L'impossibile o Dio
p. 75-96
Texte intégral
1Tenterò di schizzare le tesi e di rinviare ai testi sui quali lavoro in questo momento e ai quali mi dedicherò in un futuro che spero prossimo. La tappa cui sono giunto mi fa pensare che il paradosso diventi la forma normale del discorso: esso dice «contro» quello che appare, nel senso etimologico di παρά (pará), come accade nel navigare un fiume all’inverso risalendo dall’estuario alla fonte; il paradosso risale in certa maniera dalla δόξα (dóxa), cioè dalla visibilità, dalla manifestazione, alla sua origine. Il paradosso dunque è forse una modalità del pensiero perfettamente adatta alla situazione in cui ci troviamo. Infatti, se in qualche modo si tratta di fare un passo indietro dalla metafisica, anche se non direttamente nel senso di Heidegger, ma in quanto intendiamo lasciare l’attitudine naturale, per risalire verso fenomeni più originari, allora il paradosso è proprio una maniera di procedere, per risalire da ciò che sembra apparire verso ciò che appare veramente o verso le condizioni dell’apparizione stessa. Ed evidentemente, se si parte dal linguaggio della metafisica e da posizioni metafisiche, questo non si può tradurre in altro modo che con una versione della metafisica, cioè appunto con un paradosso.
2Ci sono molti paradossi di cui potrei parlare. Ne scelgo due: il primo, la questione dell’impossibile, perché mi sembra un discorso ormai consolidato, e il secondo, che non riesco ancora a precisare nonostante i miei sforzi, porta alla definizione dell’uomo. Cominciamo con l’impossibile o il nome di Dio.
3Da quando si vuole dire «Dio», il semplice fatto di cominciare a dirlo ne fa constatare il carattere inaccessibile. La difficoltà di cancellare questa inaccessibilità non concerne più soltanto la difficoltà o la facilità di dimostrare l’esistenza di Dio, come nel periodo della metafisica classica. La questione della dimostrazione dell’esistenza di Dio presuppone già, almeno nel pensiero metafisico, l’aver accesso alla sua essenza. Ora, la difficoltà che incontriamo oggi non verte innanzi tutto sulla dimostrazione dell’esistenza, bensì sul carattere problematico e oscuro del concetto stesso di ciò che dovrebbe così esistere. In altri termini, la difficoltà oggi non concerne l’esistenza di Dio, bensì la possibilità, e anche la legittimità, d’essere certi di un’essenza, prima di arrivare all’esistenza.
4L’ateismo postmoderno non rifiuta tanto l’esistenza di Dio, quanto la possibilità di concepirlo. E quella che in metafisica restava la via regia per giungere a dire tanto la non-esistenza quanto l’esistenza di Dio, oggi diventa proprio una seconda aporia, più difficile da superare a mio avviso, ricavabile dall’orizzonte della metafisica: la contestazione della possibilità di disporre di un concetto di Dio, ovvero che Dio sia concepibile anche nella sua essenza. Quest’impossibilità, che chiamerei non-metafisica, di concepire l’essenza di Dio, è caratterizzata dal fatto quasi ovvio che non possiamo considerare Dio come un fenomeno, perciò la questione dell’essenza di Dio è preceduta dalla difficoltà della sua definizione e, nella situazione in cui ci troviamo, della fenomenalità possibile di Dio.
5Se ci atteniamo alla definizione elementare di fenomeno, inteso come incontro adeguato di intuizione e concetto, appare evidente che, dicendo Dio, non disponiamo né di un concetto, né di un’intuizione. Non dispongo di un’intuizione, se essa si riferisce a tutto ciò che si può sperimentare secondo le forme dello spazio e del tempo. Sotto il titolo «Dio», intendo per definizione l’eterno, ciò che non finisce di durare e che nemmeno comincia a durare; con «Dio» intendo anche per definizione il non-spaziale, innanzi tutto perché non si situa da nessuna parte, in nessuna estensione, ed è senza alcun limite nel tempo, anche perché il tempo stesso in un certo senso si troverebbe in Lui. C’è dunque un’evidente doppia difficoltà ad ascrivere Dio alla fenomenalità. Peraltro l’impossibilità di Dio a entrare nell’intuizione non implica alcuna scelta dottrinale particolare, perché tale impossibilità è affermata al contempo sia dalla più biblica delle teologie37, sia dalla più speculativa, così come dall’ateismo più schietto. Se Dio dovesse esserci, è ben chiaro che la problematicissima intuizione a Lui adeguata, non sarebbe delimitata secondo il tempo e lo spazio. Dunque, se mai ci fosse un’intuizione di Dio, questa non sarebbe minimamente il tipo d’intuizione che utilizziamo nella finitudine o di cui ci avvaliamo per concepire gli oggetti o le cose del mondo.
6Inoltre, supponiamo pure di ricevere un’intuizione conveniente, appropriata a Dio, supponiamo cioè risolto questo problema, supponiamo che vi sia un’intuizione mistica (se ne parla talora, anche se per lo più ne sono affascinati i non-credenti e gli atei, mentre i credenti restano molto più riservati), essa non sarebbe sufficiente per darci un fenomeno di Dio, perché comunque bisognerebbe che noi potessimo riconoscere quell’intuizione come un’intuizione di Dio. Questo si potrebbe compiere solo mediante un concetto, un concetto preconcepito, che, precedendo l’intuizione, permetterebbe di qualificarla come intuizione di Dio. L’intuizione insomma non darebbe nulla a vedere, se non attraverso un concetto. Dunque, anche avendo un’intuizione di qualcosa che sia in qualche maniera irriducibile alla forma pura dello spazio e del tempo, questa non sarebbe comunque sufficiente a darci accesso alla visibilità di Dio. Bisognerebbe poi poter identificare il fenomeno di quella intuizione come divino e ciò presuppone un concetto. Lì l’incomprensibilità apparirebbe ancora come l’impossibilità di principio di prevedere un concetto di Dio.
7L’incomprensibilità peraltro non è appannaggio della posizione atea, essa è piuttosto già una determinazione biblica e cristiana di Dio. Quando Descartes in un testo molto importante dice che ipsa incomprehensibilitas in ratione infiniti continetur38 (l’incomprensibilità stessa si trova contenuta nella definizione dell’infinito), sta sostenendo la tesi di chi ammette l’esistenza e la conoscenza di Dio. Dunque l’incomprensibilità, ossia il fatto che non si possa vedere, come l’invisibilità del conosciuto nell’intuizione, è ugualmente condivisa dall’ateismo e dalla teologia tradizionale cristiana. Parimenti l’incomprensibilità è, se così si può dire, un attributo positivo di Dio nella teologia cristiana, in quanto evidentemente richiesta da una critica di ogni possibile conoscenza di Dio. Carnap dice, per esempio, che un concetto di Dio è incomprensibile, non ha senso, e Descartes dice la stessa cosa.
8Insisto molto su questo punto, perché le due difficoltà, l’invisibilità in rapporto all’intuizione e l’incomprensibilità in rapporto al concetto, sono in effetti due caratteristiche neutre del fenomeno «Dio»: Dio in una certa maniera suppone che il concetto e l’intuizione non lo raggiungano. Per esempio, a riguardo del concetto, nel paradosso, se Dio fosse comprensibile, ciò diminuirebbe la razionalità della sua conoscenza. Chi afferma d’esser pronto a credere in Dio, ma di aver per questo bisogno di verifiche, di un buon concetto di Dio e dell’esperienza di un’intuizione di Dio, si avvale di un argomento estremamente debole, consistente nel dire: sono pronto ad ammettere Dio, così come sono pronto ad ammettere qualunque oggetto dell’esperienza; ma sta qui il punto: se le regole sono le medesime, allora non è Dio! In questo senso va da sé che la debolezza ineluttabile del fenomeno «Dio» ha senso e appartiene alla definizione di Dio.
