Il dono
p. 53-73
Texte intégral
1Nelle lezioni precedenti ho cercato di proporre una filosofia prima radicalmente diversa dalla metafisica (intesa nel senso storico del termine) e di ascendenza fenomenologica. Occorre però trovare un fenomeno che risponda a queste esigenze e tale fenomeno è il dono. Tenterò, allora, di mostrare in che modo esso si sottragga alla metafisica, fornendoci l’esempio privilegiato di una nuova filosofia prima. Del dono, tuttavia, nel corso della mia riflessione, mi sono occupato anche per altre ragioni. La prima, per il rapporto che tale questione ha con la donazione. La seconda, perché, a partire da Marcel Mauss, il dono è diventato oggetto privilegiato dell’etnologia, della sociologia e della filosofia28. La terza, perché Jacques Derrida, per discutere alcune problematiche che proponevo nei miei primi lavori, è partito proprio da tale questione29.
2Veniamo al dono, dunque. Non si tratta di una categoria di atti destinati a interessare soltanto una frangia della vita quotidiana. Doniamo sempre senza contare, in tutti i sensi del termine, incessantemente; doniamo allo stesso modo in cui respiriamo, dalla mattina alla sera, in ogni istante, in ogni circostanza. Soltanto di rado ci troviamo in situazioni nelle quali possiamo dire che non stiamo donando: doniamo quando insegniamo, quando parliamo con qualcuno. Doniamo, inoltre, senza misura, perché non ci sono ragioni che facciano iniziare o cessare il nostro donare. Il dono non è un momento circoscritto e delimitato nel tempo, ma un’attività che abbraccia la totalità dell’esperienza. Infine, doniamo – e questa è la cosa più curiosa – senza aver coscienza di donare. È stupefacente il fatto che il dono non implichi la coscienza di donare; ancor più stupefacente è il fatto che tale inconsapevolezza o incoscienza non sminuisca o stemperi affatto il dono; anzi, lo rafforza. Il dono, cioè, è tanto più disinteressato quanto meno si ha coscienza di donare; il dono, insomma, è evidente.
3Non mancano, tuttavia, argomenti che contestano e mettono in discussione tale evidenza. Il primo consiste nel dire che se l’estensione del dono è quella che abbiamo appena detto – doniamo senza contare, incessantemente, senza misura, senza coscienza –, difficilmente per esso potrà essere trovato un concetto preciso. Il non avere coscienza di ciò che facciamo quando doniamo potrebbe perciò essere la pura e semplice conseguenza del fatto che non abbiamo ancora un concetto preciso di dono30. Inoltre il dono, il più delle volte, è letto alla luce di una contro-interpretazione che lo pensa a partire dallo scambio. Un dono sembra, come tale, avere bisogno di un donatore, di un donatario e di qualcosa di donato. In realtà, se inteso in questo senso, esso scompare. Prendiamo il caso del donatore, colui che dona. Di fatto il donatore non dona mai, o almeno – ogni volta che dona – riceve sempre e necessariamente qualcosa in contraccambio. Se quando dona è riconosciuto come donatore, riceve il riconoscimento di essere donatore, e il fatto stesso di essere riconosciuto come donatore è di per sé una sorta di pagamento ricevuto per il dono fatto. Quando faccio un dono a qualcuno, nei riguardi di questa persona mostro – evidentemente – sia una superiorità economica (poiché egli finisce col dipendere da me), sia una superiorità morale (poiché sono io ad avergli donato qualcosa, mentre lui non mi chiedeva o doveva niente). Il donatore, dunque, riceve subito, immediatamente il proprio rimborso, e anche se non riceve indietro il dono con gli interessi, riceve un rimborso simbolico. Tale rimborso simbolico, però, è importantissimo, più del rimborso materiale, dal momento che il rimborso simbolico è destinato a durare, va a modificare i rapporti sociali, personali e psicologici. In questo senso, dunque, nel donare senza contraccambio, si guadagna più di quanto non si perda. Si potrebbe obiettare che il donatore non è sempre riconosciuto come tale. È, infatti, del tutto lecito immaginare che chi riceve il dono ignori di averlo ricevuto, o, lungi dall’essere riconoscente nei riguardi del donatore, nutra nei suoi riguardi sentimenti di odio e di rimprovero. Ma anche in questo caso possiamo dire che il donatore è rimborsato, perché è riconosciuto come tale. Un altro caso di rimborso, abbastanza comune, si dà nel caso in cui il donatore, non ricevendo riconoscimento e riconoscenza da altri, sostituisce tale riconoscenza con la stima di sé. Quella stima di sé che è ben descritta da Descartes nelle Passioni dell’anima, quando dice che l’esser contento di sé è la più grande gioia possibile e che l’uomo generoso, consapevole di esserlo, ha alta stima del modo in cui agisce; stima che è la più alta soddisfazione che può provare31. In questo senso, il donatore, come il saggio, raggiunge, grazie alla stima di sé, l’autarchia più perfetta. Il donatore, di fatto, riceve sempre ciò che ha donato, se non addirittura di più, e per questo può essere perfettamente pensato in termini di scambio.
4Il donatario, colui che riceve, ricevendo riceve soprattutto e in primo luogo un debito e questo debito, il dono ricevuto, non è mai ricevuto gratuitamente, dal momento che egli paga sempre il dono che riceve. Lo paga o rendendolo, pagando il prezzo, o – ed è questa una situazione che ben conosciamo – dovendo sopportare l’umiliazione o l’impotenza di non poterlo restituire. Ciò che il donatario riceve è la consapevolezza di dipendere, venendo così a trovarsi in una situazione di scambio che fa pensare alla dialettica tra servo e padrone della Fenomenologia dello spirito di Hegel, nella quale colui che riceve, riceve denaro, possibilità di sussistenza da qualcun altro e dunque ha un vantaggio; un vantaggio, tuttavia, pagato con la sottomissione a chi gli fa il dono. Né si tratta di una sottomissione cui si è costretti ma è una sottomissione che scaturisce dal puro e semplice fatto di ricevere. Anche il donatario, dunque, si trova sempre in una situazione di scambio, niente è gratuito.
