L’indefinibile o l’uomo
p. 97-120
Texte intégral
1Questo tema sarà il più arduo, almeno per me, poiché tratta una questione su cui non ho ancora una posizione definitiva, tale da consentirmi di avanzare tesi senza riserve. Va peraltro da sé che io non abbia risposte alla questione, poiché voglio parlarvi di una questione che non ha risposte. Essa è: cos’è l’uomo?
2Conosciamo tutti la celebre domanda di Kant, esposta nel corso della «Logica»51, allorché egli pone la questione «che cosa posso sapere?» (Was kann ich wissen?), concernente i principi della conoscenza umana, ovvero, per Kant come per tutti i filosofi dopo Descartes, i primi principi della conoscenza umana, vale a dire, la metaphysica generalis, l’ontologia. Vi è poi l’interrogativo «cosa devo fare?» (Was soll ich tun?), indicante il dominio della ragion pratica, e infine «cosa posso sperare?» (Was darf ich hoffen?), relativo al dominio della religione o, in una certa maniera, della terza Critica. Queste tre domande – dice Kant – possono tutte rapportarsi all’antropologia, perché precedono l’ultima questione cui si riferiscono e l’ultima questione è «cos’è l’uomo?», ultima che è dunque di fatto la prima. Heidegger commenta dicendo che l’instaurazione antica del fondamento fa scoprire che fondare la metafisica è un’interrogazione sull’uomo, è antropologia52. Allora la difficoltà sta nel sapere cosa significhi rispondere alla domanda «cos’è l’uomo?».
3Kant aveva dato un tentativo di risposta ne L’antropologia dal punto di vista pragmatico. Poiché la questione dell’uomo – diceva Kant nel corso della «Logica» – si rapporta all’antropologia, è naturale ch’egli faccia un’antropologia dal punto di vista pragmatico, che egli cerchi di dare lì una risposta. Questa risposta è complessa, ma se ne trova una formulazione nella Prefazione dell’Antropologia: «L’oggetto più importante (Gegenstand) del mondo, cui l’uomo possa applicare le conoscenze e le tecniche, è l’uomo, perché l’uomo è fine a se stesso. Il conoscerlo, dunque, come essente terrestre dotato di ragione (Erdwesen mit Vernunft begabtes) merita, in modo assai particolare, di essere designato come conoscenza del mondo, per quanto l’uomo non costituisca che una parte della natura terrestre»53. L’argomento tende a dire che il più importante oggetto del mondo, ossia ciò che merita d’esser chiamato, per eccellenza, conoscenza del mondo è la conoscenza dell’uomo, che è un ente del mondo (Erdwesen), poiché egli, dotato di ragione (mit Vernunft begabtes), costituisce la parte essenziale del mondo stesso.
4L’interrogazione concerne qui il sapere come si possa definire l’uomo, come l’uomo possa definire se stesso, la parte di mondo più essenziale, quella che apporta la conoscenza dell’uomo stesso. Ci sono infatti due difficoltà nella tesi che Kant suggerisce. La prima è che l’uomo possa essere conosciuto come un oggetto in cui il mondo si riassume, cioè che l’uomo possa essere in una certa maniera un oggetto come lo sono gli oggetti del mondo per l’uomo, dicendo che l’uomo può conoscere l’uomo come l’oggetto essenziale del mondo. Si vede quindi benissimo che in questo enunciato ci sono due difficoltà: primariamente, può l’uomo conoscere l’uomo? Cosa significa riportare la conoscenza all’origine della conoscenza? E dall’altra parte, l’uomo può conoscere l’uomo come un oggetto?
5Ciò che è in causa qui, tra l’altro, è lo statuto (pensato al momento del compimento della metafisica) del γνῶθι σαυτόν (gnôthi sautòn), dell’ingiunzione, che era inscritta sul tempio di Apollo a Delfi, «conosci te stesso!». La questione di conoscere se stessi apre in filosofia una tournure tutta particolare, di cui Kant è l’erede, in quanto la filosofia stessa ha posto che la conoscenza dell’io costituisce la prima conoscenza della filosofia. In altri termini, prima di Descartes conoscere se stessi poteva venir considerato come il compimento finale della filosofia e della saggezza, come un esercizio su di sé, ma, a partire da Descartes e dalla modernità della metafisica, la situazione è profondamente cambiata, perché si deve cominciare con la prima conoscenza e la prima conoscenza è la conoscenza dell’ego. Del resto è degno di nota che la conoscenza dell’ego coincida in certo modo con l’impossibilità di definire l’ego.
6Facciamo qualche esempio. Lascio da parte il caso di Montaigne, che evidentemente, in una certa maniera, resta all’interno del «me» (moi), pone il me come scelta della ricerca e non arriva mai a una conoscenza o a una definizione del me; più conosco il me, meno posso definirlo. Questa non è una tesi riflessivamente teorizzata da Montaigne, ma da lui mostrata concretamente. Paradossalmente è con Descartes che questo paradosso (più io conosco l’io, l’ego, meno posso definirlo) si propone con chiarezza, con evidenza. In effetti, dal momento della dimostrazione dell’esistenza dell’ego (ego sum, ego existo) Descartes si domanda: io, che so che sono (esistenza), so chi sono o cosa sono (essenza)? E la risposta consiste nel dire che, certo, si potrebbe affermare che io sono un animale pensante, un animale razionale (come vuole la definizione dell’uomo posta da Aristotele) o che sono mens, intellectus, animus, anima, ma – dice Descartes – non posso assumere questa definizione, perché non conosco il senso delle parole e non posso verificare la validità dei concetti. Dunque, in una certa maniera, dire «io so che io sono» significa «io non so ciò che sono».
7Si potrebbe controbattere che quell’assunzione è inesatta, perché Descartes stesso darà una definizione di ciò che io sono, della mia essenza, dicendo che io sono una res cogitans, una cosa pensante. Possiamo chiederci cosa sia per Descartes una «cosa pensante». Innanzi tutto è da osservare che la nozione di «cosa» è scelta perché è il termine più indeterminato e dunque quello che permetterebbe la definizione, se ce n’è una. Ciò che è significante però non è «cosa», bensì «pensante», ma appunto anche «pensante» resta indeterminato, perché Descartes, nelle Meditazioni, ammette una pluralità di modi della cogitazione: res cogitans è una res dubitans, multa ignorans, pauca intelligens, volens, nolens, immaginans quoque, et etiam sentiens (una cosa che dubita, che ignora molte cose, che ne comprende alcune, che vuole, che non vuole, che immagina anche e che sente).
8Queste modalità sono presentate da Descartes sullo stesso piano, mentre è semplicemente non vero quanto sostenuto da Gueroult, che la res cogitans è in primo luogo intellectus. Non si sa perché Gueroult abbia voluto introdurre e sostenere questa interpretazione, divenuta illustre, contro citazioni e citazioni di Descartes. La res cogitans non è un intelletto, non è un νοῦς (noús), è un insieme di modalità; il punto è sapere se tale insieme è gerarchizzato e la risposta è negativa. Ci sono numerosissimi esempi che mostrano questa non-gerachia, non-organizzazione della res cogitans, la quale dunque non è una definizione in senso stretto.
9La volontà, per esempio, definisce più o meno la res cogitans tanto quanto l’intellectus. Perché? Perché la volontà si trova dall’origine ed è lei che permette il dubbio. Il dubbio è un atto di volontà (la I Meditazione è molto chiara su questo punto). Per certi versi dunque la supremazia è della volontà. Del resto la volontà è detta (nella IV Meditazione) la modalità della cogitazione in forza della quale io sono a immagine e somiglianza di Dio. Inoltre, la saggezza (in Descartes la «generosità») si caratterizza per la soddisfazione di sé, resa possibile dalla coscienza d’aver fatto il miglior uso possibile del proprio libero arbitrio, cioè della volontà. La volontà è allora all’origine della res cogitans; cronologicamente non c’è dubbio. C’è già volontà prima che l’intelletto sappia qualche cosa di certo; fa sì che la res cogitans, benché finita, sia infinita. La res cogitans, che è finita, ha una modalità infinita, la volontà, che costituisce anche il compimento della saggezza. È dunque chiaro che la volontà ha un primato sull’ego.