9Voglio riprendere qui una tesi che ho sostenuto già molto tempo fa ne L’idolo e la distanza39. Come l’adesione a Dio nella fede non dà un concetto di Dio nel senso filosofico del termine, né riposa su un’intuizione sensibile di Dio, così il fatto di non avere né intuizione né concetto di Dio non costituisce un argomento a favore dell’ateismo. Per lo stesso motivo l’ateismo non può essere dogmatico, affermativo nella sua denegazione, se così si può dire, se non sulla base di un’idolatria, ossia, se vuol essere insieme un ateismo del concetto e un ateismo che giunge a una proposizione dogmatica («Non c’è Dio»), l’ateismo deve essere idolatrico. Bisogna infatti che il concetto di Dio, che è criticato per arrivare alla tesi «non c’è Dio», sia considerato come il vero, il buono, il corretto concetto di Dio; bisogna cioè pensare che ci sia un’essenza di Dio e una sola, se così si può dire, e che la si possa raggiungere attraverso un concetto, un insieme di concetti dati, finiti. E dunque, se si critica questo concetto o questo insieme di concetti, abbiamo chiuso con il senso di Dio, dunque con la possibilità di Dio, potendo affermare che non c’è Dio o che, e può essere lo stesso, non ci dovrebbe essere un Dio.
10Si dirà, per esempio, che Dio è un prodotto della morale, ma si può decostruire la morale, dunque non c’è più il concetto di Dio; si dirà che Dio è un’illusione ideologica, ma si può costruire l’illusione ideologica e decostruirla, dunque non c’è Dio. Si possono trovare tutte le formule e sono relativamente numerose. Evidentemente ogni volta la debolezza dell’argomentazione risulta dal suo carattere idolatrico, perché pone un concetto esprimente il senso di Dio. I credenti ammettono quel concetto e da esso deducono l’esistenza di Dio, mentre gli atei distruggono quel concetto, per mostrare che all’esistenza di Dio non vi è accesso. L’idolatria consiste precisamente nel pensare che un concetto di Dio sia un concetto, intelligibile per noi, totalmente finito. Dunque c’è essenzialmente idolatria nell’ateismo teoretico, che è, per così dire, concettuale, quando mira a una posizione dogmatica. È un’idolatria negativa, ma nondimeno è idolatria.
11Il pericolo dell’idolatria, ben inteso, minaccia allo stesso modo la posizione del credente: ci potrebbero essere, e ci sono stati, teologi che pensavano ci fosse un concetto di Dio e che tale concetto fosse veramente il concetto dell’essenza di Dio, senza interporre alcuna prudenza negativa tra il concetto o i concetti di cui disponevano e Dio stesso. Lì evidentemente le diverse tappe della teologia speculativa, sia affermativa, sia negativa, sia d’eminenza, assumono tutta la loro importanza. Il pericolo d’idolatria vale non solo per la posizione teologica, cristiana o altra, ma già anche per l’ateismo. Il fatto che non abbiamo concetti e che per questo non possiamo convalidare un’intuizione, risulta essere una determinazione neutra, ovvero né positiva né negativa, in rapporto a Dio. Se ne deve concludere che l’esperienza di Dio è altrettanto impossibile del fenomeno «Dio».
12Davanti a quest’impossibilità non si dovrebbe dire che l’impossibilità dell’esperienza di Dio deriva direttamente dalle proprietà di Dio stesso e che il proprio di Dio, dell’infinito in filosofia, sia ciò che per definizione oltrepassa il finito. Le condizioni di possibilità dell’esperienza restano per noi finite, come la sensibilità dell’intuizione in Kant e come, più in generale, i concetti dell’intelletto, al punto che si può concludere che l’essere stesso si dispiega come finito, cosa che dirà Heidegger nel celebre paragrafo 41 di Kant e il problema della metafisica: Ursprünglicher als der Mensch ist die Endlichkeit des Daseins in ihm – «Più originario nell’uomo di sé medesimo è in lui la finitudine del Dasein»40. E il tema della finitudine del Dasein è approfondito nel corso successivo su Schelling: Das Wesen des Seyns ist in sich endlich – «L’essenza dell’essere è in sé finita»41.
13Vorrei insistere ancora sul dibattito che interessa la questione del rapporto infinito-finitudine, che ho ripreso molte volte. Si può considerare una finitudine che non sia intrinsecamente legata all’infinito? I primi a utilizzare la coppia finito-infinito in maniera sistematica e originale sono stati senza dubbio Duns Scoto e i suoi successori. Nella filosofia classica, intendo dopo Duns Scoto sino a Hegel, il finito è sempre direttamente collegato all’infinito, al punto che non c’è apprensione del finito senza quella dell’infinito. Descartes si spinge sino al punto di dire, al termine della terza Meditazione, che la facoltà che mi persuade d’esser finito è la stessa mediante la quale intravedo l’idea dell’infinito. Finito e infinito sono le due facce di una stessa esperienza, di una stessa percezione, di una stessa conoscenza. Questa è la posizione della metafisica classica.
14So che nella modernità, diciamo a partire da Feuerbach, la finitudine è considerata in quanto relativa solo a se stessa, un’esperienza di sé che non implica alcun rapporto con l’infinito e che si definisce in rapporto a sé (Sartre ha sviluppato questo tema a sazietà a partire dalla filosofia di Heidegger). Allora pur sapendo questo, io devo dire che non capisco, che non riesco a concepire razionalmente la posizione della finitudine indipendente dall’idea dell’infinito; non comprendo cosa voglia dire, credo che sia impossibile. Si può negare di avere l’idea dell’infinito, perché la si ha. Non si può pensare la finitudine senza rapporto con l’infinito; forse è un pensiero precritico, possiamo discuterne. Ma dico già da ora che mi atterrò a questa posizione classica nel seguito dell’analisi.
15In rapporto a questa esperienza della finitudine, di fronte all’infinito medesimo, non si potrebbe dire che sperimentare l’incomprensibilità di Dio e la sua non-fenomenalità resti un’esperienza di Dio? Ho sviluppato questa tesi in Dato che, sostenendo che ci possa essere un fenomeno, una conoscenza per contro-esperienza, ma a questo livello di analisi mi atterrò alla posizione più semplice, quella ricordatami sotto forma di obiezione, fattami parecchie volte dal mio collega e amico Benoist, mio ex-allievo. Egli, a proposito dei miei lavori precedenti, ha spesso posto questa domanda: «È sufficiente non essere un concetto per essere Dio?»42, o ancora «Non è neanche sufficiente non essere un oggetto per essere Dio». La tesi avanzata da Benoist è quindi la seguente: «Lei dice che Dio per definizione non è un oggetto, perché non ha concetto; dunque Lei sostiene che il fatto che non vi sia un concetto dell’oggetto “Dio” non è una controindicazione alla manifestazione o alla conoscenza di Dio». E aggiunge: «Ma il fatto di non avere concetto non vuol dire che Dio sia forse, se non c’è concetto, è perché non c’è niente». Ovviamente quest’argomento è sofistico, perché io non ho mai detto che sarebbe sufficiente che non ci sia oggetto, che non ci sia esperienza, fenomeno o concetto, perché vi sia Dio; dico che, se c’è Dio, bisogna che non ci sia concetto. Dico dunque che l’assenza di concetto o l’assenza di oggettivazione è una condizione necessaria, perché si tratti di Dio. Non ho detto che è una condizione sufficiente. L’obiezione è dunque sofistica, tuttavia assumiamola: poiché non c’è né intuizione né concetto di Dio, non c’è fenomeno, dunque, in stretto senso fenomenologico, non c’è esperienza di Dio. Per adesso, fino a prova contraria, non ammettiamo neppure che ci sia una controesperienza di Dio. Sarebbe troppo facile dire che c’è un’esperienza rovesciata di Dio, poiché non c’è un fenomeno di Dio. Se dicessimo così, risponderemmo a un sofisma con un altro sofisma. Concludo invece dicendo che rispetto a Dio troviamo inevitabilmente una triplice impossibilità, quali che siano le nostre presupposizioni: l’impossibilità dell’intuizione (almeno dell’intuizione nello spazio e nel tempo), l’impossibilità del concetto (almeno nel senso di una definizione dell’essenza, da cui si potrebbe dedurre l’esistenza senza ricorso all’esperienza, come vuole l’argomento ontologico kantiano), l’impossibilità dell’esperienza (almeno in senso largo, non c’è Erfahrung di Dio).
