico scientemente una bugia a qualcuno allo scopo di manipolarlo, cioè allo scopo di fare in modo che quella persona faccia qualcosa che altrimenti non farebbe (come per esempio se dicessi all’agente di guardare altrove, e di non entrare in casa mia, dove è nascosto il mio amico), non starei rispettando quella persona. Ovviamente, se non le dicessi una cosa falsa, il risultato, di fatto, sarebbe che la polizia catturerebbe il mio amico e lo torturerebbe a morte. Ma in questo caso, direbbe Kant, il fatto che il mio amico sia stato torturato e messo a morte non è una cosa che ho fatto io. Io ho obbedito alla legge morale. Io ho rispettato tutte le persone implicate, cioè sia il mio amico sia l’agente. La persona che è responsabile del fatto che il mio amico sia stato torturato e messo a morte è l’agente. Secondo Kant, non devo guardare a quelle che saranno le conseguenze di ciò che faccio, nella misura in cui ragioni dal punto di vista morale (in altri contesti posso, certo, guardare alle conseguenze delle mie azioni); guardo solo a ciò che devo agli altri per rispetto. Se li rispetto, ma essi usano i miei atti di rispetto per fini malvagi, si tratta di una cosa che fanno loro, di un loro peccato, di una loro malvagità, e non di una cosa che ho fatto io.
15L’utilitarista, o il consequenzialista, ovviamente, a proposito di un simile modo di ragionare direbbe che è completamente irresponsabile, giacché noi sappiamo che cosa farà l’agente se gli diciamo che il nostro amico è nascosto in cantina; perciò, quando il nostro amico è torturato e messo a morte, è irresponsabile da parte nostra affermare che non si tratta di qualcosa che abbiamo fatto noi, ma di qualcosa che ha fatto la polizia. Infatti, questo non sarebbe mai successo se avessimo mentito e non avessimo rivelato dov’era il nostro amico. E questo è naturalmente il motivo per cui Weber, nel saggio La politica come professione, dice che l’etica della responsabilità guarda al modo in cui le altre persone agiranno in conseguenza del modo in cui agiamo noi, e ne tiene conto per determinare che cosa fare tutto considerato. In base a questa concezione dovrei essere pronto a manipolare altre persone allo scopo di produrre la maggior quantità di bene totale. Al contrario, il kantiano, il deontologo, o – per usare le parole di Weber – il sostenitore dell’“etica della convinzione”, afferma che il mio obbligo consiste nell’osservare alcuni principi basilari di rispetto che devo agli altri. Se nell’onorare tali regole di rispetto faccio delle cose che poi altre persone usano per fini malvagi, questa è una cosa che fanno loro, non io. Io agisco come dovrei, e lascio il resto nelle mani di Dio.
16Si potrebbe obiettare che il kantiano che consegna l’amico alla polizia non lo sta rispettando veramente. Ma questo non sarebbe corretto. Se per “rispettare il mio amico” intendo “trattarlo in conformità con tutte le regole di rispetto che gli devo”, così come li devo a ogni essere umano, allora naturalmente non correrò in strada a dire a tutti che il mio amico è nascosto in cantina, né lo trascinerò io stesso alla stazione di polizia. Ma non è una violazione del rispetto che devo al mio amico se dico a un’altra persona, cioè all’agente di polizia, dove si trova quando l’agente mi chiede dov’è. In senso stretto, questa non è una violazione da parte mia del rispetto che devo al mio amico, perché non sono io a torturare il mio amico (questa sarebbe una violazione del rispetto che gli devo), né sono io a metterlo a morte; a farlo sarebbe qualcun altro. Così, rispetto completamente il mio amico se non lo tratto in nessuno dei modi che sono contrari al rispetto che gli devo; allo stesso tempo, siccome sto dicendo la verità a qualcun altro che lo sta inseguendo, sto rispettando anche quest’altra persona. Si può ritenere – secondo me giustamente, come pensava anche Benjamin Constant – che è orribile e disumano fare ciò che secondo Kant bisognerebbe fare in questo caso, cioè consegnare il proprio amico alla polizia che lo sta cercando. Ma perché è moralmente atroce? Lo è solo se pensiamo che in alcuni casi dobbiamo trattare altre persone meramente come mezzi, ossia dobbiamo manipolarle, allo scopo di fare del bene ad altre persone. Ma questo è proprio ciò che è proibito dall’etica deontologica, che sostiene che non si deve mai violare il rispetto che si deve a chiunque, allo scopo di realizzare un qualche bene8.