10Descartes definisce l’ego come res volens, e giustamente, perché per lui la volontà ha per caratteristica d’essere indifferente ai suoi oggetti. Nella saggezza, per esempio, la volontà giudica se stessa: questa è una definizione del bene puramente formale. L’oggetto della volontà non conta, è il giudizio del buon uso della volontà. Dunque, in un certo senso, la volontà è vuota: nel caso del dubbio essa è vuota per definizione e nel caso della somiglianza con Dio Descartes precisa che la volontà è mia quando è considerata formaliter, ossia facendo astrazione da ciò che la mia volontà conosce degli oggetti del volere e da ciò che la volontà potrebbe fare dei suoi oggetti secondo il suo potere. È dunque astrattamente, formaliter, che essa è infinita. Dunque la volontà non ha contenuti. Perciò definire la res cogitans mediante la volontà significa dire che la res cogitans è indefinita, e questa per Descartes è veramente la sua definizione.
11Si deve anche notare che in Descartes (nella VI Meditazione, a conclusione dell’opera) la percezione, il momento dell’unione dell’anima e del corpo è, in una certa maniera, la risposta alla domanda «che cos’è la res cogitans?». La res cogitans è anche, ed è questo il paradosso, una cogitazione unita a un’estensione. Descartes sostiene questo paradosso. Si potrebbe dire che la risposta finale di Descartes alla questione «chi sono io?» è che «io sono l’unione dell’anima e del corpo». Tale unione è definita e dimostrata sulla base del fatto che vi è una maniera privilegiata di pensare: il sentire54.
12Non insisto sul fatto che in Descartes non c’è dualismo, né parallelismo, né solipsismo. Simili sciocchezze saranno ripetute fino alla fine dei tempi e neanche un’accurata dimostrazione impedirà che tutti ripetano quell’errore. In particolare sono scusati i filosofi analitici per non aver letto il testo di Descartes; loro hanno diritto ad avere il problema del dualismo, del solipsismo, dell’unione dell’anima e del corpo, non dicano però che è un problema cartesiano, perché non lo è. Che leggano Descartes allora! Io non chiedo che leggano i commentatori di Descartes… Davvero Descartes è difficile da leggere. Ci tengo a sottolineare questo punto: Descartes, ed è anche il caso di molti altri filosofi, Platone, Aristotele, Kant, non hanno scritto i loro testi in inglese. La qual cosa evidentemente costituisce una difficoltà reale e dunque non si può chiedere a tutti di conoscere un’altra lingua oltre all’inglese! A ogni modo, bisogna esser ragionevoli, infatti tutto quello che è interessante è scritto in inglese, dunque c’è una logica, se volete… Penso che le mie osservazioni ironiche siano caratteristiche di un europeo, per non dire di un francese.
13Riprendiamo: Michel Henry ha sviluppato ampiamente il tema del «sentire» e io l’ho ripreso. Nella seconda parte della VI Meditazione Descartes osserva che il primo modo della rappresentazione del pensiero, nel caso dell’unione dell’anima e del corpo, sia quello del piacere e del dolore. Le sensazioni sensibili, del mondo esteriore, ci danno innanzi tutto un’informazione concernente il piacere e il dolore, ancor prima di darci informazione sulle cose materiali, esse pure sensibili. Piacere e dolore sono sempre veri, perché si rapportano a me. Descartes definisce così l’unione dell’anima e del corpo, in un modo che è assolutamente conforme, in maniera del tutto sbalorditiva, alla fenomenologia di Michel Henry, il quale dice (e qui siamo anche vicini a Levinas) che il dolore è l’esperienza del sé in quanto incarnato. Si nota qui con chiarezza che vi è un privilegio del sentire nelle modalità della cogitazione. La risposta cartesiana dunque, data per definire la prima conoscenza (ego sum), mediante la res cogitans, è una risposta stranissima: in primo luogo perché non favorisce affatto l’interpretazione cosiddetta intellettualistica (e bisogna davvero avere molti pregiudizi o postgiudizi per avvicinarla a Descartes, come fa Gueroult, è inverosimile!), secondariamente perché bisogna ammettere che la mancanza del primato dell’intelletto è raddoppiata dall’ambiguità, del tutto straordinaria, dei privilegi della volontà e del sentire. Penso che si possa dunque dire senza alcuna difficoltà che Descartes lascia indeterminata la res cogitans. E la lascia indeterminata anche in un’altra maniera: Descartes non spiega come l’io possa avere una cogitazione, ossia, in questo caso, un’idea dell’io.
14Che significa per l’io avere un’idea dell’io? Se l’io avesse come idea di sé una definizione della res cogitans, ovvero un’idea della sua specie o del genere, allora la si potrebbe capire. Quando si è, per esempio, entro un’ottica aristotelica, l’io è quasi inessenziale in rapporto alla conoscenza dell’uomo; in Aristotele non c’è ego e dunque ego significa semplicemente il soggetto del verbo (io conosco, io so, io domando). Quanto so dell’uomo non attiene per nulla all’io, ma al fatto che c’è una definizione dell’uomo come «animale che ha λόγος (lógos)» e che ci sono delle specificazioni di un sistema di generi e specie. Dunque, quando conosco l’uomo, conosco altra cosa da me stesso ed è per questo che posso conoscerlo. A partire da Descartes la situazione si modifica, perché l’io non è più come in Aristotele un πάρεργον (párergon, un a fianco), ma diventa il principium. La questione diventa allora quella di sapere se il principium può conoscere se stesso. La domanda che ci si pone adesso è: il principium ego sum può riflettere se stesso restando un principio?
15Si tratta quasi di un problema neoplatonico: si può conoscere il principio? Conoscersi è il principio. Nella logica neoplatonica e in quella di Aristotele il principio-Dio non conosce che se stesso, di modo che non conosce niente. Ma se il principio conosce, esso non può dare, conoscendosi, una definizione di sé. Qual è dunque lo statuto dello scarto del principio con se stesso? Permette ancora una conoscenza? Descartes non risponde a questa domanda e in un certo senso neanche se la pone; egli suggerisce che io mi conosco ripetetendo l’atto del cogito, vale a dire che io non esco da un atto e che non c’è, propriamente parlando, conoscenza della definizione di sé. Io non mi conosco mediante la mia definizione, l’io non si conosce conoscendosi mediante la sua definizione, bensì mediante l’atto di prodursi. Si può dire perciò, senza contraddizione, che occorre che il principio dell’ego non si conosca, per restare principio.
16Le aporie che ho indicato sono cartesiane? Sono aporie che un discorso non cartesiano, magari postmetafisico, trova in Descartes retrospettivamente. La soluzione più facile sarebbe allora quella di dire che è sufficiente restare cartesiani nell’interpretazione di Descartes, per non avere tutti questi problemi. Invece questo atteggiamento, che corrisponde alla reazione di Malebranche, è proprio ciò che non si può avere, perché le aporie di Descartes sono apparse immediatamente a tutti i lettori; io non insisto su questo argomento, perché non tengo un corso di storia della filosofia.
17Ricordiamo che Malebranche si presenta come un cartesiano perfettamente ortodosso, che non corregge Descartes se non per rafforzarne le conclusioni. Nella sua Ricerca della verità Malebranche non pretende in alcun modo d’avere un pensiero originale, dice piuttosto di spiegare Descartes, di rafforzarlo con numerosi argomenti, mostrandone, per esempio, l’accordo con Sant’Agostino. In quella fase Malbranche era strettamente cartesiano, solo più tardi, nello sviluppo della sua opera, dirà di non essere più cartesiano, proprio a riguardo di certi punti essenziali. Questo è è vero, ma ciò che importa qui è che egli lo era nel 1618, al tempo del suo grandissimo successo di editoria filosofica, quale fu la Ricerca della verità nella seconda edizione.
18Bisogna sapere che tutto il xviii secolo conobbe Descartes attraverso Malebranche, attraverso la sua Ricerca della verità. Locke, Berkeley, Hume e tutti gli inglesi; Voltaire, gli enciclopedisti francesi, Rousseau, La Mettrie, Condillac, D’Holbac, Helvetius; tutti quanti insomma, quando dicono Descartes, intendono Malebranche! È una delle ragioni del mito di Descartes e delle curiose opinioni che gli vengono attribuite; in effetti lo si conosce attraverso Malebranche. Anche nel caso di Kant e dei nostri amici anglosassoni, è Malebranche che conoscono; non conoscono davvero Descartes e non conoscono davvero Malebranche, conoscono Locke, ma quando Locke parla di Descartes è di Malebranche che sta parlando. Bisogna dunque tener conto di questo e che la Ricerca della verità fu un successo editoriale straordinario. Pure Voltaire, Rousseau, Diderot, Sade, per la teoria del piacere, fanno l’elogio di Malebranche come del vero filosofo, che ha ragione55.