16Questa disposizione è resa interessante dalla sottoscrizione della teologia biblica, ebraica e cristiana, stante l’assenza di Dio: Dio è al di là di ogni concetto e al di là di ogni esperienza sensibile, benché vi siano dei sensi spirituali. In assenza, non c’è esperienza di Dio come tale; chi facesse esperienza di Dio, morirebbe. Si può ben dire che è per questo motivo che ci vuole la fede, perché non c’è altra via d’accesso. Mi si può domandare se in tal modo io non resti nella ragione al suo stato naturale, ammesso che si possa fare una distinzione tra la conoscenza naturale e la conoscenza soprannaturale di Dio, ma questa è un’altra questione. Qui bisogna fare un’osservazione che a me appare fondamentale: malgrado tutte le impossibilità che si concentrano sul nome, che si pone senza significato, la questione di Dio nondimeno permane.
17La questione di Dio è quella di un dossier mai archiviato, di una causa mai persa; la questione di Dio si caratterizza per il suo rientrare in gioco e sopravvivere alle confutazioni, rinascendo da tutte le condanne a morte inflittele nella teoria e nella pratica. In certo modo Dio risuscita nella teoria tanto quanto è risuscitato nella pratica. Bisogna riconoscere come un fatto della ragione che, sebbene l’esistenza di Dio sia problematica o impossibile, la questione di Dio resta sempre dotata di senso e pertinente. Si tratta qui di un fatto, che si ripropone al contrario di tutte le altre questioni che possono o essere risolte positivamente o dimostrate negativamente, in quanto senza risposta o mal poste. Le questioni della chimera, del flogisto, della reincarnazione sono mal poste e contraddittorie, non avendo un oggetto che le verifichi; razionalmente si ammette una volta per tutte che sono questioni chiuse. La questione di Dio è invece continuamente aperta e riaperta. Può trattarsi di un’illusione trascendentale, può trattarsi comunque di una questione mal posta, ma sottolineo che nel caso di Dio la questione mal posta resta pur sempre una questione sensata.
18Nel caso di Dio l’illusione trascendentale resta dotata di senso e degna di riflessione. Il fatto stesso che l’illusione di Dio sopravviva all’impossibilità del fenomeno e dell’esperienza, che potrebbe verificarla o convalidarla, prova ancor più la validità della questione. Si tratta di un fatto della ragione: nessuno spirito razionale, anche il più reticente, può pretendere di non capire la questione di Dio, sopra tutto se si comprende l’impossibilità di rispondervi. In altri termini, non è possibile rifiutare la questione di Dio, sopra tutto se si rifiuta Dio.
19Descartes aveva ben compreso questo paradosso, allorché scriveva: «Quelli che dicono di non avere l’idea di Dio e che, al suo posto, se ne formano un idolo qualunque, quelli negano il nome e concedono la cosa». Anche contro Gassendi osservò: «È forse credibile che egli non abbia potuto comprendere, come dice, ciò che io intendo con l’idea di Dio, con l’idea dell’anima e con le idee delle cose insensibili? Infatti con esse io non intendo niente altro di quanto lui stesso ha dovuto necessariamente comprendere, quando vi ha scritto che non le capiva punto»43. Se qualcuno afferma: «non capisco cosa voglia dire “Dio” e per questo non credo in Lui e penso che la tua argomentazione non sia valida», costui sta dicendo che ha un’idea di Dio, perché si può negare Dio, non l’idea di Dio.
20Già anche del «cerchio quadrato» non si può negare di averne l’idea, perché in effetti la si ha nella forma della contraddizione. Possiamo tra l’altro distinguere tra una contraddizione e un Widersinn, un non-senso. Il caso esemplare di idea impossibile è l’idea di Dio. Tra l’idea del «cerchio quadrato» e quella di Dio la differenza consiste nel fatto che nel primo caso la contraddizione è talmente evidente che la questione può dirsi risolta. Il cerchio quadrato si dà come contraddizione, dunque non c’è nell’esistenza un cerchio quadrato; allo stesso modo il non-senso «Cesare è verde» esprime con la massima evidenza l’impedimento all’esistenza per Cesare verde. Ci sono dunque casi di impossibilità concettuale perfettamente concepibili, ma essi sono concepibili, incontestabili ed evidenti in un modo tale che, mentre si pongono, eliminano già anche la questione della loro esistenza.
21Nel caso di Dio l’impossibilità possibile del concetto non decide nulla sull’esistenza, perché essa di per sé non decide nulla. Nel caso del «cerchio quadrato», una volta che si sia capito cosa significhi, il problema è superato, e in ciò sta il suo vantaggio, mentre nel caso dell’idea di Dio una volta che si sia capito che non la si capisce, la questione non è risolta e la difficoltà rimane. La questione di Dio ha questo privilegio unico, esorbitante, ma, mi sembra, irriducibile, di potersi e dunque di doversi porre malgrado l’impossibilità della risposta risolutiva.
22Marx diceva che l’umanità si pone solo questioni che può risolvere, alle quali può rispondere; ma è falso. L’umanità si pone almeno una questione che non potrà mai essere risolta e l’irrisolvibilità è l’importante particolarità di questa questione, la questione di Dio. Insisto su questo punto che potrebbe persino trovare riscontro in una ricerca empirica di antropologia culturale. La questione di Dio è imprescrittibile, malgrado l’impossibilità di rispondervi e, direi, proprio a causa dell’impossibilità a rispondervi. C’è dunque una domanda che si può porre a proposito di Dio, quella che chiede appunto perché la questione di Dio si riproponga sempre. Su questo punto vorrei dare degli elementi di risposta.
23Ancora una volta non serve a niente limitare la questione in base alla sua astrattezza, che la colloca sul piano dell’illusione trascendentale. Vi ricordo che l’illusione trascendentale kantiana è un concetto che risulta dallo Schein trascendentale, esso pure naturale e inevitabile. Se si dice che la questione di Dio, l’unica senza soluzione e l’unica che rimane nonostante la mancanza di soluzione, non è che un’illusione trascendentale, si giunge alla fin fine alla tesi che io sostengo. Infatti, secondo Kant, l’illusione trascendentale è propriamente naturale e inevitabile, e che essa ci sia è un fatto della ragione e come tale ineliminabile. Stranamente però, proprio come Kant insegna, la conoscenza umana che porta a un errore, viene corretta, magari ricordata nelle enciclopedie, ma superata e quindi dissolta in capo a un certo tempo. Riguardo alla conoscenza di Dio invece, anche se si dà errore, la questione non scompare. In questo caso particolare l’impossibilità di risoluzione, che concerne sia la dimostrazione dell’esistenza di Dio, sia l’inconcepibilità della sua essenza, nonché l’assenza di esperienza dell’una come dell’altra, non elimina la possibilità della questione.
