Introduzione
p. 17-25
Texte intégral
1Desidero innanzitutto dire qualcosa sul modo in cui ho concepito queste lezioni nel loro insieme. Parlerò, per così dire, del mio approccio generale, e del modo in cui le lezioni sono connesse.
2Ho organizzato queste lezioni intorno a cinque differenti argomenti che sono stati importanti nel mio lavoro filosofico. Sono argomenti collegati fra di loro, e che hanno una certa unità o connessione sistematica gli uni con gli altri. Tuttavia, devo precisare subito che non mi concepisco come un filosofo sistematico, se per filosofo sistematico si intende qualcuno che ha un principio fondamentale o una prospettiva filosofica che vengono poi applicati a una serie di ambiti diversi. Io non ho alcun principio guida di questo genere, a differenza di molti grandi filosofi del passato. La mia esperienza filosofica è sempre stata di questo tipo: prendevo le mosse da un certo problema che mi affascinava o mi dava da pensare, per scoprire che, quando analizzavo tale problema più da vicino, mi trovavo costretto ad affrontare altri problemi, connessi in un modo o nell’altro con la questione dalla quale avevo iniziato. Così, per via, ho sviluppato una qualche sorta di approccio sistematico alla filosofia, ma certamente non sono partito da alcuna prospettiva filosofica fondamentale.
3Se dovessi proprio scegliere una prospettiva fondamentale alla quale mi sono sempre attenuto, si tratterebbe di una prospettiva che chiamerei la “legge della conservazione dell’imbarazzo”3. I problemi filosofici, di norma, sono di natura fondamentale; hanno per oggetto aspetti fondamentali della nostra esperienza, e le loro conseguenze attraversano diversi ambiti di essa. Quando trattiamo un problema filosofico, cominciamo con l’affrontarne un aspetto specifico, per esempio un insieme particolare di fenomeni nei quali si è manifestato. Proviamo a vedere se tra questi vi sia un ordine o una coerenza sistematica, e una volta che ci siamo riusciti – se siamo fortunati – passiamo ad altri aspetti della questione. Ma quello che spesso scopriamo è che altre persone, che si sono occupate dello stesso problema filosofico, ne hanno scelto aspetti differenti. Hanno cercato di armonizzare e di sistematizzare quegli altri aspetti, e sono arrivate a concezioni o a soluzioni del problema molto diverse da quelle alle quali siamo arrivati noi. Così scopriamo che, sebbene crediamo, magari giustamente, di essere arrivati a una soluzione del problema filosofico in questione, dobbiamo riconoscere di avere più successo con taluni aspetti di esso piuttosto che con altri, e che le altre soluzioni danno meglio ragione degli aspetti con i quali noi abbiamo maggiori difficoltà. Questo è ciò che intendo per “legge della conservazione dell’imbarazzo”.
4Insomma, la morale della legge della conservazione dell’imbarazzo è che i problemi filosofici sono reali. Così, sebbene apprezzi Wittgenstein, sono profondamente in disaccordo con l’idea wittgensteiniana che i problemi filosofici non siano reali. Penso che siano problemi reali, ma penso anche che siano problemi che di solito sono più grandi delle risorse di cui disponiamo per risolverli. Questo è il significato della legge della conservazione dell’imbarazzo.
5Con questo non voglio dire che sono uno scettico, o comunque non uno scettico filosofico in nessun senso comune del termine. Penso che la verità sia qualcosa che possiamo scoprire in filosofia. Possiamo avere ragioni per credere che certe visioni siano vere, e dobbiamo difendere apertamente e chiaramente le idee che crediamo essere vere. Ma allo stesso tempo ritengo che sia importante tenere sempre a mente che anche le migliori soluzioni filosofiche sono esposte al dubbio a partire da qualche altra prospettiva. Dobbiamo renderci conto che alla fine il lavoro filosofico non è mai veramente concluso.
6Così, è tenendo a mente la legge della conservazione dell’imbarazzo che vi incoraggio ad affrontare queste lezioni, ponendomi domande che mettono in dubbio ciò che dico, perché in questo modo impariamo tutti, non solo voi ma io stesso. E durante queste lezioni cercherò anch’io di suggerire alcune domande o problemi che credo di non essere stato in grado di trattare come avrei dovuto a partire dalle teorie che propongo. Ovviamente non siete tenuti a credere che le mie domande siano le più importanti.
7Torniamo ai cinque temi che ho proposto per questo seminario, e al modo in cui penso siano connessi fra di loro.