19Nella seconda edizione della Ricerca della verità Malebranche aggiunge, come amava molto fare, reazioni, critiche, chiarimenti, che costituiscono il terzo volume della Ricerca della verità nell’edizione completa. Il terzo volume comprende una quindicina di chiarimenti, ma quello che a a noi interessa è il decimo, ove si dice che l’anima, cioè l’ego, non ha idee chiare di sé medesima. La tesi, che interpreta Descartes, è la seguente: non si hanno affatto idee chiare dell’anima, né delle sue modificazioni; l’ego non ha idee chiare né della mens né dei modi della res cogitans; non si hanno punto idee chiare dell’anima, né delle sue modificazioni. La tesi fondamentale di Malebranche sostiene che abbiamo idee chiare e distinte delle verità matematiche, delle verità fisiche, di Dio, in un certo senso, del mondo, ma non dell’anima, non della mia anima. Della mia anima non ho che delle idee confuse, che sono dunque d’origine empirica, materiale.
20Lo scarto tra l’atto del conoscere che io sono, atto perfettamente intelligibile ma vuoto, e la mia anima, che è reale ma di cui non ho idee chiare, porterà allo scarto, tematizzato da Kant, tra il me empirico, che è l’idea confusa dell’anima, senza definizione alcuna, senza scienza, e l’io trascendentale, che è assolutamente certo, assolutamente puro, ma che non è me e in un certo senso non è neppure definibile, è un atto. Per arrivare a questo risultato tra Descartes e Kant interviene Malebranche.
21Ci si può dunque chiedere se dal fatto che l’uomo, ossia l’io, divenga conoscenza prima consegua che l’uomo sia senza definizione. Non c’è alcun paradosso in questa tesi. Infatti, come dice Kant, in un passo fondamentale, il primo pensiero, che accompagna tutti gli altri pensieri (das Denken, das andere Denken begleitet)56, non è un pensiero come i pensieri che accompagna: esso non ha un contenuto, perciò può accompagnare tutti pensieri che hanno contenuti. È evidente! Il «pensiero che accompagna» è un pensiero puramente formale, atto di unificazione del pensiero, appercezione, unità originariamente sintetica dell’appercezione, che evidentemente non ha contenuti. Proprio perché non ha contenuti, perché è primo e può accompagnare tutti gli altri, non insegna niente su sé medesimo. Di conseguenza, conoscere se stessi significa per forza conoscere il me empirico, dunque conoscerlo come un oggetto del mondo. Comprendiamo allora meglio perché Kant dice che l’uomo deve conoscere se stesso come un oggetto: «Io (ich), ego, in quanto intelligente sono soggetto pensante, conosco me medesimo in quanto oggetto pensato (gedachtes Objekt), finché sono dato a me stesso nell’intuizione, esattamente come tutti gli altri fenomeni (gleich anderen Phänomenen), non come io sono davanti al mio intelletto ma come l’io mi appare. Dire questo non offre in sé né maggiori né minori difficoltà per sapere come io posso essere per me stesso in generale un oggetto (überhaupt ein Objekt) e un oggetto dell’intuizione delle percezioni interne»57.
22In questo testo inaudito Kant dice che il fatto che io mi conosca, cioè che conosca che io (ego) conosco me, cioè che per conoscermi devo diventare me - accusativo da ego-nominativo, significa che mi conosco in questo scarto, cioè che mi conosco come qualsiasi altro fenomeno (non come sono a titolo d’intelletto, ma solo come ciò che mi appare, un fenomeno appunto). Io appaio a me stesso come qualunque altro fenomeno, pertanto si può proprio dire che io non conosco me stesso, perché l’atto di conoscermi mi trasforma in un fenomeno del mondo. Conoscersi è dunque divenire per sé, in generale, un oggetto come qualunque altro fenomeno (überhaupt ein Objekt gleich anderen Phänomenen); in altri termini ciò significa che io conosco me stesso come non sono, io conosco me stesso come un altro.
23Mi sembra che l’aporia sia questa: la conoscenza di sé, mediante una definizione dei sensi, è impossibile, perché non posso conoscere che degli oggetti, e questo è il risultato del fatto che l’ego ha adesso il rango di principio. Bisognerebbe sottolineare, quando si parla di filosofia moderna, che il primato della soggettività implica in un certo qual modo l’ignoranza della natura umana. È quanto constata Sant’Agostino, in un’osservazione più volte ripetutata nelle Confessioni: Factus eram ipse mihi magna quaestio58 (Io stesso ero divenuto per me una grande questione). Non voglio parlare di Sant’Agostino, però mi interessa evidenziare le formulazione parallele: Mihi questio factus sum e tantum interest inter me ipsum et me ipsum – c’è un tale scarto tra me e me medesimo59. A torto le Confessioni sono chiamate autobiografia, anche perché l’io non ha accesso a sé medesimo analizzandosi con l’introspezione. L’introspezione non è l’esperienza di conoscere se stessi, come invece si ripete con faciloneria, è piuttosto il contrario. Del resto, a mio avviso, è così anche della cura analitica, che non è conoscenza di sé, ma un’esperienza che conduce ad ammettere che non c’è modo di conoscere se stessi.
24Allora, qual è la natura di questa difficoltà? Come la si deve considerare? Penso che non si possa ragionare correttamente a questo proposito senza prendere tempo prima di rispondere; rispondere subito alla questione farebbe dire, per esempio, che l’incapacità di trovare una definizione dell’uomo costituisce il maggior scacco della filosofia moderna, della metafisica moderna, provando così che essa ha proceduto nella direzione sbagliata. Prima di sapere se l’assenza di definizione dell’uomo, di conoscenza di sé mediante il concetto, sia o meno un’aporia, bisogna domandarsi che cosa si intende in questo caso per «conoscere».
25Ricorderò molto rapidamente che «conoscere» significa conoscere un oggetto, nel senso di Kant, che è d’altronde il senso di Descartes. Conoscere un oggetto, come abbiamo già detto sopra, è conoscerlo costituendolo secondo le condizioni di possibilità dell’esperienza, cioè secondo le categorie e le forme dell’intuizione sensibile; in linguaggio cartesiano si direbbe procedere per astrazione da ciò che non è né ente né misura, cercare di estendere l’astrazione matematica al di là delle matematiche e dunque conoscere secondo nature semplici e nient’altro. Conoscere è dunque ricostituire un oggetto, non seguendo l’ordine della costituzione dell’oggetto per se stesso, cioè partendo dalle sue proprietà essenziali per dedurne le altre, ma ricostituirlo, peraltro parzialmente, a cominciare da ciò che conosco di più certo a suo riguardo, aggiungendo poi le proprietà via via meno certe, o sempre più derivate. L’oggetto è ricostituito dal mio punto di vista, a cominciare da ciò che è più chiaro e più distinto per me, proseguendo il più possibile, mentre sparisce tutto ciò che non posso ricondurre al più chiaro e più distinto per me. In tale sparizione vi è lo scarto tra l’oggetto, il fenomeno, e la cosa stessa, la cosa in sé. Tutte queste maniere di conoscere poggiano perciò sulla determinazione originaria di ogni oggetto, ovvero sulla sua pensabilità, perché la sua prima determinazione è il cogitabile, come avviene nell’opera di Johannes Clauberg. In questo senso conoscere una cosa è distruggerla e farla rinascere sotto forma di oggetto; in questo senso si può dire che la conoscenza deve cominciare squalificando la cosa (così si chiama il dubbio, la critica o la riduzione), per ricostruire poi al posto della cosa l’insieme di ciò che io posso riconoscere secondo l’ordine della conoscenza (questo è ciò che si chiama oggetto). Tutto questo è ben espresso dal termine utilizzato da Descartes: l’intuῐtus.