24C’è qui un sofisma che sfugge e che io ripeto? Come si può non ripetere l’errore del ragionamento soggiacente? A mio avviso la difficoltà deriva dalla ricerca di risposte in un luogo diverso da quello della domanda stessa. Atteniamoci invece al punto di partenza, all’impossibilità della questione di Dio, perché in questo caso l’impossibile vanta il privilegio della risposta. Bisognerebbe riconoscere che nel caso di Dio, e solo in questo caso, vi è un privilegio dell’impossibile; l’impossibile riceve un privilegio. Constatiamo che quando si tratta di Dio non vale la tesi secondo cui l’impossibilità di rispondere a una domanda comporta l’illegittimità della questione stessa; in questo caso la regola di fatto non si applica. C’è dunque un caso, quello della questione di Dio, in cui l’impossibile sopravvive alla sua impossibilità.
25Ci si addentra nella questione di Dio, allorché si affronta l’incomprensibile, ovvero l’affrontamento dell’impossibile è il singolare statuto della possibilità di una questione cui è impossibile rispondere. In un certo qual modo Dio comincia nello spazio intellettuale; Egli comincia quando si apre la regione in cui l’impossibile diventa possibile. Ma cosa significa che l’impossibile diventa possibile? Questa risposta è relativamente semplice: ciò che non è possibile per noi (come una questione impossibile, cioè senza risposta) resta dotato di senso, perché l’impossibile per noi è possibile nel caso di Dio. Questo scarto tra un impossibile per noi e il possibile di Dio non è assurdo; infatti è la limitazione al luogo del possibile per noi, cioè al dominio discorsivo, a non aprire uno spazio alla concepibilità di Dio. La concepibilità di Dio esige l’ingresso in uno spazio indipendente dalle regole della razionalità finita e dalla sua capacità di definizione.
26Stranamente la storia del pensiero riscontra in numerose tradizioni, anche tra loro inconciliabili, un accordo sul fatto che la prova dell’impossibile definisca la regione in cui Dio interviene. Il discorso filosofico e metafisico attesta che vi è un Dio dei filosofi e dei sapienti e lo pone come l’istanza che tutto può e che, in primo luogo, può l’impossibile. È questo un topos filosofico non troppo originale in filosofia, in quanto già praticato dal pensiero antico per cui «non c’è niente che Dio non possa fare»44. Dunque niente è impossibile a Dio o agli dei. Curiosamente neanche San Tommaso d’Aquino si discosta da questa linea, tanto che da lui si potrebbero trarre migliaia di citazioni. Per esempio: «Dio è detto onnipotente, perché può tutti i possibili assolutamente, e questa è un’altra maniera di dire che Egli può tutti i possibili»45. La metafisica moderna mantiene questo assunto. La tesi di Descartes, benché sia evocata come un’ipotesi a introduzione del dubbio iperbolico e non conduca necessariamente alla reale esistenza di Dio, dice lo stesso: «È molto tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, che c’è un Dio che può tutto»46. Quest’ultima affermazione è un giudizio analitico: un Deus qui non potest omnia, non est Deus, dunque quando si dice che Dio può tutto, si dice Dio.
27È interessante notare che un filosofo come Locke, molto reticente circa la possibilità naturale di Dio, tiene fermo alla sola determinazione dell’onnipotenza per negare la disponibilità di un concetto di Dio, secondo la posizione che fu anche di Hobbes. Riporto, per esempio, una citazione dal Saggio sull’intelletto umano: «Questa eterna sorgente di ogni essere deve essere anche la sorgente e l’origine di ogni potere; e così questo essere eterno deve anche essere il più potente»47. La sola definizione che ragionevolmente si possa dare di Dio è che Egli è la sorgente di ogni essere, cioè l’essere più potente. Presso gli inglesi, da Hobbes a Hume, la critica della possibilità di nominare Dio in filosofia è estremamente radicale e il concetto che rimane, il solo ineliminabile, è l’onnipotenza. Questa posizione si colloca sulla via della metafisica. Facilmente si trova in Kant la definizione di Dio mediante l’onnipotenza.
28Anche senza passare in rassegna le posizioni metafisiche, contrapponiamo queste a quelle dei filosofi che espressamente si sono posti ai margini della metafisica o che hanno avuto la pretesa di eccederne. Tra questi il miglior esempio può essere Kierkegaard, il quale utilizza questa formula stupefacente per determinare Dio: «Colui per il quale lo straordinario non esiste»48. Cosa significa che per Dio lo straordinario non esiste? Significa che l’impossibile è in una certa maniera il nome di Dio. Allora dire che l’impossibile è il nome di Dio (qui dispongo veramente di molte citazioni adatte) è il punto d’accordo sia di autori come Rosenzweig, Bloch, eccetera, sia dei fenomenologi della decostruzione. L’impossibile determina Dio, almeno per Derrida e per Levinas. Su questo punto Derrida indica John Caputo come suo successore, in quanto quest’ultimo ha sviluppato in modo particolare il tema dell’impossibilità, spingendola nella direzione di una definizione positiva di Dio49.
29Da parte mia non sviluppo il punto che l’impossibile come luogo del divino è presente nella filosofia postmoderna, se ve ne è una; l’accordo della metafisica, antica e moderna, e del pensiero postmetafisico, sull’impossibile come dominio proprio a Dio non mi avrebbe tanto impressionato o tanto scosso, se non vi si aggiungesse una terza tradizione, che definisce l’impossibile come il proprio di Dio: la tradizione biblica. Già in Genesi (18,14) si trova la prima formulazione esplicita di questo tema: si tratta dell’annuncio della nascita di un figlio fatto ad Abramo e a Sara, i quali sono entrambi ormai troppo vecchi per concepire un figlio; Sara ride dell’annuncio promesso, ma a lei viene detto: «Nessuna cosa è impossibile dalla parte di Dio». Traduco «dalla parte di» il pará della versione greca dei Settanta; mi piace questa traduzione, che rievoca le due parti (côtés) proustiane: quando si è dalla parte dei Guermantes niente è impossibile; evidentemente quando si è dalla parte di Combray non si hanno tutti i mezzi, ma quando si è Guermantes tutto è possibile. Ebbene Dio è un super-Guermantes e quando si è dalla parte di Dio tutto è possibile! Questa formula «niente è impossibile dalla parte di Dio» si ritrova nei Vangeli, per esempio in Marco (14,36): «Padre, tutto è possibile a te».
30Biblicamente si può attraversare senza difficoltà la frontiera che permette di entrare nel territorio di Dio, allorché si passa dal possibile per noi all’impossibile per noi, che resta possibile per Dio. Questa frontiera non separa solamente il possibile dall’impossibile, essa demarca il campo del possibile per noi, ove siamo «chez noús», rispetto al campo dell’impossibile per noi, ma che non è impossibile per Dio. In questo caso la formulazione biblica è assai più speculativa delle formulazioni filosofiche, perché essa completa la dualità possibile-impossibile con la contrapposizione del possibile-impossibile per noi e il possibile-impossibile per Dio, dalla parte di Dio. Compare dunque una terza tappa, una terza modalità, che non è tale nel senso aristotelico o kantiano: il possibile per noi, l’impossibile per noi, il possibile per Dio che è impossibile per noi. Ciò corrisponde all’espressione abbastanza precisa della I Epistola a Timoteo (6,15s.) Μόνος δυνάστης (Mónos dynástes) – da tradurre «il solo che possa» (non «il solo potente») […] «lui che nessuno tra gli uomini ha mai visto né può vedere». L’espressione è interessante per il fatto che l’essere il solo a potere mette Dio al di là della portata degli uomini, della loro portata teorica. Non si può vedere Dio per intuizione, non lo si può conoscere, di Lui non c’è concetto.