17Sull’uso dei termini “kantismo” e “deontologia” occorre fare una precisazione. Il kantismo non coincide con la deontologia; è solo un esempio di una visione più ampia chiamata deontologia, che è in contrasto con il consequenzialismo o l’utilitarismo. Ci sono forme di deontologia che non fanno alcun uso del test kantiano di universalizzabilità. La visione di Kant è solo una versione della deontologia. Ma lo è perché è una visione che afferma che ci sono certi modi in cui dobbiamo rispettare gli altri, osservando certe proibizioni, che non dovremmo mai violare in vista di un bene maggiore. Perciò essere un deontologista non significa necessariamente essere un kantiano. Ma la ragione per cui mi sono concentrato sul kantismo, in contrasto con l’utilitarismo, è che penso che sia legittimo affermare che la storia della filosofia morale degli ultimi duecento anni è stata principalmente un dibattito fra gli appartenenti al campo utilitarista o consequenzialista, da una parte, e autori che si ispiravano a Kant, dall’altra. E questo dibattito lungo duecento anni può essere formulato più in generale come un dibattito fra consequenzialisti da una parte e deontologisti dall’altra. Per evitare fraintendimenti, vorrei dunque chiarire che il test di universalizzabilità di Kant è solo un modo tra altri di articolare l’etica deontologica.
Limiti del monismo etico
18Il punto di vista corretto, secondo me, è che c’è il ragionamento deontologico, c’è il ragionamento consequenzialista, ed entrambi sono modi validi di ragionare moralmente. L’errore sia degli utilitaristi sia dei kantiani consiste nel supporre che solo uno di questi principi possa essere legittimo. E penso che fondamentalmente esista più di un modo di ragionare moralmente, e che dobbiamo riconoscere la molteplicità di questi modi. Così, se dico che, nel caso che abbiamo considerato, bisognerebbe manipolare gli altri, allo scopo di proteggere la vita di qualcuno che è ricercato ingiustamente, ciò non significa che il consequenzialismo, o l’utilitarismo, sia in ultima analisi (in the end) la concezione corretta della moralità. Infatti penso che anche il consequenzialismo, o l’utilitarismo, da soli, possano condurre a risultati morali atroci.
19Al contrario, ciò che dobbiamo riconoscere è che c’è un certo numero di modi fondamentali di ragionare moralmente che dobbiamo onorare. Dobbiamo fare del nostro meglio per metterli insieme. In alcuni casi, naturalmente, non possiamo agire compatibilmente con tutti, e ci troviamo di fronte a quelli che sono chiamati “conflitti morali”; non sempre, ma talvolta, questi possono essere piuttosto difficili da risolvere. Ma questa è la mia visione, e naturalmente non è il punto di vista né dei consequenzialisti, né dei deontologi, e dei kantiani in particolare. Entrambe queste visioni, cioè sia il consequenzialismo sia la deontologia, sono visioni moniste, in quanto si tratta in tutti e due i casi di concezioni che suppongono ci sia un unico genere fondamentale di ragionamento morale in cui dovremmo impegnarci quando cerchiamo di determinare come dovremmo rispondere al bene di un altro in quanto ragione per l’azione. Come ho già anticipato, la mia visione è del tutto diversa. Infatti, non c’è un unico modo fondamentale di ragionare moralmente. Dobbiamo fedeltà sia al modo di ragionare consequenzialista, sia a quello deontologico, e inoltre, come spiegherò fra poco, le cose possono diventare anche più complicate di così.