26Sapete che intuito deriva in latino dal verbo intuēri e tuēri significa «guardare»; il participio tūtus, per esempio, è detto di qualcosa di ben protetto; tuēri significa guardare in maniera da sorvegliare. Sorvegliare però non è punire, piuttosto è vedere e controllare, dunque intuēri è guardare per sorvegliare; un guardiano della prigione è uno che pratica l’intuēri, pratica l’intuēri chi guarda un gregge, e così via. L’oggetto è dunque un prigioniero, un prigioniero sorvegliato dal gioco trascendentale, dall’ego cogito e pertanto non deve lasciare la sua prigione, non è libero. Non c’è oggetto in sé, sarebbe una contraddizione in termini; l’oggetto non è libero, è sotto controllo, intuῐtus.
27Si dà il caso che qualcuno abbia detto tutto ciò con una forza incomparabile: il giovane Hegel. Mi riferisco alla Filosofia dello Spirito di Jena (1805)60, ove Hegel espone la questione in maniera molto chiara: l’uomo, quando conosce, sostituisce all’atto immediato e alle qualità della cosa rappresentata un nome (Name), un senso, il suono della sua voce, qualcosa di tutt’altro da ciò che si trova nell’Anschauung, e questo nome, che non dice l’immediatezza della cosa, è in qualche maniera «ciò davanti a cui la cosa si ritira e diviene qualche cosa di spirituale, totalmente altro», geistlich, qualcosa che è alla misura dello spirito, dello spirito conoscente. Il nome è ciò che in una certa maniera fa sparire la cosa e la trasforma in qualche cosa puramente geistlich, cioè puramente appropriata allo spirito conoscente o Geist. Dunque, dice Hegel, nella misura in cui una cosa è conosciuta dal concetto, nominata da una parola, da un significato, la natura si trasforma in un regno di nomi, infatti «proprio così l’oggetto esteriore è stato eliminato».
28Succede come in certi film tipo Star wars: quando i cattivi arrivano con la loro grande macchina sulla terra, instaurano il loro regno e tutto è trasformato in cenere, in rovine, tutto diventa nero, eccetera. Esattamente questo fa il Geist, quando nomina la cosa: quando esso la nomina, la cosa scompare e al suo posto non c’è più che il suo doppio, il suo residuo puramente nozionale, e dunque la cosa è eliminata. E dunque l’oggetto, che appare, appare come tale perché la cosa scompare, perché l’essere della cosa è alienato.
29Hegel aggiunge, con una formulazione straordinaria, che l’oggetto non è ciò che è, che la cosa non è ciò che è. Di conseguenza, quando l’uomo parla della cosa, la sopprime e le sostituisce un oggetto che padroneggia completamente. Cito ancora: L’uomo parla alla cosa come a ciò che è suo ed è quello l’essere dell’oggetto. Mediante il nome l’oggetto come essente nasce da me. Tale è la prima facoltà creatrice che in Eden Adamo esercita, donando un nome a tutte le cose. Qui è fatta allusione al celebre testo di Genesi 2,19s., ove si racconta che Dio fa sfilare tutte le creature davanti ad Adamo e Adamo dà loro un nome; c’è solo un nome che egli non dà, il suo. Questo intende la Filosofia dello Spirito: Adamo dà un nome, ciò significa che Adamo sostituisce alla cosa, nominandola, un oggetto. Questo è quel che fa Descartes, che fanno tutti, da Descartes a Kant, in più Hegel dice quel che è accaduto: nominare, cioè conoscere, cioè conoscere come oggetto, cioè distruggere il conosciuto come cosa in sé.
30Noi cerchiamo di parlare filosoficamente, dunque il non poter definire e nominare mediante il concetto vuol dire non poter trasformare un oggetto. L’aporia, che avevamo indicato, reperito, da Descartes a Kant e anche in seguito – che l’io non può definire il me, se non come un oggetto del mondo –, vuol dire che l’impossibilità di conoscere l’io non altrimenti che come un oggetto, evidenzia il fatto che l’io non è un oggetto e che l’io non può trasformarsi di per sé in un oggetto, ovvero, l’io può trasformarsi in oggetto, ma in questo caso non è più se stesso. Naturalmente l’io può conoscere sé medesimo, se per conoscere sé medesimo si intende, secondo la regola generale, trasformare sé medesimo da cosa in sé in oggetto. Può farlo, e questo diventa il me empirico, ma appunto, questo non è conoscersi come sé.
31Ammettiamo questa definizione della conoscenza, perché Hegel sa di cosa parla e ciò corrisponde a quel che vediamo fare da Kant e da Descartes e da tutti i filosofi che stanno tra loro due. Che significa dunque che l’io, l’uomo, non può conoscere se stesso come io? Significa che io non mi trasformo in oggetto. Che cos’è il non trasformarsi in oggetto? Non è una mancanza, è un privilegio. Arriviamo al punto che voglio sottolineare: ogni pretesa alla conoscenza concettuale dell’uomo significa la distruzione dell’uomo. Il proprio dell’uomo è di essere inconoscibile a se stesso, inconoscibile per definizione; proprio dell’uomo è non avere definizione di sé come fosse un oggetto e dunque è proprio dell’uomo essere inaccessibile, inconoscibile a se stesso. E questo è un privilegio.
32Se ne può dare una prova per contrario, facendo l’experientia crucis in senso inverso: ogni volta che l’uomo può definire un uomo mediante concetti, questi è annullato come uomo. Gli esempi sono sfortunatamente molto numerosi e senza prendere quelli più facili e di cattivo gusto, gli esempi politici estremi, fermiamoci in primo luogo a delle evidenze generali e prendiamo l’esempio dell’identificazione in cittadino. Quando il professor Perone mi ha invitato, mi ha chiesto informazioni su di me: Perone mi conosce, sa chi sono, cosa penso, tuttavia non avrebbe potuto invitarmi senza venire a conoscere una serie di cifre (potenzialmente anche più lunga, ma egli per gentilezza l’ha limitata); da me ha voluto sapere il mio nome, la mia data di nascita, il mio numero di passaporto, il mio numero di carta d’identità, il codice postale di dove abito, il mio numero di telefono, il mio numero di cellulare, il mio numero di conto bancario. Se negli Stati Uniti chiedo una visa, gli americani mi chiedono i nomi di tutta la mia famiglia, se ho aderito al partito nazista, se sono un terrorista, dove abito negli Stati Uniti, dove abito in Francia, il nome e l’indirizzo delle persone che negli Stati Uniti possono garantire per me, il mio numero di codice fiscale americano. Poi ci sono, per esempio, tutti i dati sanitari. Dunque, come tutti assolutamente ammettono senza problema, io sono definito dall’insieme di tutti quei parametri; sono definito dall’insieme di quelle cifre, che in certi casi sono dei numeri indicanti delle quantità, che per lo più sono quantificazioni di termini non quantificabili e che di per sé non sono che delle cifre, ma in quei termini io sono conoscibile, molto ben conoscibile. Avere carte di credito e numeri di cellulare fa sì che chiunque possa sapere dove noi siamo e quando vi siamo. Io sono dunque conoscibile mediante concetti, informazioni, nello spazio e nel tempo. L’insieme di queste informazioni definisce me medesimo. Non c’è assolutamente niente da dire su questo punto, però questo me medesimo non è io, può essere me ma non è io.
33E qual è il paradosso della distinzione tra vita privata e vita pubblica? La distinzione tra le due non concerne la parte di me che voglio nascondere, perché non molto onorevole, e la parte di me che voglio mostrare, perché è invece molto onorevole. Peraltro non necessariamente ciò che mostro di me è molto onorevole e ciò che nascondo molto spregevole. La distinzione non si colloca dunque tra i settori della mia vita, come se dicessi che quando sono al mio domicilio, sono nella mia vita privata: non è corretto! Ciò che, del resto malamente, chiamo la mia «vita privata», è il tempo in cui non sono privato di momenti di vita; la vita privata è il momento in cui non sono privato di vita, ossia il momento in cui io mi provo come me stesso vivente; è il momento dell’autoaffezione – direbbe Michel Henry – il momento della vita. Vi è «vita pubblica» invece quando sono privato di momenti di vita, cioè quando al posto di me c’è un oggetto, un oggetto universalmente conoscibile e che si può trasmettere, rendere pubblico. Per esempio: ci sono delle cartelle in una certa amministrazione, si pigia un tasto e venti altre amministrazioni hanno le stesse cartelle. Questo è vita pubblica, che per l’appunto non è la vita, non è me, eppure è me (moi), ma non io (je): il me è un oggetto ed esso non vive, dunque ciò che è pubblico non è la vita. Michel Henry ha completamente ragione. Al contrario, ciò che non è privato di vita, è «io».