31Mi sono così soffermato su tre punti di vista, peraltro divergenti, a riguardo della questione di Dio: il punto di vista metafisico, quello decostruttivista e infine quello biblico. Questi tre punti di vista convergono soltanto nell’attestazione dell’impossibile, che è il concetto al di sopra di tutti i concetti, il solo che possa designare il nome al di sopra di tutti i nomi. L’impossibile definisce evidentemente il luogo della questione di Dio con delle variazioni e a prezzo di equivocità delle quali bisognerà tener conto, ma sempre secondo uno stesso principio: la frontiera tra Dio e noi è la frontiera tra il possibile e l’impossibile.
32Tra molti autori citabili scelgo Cusano, perché ho trovato nei suoi testi una stupenda enunciazione di questa via, di questa maniera di aprire un accesso a Dio attraverso l’impossibile: «Poiché niente è impossibile a Dio, bisogna che noi guardiamo mediante le cose che sono impossibili in questo mondo verso colui presso il quale l’impossibilità è una necessità»50. Oportet per ea quae in hoc mundo sunt impossibilia nos ad ipsum respicere: bisogna che cerchiamo di guardare (respicere) attraverso le cose che sono impossibili dalla nostra parte (nel mondo, dal punto di vista del mondo) in direzione di Colui dalla parte del quale (apud quem) impossibilitas est necessitas, l’impossibilità è ancora possibile e persino necessaria. Cosa vuol dire che l’impossibilità è necessaria? Vi sono due maniere di intendere la qualificazione: o dicendo che Dio è così potente da rendere necessario ciò che è impossibile, oppure che il fatto che a noi appaia impossibile, è assolutamente necessario; io assumo questo secondo senso.
33Il ragionamento di Cusano era questo: se volete conoscere, guardate in direzione di Dio. Bisogna smettere di ragionare e di tentare di vedere come quando si vuole vedere qualcosa nel mondo. Per vedere e conoscere qualcosa nel mondo, bisogna andare in direzione dei possibili; nessuno si dirige in una direzione che non comprende, ove ci sono impossibilità. Si comincia sempre dalle cose più facili, come dice Descartes, cioè dalle cose che sono possibili nell’azione e nella conoscenza, ma, poiché Dio si definisce come colui per il quale niente è impossibile, allora sarebbe meglio guardare le cose impossibili. Ci sono infatti più chances che Dio sia là piuttosto che nelle cose possibili.
34Che per Dio l’impossibilità sia una necessità può significare che quella è resa effettiva nello sconvolgimento dell’ordine delle modalità filosofiche, giacché Egli passa direttamente dall’impossibilità alla necessità, oppure che Dio, Colui per il quale l’impossibile è la necessità della sua propria apparizione, appare a noi sempre come impossibile. A noi, che siamo dall’altra parte della frontiera, Dio appare sempre come impossibile, perché Egli è in una regione altra dalla nostra.
35Cito ancora i luoghi del Nuovo Testamento che rimandano a questo punto di vista. Innanzi tutto Matteo 19,26: per gli uomini questo è impossibile [cioè che un ricco entri nel Regno di Dio], ma per Dio tutte le cose sono possibili; similmente Marco (10,27): per gli uomini quello è impossibile, ma non per Dio, perché per Dio tutte le cose sono possibili. Faccio notare un elemento importante in questi due testi: il punto non è quello di constatare che vi sono delle possibilità per l’uomo, cioè dalla sua parte, e delle impossibilità al di là della potenza umana e che queste impossibilità sono possibili per Dio. Bisogna vedere bene invece che sono le stesse cose a essere impossibili e possibili: esse sono impossibili per noi, possibili per Dio. Ciò vuol dire che non si tratta di giustapporre due regioni, quella dei possibili e quella degli impossibili, ovvero la regione dei possibili, la nostra, come la regione sublunare, sovrastata dalla regione degli impossibili, la regione al di là, nei cieli, la regione di Dio. Ci può essere questa divisione, ma il testo dei Sinottici dice molto bene che è la stessa cosa a essere possibile e impossibile, secondo il punto di vista. L’ingresso di un ricco nel regno dei cieli è possibile per Dio, ma impossibile per noi; si tratta di una sola questione.
36Ho affermato, e lo ribadisco, che ci sono due regioni, ma esistono casi in cui ve ne è una sola, entro cui un medesimo atto può assumere due modalità; lo mostra molto chiaramente l’ultimo testo che cito a tal proposito: Τὰ ἀδύνατα παρὰ ἀνθρώποις δυνατὰ παρὰ τῷ θεῷ ἐστιν (Luca 18,27) – «Gli impossibili dalla parte degli uomini sono dei possibili dalla parte di Dio». Non c’è dunque soltanto una frontiera tra l’impossibile e il possibile, ma ci sono anche dei casi in cui si tratta della conversione dell’impossibile in possibile.
37Vorrei adesso formalizzare ciò che abbiamo constatato. Abbiamo posto una determinazione astratta di Dio, asserendo che Dio si manifesta in modo tale che niente gli è impossibile. Due attuazioni sono riscontrabili: la prima concerne la versione dell’impossibile-possibile, cioè la conversione dell’impossibile per noi in possibile per Dio. Abbiamo il diritto di attribuire una sola regione a Dio (che Dio sia o che noi sia, è qui questione indifferente) e tale regione comincia a dispiegarsi nel momento in cui incontriamo un’impossibilità. Detto in altri termini, noi miriamo all’impossibile per noi e tentiamo di trasgredirlo; l’impossibile non appare che al limite, alla fine della finitudine, della regione che è la nostra e che appare come un «piccolo cantone» dello spazio infinito del possibile, per riprendere un’espressione di Pascal. In questo caso sotto il titolo negativo di impossibile si delinea la regione del possibile, appena intravista, perché diviene immediatamente inaccessibile alla finitudine. Lasciata a se stessa la finitudine è pura e semplice prova di sé medesima, dell’impossibile per lei, e noi non siamo ancora nell’impossibile, nella regione propria di Dio.
38Affinché l’impossibile per noi si apra sul possibile senza limiti, sul possibile per Dio, bisognerebbe trasgredire questa frontiera e passare dal possibile per noi all’impossibile per noi, cioè al possibile per Dio. Ma noi per definizione non possiamo farlo, perché non possiamo di fatto trasgredire il limite tra il possibile per noi e l’impossibile per noi, eppure, ed è il punto delicato, noi non possiamo pensare questo limite senza considerare la finitudine dal punto di vista dell’infinito. Voglio dire che l’infinito non è opzionale per la finitudine. Naturalmente il finito non si confonde, neanche in parte, neanche al limite, con l’infinito, eppure l’infinito è la condizione per concepire, per provare la finitudine. Questa, come concetto negativo, presuppone sempre l’infinito, quale sua condizione di rappresentazione. Ciò vuol dire che noi non possiamo nemmeno concepire il limite del possibile, ossia l’impossibile per noi, senza la condizione di possibilità che è il possibile per Dio.