20Prima di affrontare queste complicazioni vorrei dire che, se non sono un monista, è importante capire che ciò che sto difendendo qui non è ciò che è stato notoriamente difeso da Isaiah Berlin sotto il nome di “pluralismo”. Infatti, ciò a cui Berlin era maggiormente interessato è la molteplicità fondamentale e irriducibile delle forme del bene umano (per inciso, penso che in linea di massima Berlin avesse ragione in proposito). Ma questo non è ciò di cui sto parlando; ciò di cui sto parlando è la molteplicità delle forme di ragionamento sull’azione giusta da compiere per perseguire il bene degli altri. Se si vuole, è un pluralismo non del bene, ma del giusto, laddove per azione giusta si intende l’azione che si deve compiere in risposta al bene di un’altra persona.
21Così, ciò che chiamo “eterogeneità della morale” è il fatto che si dà una molteplicità fondamentale di modi di ragionare a proposito di quello che dovremmo fare per perseguire il bene degli altri. Uno di questi modi consiste nel principio consequenzialista in base al quale ciò che dovremmo fare è cercare di perseguire il maggior bene totale per tutti coloro che potrebbero essere toccati dalle nostre azioni, guardando a ciascuna persona imparzialmente. Il punto di vista deontologico afferma che il modo in cui dovremmo determinare ciò che dobbiamo fare, ossia il modo in cui dovremmo agire correttamente, consiste nell’aderire a certe proibizioni che incorporano delle forme di rispetto per gli altri, e che non dovremmo mai violare tali vincoli allo scopo di ottenere un qualche bene per altri. Come ho detto, la mia visione è che entrambi questi principi siano buoni principi. Essi entrano spesso in conflitto, come nel caso di cui parla Benjamin Constant, e in alcuni casi possiamo essere in grado di determinare, guardando al caso particolare, quale sia la forma di ragionamento morale che dovrebbe avere la precedenza. Io direi che nel caso di cui parla Constant dovremmo essere consequenzialisti, e non deontologisti. Ma in alcuni casi può essere molto difficile, quando questi principi del ragionamento morale sono in conflitto, determinare quale dei due dovremmo usare.
22Devo precisare che in generale non è solo perché si è in presenza di un conflitto morale che si deve parlare di conflitto irresolubile. Nel caso di cui parla Constant c’è un conflitto morale, ossia il conflitto fra il rispetto che devo a ciascun essere umano, incluso l’agente di polizia, e il mio dovere di proteggere la sicurezza di un essere umano ingiustamente perseguitato. Penso che in questo caso sia perfettamente ovvio che cosa si deve fare; ma ci possono essere casi in cui non è così ovvio.
23Come ho detto, ci sono almeno due principi fondamentali del ragionamento morale, ossia il consequenzialismo e la deontologia, ma essi non sono gli unici. Infatti, ciò che occorre notare, a proposito sia del consequenzialismo sia della deontologia, è che, a dispetto delle differenze, essi hanno un punto in comune: richiedono entrambi che affrontiamo con spirito imparziale il problema di che cosa dobbiamo fare moralmente. Secondo questi principi, dovremmo guardare agli altri esseri umani semplicemente in quanto esseri umani, e dovremmo lasciare da parte il genere di relazione speciale che possiamo avere nei confronti di alcuni esseri umani, ma non di altri. Sia il consequenzialista, sia il deontologo, ci dicono che quando pensiamo moralmente dovremmo pensare imparzialmente: dovremmo lasciare da parte le relazioni speciali che abbiamo con la nostra famiglia, con le nostre amicizie, o con la nostra religione, ossia le relazioni che abbiamo con certe persone ma non con altre. Ora, io penso che l’imparzialità non esaurisca il ragionamento morale. Possiamo parlare del tutto appropriatamente di ciò che dobbiamo moralmente ai nostri amici, ai membri della nostra famiglia, ai nostri correligionari. Questo non è un abuso del termine “morale”. Alcuni degli obblighi morali che abbiamo sono fondati sulle relazioni speciali nelle quali ci troviamo nei confronti di altre persone, sui modi di vita e sugli interessi speciali che ci legano a certe persone ma non ad altre. Quando quelle relazioni speciali spariscono, allora gli obblighi stessi vengono meno, anche se rimangono ancora degli obblighi imparziali, definiti consequenzialisticamente o deontologicamente. Sarebbe sciocco, per esempio, supporre che quando smetto di essere amico di una certa persona continuo a dovere a quella persona i doveri speciali di amicizia che avevo in precedenza nei suoi confronti. Ma naturalmente continuo a doverle quei doveri imparziali che possono essere definiti consequenzialisticamente o deontologicamente.