34Appare evidente che questo «io» è inconoscibile, almeno dal concetto; «io» è allora chi si racconta. Ci sono identità narrative ed esse sono racconti, non c’è concetto, non c’è definizione. Lo scarto tra l’identità narrativa e l’identità pubblica è lo scarto tra «io» e «me». Tale scarto è assolutamente essenziale, perché se «io» sono solo «me», non sono più. È interessante notare che in un certo senso il «me» continua a vivere anche se l’«io» è morto, le informazioni funzionano comunque: posso morire dopo tutto, ma dal punto di vista economico, legale, continuo a esistere; ci sono ancora transazioni economiche fatte sul mio conto, ci sarà ancora bisogno della mia carta d’identità per degli atti giuridici, per degli atti civili; sarò ancora vivo, il me mi sopravviverà molto a lungo. Finché sarò dentro a degli archivi e finché le informazioni saranno conservate, il me sopravviverà, anche quando l’io sarà stato privato della vita terrena magari già da molto tempo.
35Questo è il caso della vita politica, la condizione della politica, della città, che è il caso più visibile, ma non eccezionale, e da noi tutti ammesso; a un secondo livello di analisi, un po’ più specialistica, vi è il caso della medicalizzazione: non mi voglio troppo attardare su questo, sebbene l’analisi medica risulti affascinante, perché lì sento la divisione del vivente che io sono, una divisione che, salvo in caso di morte, è provvisoria e che perciò posso vedere insediarsi e sparire. In tal senso essa è dunque molto più impressionante. Il medico o un incidente mi spedisce all’ospedale. Cosa succede quando vi arrivo? Quel che succede non è assolutamente legato alla malattia: quando arrivo all’ospedale, divento subito un numero, in modo che si sappia chi sono, anche se io non posso dirlo; sono messo su qualcosa che si muove e che mi trasporta in un posto che io non ho scelto e del resto non sono abbastanza cosciente per scegliere un qualche posto. Per mancanza di coscienza quindi o per debilitazione fisica, divento dipendente e difatti sono già un oggetto per metà. D’altra parte verrò spogliato, cioè perderò l’apparenza che mi dò, diventando visibile per tutti. Mentre nella vita normale nessuno mi vede nudo, là tutti possono vedermi nudo e la cosa è normale, non c’è nulla da ridire! Sono dunque oggettivato; tutti possono vedermi nudo, tutti possono fotografarmi esternamente e nell’interno. In senso stretto il medico ha diritto di vita e di morte su di me. Proprio per questo io sono lì, dunque lui può trattarmi come nessuno ha mai osato trattarmi e io non ho niente da ridire, non devo dire niente. Fa questo per curarmi. Cosa significa curarmi? Curarmi è trasformarmi, per sapere di cosa sono malato; per sapere di cosa sono malato bisogna trasformarmi, trasformare il mio corpo vivente in un numero di parametri, il più grande possibile. Sono numerizzato; ancora vivo sono trattato come un corpo morto e la sola maniera di rendere vivente questo corpo è di trattarlo come morto. Vale a dire, per mantenere la mia vita (Leib), devo dunque lasciare il mio Leib diventare un Körper. È molto strano, ma è questo che succede. Per salvare la mia vita perdo dunque la coscienza, la parola, la padronanza dello spazio, la mia carne, tutti i miei connotati politici, i miei connotati economici, mentre il medico, nel momento in cui lavora su di me, mi opera, eccetera, eccetera, ha di me una definizione tanto completa che nessuno ne avrà una più precisa durante tutta la mia vita. Quello è il momento in cui sono più conoscibile e la lista delle cifre è ancora più lunga che nella vita normale.
36E allora, che cos’è uscire dall’ospedale? Non la semplice uscita dall’edificio. Ci sono molti modi per uscire dall’ospedale, dipende dal vostro stato (che siate morti, che vi trasferiscano in altro ospedale…). Uscire dall’ospedale è veder sparire poco a poco le oggettivazioni. Arriva un momento in cui riprendete coscienza, poi un altro in cui cominciate a parlare e un altro ancora in cui sapete dove siete; in seguito, quando parlate, vi si risponde; talvolta potete anche chiedere qualche cosa e ve la danno e, se tutto va bene, vi dicono cosa avete avuto, apprendete cosa sta succedendo e potete anche (ma allora siete quasi salvi) chiedere che vi si curi o che non vi si curi. A partire dal momento in cui siete di nuovo voi a decidere, non siete più malati. In quel momento potete fare una cosa straordinaria: potete vestirvi! E quando vi rivestite, tornate normali; ebbene, siete guariti! Per questo la forma superiore alla malattia è la disobbedienza all’ordine dato dai medici. Cos’è essere in buona salute? Poter fare il contrario di ciò che il medico dice che bisogna fare, perciò è molto importante bere, fumare; è importantissimo! Se non si fuma, se non si beve, significa che si è malati! Quando si fuma e si beve, e non si è morti, non si è malati. Molto semplice!61.
37L’interesse per il momento della malattia è dato dal fatto che, se tutto procede bene, lo scarto tra io e me è provvisorio. Questo scarto può dischiudersi e può richiudersi. Dunque io ridivento me stesso, quando perdo la mia definizione medica. Certo ci sono sempre gli archivi, ma quella definizione medica non è più utile, non è più utilizzata, non è neanche più d’attualità, bisognerebbe rifarla, se io fossi di nuovo malato. Sono dunque liberato della mia definizione come oggetto, e in quel momento divento un essere umano normale.
38Si potrebbe ovviamente proseguire questo discorso con altri numerosissimi esempi: c’è l’esempio dell’homo oeconomicus. Anch’egli è qualcuno che io non sono e che si sostituisce a me, il consumatore. «Io» non sono il consumatore; tuttavia si può dire che lo sono: sono quello che investe, che ha un potere d’acquisto, un livello di vita, dei bisogni economici, eccetera eccetera; quegli è davvero me, anche se non l’ho mai incontrato, se non so chi è, e nessuno sa chi è ma tutti noi lo siamo. Questa dell’uomo economico è un’altra figura dell’io.
39Naturalmente l’esempio più caratteristico, che sin qui non ho sviluppato ma che è il risultato di tutto, è la discriminazione politica. Perché (vi pongo la domanda in maniera cinica) una società con discriminazioni razziali è, non solo moralmente, ma anche politicamente reprensibile? Perché sono inaccettabili l’apartheid, la proscrizione di tante nazioni, l’antisemitismo di stato? Si potrebbe rispondere: – Perché ci sono alcuni che non sono trattati come essere umani. Sì e no, dico io. Se non sono trattati come esseri umani, è perché sono trattati come uomini di seconda categoria. Dopo tutto possono esserci uomini di seconda categoria: gli schiavi lo sono. Perché la schiavitù è ignobile? Supponiamo pure che ci siano uomini di seconda categoria, infatti dopo tutto si può dire che tra gli uomini c’è disuguaglianza, essendo evidente che c’è una massiccia disuguaglianza tra chi è ricco e chi no, chi è educato e chi no, eccetera. Si può dunque dire che chi è poverissimo, chi ha una speranza di vita di vent’anni, chi non sa niente, chi non sa scrivere, e via dicendo, non è un uomo compiuto.
40Perché non si può dire che ci sono categorie tra gli uomini? Bisogna precisare perché non dobbiamo dirlo, perché non diciamo che ci sono uomini che sono più uomini degli altri. Secondo la bella espressione di Orwell in Animals farm, alla fine tutti gli animali sono uguali e sono diventati animali senza ego, ma certuni più degli altri, tutti gli animali sono uguali, ma certi più di altri! Allora perché non si può dire che tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni più di altri? Perché, proprio per introdurre le categorie tra gli uomini, ogni discriminazione politica presuppone una definizione dell’uomo. Senza definizione (dell’uomo ariano, per esempio, del wasp, eccetera) non c’è discriminazione possibile. Vi può essere discriminazione del proletariato contro tutti gli altri, il rovesciamento della nobiltà, oppure vi può essere una pretesa strettamente razziale o economica. In tutti i casi si dice che colui che non corrisponde a certe caratteristiche non è un uomo nel senso pieno del termine. Se non è bianco, se non se non è istruito, eccetera, eccetera, è meno uomo degli altri uomini.