39Ridiciamolo altrimenti: quando incontriamo l’impossibile, non possiamo che interpretarlo come l’impossibile per noi e non come l’impossibile assolutamente. Il rapporto della finitudine con l’infinito è un rapporto trascendentale, e non solo di trascendenza, nel senso che l’infinito è la condizione per concepire la finitudine. Nella questione che ci interessa questo si traduce nel fatto che quando incontriamo l’impossibile, dobbiamo dire che è l’impossibile per noi e non che è l’impossibile in sé. In senso stretto la finitudine consiste in ciò, nel constatare che l’impossibile è sempre un impossibile per il finito e dunque che è solamente un impossibile per noi e non un impossibile assolutamente.
40Io insisto molto su questo punto. Dire che c’è da una parte il possibile, che è possibile per noi e dall’altra l’impossibile, che essendo impossibile per noi è impossibile assolutamente, è negare la finitudine. Se si dice che il limite del possibile è l’impossibile in generale, si dice che l’impossibile in generale ci è accessibile. Detto altrimenti, la divisione metafisica tra possibile-impossibile non è concepibile assolutamente dal punto di vista del possibile, cioè del finito. La divisione tra il possibile e l’impossibile non può essere concepita in maniera assoluta che dal punto di vista assoluto, dal punto di vista dell’infinito. La finitudine è dunque l’esperienza che il possibile è per noi e l’impossibile è per noi, ma se l’impossibile è per noi non è un impossibile assoluto. Bisogna pertanto distinguere tra l’impossibile per noi e l’impossibile per l’infinito, un impossibile che dal punto di vista dell’infinito, all’infinito, ha uno stato proprio, che non è il nostro, se non perché può essere tradotto come impossibile.
41La finitudine, insomma, non può concepirsi come l’infinito (anche se non nego che implichi l’esistenza dell’infinito) e dunque l’impossibile deve sempre comprendersi come un impossibile per noi e non come un impossibile assoluto. Ciò significa che non possiamo provare l’impossibile senza ammettere la possibilità che questo impossibile sia possibile da un altro punto di vista. É perciò la questione del punto di vista a esser posta dal rapporto del possibile con l’impossibile. In questo senso ogni limite ingloba il suo bordo esteriore, altrimenti il limite resterebbe indeterminato, sarebbe ancora infinito, senza frontiere. Affinché la finitudine si provi come ristretta e limitata, bisogna assolutamente che si contrapponga all’infinito ed è qui che si gioca la possibilità di una controesperienza.
42La controesperienza, di cui ho parlato preliminarmente e che avevo ricusato all’inizio del nostro percorso, diventa adesso pensabile. La controesperienza o la controprova consiste in questo: se la finitudine non può provare se stessa che provando il suo limite, cioè provandosi come finitudine per sé, come esperienza dell’impossibile per me, per sé, per noi, allora non è possibile provare, sperimentare tale finitudine che in opposizione all’infinito, il quale la rende possibile. E dunque vi è una controprova dell’infinito. La prova della finitudine è una prova di resistenza e questa resistenza postula ciò a cui resiste.
43Non si tratta qui di applicare la legge della fisica dei corpi al limite del finito e dell’infinito, si tratta di pensare a ciò che Michel Henry chiama «autoaffezione», che anche per lui è una controesperienza. L’autoaffezione esprime il fatto che la vita si prova con la resistenza a se stessa. E in modo evidente la finitudine è legata all’autoaffezione, che è una figura dell’esperienza ottenuta per contrasto. Ebbene, l’esperienza dell’impossibile come impossibile per noi è una controesperienza dell’impossibile in sé, cioè di fatto la possibilità che l’impossibile passi dalla parte del possibile in virtù di Dio.
44Evidentemente momento essenziale è la conversione dell’impossibile in impossibile per noi. La difficoltà non è quella di convertire l’impossibile per noi in possibile per Dio, ma di comprendere che l’impossibile non può essere assoluto per noi, che l’impossibile è sempre l’impossibile per noi. Questo legame tra la finitudine e l’impossibile è al centro del nostro dibattito. Ci può essere un’esperienza dell’impossibile che non sia un’esperienza fatta dal finito, un’esperienza del finito? E in questo caso ha senso parlare di un impossibile assolutamente? La mia tesi è che non si possa parlare dell’impossibile assolutamente. Parlare dell’impossibile assolutamente vorrebbe dire che chi fa l’esperienza dell’impossibile, cioè il finito, è assoluto; ma per definizione non lo è ed è questo che significa propriamente l’esperienza dell’impossibile, dunque l’impossibile deve sempre essere inteso come l’impossibile per noi.
45La differenza tra il possibile e l’impossibile è una differenza dal punto di vista della finitudine e non implica la controesperienza dell’infinito, ovvero la implica negativamente quanto si voglia, ma non è questa la questione. La questione è che l’infinito resta l’orizzonte del finito, non per trasgredire il finito ma per conservarlo. Di conseguenza l’impossibile, concepito dal punto di vista del finito, deve anch’esso venir pensato secondo la finitudine, cioè pensato come un infinito per noi. D’un tratto comprendiamo che l’impossibile, come impossibile per noi (e l’infinito per noi è l’impossibile per noi), deve sempre essere compreso come impossibile per noi. Dunque l’impossibile consente di dire che l’impossibile per noi non è l’impossibile assolutamente e che allora l’impossibile può divenire possibile da un punto di vista che non è il nostro, qualunque esso sia.
46La questione di Dio, o meglio, la questione su Dio non si apre che a partire dal momento in cui essa ci appare sul limite esatto del possibile e dell’impossibile, dell’impossibile per noi, che potrebbe tradursi in possibile per Dio. Ciò si prova anche a contrario: supponiamo il caso di un’impossibilità logica o il caso di qualcosa che dovrebbe restare impossibile ineluttabilmente (impossibile per l’ontologico, per l’esperienza); in questo caso non dovremmo rispondere positivamente alla questione di Dio, né tanto meno chiudere la questione di Dio, ma semplicemente riconoscere che noi non abbiamo mai incontrato una regione che convenga a Dio o all’infinito, finché restiamo ancora nella nostra regione. Ogni qual volta incontriamo ciò che è veramente impossibile da pensare e ne concludiamo che lì si arresta il lavoro del pensiero, vogliamo dire che lì si ferma il lavoro del pensiero finito. Ora proprio perché il lavoro del pensiero si ferma nella regione del finito, questa non raggiunge la questione di Dio; se si tratta del possibile, non si tratta di Dio. Fintantoché incontriamo un possibile, non raggiungiamo la regione in cui sarebbe possibile parlare di Dio. Fintantoché siamo nel possibile, Dio non è in questione. E, del tutto paradossalmente, solo quando entriamo nell’impossibile, entriamo nella regione in cui forse può trattarsi della questione di Dio.
47Ora ciò può sembrare paradossale, ma bisogna capire bene che è l’inverso di un paradosso ben più temibile, quello del discorso metafisico su Dio, il quale dichiara che Dio rientra nella regione dell’essente e pertanto il discorso è sempre tenuto secondo la regione dell’essente, che rientra nel finito. Ciò avviene sia in maniera esplicita, come nel caso di Descartes (che ha la saggezza di dire che Dio è proprio nella regione dell’impossibile), sia confondendo il luogo da cui si parla (Malbranche, Spinoza, Leibniz), cioè facendo come se si parlasse dal punto di vista dell’infinito. In Leibniz, è evidente: egli ripete che tutti i predicati sono inerenti al soggetto e chi potesse fare l’analisi del soggetto, ne dedurrebbe tutti i predicati, ossia spiegherebbe l’intera nozione primaria, potrebbe cioè descrivere in anticipo che «Cesare passa il Rubicone». Vi è dunque un’analisi della nozione primaria che dà una conoscenza a priori dell’insieme del soggetto (tutti gli atti di Cesare, ivi compreso il suo assassinio, dopo il passaggio del Rubicone), se almeno uno spirito infinito ne fa l’analisi. Questa è proprio l’indicazione del problema: Leibniz sta parlando dell’infinito dal punto di vista del finito, come se il punto di vista del finito potesse passare nel punto di vista dell’infinito. Spinoza dice la stessa cosa, affermando che la conoscenza prodotta da un modo finito dell’attributo pensiero può divenire adeguata, cioè può divenire la stessa di quella di Dio, ammesso che si utilizzino certe procedure, come le notiones communes. Evidentemente è una battuta. Vi rimando al II libro dell’Etica, al paragrafo trentadue, ove Spinoza dice che tutte le nostre idee possono divenire adeguate per quanto si riferiscono a Dio (quatenus referentur ad Deum). Tutte le nostre idee possono divenire adeguate, cioè assolutamente vere, per quanto si riferiscono a Dio, ma il problema è che si riferiscono a Dio!