8Nella prima lezione inizieremo col guardare alla nostra esperienza morale. Con ciò intendo i nostri giudizi morali più ponderati, cioè quei modi di vedere il mondo che rappresentano le nostre idee morali più pensate. La questione che verrà esplorata è: quale tipo di ordine o di struttura si può trovare nella nostra esperienza morale? Ciò che voglio suggerire è che nella nostra esperienza morale c’è un ordine e una struttura, ma che questo ordine o struttura non ha la natura di un unico principio morale fondamentale, ossia una qualche forma unica di ragionamento morale che unifichi l’ambito della nostra esperienza morale. Piuttosto, credo che ci sia una pluralità, una molteplicità di modi fondamentali di ragionamento morale e di obblighi morali fondamentali che abbiamo nei confronti degli altri. Ciò che intendo per “eterogeneità della morale” è questa molteplicità fondamentale del ragionamento morale.
9Nella seconda lezione faremo un passo indietro, per considerare che cosa sia in generale il pensare, e in particolare il fare filosofia; e come sia possibile ritenere – come generalmente si fa in filosofia – di stare perseguendo la verità, allorché cerchiamo di capire come le cose stiano realmente (ossia, nel nostro caso specifico, quale sia la vera natura dell’esperienza morale) dovendo allo stesso tempo riconoscere che siamo degli esseri storici, modellati da varie tradizioni di pensiero alle quali partecipiamo, e dipendenti in vari modi dalle contingenze del tempo e del luogo nel quale ci troviamo. Così questo primo problema consiste nel capire come possiamo mettere insieme la filosofia come ricerca della verità, e il fatto che non possiamo allontanarci dalla nostra situazione storica, giacché siamo tutti esseri storici. La domanda che ci porremo è: possiamo conciliare queste due dimensioni della riflessione filosofica? Ovviamente, nella storia della filosofia c’è sempre stata la convinzione che queste due cose siano incompatibili. Ci sono filosofi che hanno ritenuto che l’unico modo in cui possiamo ragionevolmente supporre di ottenere qualcosa come la verità consista nel riuscire a prendere le distanze dal nostro contesto storico e vedere il mondo e noi stessi da un punto di vista simile a quello dell’eternità. Dall’altra parte ci sono stati dei filosofi che hanno creduto che sia impossibile raggiungere quel punto di vista, o che – per usare l’espressione di Thomas Nagel – dal punto di vista dello “sguardo da nessun luogo” (cioè al di fuori del nostro contesto storico) non avremmo i mezzi per determinare che cosa sia vero. Ritengo che la maggior parte della tradizione filosofica abbia supposto in un modo o nell’altro che queste due cose – la ricerca della verità e l’ammissione della nostra storicità – siano incompatibili. Ma penso che questo non sia corretto, e che ciò che dobbiamo imparare a vedere è che la contingenza nel tempo e nello spazio, le tradizioni di pensiero che hanno fatto di noi ciò che siamo, il nostro contesto storico, ben lungi dall’essere un ostacolo al nostro perseguimento della verità, sono proprio i mezzi che ci mettono in grado di scoprire qualcosa come la verità.
10Nella terza lezione mi allontanerò ancor più dal tema della morale. Ma questa volta ci allontaneremo in una direzione differente, avendo in mente un fine diverso. La filosofia è essenzialmente una disciplina normativa. Con ciò intendo dire che si occupa in generale di determinare come dovremmo concepire noi stessi, in quanto esseri che danno forma a credenze e azioni sulla base di ragioni. In altre parole, la filosofia è una disciplina normativa che si concentra su di noi in quanto esseri che hanno preoccupazioni normative. La filosofia indaga su come dovremmo pensarci, e pensarci in modo da concepire noi stessi come impegnati a determinare come dovremmo pensare e agire. Dunque una domanda importante che la filosofia deve porsi è: qual è la natura del pensiero normativo in generale? Cioè: qual è in generale la natura del pensiero riguardo a come dovremmo agire e pensare? Come dovremmo a questo riguardo pensare il mondo e noi stessi? La filosofia è una disciplina che si occupa di questi aspetti normativi della nostra esperienza.
11Ma che cosa significa pensare a ciò che dovremmo fare e credere? Quando ci chiediamo che cosa dovremmo fare e credere, stiamo cercando delle buone ragioni per pensare una cosa o un’altra, o per agire in un certo modo piuttosto che in un altro. Così, questa domanda generale, relativa a che cosa significhi riflettere su ciò che dobbiamo fare e credere, di fatto verte sulla natura delle ragioni, e su quale sia il loro posto nel mondo. Le ragioni “esistono”? Le ragioni per agire e per credere vengono “scoperte”? E se scopriamo ciò che dovremmo credere e fare, che posto occupano di fatto nel mondo le ragioni, le norme e i principi? Questo è dunque il tema della terza lezione.