I doveri fondati sulla parzialità
24Abbiamo così una terza forma di ragionamento morale, nella quale determiniamo ciò che dobbiamo fare, ossia il modo in cui dobbiamo rispondere al bene degli altri, alla luce di una relazione speciale che abbiamo nei loro confronti. Questi sono quelli che chiamo “doveri fondati sulla parzialità”. Ma abbiamo, credo, dei doveri morali e forme di ragionamento morale che sono fondati sulle relazioni speciali che abbiamo gli uni nei confronti degli altri sulla base di stili di vita o di interessi particolari, e anche questo è un tipo fondamentale di ragionamento morale.
25Secondo la mia visione, ci sono tre tipi di ragionamento morale egualmente importanti, ossia tre modi in cui determiniamo come dobbiamo curarci di promuovere il bene di un’altra persona semplicemente perché si tratta del suo bene. Due di questi modi, ossia la deontologia e il consequenzialismo, ci chiedono di guardare al bene degli altri imparzialmente, lasciando da parte le relazioni speciali e gli interessi particolari che possiamo avere. Naturalmente, come abbiamo visto, il consequenzialismo e la deontologia differiscono profondamente nel modo in cui concepiscono il ragionamento imparziale riguardo a come dobbiamo perseguire il bene altrui. E poi c’è un terzo principio del ragionamento morale, ossia un principio che stabilisce come dobbiamo perseguire il bene degli altri, secondo il quale dobbiamo rispettare le relazioni specifiche e particolari nelle quali siamo nei confronti degli altri e dobbiamo fare il loro bene alla luce di quei legami speciali che abbiamo con loro.
26Come ho detto, sebbene sia il punto di vista dominante nella filosofia, secondo me è sbagliato supporre che uno di questi principi sia il principio ultimo del ragionamento morale. Al contrario, tutti e tre questi principi sono a fondamento del ragionamento morale. Non possiamo abbandonare o rifiutare nessuno di essi. Non possiamo ridurre nessuno di essi agli altri. Per esempio, sarebbe ridicolo supporre che la ragione per cui dovremmo avere amici e trattarli bene stia nel fatto che così potremmo concentrare i nostri sforzi di fare il bene su alcune persone particolari con le quali interagiamo da vicino, e in questo modo avremmo una probabilità particolarmente grande di riuscire a fare il maggior bene possibile. In altre parole, sarebbe sbagliato cercare di spiegare i doveri di amicizia in termini consequenzialistici, come il proposito di dedicarci in particolare ad alcune persone, facendo loro molto bene, al fine di produrre il maggior bene complessivo. Ciò è ridicolo. E infatti i nostri amici ci rimarrebbero molto male se sapessero che questa è la ragione per cui eravamo loro amici, e senza dubbio la loro amicizia verrebbe meno. Così, non si può capire nessuno di questi tre principi nei termini di uno degli altri. Inoltre essi sono non solo fondamentali e irriducibili, ma anche ineliminabili. Penso che se guardiamo alla nostra esperienza morale e riflettiamo su ciò a cui teniamo veramente dal punto di vista morale, ci rendiamo conto che si danno questi tre modi fondamentali di determinare come dovremmo comportarci per il bene degli altri.