41Quali sono i criteri che vengono presi, siano anche in qualche modo razionali? Accadrà così in futuro, quando non ci saranno abbastanza acqua e aria per tutti, si dovranno fare delle scelte, che, come stiamo già facendo, saranno perlomeno guidate da criteri economici. Si dirà: «Se non hai abbastanza denaro, muori!» È normale, succede già così, ma bisogna dirlo ufficialmente: tra dieci anni la lunghezza della vita dipenderà dai redditi. È già vero di fatto, ma diventerà vero di diritto. Si dirà che la giustizia sociale vuole che lo stato non paghi fino alla fine, ma allora si potrà pagare sino alla fine solo se si ha denaro proprio. Succederà questo ed è già questo che accade.
42Ciò che voglio dire è che i criteri, quali che siano, anche quelli economici, impongono, implicano una definizione dell’uomo. E perché una definizione dell’uomo è pericolosa? Perché definisce il «me», cioè l’oggetto che non è «io», ma, se si utilizza una definizione dell’uomo, cioè una definizione del «me», è per applicarla all’«io». Naturalmente il «me» può, se lo vuole, essere definito di fatto secondo criteri determinati, che sono chiamati oggettivi, e lo sono, ma «io», appunto, non sono un oggetto! Questo è il pericolo. Quei criteri saranno appunto applicati all’«io». Così, per esempio, l’anziano, che è una forma del «me», che è un oggetto economico, sarà trattato in maniera tale che il suo «io» sarà eutanasizzato; non sarà un «me» a essere eutanasizzato, sarà l’«io». Eppure si tende a confondere l’io con il me, come nel caso appunto del dibattito sull’origine e la fine della vita. Precisamente si tratta di questo: l’origine e la fine della vita sono il momento in cui non si può più, non si riesce più, a fare una distinzione tra il me e l’io. Fintantoché sono in vita, posso fare la distinzione tra me e io, posso accettare d’essere di volta in volta io e un me, secondo le diverse oggettivazioni che i diversi punti di vista scientifici, economici, eccetera, hanno su di me, perché io sono ancora un io. Ma alla nascita o alla fine, o dopo la fine, non si può più distinguere l’io e il me, dunque tutto ciò che si fa sul «me» vale per l’«io».
43Si può dunque dire che nel contesto della società moderna, della fine della metafisica, l’assenza di definizione dell’uomo è un privilegio. Perché? Perché la definizione uccide, nel senso di Hegel, il quale uccide la cosa per rimpiazzarla con l’oggetto. Ma il nostro caso è concreto, cioè la vita e la morte; esse dipendono dalla definizione che si dà dell’altro uomo. L’altro uomo è colui che si può definire, che si può uccidere, e in un certo senso si può uccidere l’altro uomo, solo se lo si è definito, perché, se è definibile, lo posso definire come non-uomo e dire che non è più un uomo, per parlare come Primo Levi, all’inverso. Ma se non è più un uomo, lo si può uccidere senza difficoltà morali. La distruzione dipende dal carattere non-umano di ciò che distruggo e il carattere non-umano di ciò che distruggo dipende da una definizione dell’uomo rovesciata. Allora, se dispongo di una stretta e forte definizione dell’uomo, non è omicidio l’uccisione di quanto non risponde a quella definizione.
44Riguardo alla violenza la definizione dell’uomo è molto importante: solo quando si ha una definizione estremamente forte dell’uomo, si hanno da una parte molti non-uomini, che possono dunque essere uccisi con grande facilità. Per questo le ideologie sono così potenti, un’ideologia dimostra con ragioni scientifiche che ci sono dei non-uomini tra gli uomini e che dunque li si può uccidere. Non voglio fare un discorso politico, ciò che dico è sotto gli occhi di tutti; c’è oggi una definizione economica dell’uomo che esclude dall’umanità un numero sempre più grande di individui. Questo criterio infatti, secondo cui là dove c’è definizione dell’uomo non c’è più uomo, è un’idea che si può largamente, empiricamente, verificare. Giungo così alla formulazione provvisoria del paradosso: la definizione dell’uomo è tale per cui non la si ha e non la si deve avere.
45Vorrei adesso rapidamente temperare il paradosso, non tornandoci su, bensì mostrando che quel paradosso è già stato sostenuto dalla filosofia o almeno dalla teologia. Su questo punto, come su altri, la teologia è in certo qual modo una risorsa antecedente o parallela alla storia della metafisica. Qui è in gioco la distruzione dell’umanesimo, almeno relativamente all’epoca moderna. Non dubito che ci siano accezioni storicamente e perfettamente giustificabili del termine umanesimo, relative a «qualcuno che conosce le humanitates». Niente da ridire su questo; sono d’accordo con chi pensa che ci sia una saggezza nelle humanitates e se umanesimo significa questa saggezza, la conoscenza degli autori antichi, sta bene. Ma mi accorderete che questo non è il senso moderno del termine. Se «umanesimo» indicasse gli uomini che conoscevano il greco e il latino e che passavano il tempo a leggere Virgilio e Omero tutto andrebbe bene, ma umanesimo non vuol dire questo, esso significa invece che l’uomo è origine e fine a se stesso, che l’uomo è la sua propria origine e la sua propria fine, e quindi che l’uomo è il luogo della saggezza dell’uomo. Certo, so bene che c’è un umanesimo cristiano, che è stato sostenuto anche da De Lubac, ma credo sia un accomodamento linguistico e che non si dovrebbe dire «umanesimo cristiano», a meno che si intenda l’imitatio Christi: c’è un umanesimo cristiano perché Dio è stato un uomo, d’accordo, ma questa è l’imitatio Christi, il resto non è serio, mi sembra.
46L’umanesimo è l’idea che l’uomo sappia ciò che è in gioco nell’uomo e che possa garantirsi da sé il compimento della natura umana, perché fuori di lui non c’è natura umana. Nell’umanesimo si cerca di fare l’uomo e si fa la bestia. Lascio da parte la critica dell’umanesimo, ma è chiaro che questo discorso la implica; penso solo a un testo che mi ha sempre fatto ridere e che trovo di una stupidità totale: L’esistenzialismo è un umanismo di Sartre. È uno dei testi più stupidi che io abbai mai letto, già nel titolo non si sa quel che si vuol dire. Gli esistenzialisti non esistono e nemmeno l’umanesimo. Rimane allora un testo abbastanza bizzarro, in cui è a tema la stessa grave questione che si poneva nella medesima epoca: il marxismo è un umanesimo? È una questione che i marxisti francesi certamente si ponevano; allora anche i cristiani dicevano: «Noi pure abbiamo un umanesimo», così Maritain… Stendo un velo su questi argomenti. Cerchiamo di essere generosi, perché anche noi magari diciamo cose che sembreranno stupidaggini insensate ai nostri posteri!
47Torniamo a Sant’Agostino, all’espressione che ci è servita da motto, se così si può dire: Mihi magna quaestio factus sum, o factus eram. Nella questione, per cui io stesso divento il tratto interessante da cogliere, vi è lo scarto tra me e me: tantum interest inter me ipsum et me ipsum. Questo scarto è stato tematizzato da Agostino in modo particolare nella dottrina della memoria (che qui non è il caso di sviluppare). Ciò che è interessante è che egli tratta del tema di Adamo, come Hegel. Hegel, ve lo ricordo, diceva che Adamo nominò tutte le cose e questa referenza salvava anche la creazione. Di questo tratto vi è un’anticipazione in Sant’Agostino, che riassumo qui62.