12Vi sarete resi conto che questo fa presto a diventare un tema metafisico, ossia un tema che riguarda la natura delle ragioni, delle norme e dei principi e con il posto che essi devono avere nel mondo. Io non credo che la metafisica sia morta. Non l’ho mai creduto, a dispetto di Heidegger, Carnap e altri, e penso che se la metafisica è morta allora anche la filosofia è morta. Ritengo che alla fine non possiamo evitare queste domande e dobbiamo rispondervi in un modo o nell’altro. La terza lezione sarà quindi dedicata in parte a queste domande metafisiche sulla natura delle norme, delle ragioni e dei principi del pensiero e dell’azione. E vedrete che sarò apertamente metafisico, dal momento che la visione che difenderò è definita “platonismo delle ragioni”. In definitiva Platone aveva visto giusto. O, meglio, aveva torto a proposito di molte cose, o almeno ci sono molte cose che non mi sognerei mai di recepire da Platone, ma c’è una cosa riguardo alla quale aveva fondamentalmente ragione: se crediamo che la conoscenza sia possibile, e in particolare se crediamo che la conoscenza filosofica sia possibile, allora dobbiamo ritenere che la realtà, ossia il mondo, contenga una dimensione normativa. Dobbiamo vedere le stesse ragioni come reali, come oggetti di scoperta, come cose di cui possiamo venire a conoscenza.
13Nella terza lezione ci troveremo dunque a un livello piuttosto elevato di astrazione; ma non ci muoveremo solo a un livello così alto. Infatti, cercherò di usare queste tesi metafisiche per illuminare la natura della morale. Così torneremo a cose più concrete. In particolare, ciò che sosterrò nella terza lezione è che dobbiamo vedere la nostra esperienza morale, così come la nostra esperienza in generale, come un modo di rispondere alle ragioni che esistono. Quando pensiamo moralmente, cerchiamo di conformarci alle ragioni per l’azione che crediamo si diano effettivamente.
14Ciò significa che svilupperò una critica a un’idea tipicamente moderna dell’autonomia, nel senso in cui Kant usa il termine. Devo precisare che “autonomia” è un termine usato in molti modi differenti, nella filosofia moderna. Una cosa che mi ha colpito, all’inizio di questa ricerca, è che nessuno aveva mai niente di negativo da dire sull’autonomia. Erano tutti a favore dell’autonomia. E questo mi ha reso molto sospettoso, perché fino ad allora non mi ero mai imbattuto in un concetto filosofico sul quale nessuno avesse nulla da obiettare. Così ho cominciato a pensare che o le persone, quando parlano di autonomia, non sanno di che cosa stanno parlando, oppure non ci hanno pensato attentamente. E alla fine la mia conclusione è che si tratta di tutte e due le cose contemporaneamente.
15C’è un modo d’intendere l’autonomia cui non ho nulla da obiettare, ed è l’idea che le persone dovrebbero pensare con la propria testa, e non demandare ad altri la loro capacità di pensare. Perciò uno dei significati di “autonomia” rimanda a un certo tipo di indipendenza dagli altri di cui dovremmo godere. L’autonomia, in questo senso, riguarda la nostra relazione con le altre persone. Questo non è il senso di autonomia al quale obietterò. Ma c’è un altro senso di autonomia, che non concerne la nostra relazione con altre persone, ma piuttosto la nostra relazione con i principi del pensiero e dell’azione con i quali operiamo. E questo secondo senso, che è un senso fondamentale, è l’idea che i principi del pensiero e dell’azione con i quali ciascuno di noi opera, individualmente o collettivamente, abbiano l’autorità che hanno su di noi solo perché noi stessi siamo fondamentalmente gli autori di tale autorità. In ultima analisi, siamo noi che legiferiamo – come direbbe Kant – sui principi che guidano il nostro pensiero e le nostre azioni. Ed è questo il senso di “autonomia” che criticherò.
16Se si va a leggere il famosissimo saggio di Kant Che cos’è l’illuminismo?, quello che si trova è il primo senso di autonomia che ho menzionato, ossia quello per cui ciascuno deve pensare per se stesso. Ma curiosamente in quel saggio Kant non usa mai la parola “autonomia”. Kant ha usato la parola “autonomia” solo quando ha scritto i suoi libri sui fondamenti della filosofia morale, come la Fondazione della metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica, e ha usato tale parola per descrivere non la nostra relazione nei confronti di altre persone, ma la nostra relazione nei confronti dei principi fondamentali dell’azione e del pensiero in base ai quali operiamo. Così – per ritornare al tema metafisico che svilupperò nella terza lezione – sosterrò che, quando investighiamo la natura dei principi o delle ragioni, dobbiamo riconoscere che i principi e le ragioni esistono indipendentemente da quello che pensiamo su di essi, e che hanno su di noi un’autorità che non siamo noi stessi a creare. Ed è in relazione a questa tesi che guarderò all’idea kantiana di autonomia e ne svilupperò alcune critiche fondamentali.