27Vorrei concludere con una domanda, della cui risposta non sono sicuro. Tuttavia proverò a fornirne una. Come ho detto, abbiamo questi tre principi fondamentali del ragionamento morale. Non possiamo eliminare nessuno dei tre. Non possiamo ridurre nessuno di essi a uno degli altri. Ma come possiamo spiegare il fatto che la morale, e la nostra stessa esperienza morale, sono strutturate non da una, ma da tre forme fondamentali di ragionamento morale? Fino a questo momento ho parlato come se ci fossero queste tre forme fondamentali di ragionamento morale, ossia tre modi di ragionare circa il bene degli altri; ma perché c’è questa eterogeneità? A che cosa si deve questo “pluralismo del giusto”?
28Questa è l’ipotesi che propongo: le tre forme fondamentali di ragionamento morale che ho distinto emergono da tre generi fondamentalmente diversi di relazione nei quali possiamo stare nei confronti di altre persone. Il primo genere consiste, come ho detto, in stili di vita e interessi speciali che ci può capitare di condividere con qualcuno, ma non con altri. Questo è un fatto della vita umana, che penso sia dotato di valore. In ogni caso è un dato permanente della vita umana il fatto di avere relazioni speciali, fondate su interessi e progetti comuni, nelle quali ci troviamo nei confronti di certe persone ma non di altre. Ed è alla luce di questo modo di rapportarci ad altri che trova i propri fondamenti la forma di ragionamento morale che definisco “parzialità”, cioè gli obblighi speciali che abbiamo nei confronti di alcune persone, ma non di altre. Infatti, come ho detto, un modo fondamentale in cui possiamo rapportarci agli altri è nei termini di queste relazioni speciali. Ma naturalmente questo non è il solo modo in cui ci rapportiamo ad altre persone. Tutti noi, magari in diversa misura, e particolarmente nel nostro mondo, siamo in relazione con tutti gli esseri umani in quanto tali (e dobbiamo concepirci in questo modo), non solo con alcuni. Ed è da questo genere di relazione nella quale siamo nei confronti degli altri semplicemente in quanto esseri umani che traggono origine le forme di ragionamento morale che sono basate sull’imparzialità.
29Ci sono però due modi profondamente diversi di rapportarci agli altri esseri umani in quanto tali (cioè lasciando da parte le relazioni speciali nelle quali possiamo essere con loro). Uno di questi modi di guardare agli altri in quanto esseri umani consiste nel capire che anche loro sono esseri umani come noi, che hanno un loro bene, un loro benessere e delle probabilità di ottenerlo; anche loro hanno esperienze e diverse opportunità di vivere bene. È quando guardiamo ad altri esseri umani semplicemente come esseri che hanno il loro bene che dobbiamo ragionare moralmente su come bisogna comportarci nei loro confronti in modo essenzialmente consequenzialista. Se anche gli altri esseri umani hanno il loro bene, e siamo interessati a perseguirlo, allora dobbiamo cercare di produrre il maggior bene possibile per gli altri. E dunque, quando guardiamo agli altri semplicemente come a esseri che hanno il loro bene, allora il modo di ragionare appropriato è quello consequenzialista. Ma questo non è il solo modo di rapportarsi ad altri esseri umani. Ci relazioniamo a tutti gli altri esseri umani non solo alla luce del fatto che essi hanno il loro proprio bene, ma anche alla luce del fatto che dovrebbero essere trattati o non trattati da noi in certi modi. Stiamo in relazione con loro nei termini in cui loro si relazionano a noi. Li vediamo non solo come esseri che hanno il loro proprio bene, ma anche come esseri che hanno dei diritti nei nostri confronti, magari proprio per via del fatto che hanno il loro proprio bene. E quando guardiamo agli altri esseri umani come tali alla luce dei loro diritti nei nostri confronti, allora ragionare moralmente su ciò che dobbiamo fare significa rispettare i diritti che possiedano nei nostri confronti in quanto esseri umani. Ed è in questa prospettiva che sono appropriate le forme deontologiche di ragionamento morale. Ragioniamo deontologicamente quando cerchiamo di rispettare i diritti che altri possiedono nei nostri confronti. Così rispettiamo il loro diritto che esige che manteniamo le nostre promesse, diciamo loro la verità e non violiamo la loro integrità fisica.