48Quando Dio ha creato il mondo, ha creato tutte le cose secundum genus (nelle traduzioni francesi e italiane si dice piuttosto «secondo le specie», ma Agostino dice secundum genus, come la Vulgata). Dio ha creato tutto ciò che c’è sulla terra, gli animali, le piante, gli uccelli, eccetera, eccetera, secondo il loro genere, così che possano moltiplicarsi secondo il loro genere. Il genere è evidentemente quel «genere» che permette la definizione nel pensiero greco; il genere è la specie, che permette la definizione anche dell’uomo. C’è dunque un genere (il vivente) e poi la specie (i viventi dotati di lógos) e, poi, all’interno delle specie, gli individui. Dio ha dunque creato tutte le cose secondo un γένος (ghénos), affinché le cose si riproducessero secondo la loro identità. Ora – dice Sant’Agostino – quando Dio crea l’uomo non maschera il genere. La Scrittura non dice che Dio ha creato l’uomo secondo la sua specie, invece di creare l’uomo secondo la sua specie, Dio dice: – «Creiamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza». Questo affinché possiamo provare – commenta Agostino – da noi stessi qual è la volontà di Dio.
49Questa dunque la tesi: l’immagine e la somiglianza tiene il posto, rimpiazza il ghenos nel caso dell’uomo; ciò vuol dire che l’uomo non somiglia a se stesso, che l’uomo non assomiglia alla sua definizione; l’uomo assomiglia a Dio. Bisogna misurare fino a che punto il testo biblico è inaudito, perché in senso stretto l’uomo è dunque più un Dio che un uomo. Se non c’è definizione dell’uomo, questi non può somigliare a se stesso; di contro, al suo posto, c’è una via sicura: per sapere che cosa è l’uomo, bisogna guardare Dio. A cosa assomiglia l’uomo? L’uomo non assomiglia a niente, perché l’uomo non ha definizione. Vi chiedo: «Questa è una bottiglia?». Dipende dalla definizione che diamo di bottiglia. Se diciamo che la bottiglia è un bicchiere, questa non è una bottiglia. Se diciamo che una bottiglia è ciò che permette di contenere del liquido senza che esso si disperda e in modo che lo si possa versare, è una bottiglia. Oppure vi chiedo se questa è una penna, una stilografica. Non è una penna, ma se scrive come un tempo scrivevano le penne, questa è una penna. Bene, l’uomo non assomiglia a niente, non assomiglia a un uomo, perché nessuno ha mai visto un uomo. Se si vuol vedere un uomo, bisogna guardare Dio. E dunque un vero uomo assomiglia piuttosto a Dio. Si potrebbe dire che l’uomo è un dio, almeno nel senso in cui di un quadro si dice che è un Cézanne o un Tiziano: il punto non è che il quadro assomiglia al pittore, ma che il quadro porta il segno da cui si riconosce il pittore. Ossia, non si dirà che l’uomo assomiglia a Dio, perché nessuno ha mai visto Dio, ma si può dire che ciò che caratterizza l’uomo, ciò che fa sì che si possa dire «questo è un uomo» o «questo non è un uomo», è il fatto che l’uomo porta il segno di Dio. Ecco cosa vuol dire il testo.
50Per questo ci sono dei gradi nell’immagine della somiglianza, che furono sviluppati in particolare da San Bernardo. Egli distingueva l’immagine e la somiglianza: l’immagine non può mai essere perduta, perché è della natura dell’uomo, la somiglianza è il fatto che l’immagine diventa sempre di più immagine di Dio. In particolare, per San Bernardo, ciò che non può sparire è la libertà, il libero arbitrio; ciò che non sparisce mai è l’immagine e il buon uso del libero arbitrio è la somiglianza.
51L’uomo dunque non si riferisce a nessuna specie, non rinvia ad alcun genere, non si lascia comprendere da nessuna definizione d’umanità o d’inumanità; è dunque sciolto da tutti i paradigmi e appare immediatamente nella luce di Colui che sorpassa ogni luce e bisognerà dunque concluderne che l’uomo è invisibile. Quando si dice «il viso dell’uomo è invisibile» è precisamente perché non assomiglia che a Dio.
52C’è peraltro un fondamento biblico nell’assenza di definizione dell’uomo, secondo Sant’Agostino. Ciò permette di passare al secondo argomento, che pure proviene dai Padri della Chiesa. Consideriamo il testo di Gregorio di Nissa contenuto nel trattato Sulla formazione dell’uomo: «L’icona non è perfettamente icona che nella misura in cui niente è venuto meno di ciò che si riconosce nell’archetipo»63. L’icona dunque non è tale se non perché assomiglia il più possibile al modello, all’archetipo. Ora l’incomprensibilità dell’essenza, τό ἀκατάληπτον τῆς οὐσίας (tó akatálepton tês ousías) si trova in ciò che nella natura si vede di Dio; la natura di Dio comprende l’incomprensibilità, nel senso di comprendere, di cogliere l’incomprensibilità dell’ousía, cioè la non-definizione dell’ousía. Bisogna dunque necessariamente che tutte le icone di Dio mantengano la rassomiglianza con il loro archetipo, anche in questo, cioè nell’incomprensibilità dell’ousía. Se si comprendesse la natura dell’icona, ma quella dell’archetipo superasse la comprensione, cioè se l’icona avesse un’essenza comprensibile, mentre l’archetipo non ne ha – continua Gregorio di Nissa – «l’opposizione tra l’icona e l’archetipo segnerebbe la mancanza dell’icona». Il che è dunque esatto: «Poiché la natura nel nostro spirito, che è secondo l’icona del Creatore, κατὰ εἰκόνα τοῦ τί Σανκτός (katà eikóna toû tí Sanktós), si sottrae alla conoscenza, per questo conserva esattamente la somiglianza con ciò che la domina, mantenendo l’impronta dell’incomprensibilità fissata in lei dall’ignoto». In altri termini, l’essenza di Dio è akatalépte, l’uomo è creato come icona di Dio, l’icona deve riprendere le caratteristiche del suo modello, dunque l’uomo è lui pure akatálepton tês ousías, incoglibile nella sua essenza.
53Quest’argomento, che d’altronde si ritrova in Basilio di Cesarea, nel suo Contro Eunomio e in Giovanni Crisostomo, nel trattato Sull’incomprensibilità di Dio (Περὶ ἀγνοσία τοῦ Θεοῦ, Perì agnosìa tou Theoû)64, è estremamente solido e completa quello di Sant’Agostino: non solo la somiglianza dispensa dalla definizione, ma l’incomprensibilità, la non-definizione, è il risultato della somiglianza. In altri termini, e bisogna formularli teologicamente, avrei potuto dire che, se l’uomo si trova definito, se non è più un «io» ed è dunque solo un «me», un oggetto, non è pertanto un uomo. Qui diremo che se l’uomo ammette una definizione, se si abbassa ad accettarne una, allora non assomiglia più a Dio e non è più la creatura di Dio. Se l’uomo accetta una definizione, così come si accetta la schiavitù, la sottomissione, la perdita della libertà, proprio allora non assomiglia più a Dio. C’è quindi una versione teologica dell’argomento che io ho indicato. È interessante che la teologia abbia in una certa maniera considerevolmente anticipato il problema che la fine della metafisica ci propone.
54Vorrei quindi aggiungere un altro tipo d’argomento, che permette di comprendere meglio il detto di Pascal «L’uomo sorpassa infinitamente l’uomo»65, che può essere ricollegato a quella tradizione. Se si vuole pensare l’uomo, bisogna pensarlo come immagine di Dio; dunque, se l’uomo non è visto nella prospettiva di Dio, semplicemente non è visto. L’uomo è un’anamorfosi di Dio, cioè non lo si vede, a meno che lo si veda dal punto di vista di Dio. Una buona teologia peraltro comprende questa analogia: non è Dio a esser conosciuto per analogia con l’uomo, è l’uomo che è conosciuto per analogia con Dio. Sta qui tutta l’ambiguità della dottrina dell’analogia, nel sapere qual è il primo analogato e, come dicevano i medievali, il primo analogato, in buona teologia, è sempre Dio. Non diciamo, per esempio, che Dio è per analogia con la nostra maniera d’essere, piuttosto siamo noi che siamo per analogia con la maniera d’essere di Dio.
55Ecco l’altro argomento che dobbiamo considerare: c’è una precisa maniera d’esprimere l’incomprensibilità dell’uomo, teologicamente parlando e non solo teologicamente, quella che fu perfettamente colta da Giovanni Pico della Mirandola. L’autore scrive nel De hominis dignitate che l’uomo è un animale di natura multiforme, variabile, che salta da uno stato all’altro. Per certi versi ciò corrisponde benissimo a una straordinaria espressione di Nietzsche, secondo cui l’uomo è un animale non ancora stabilizzato (das noch nicht festgestellte Tier)66, un animale il cui dressage non è terminato e che dunque può divenire. Nel caso del testo di Pico della Mirandola il carattere indeterminato della natura dell’uomo è espresso nella somiglianza con Dio e, in particolare, in ciò che rende anche Dio incomprensibile, cioè la volontà libera. Caratteristico dell’uomo è essere indeterminabile, non avere un’ousía stabilizzata, e ciò rimanda alla somiglianza con Dio, consistente infatti nella libertas arbitrii e la libertas arbitrii fa sì che l’uomo possa divenire diverso da se stesso mediante se stesso.