17In generale penso che la ragione sia una facoltà che possediamo, e che esercitiamo naturalmente in diversi gradi e con diverso successo, ma ciò che la facoltà della ragione rappresenta è la nostra capacità di rispondere alle ragioni. E nella ragione c’è una fondamentale passività, che i kantiani e una gran parte della filosofia moderna penso non abbiano saputo riconoscere.
18Così, nella terza lezione, come ho detto, non parleremo soltanto del tema metafisico essenziale di quale sia la natura della ragione e delle ragioni, ma guarderemo anche alla natura della morale dal punto di vista di quella che definisco una “concezione platonica” o realista delle ragioni. Come vedete, la terza lezione è la più ambiziosa, e la più difficile. L’ho collocata a metà, così ci si sarà potuti scaldare un po’ prima di arrivarvi; infine ci potremo un po’ rilassare nelle due lezioni successive.
19Nella quarta lezione passerò al tema che ho definito “la natura dell’io”; ma non abbandoneremo le osservazioni sulle ragioni e sulle norme che avremo svolto durante la terza lezione, perché cercherò di usare il realismo sulle norme e i principi che avrò sviluppato in tale sede per comprendere la natura dell’io e la natura della soggettività.
20Quello della soggettività è stato uno dei temi più importanti della filosofia moderna, se non addirittura l’unico o quello più fondamentale. Sin dall’inizio, a partire da Descartes, il problema capitale riguardo alla soggettività è stato naturalmente quello di capire la natura dell’io e del soggetto, e quello di capire in che modo il fatto di essere un soggetto significhi essere in rapporto con se stessi in un modo fondamentale. Questo è un punto che è espresso molto bene in diverse lingue europee che hanno una parola per l’io. In inglese e in tedesco abbiamo self o Selbst, mentre in francese abbiamo moi, in italiano io, che designano un essere nel modo in cui tale essere designa se stesso. Così c’è una autoreferenzialità fondamentale attraverso la quale noi siamo soggetti.
21Il problema centrale però è sempre stato quello di capire come intendere la natura del rapporto fondamentale che abbiamo con noi stessi e in virtù del quale noi contiamo come soggetti. Penso che il tentativo principale della filosofia moderna sia stato quello di comprendere tale rapporto fondamentale del soggetto con se stesso in termini essenzialmente cognitivi. Si è trattato cioè del tentativo di comprendere il rapporto che fa di noi dei soggetti come una forma speciale di conoscenza, che ciascuno di noi ha a proposito di se stesso. Per esempio, nella storia della filosofia moderna, al tempo di Descartes e di Locke, c’era l’idea che questo rapporto fondamentale dell’io con se stesso consistesse nel fatto che noi riflettiamo sempre su noi stessi, ossia nel fatto che si dà una relazione cognitiva con noi stessi che è una conoscenza per via di riflessione. Ma divenne presto chiaro che questa non era una soluzione possibile, dal momento che la riflessione è un’attività che è lo stesso io a eseguire; e se l’io deve già esserci per poter riflettere, l’io non può essere costituito dalla sua capacità di riflettere su se stesso. Questa è, nelle parole di Dieter Henrich, l’intuizione fondamentale di Fichte. Quest’ultimo, assieme a molti altri negli ultimi due secoli, ha supposto che nei confronti di noi stessi noi abbiamo un tipo di conoscenza o di familiarità particolarmente intima, preriflessiva, grazie alla quale siamo dei soggetti. Questa consapevolezza sarebbe così intima da eliminare qualsiasi distinzione fra soggetto e oggetto, qualsiasi distinzione fra il noi che è consapevole e il noi che è l’oggetto della consapevolezza. Questo naturalmente suona molto misterioso, e lo è. Infatti penso che in definitiva i tentativi di capire la natura dell’io e della soggettività nei termini di un rapporto che abbiamo con noi stessi, inteso come una forma di conoscenza, non funzionino, e generino paradossi o misteri. E, sebbene io non sia un positivista, sono cresciuto alla filosofia nella scuola del positivismo logico. Uno dei miei maestri è stato Quine. Non credo che i paradossi siano reali, e non credo che i misteri siano reali. Se si ha un paradosso o un mistero, si ha un problema di cui occorre sbarazzarsi.