30Credo che sia importante cercare di spiegare perché ci siano queste tre forme fondamentali di ragionamento morale. Infatti, ritengo sia legittimo dire che, per quel che riguarda le due forme di ragionamento morale imparziali (quelle che ho chiamato consequenzialismo e deontologia), i filosofi (almeno nel mondo anglo-americano) hanno generalmente assunto che il consequenzialismo abbia intuitivamente molto senso, mentre ciò non vale per la deontologia. La deontologia sembra strana, bizzarra9. Ma penso che l’aria di stranezza del ragionamento deontologico scompaia non appena ci rendiamo conto di questo: quando siamo in relazione con altre persone semplicemente in quanto esseri umani, un modo di trattarle è in quanto esseri dotati del loro proprio bene; ma non dovremmo dimenticare che un altro modo fondamentale in cui siamo in relazione con gli altri (forse dovremmo chiamarla “intersoggettività”, per darle un nome altisonante) consiste nel rispondere al loro diritto nei nostri confronti a essere trattati in certi modi che implicano che li rispettiamo in quanto esseri individuali e insostituibili. Questa è la prospettiva in cui sono appropriate le forme deontologiche di ragionamento morale. Come ho detto, questa è un’ipotesi, ed è un’ipotesi in grado di rendere ragione di quella molteplicità fondamentale di forme di ragionamento morale, ossia di forme profondamente diverse, e tutte valide e irriducibili, di rispondere al bene degli altri, che ha guidato questa mia riflessione.
Notes de bas de page
5 Mi soffermo su questa definizione del punto di vista morale nella prima parte di The Autonomy of Morality, in Ch. Larmore, The Autonomy of Morality, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, capitolo 4.
6 M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. it. F. Tuccari, Torino, Einaudi, 2004, p. 109.
7 Si ricordi che Constant sollevava le sue obiezioni durante il regno del Terrore; non si trattava di una questione meramente speculativa e astratta. Il saggio di Kant è intitolato Über ein vermeintliches Recht, aus Menschenliebe zu lügen.
8 Si può pensare che, se Kant fosse stato costretto a confrontarsi nei fatti con l’esempio proposto da Constant, avrebbe fatto qualcosa di diverso. Si può sperare che egli avrebbe deciso che non bisogna dire al poliziotto dove è nascosto l’amico. E ci sono alcuni kantiani contemporanei che hanno cercato di mostrare che Kant non avrebbe dovuto accettare ciò che ha accettato. In un saggio molto famoso di alcuni anni fa, intitolato The Right to Lie: Kant on Dealing with Evil (Philosophy & Public Affairs, vol. 15, n. 4, 1986, pp. 325-49), Christine Korsgaard ha cercato di mostrare come Kant avrebbe potuto essere d’accordo con Constant a proposito del fatto che bisogna mentire all’agente di polizia. Non intendo addentrarmi in questa sede nell’interpretazione di Kant; dirò solo che Kant ha detto quel che ha detto, anziché quello che Korsgaard voleva che dicesse, e che lo ha detto perché era kantiano, credendo che non si può violare il rispetto che si deve a chiunque, anche se violare il rispetto che si deve a una persona, manipolandola, può essere l’unico modo in cui si può proteggere la vita o il benessere di un’altra persona. Questo è il tratto distintivo di una concezione deontologica. Ma, come si vedrà, penso che questa visione non sia plausibile, giacché non sono un deontologista, anche se non sono neppure un consequenzialista.
9 V. il libro di S. Scheffler, The Rejection of Consequentialism, Oxford, Clarendon Press, 1982.
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