56Questa dottrina è assai sorprendente, perché è quella sempre citata dai difensori dell’umanesimo: l’uomo non ha una natura ed è il suo libero arbitrio che decide della sua natura. Quel testo è stato ripetuto ad nauseam da quanti tengono all’umanesimo. Ora, decidere della propria natura attraverso il libero arbitrio è possibile, perché l’uomo non ha una natura fissa, e non ce l’ha perché assomiglia a Dio che è, Lui per definizione, totalmente libero. Dunque, non avere una natura e decidere della propria natura attraverso il libero arbitrio è precisamente ciò che fa sì che l’uomo assomigli a Dio. Lungi dall’ammettere l’autarchia dell’umanesimo, è proprio la somiglianza con Dio a diventare in senso positivo lo spazio dell’indeterminazione dell’ousía, che vieta la definizione dell’uomo.
57Molto rapidamente una conclusione polemica, polemica nei confronti di Heidegger. Heidegger menziona, in Sein und Zeit, §10, quella che chiama la definizione biblica dell’uomo mediante l’immagine e la somiglianza di Dio; egli la critica per opporla al Dasein, che, sia detto tra noi, viene definito dalla possibilità e la possibilità è essa pure definita dalla risoluzione, cioè dalla decisione anticipatrice, che anticipa nel possibile. In certa maniera è lo stessa tesi di Pico della Mirandola: l’uomo è definito dalla sua libertà. Ma allora, cosa fa Heidegger per criticare la definizione biblica? Egli, in Essere e tempo, dice che questa definizione impone all’uomo un modo d’essere che è evidentemente da intendere nel senso della sussistenza (im Sinne des vorhanden Seins). È assolutamente sorprendente sotto la sua penna! È uno sbaglio talmente grave che deve essere volontario, suppongo. È molto strano, perché se si legge il testo correttamente, come vediamo nel commentario dei Padri, non c’è Vorhandenheit nel caso dell’ousía ed è per questo che l’uomo è incomprensibile, indefinibile, incoglibile. Bisognava dunque che Heidegger qui non volesse riconoscerlo e non capisco perché. Poi Heidegger prosegue la polemica nella Lettera sull’umanismo, tornando sempre sulla definizione cristiana, biblica di Dio, ma ponendo un’altra questione: perché c’è qualcosa piuttosto che nulla? Ed egli sostiene che la risposta biblica alla domanda «perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?» sia la seguente: «L’ente, non essendo Dio, è creato da Dio stesso, dunque Dio è creatore increato». Egli dice che questa risposta, che suppone essere la risposta biblica, è inaccettabile. E qui cito da Einführung in die Metaphysik: chiunque si tiene sul suolo di una tale fede può certo, in una certa maniera intendere il domandare di questa domanda e pure seguirlo, ma non può autenticamente porre questa domanda, non può fare come se (nun so tun, als ob). Per Heidegger quindi tutto ciò che è creato è vorhanden e di conseguenza rispondere alla domanda – «Che cos’è l’uomo nella creazione?» – è implicitamente ridurre il Dasein alla Vorhandenheit, cioè mancare completamente il Dasein, essendo Dio la causa efficiente o la ragione sufficiente della Vorhandenheit, di tutte le cose create, che sono innanzitutto vorhanden.
58Questa critica, peraltro costante in Heidegger, della definizione da lui detta biblica dell’uomo è evidentemente un controsenso, è indifendibile. Ed è indifendibile proprio perché questo testo porta alla non-definizione dell’uomo. In primo e secondo luogo, questa non-definizione dell’uomo, questa indeterminazione della sua essenza, è interpretata positivamente come carattere originale, come il carattere originale del libero arbitrio, che a suo modo può essere detto il carattere originale della decisione anticipatrice: il proprio dell’uomo è la possibilità e questa possibilità è istituita dalla decisione anticipatrice (vorläufende Entschlossenheit). Dunque il testo biblico dice il contrario di ciò che Heidegger vuol fargli dire e dice in una certa maniera ciò che Heidegger evita di dire alla fine di Sein und Zeit. Sein und Zeit presenta una mancanza molto grave, ci presenta una ripetizione dell’assenza di definizione del Dasein: il Dasein si decide esso pure e in senso stretto non ha ousía, non è né zuhanden né vorhanden, non ha dunque ousía, perché non è effettivo, ma innanzi tutto possibile, eccetera. Questo corrisponde abbastanza bene alla definizione biblica della creazione dell’uomo e quindi ritrova la problematica dell’assenza di definizione dell’uomo come ousía. Io direi perciò che in un certo modo Heidegger testimonia contro se stesso della solidità di questa analisi.
59Concludo, suggerendo che lo sviluppo della fenomenologia, come pensiero postmetafisico, permette di trasformare in privilegio l’aporia della definizione dell’uomo risultante dallo scarto tra «io» e «me», il quale, posto da Descartes sino a Kant, era ancora pensato da Nietzsche come un’insufficienza. Quanto un’analisi fenomenologica, da me fatta molto rapidamente, permette di conseguire, trova conferma, e non credo per semplice caso, nella tradizione esegetica del racconto di Genesi, rispetto a cui è del tutto coerente. Di questa tradizione non ho citato tutti i testi, ma almeno ho menzionato quattro autori: Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea, Sant’Agostino e Giovanni Crisostomo. Ma suppongo che ce ne siano altri. A questi autori bisogna collegare quelli successivi. Vi è un meraviglioso testo di Giovanni Scoto Eriugena, De divisione naturae, che non ho portato qui, e quello di Pico della Mirandola, De dignitate hominis. A questa tradizione si possono anche collegare i commentari della Genesi che sono, in quel tempo, commentari dello scarto tra imago e similitudo. Rimando anche a San Bernardo, al suo De libero arbitrio, che riguarda appunto lo statuto inammissibile del liberum arbitrium: l’uomo può perdere la libertà di fronte al peccato, di fronte alla morte (come scrivevano i Padri, Sant’Agostino: posse peccare, posse moriri), ma non può perdere la libertas arbitrii, che è infatti la definizione della sua natura, la quale al contempo impedisce che ci sia una definizione di chi è lui in natura. Dunque su questo punto la tradizione teologica è in qualche modo postmoderna.
60Ecco la riflessione su cui sto lavorando. Come vedete non è ancora terminata, dovrò tornavi e dedicarle del tempo. Intanto, vi ringrazio per la vostra attenzione.
Notes de bas de page
51 I. Kant, Akad. Ausgabe, tomo IX, p. 25.
52 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, 6.
53 I. Kant, Anthropologie, Akad. Ausgabe VII, p. 119. Per questa citazione si è tenuto conto della trad. it. G. Vidari, Antropologia pragmatica, Roma-Bari, Laterza, 2001.
54 Detto da Marion in italiano.
55 Cfr. su questo Le cartésianisme de Malebranche, Vrin, Paris, 1974, del suo maestro – dice Marion – Ferdinand Alquié.
56 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Transzendentale Dialektik § 21.
57 Ibidem, § 24.
58 Agostino, Confessioni, libro XIII, IV, 4. 9.
59 Ibidem, X, 33. 50 e X, 30. 41.
60 V. G.W.F. Hegel, GW 6, Meiner, Hamburg 1975, pp. 288ss. Marion ricorda che questi testi sono stati commentati da A. Kojève.
61 Detto da Marion in italiano.
62 V. Agostino, Confessioni, libro XIII, 22. 32.
63 V. il cap. IX del trattato, in Patrologia Greca, t. 44, col. 156.
64 Rispettivamente 2-6, t. 29, col. 668 e 5, 259.
65 B. Pascal, Pensieri, ediz. Brunschvicg, fr. 434.
66 F. Nietzsche, Frammento postumo 2, 463, ed. Colli-Montinari.
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