22Nel libro che ho scritto sull’io ho provato ad adottare un approccio differente4. Ho cercato di dire innanzitutto che noi abbiamo effettivamente un rapporto essenziale con noi stessi, ma che questo non è una specie di conoscenza riflessiva o che abbiamo di noi, ma piuttosto una relazione che abbiamo con noi stessi in quanto esseri pratici, o meglio normativi. Il modo migliore per spiegare ciò che ho in mente è considerare una caratteristica fondamentale della nostra esperienza, chiedendoci che cosa significhi credere in qualcosa. Ora, supponiamo che ciò che crediamo sia qualcosa di elementare e quotidiano, come per esempio che oggi c’è il sole. Che cosa significa credere che oggi c’è il sole? Supponiamo inoltre che questa sia una credenza sulla quale non abbiamo riflettuto; semplicemente l’abbiamo. Che cosa significa crederlo? Penso che credere qualcosa significhi impegnarsi a pensare e ad agire in conformità con la presunta verità di ciò che si crede. Credere che fuori ci sia il sole consiste nell’impegnarsi a dire altre cose, pensare altre cose e fare altre cose, sulla base dell’assunto che sia vero che fuori c’è il sole. Non si possono spiegare neppure i tipi più fondamentali di credenza che abbiamo se non in termini di questo genere di impegno che abbiamo con noi stessi a pensare e ad agire conformemente alla verità presunta di ciò che crediamo.
23E questo stesso rapporto che abbiamo con noi stessi, che consiste nell’essere impegnati o nell’impegnarci a pensare e ad agire in conformità con la verità presunta di ciò che crediamo, è esattamente ciò che fa di noi dei soggetti. Tale rapporto con noi stessi ci impegna a rispondere alle ragioni che ci sono per pensare e agire data la verità presunta di ciò che crediamo. Perciò siamo esseri che pensano e agiscono rispondendo a ciò che percepiamo come ragioni per pensare e agire; e rispondiamo alle ragioni per pensare e agire in virtù del fatto che ci impegniamo e rimaniamo impegnati nei confronti di varie cose. Spesso non sappiamo a che cosa ci siamo impegnati, e lo scopriamo riflettendo, cercando di capire che cos’è che crediamo effettivamente e a che cosa ci siamo impegnati. Ma molto prima che abbiamo una qualsiasi conoscenza di noi stessi, che è sempre limitata (credo che la conoscenza che abbiamo di noi stessi non sia fondamentalmente migliore dalla conoscenza che di noi hanno gli altri, e che anzi spesso sia peggiore) ed è altresì completamente indipendente da tale conoscenza, c’è questo rapporto fondamentale che abbiamo con noi stessi come persone che credono, come esseri in grado di rispondere a ragioni.
24Con la quinta lezione torniamo a cose più concrete, ossia al mondo della politica. È sempre stata mia convinzione che nel nostro pensiero politico non dobbiamo fare affidamento su tutta la verità di cui pensiamo di disporre. A questo punto vi sarete resi conto che il mio modo di concepire “tutta la verità” è piuttosto particolare. Ma non penso che le mie convinzioni politiche presuppongano ciò di cui avrò parlato nelle lezioni precedenti. Infatti, in generale, ritengo che nel pensiero politico non ci basiamo, e non ci dovremmo basare, su tutta la verità, ma piuttosto dovremmo basarci su una moralità essenziale o fondamentale che è pensata tenendo a mente una caratteristica fondamentale dello stesso ambito politico. In ultima analisi penso che Weber avesse ragione sul fatto che i rapporti politici dipendono in definitiva dalla forza, e che fondamentalmente la società politica si regga sull’uso legittimo della forza. E allora l’oggetto della morale politica è questo: quali sono le norme morali che dovrebbero governare l’uso legittimo della forza? È avendo in mente quest’idea che ho sviluppato quello che chiamo “liberalismo politico”. Si tratta di un tentativo di riformulare la tradizione liberale distinguendola dalle aspirazioni morali piuttosto ambiziose che storicamente vi erano associate: le idee sul valore dell’individualismo che si possono trovare in autori come J.S. Mill, o le idee di ampia portata sull’autonomia che si possono trovare in Kant. Quello di riformulare il liberalismo in una forma più modesta, ma sempre come una posizione morale (sebbene fondata su una morale essenziale), è un progetto che condivido con John Rawls. Tuttavia nel concepire questo progetto penso di differire su alcuni punti importanti dalla visione di Rawls. Perciò nella quinta lezione parleremo di politica, e in particolare di liberalismo politico.
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