48La metafisica tende a dire che lo scarto tra il finito e l’infinito è fondamentale. L’essente si divide in due regioni: non c’è Dio che dal lato dell’essente infinito, mentre chi ne parla è il mondo, ma tutto ciò che è creato, la mens, etc., è dal lato del finito. Detto questo, l’essente finito parla dell’essente infinito e dice che in una certa maniera si può considerare che la differenza tra il finito e l’infinito si cancella quando il finito parla dell’infinito. È l’ambizione della metafisica. In una certa maniera anche Kant ha ceduto a questo, per non parlare di Hegel e di altri.
49Quando io dico «fintantoché non entriamo nella regione dell’impossibile, non si tratta di Dio», voglio dire che l’infinito è proprio ciò che il finito non può concepire. La posizione di Descartes è che il proprio dell’infinito è che non lo si può concepire, dunque il proprio di Dio è che Egli sia impossibile. Se le cose continuano ad apparirci possibili, sia nell’effettività, sia nel concetto, in tale regione non si tratta di Dio. Quando diciamo «questo si rivela impossibile», a proposito di Dio, vuol dire che forse in questo caso si tratta di Dio. Invece di dire: «siccome è impossibile concepire che Dio possa essere questo e quello; siccome è impossibile concepire l’essenza di Dio e le proprietà a Lui attribuite sono contraddittorie, dunque Dio non è possibile», occorre piuttosto sostenere che la tesi che «Dio è impossibile» è una contraddizione in termini.
50Dire che Dio è impossibile è una contraddizione in termini, così come lo è dire che Dio è possibile per il mio pensiero, che Dio è possibile nell’esperienza finita; sarebbe contraddittorio che Dio fosse possibile per il mio pensiero o possibile per l’esperienza. Se Dio è dunque impossibile per il mio pensiero, se parlo di un impossibile per il mio pensiero e dico che questo sarebbe Dio o se parlo di un impossibile per la mia esperienza, dicendo che questo sarebbe Dio, sono forse là dove Dio si trova. In altri termini, la frontiera, che la metafisica ammette, tra il finito e l’infinito deve essere considerata come reale dal punto di vista del concetto. Finché non si tratta dell’infinito e si tratta dell’impossibile per noi o dell’incomprensibile per noi, non può trattarsi di Dio, quel concetto non concerne Dio. Pretendere di arrivare alla regione ove Dio o è esperito o è pensato, restando nella razionalità comune, nella logica comune, nella regola comune dell’esperienza, significa farsi una grande illusione. Se le regole della razionalità non cambiano, ciò che è conosciuto o provato non può avere il minimo rapporto con Dio. Se niente è impossibile a Dio, allora non si può dire che Dio sia impossibile; si può dire che è impossibile per noi; proprio questo bisogna affermare. Ma il fatto che sia impossibile per noi implica innanzi tutto che non si è sicuri che sia impossibile per Lui, mentre d’altra parte è normale che sia impossibile per noi. Le regole dell’esperienza e della logica devono esse pure venir sottomesse alla differenza tra il finito e l’infinito.
51D’altronde uno dei paradossi più interessanti della storia della metafisica è quello dell’univocità del conceptus entis (pensato da Duns Scoto e poi sviluppato da Suarez): la differenza tra il finito e l’infinito è la prima differenza che si introduce nell’univocità del concetto di ente; il conceptus entis è univoco, perciò esso si applica a Dio e all’uomo o alla creatura alla medesima maniera, perché è astratto e vuoto. Ovviamente bisogna ristabilire la differenza tra Dio e le creature e a tal fine si ricorre alla divisione ontologica di finito e infinito. In metafisica questa divisione resta però all’interno di una univocità maggiore, relativa al concetto di ente. Questa divisione è pertanto limitata sin dal principio, perché si trova all’interno di un’unità più essenziale. L’ambiguità di questa posizione apparve ben presto, emerse infatti subito la questione dell’accessibilità dell’infinito al finito, la richiesta di sapere se la mens finita, che procede dall’infinito, vi abbia accesso. Detto in altri termini, ci si chiede se la divisione del finito e dell’infinito possa restare, in una maniera o nell’altra, accessibile al finito.
52La metafisica pensa che la divisione tra il finito e l’infinito sia sempre unificata dal concetto di ente. Se il concetto di ente diventa dubbio (ipotesi che apre una diversa situazione), non c’è più unificazione. In questo caso, ciò che è detto dal finito non può che essere detto dal finito sul finito e non al di là. Ne consegue l’impossibilità di applicare, per esempio, le categorie all’infinito, ivi compresa quella della modalità. Invece è proprio questo il tentativo della metafisica. Ovviamente quando la metafisica resta critica come in Descartes o Kant, non è possibile applicare le categorie a ciò che non appartiene all’esperienza finita, ma la tentazione è sempre quella di applicare le categorie pure all’infinito stesso; e che lo si faccia positivamente o negativamente non cambia nulla.
53La nostra questione può essere posta altrimenti: si parla ancora di Dio, se si dimostra che Dio, nella sua essenza, è possibile per noi, ovvero se si dimostra che l’esperienza di Dio è possibile nello spazio della finitudine? (Lascio da parte la questione dell’Incarnazione e della Rivelazione cristiana, poiché parlo da filosofo). E dunque, perché mai dovrebbe essere sorprendente che Dio rientri nel campo dell’impossibile per noi? Piuttosto sarebbe sorprendente che Dio derivasse dal possibile per noi. Ancora una volta dunque la tesi «Dio è impossibile» risulta contraddittoria nei suoi stessi termini; è impossibile dire che Dio è impossibile.
54Se si vuole porre di nuovo la questione di Dio utilizzando le categorie della modalità in maniera critica, così come per l’«evento», suggerisco questo discorso: come possibile concepibile che diviene effettivo, l’evento è l’effettività di ciò che prima era ritenuto impossibile; la possibilità, lungi dal precedere l’effettività dell’evento, ne procede e gli succede. Cioè, la possibilità è aperta dall’evento ed esso non è la conseguenza della sua propria possibilità, è la contraddizione della sua propria possibilità. Nel caso di Dio la situazione delle categorie è differente: non si tratta di effettività, perché lo schema in cui mi pongo mette tra parentesi la distinzione circa l’esistenza o la non esistenza di Dio. A proposito di Dio, che Egli esista o meno non fa differenza nel rapporto tra possibilità e impossibilità. Lasciamo dunque cadere la categoria dell’esistenza (Wirchlikcheit); ci restano la possibilità, l’impossibilità e la necessità.
55Come si ridefinirà questo argomento? Io suggerisco che si dica che non è possibile che ciò di cui si parla meriti il nome di Dio, a meno che si parli dell’impossibile; non è possibile che ciò meriti il nome di Dio, condizione necessaria ma non sufficiente, a meno che si parli di un impossibile. Finché non si arriva lì, non si è nel dominio in cui si tratta di Dio come tale. E in questo caso, poiché è a condizione dell’impossibilità che si può trattare di Dio, allora è impossibile che Dio sia impossibile.
56Mi sono soffermato sul tema della impossibilità della possibilità, che ho già utilizzato in altra occasione, a proposito del «fenomeno erotico». La definizione di Dio come impossibilità della possibilità è una maniera di criticare l’ordine delle categorie di modalità e di sovvertirlo, di rovesciarlo. In un primo tempo a proposito di Dio ho cercato di mostrare che la questione dell’effettività di Dio è secondaria, così da mostrare che la questione della possibilità di Dio è per un verso contraddittoria. È dunque dicibile solamente l’impossibilità dell’impossibilità di Dio. In senso stretto non è razionale dire che Dio è impossibile; è una posizione intenibile. Proprio questo però definisce la possibilità per eccellenza, nel senso più diretto del termine. Non ci sarebbe possibilità di Dio al primo grado, c’è sempre un’impossibilità della possibilità.
57Vorrei fare un’osservazione aggiuntiva relativamente alla questione del gioco di possibile e impossibile: non c’è rapporto tra la possibilità più o meno alta dell’effettività e quest’ultima, vi è invece il gioco del possibile e dell’impossibile, della possibilità o dell’impossibilità. Queste sono le tesi antagoniste di Heidegger (dell’essere-per-la-morte, che è la possibilità dell’impossibilità) e di Levinas (della morte di autrui, che è l’impossibilità della possibilità). Queste due tesi sono note. In questo senso parlare di un’impossibilità della possibilità è del tutto ragionevole, benché né Levinas, né Derrida ne abbiano parlato. Siamo su un terreno già segnalato. Ovviamente la possibilità dell’impossibilità non significa di nuovo che Dio sia possibile nel suo concetto. È il secondo grado di una forma critica della possibilità, non è una forma concettualizzabile della possibilità. Del resto, dire che Dio è possibile, è comunque incredibilmente contraddittorio, perché la possibilità è la non-contraddizione e la non-contraddizione è sempre non-contraddizione nel nostro concetto. Ora il nostro concetto è finito, dunque dire «Dio è possibile» significa affermare che Dio, cioè l’infinito, è possibile, concepibile con la nostra parola finita. Ciò potrebbe anche avere un senso, ma bisogna spiegarsi più precisamente.
58Dire «Dio è impossibile» significa affermare che l’infinito non è concepibile in un concetto finito; è quasi una banalità! Se si dice che un concetto finito, concepito come possibile, è identico all’infinito, salvo molte spiegazioni, si dice semplicemente un’assurdità, una sorta d’idolatria concettuale. Infatti non si capisce quel che si dice. C’è per esempio chi sostiene questa tesi: «Vedo molto bene quel che Dio potrebbe essere, ma non ho verifiche intuitive, sperimentali di qualche tipo, dunque resto in attesa». Questa posizione suppone che si veda benissimo ciò che significhi «Dio», ma quando si vuol dire Dio, non si sa di cosa si parla. Il problema è che non si può non dire Dio, ma in senso stretto non si sa di cosa si parli. Risulta dunque stranissima la posizione di chi sta in attesa di qualche verificazione empirica a proposito di Dio.
59È interessante rileggere Carnap, che per certi versi è molto ingenuo e perciò anche simpatico, uno spirito fondamentalmente non critico. Egli pensa che ci siano concetti teologici, che sono correttamente formulati, e poi che ci siano verificazioni empiriche con i loro protocolli. Ora la difficoltà è che nessuno ha mai saputo cosa siano questi protocolli, Carnap compreso, e d’altra parte il concetto correttamente costruito è corretto in rapporto alla semantica (la quale rimanda a ciò che è stato deciso; essa non è calcolabile, è e non è una logica formale, proprio perché è semantica). Al di là della debolezza di queste assunzioni, è già piuttosto strano affermare che l’idea di Dio sia un caso particolare di una proposizione ben formulata, come lo sono altre quando trattano dell’infinito, cioè assiomatizzate, formalizzate, ed è altrettanto strano esigere una verifica empirica per un dato protocollo. Supponendo che tutte le richieste teoriche del positivismo logico a proposito di Dio siano verificate, ciò che Carnap conoscerebbe così, evidentissimamente non sarebbe Dio. Nessuno crederebbe per un istante che ciò sia Dio, e a ragione.
60L’impossibilità della possibilità di Dio nel discorso del positivismo logico è maggiormente conforme all’idea che ci si può fare di Dio che non la sua verificazione nel medesimo discorso. Anziché stupirci di non avere concetti o intuizioni di Dio (che Dio non sia possibile per noi), dovremmo piuttosto considerare cosa penseremmo nel caso opposto: cosa succederebbe se Dio fosse possibile per noi? Avremmo il paganesimo. Dio non è il luogo del divino.
Notes de bas de page
37 Si impone qui la citazione di Gv 1, 18: «Dio nessuno l’ha mai visto»
38 R. Descartes, Quintae Responsiones, in Oeuvres, éd. Adam-Tannery, t. VII, Paris, 19642, p. 368, 3-4.
39 J.-L. Marion, L’idole et la distance, Paris, Grasset, 1977, trad. it. A. Dell’Asta, Milano, Jaca Book, 1979.
40 M. Heideggere, Kant und das Problem der Metaphysik, § 41, G.A., Bd. 3, Frankfurt a./M., 1991, p. 141.
41 Id., Schelling: Vom menschlichen Freiheit (1809), G.A., Bd. 42, Frankfurt a./M., 1971, p. 141.
42 V. J. Benoist, L’idée de la phénoménologie, Paris 2001, pp. 86 e 96.
43 R. Descartes, Secundae Responsiones, A.T. VII, p. 139, 5-7 e A Mersenne, juillet 1641, A.T. III, p. 392, 11-24.
44 Cicero, De divinatione, II, 41, 86, éd. W.A. Falconer, Harvard U.P. 1923, p. 468: «Nihil est, inquiunt, quod Deus efficere non possit».
45 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia, q.25, a. 3, resp.: «Deus dicitur omnipotens, quia potest omnia possibilia absolute, quod est alter modus dicendi possibile».
46 R. Descartes, Meditationes, I, A.T. VII, p. 21, 1-2: «…infixa quaedam est meae menti vetus opinio, Deum esse qui potest omnia».
47 J. Locke, An Essays concerning Human Understanding, IV, 10 § 4, éd. P.H. Niddich, Oxford University Press, 1975, p. 620: «This eternal source, then, of all being must also be the source and original of all power; and so this eternal Being must be also the most powerful».
48 S. Kierkegaard, Le opere dell’amore, I, c. 2, C, in Samlede Voerker, 2. éd., Copenhagen 1920-36, t. 9, p. 81.
49 V. M. Dooley (ed.), A Passion for the Impossible. John D. Caputo in Focus, New York State University of University Press, New York 2003 e J. Caputo, Apostles of the Impossible: on God and the Gift in Derrida and Marion, in J.D. Caputo, M.J. Scanlon (ed.), God, the Gift and Postmodernism, Bloomington Indiana University Press, 1999 (tr. fr. in «Philosophie», n. 78, Paris, 2003). Ridendo del titolo del saggio di Caputo, Marion ha commentato: «Non so se questi apostoli sono ben scelti, ma insomma…!».
50 Cusano, Trialogus de possest, in Werke, Berlin, ed. P. Wilpert, 1967, t. 2, p. 66.
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