5Se andiamo al dono come tale, ossia alla cosa donata, vediamo che, almeno in apparenza, questo non dipende dalle intenzioni di chi dona o di colui che lo riceve: il dono è una cosa donata. È però importante precisare che una cosa non è mai veramente donata e ridiventa sempre l’oggetto di uno scambio. La caratteristica del dono è che, se dono questo bicchiere, non è mai il bicchiere come tale a essere un dono: questo, di per sé, è un bicchiere, e il bicchiere può essere posseduto da qualcuno, da qualcun altro, o da nessuno. Quando però dono il bicchiere intervengono due elementi: c’è la cosa come tale, che potrebbe essere un bicchiere di cristallo, una coppa d’oro o altro, ma c’è anche il movimento del donare. Il dono consiste in entrambi. E una volta che il dono è stato fatto, si vede soltanto la cosa donata e non il movimento del dono, che non è visibile. Nell’istante in cui il dono giunge a compimento e perfezione, ossia quando la cosa passa da una mano all’altra, quando è vista da due sguardi, il movimento del dono è visibile ma subito dopo ciò che resta e si vede è la cosa donata e non più il dono. A partire da questo momento sarà sempre possibile dire che un dono (in quanto cosa donata) non è stato donato, perché il movimento del dono non si vede e il tempo occulta il fatto che qualcosa è stato donato. Supponiamo che mi venga donato questo bicchiere, un bicchiere di grande valore; posso venderlo e se lo rivendo smette di essere un dono; il dono aveva annullato il valore del bicchiere in quanto merce e io, rivendendolo, dó di nuovo a tale bicchiere il suo valore di mercato. La cosa, cioè, smette di apparire come dono e diventa di nuovo oggetto dello scambio economico.
6Il paradosso, a questo punto, è lampante: abbiamo iniziato col dire che il dono è universale e finiamo col dire che è universale perché non esiste dal momento che, di fatto, possiamo trascriverlo nei termini dello scambio. Di più, finiamo con il concludere che il dono è l’apparenza e lo scambio la realtà, e che l’economia consiste nel trasformare, come tutte le scienze, l’apparenza nella sua realtà. L’economia, cioè, fa venire alla luce lo scambio in luogo di ciò che crediamo essere un dono; quest’ultimo, invece, risulta essere un’illusione, forse utile, della morale e della religione, che l’economia distrugge ristabilendo lo scambio. Possiamo perciò dire che l’economia produce un concetto, un modello capace di dire la verità del dono. Il dono non è soppresso ma può essere razionalizzato, cosa che l’economia fa utilizzando il noto principio do ut des, dono perché tu a tua volta doni. Ma do ut des non è la definizione del dono, ne è la soppressione, l’eliminazione, è l’interpretazione economica del dono, secondo la quale nessuno dona mai qualcosa se non per riguadagnare almeno ciò che ha donato, in un modo o in un altro. In questo senso, dunque, do ut des significa che l’economia fa economia del dono. Penso che questo principio sia alla base dell’economia della gratuità, espressione che in realtà è perfettamente contraddittoria. Prima però vorrei fare un’osservazione sulla natura dello scambio, del do ut des che sta alla base dell’accezione comune di dono.
7Perché il donatore, il donatario e il dono debbono scomparire all’interno dello scambio? Debbono necessariamente farlo perché, nel dono, possono esservi soltanto relazioni di eguaglianza. Sottolineiamo questo punto a mio avviso decisivo: la nascita dell’economia è basata sulla definizione dello scambio come eguaglianza. È il principio che Turgot, nel 1668, ha tra i primi enunciato: «In questi scambi occorre che le due parti siano d’accordo sulla qualità e la quantità di ognuna delle cose che debbono scambiarsi. In queste convenzioni è naturale che ciascuno desideri ricevere il più possibile e dare il meno possibile»32. Il che equivale a dire che lo scambio è la migliore approssimazione possibile all’eguaglianza intesa nel senso matematico e logico del termine. E quest’eguaglianza, nello scambio, si sostituisce – a titolo di fondamento – a ogni altra motivazione psicologica. Cournot33 lo ha ben colto, ed è stato il primo ad aver matematizzato l’economia proponendo “l’idea astratta di ricchezza”: «Tutto ciò che l’uomo può misurare, calcolare, sistematizzare, finisce sempre col divenire l’oggetto di misura, di un calcolo di un sistema; laddove rapporti fissi possono sempre sostituirsi a rapporti indeterminati, la sostituzione si stabilisce in modo definitivo: è così che le scienze e le istituzioni umane si organizzano». Ciò significa che l’economia consiste nello stabilire rapporti fissi che si sostituiscono ai rapporti indeterminati e indefiniti del dono. Consiste, cioè, nello stabilire rapporti fissi che sono oggetto di misura e calcolo di un sistema; in altri termini, l’economia cerca di matematizzare ciò che nel dono resta indeterminato. In questo senso si tratta (è ancora Cournot a dirlo) dell’idea astratta di uno scambio che suppone che gli oggetti cui è attribuito un certo valore siano interscambiabili, commercializzabili.
8Fermiamoci sull’idea di commercio. Quest’ultimo consiste nello scambiare, ma nello scambiare cose il cui valore è identico. A tal scopo occorre fare astrazione della cosa riducendola al suo valore. Spesso diciamo che occorre «dare alla cosa il suo valore» ma in realtà proponiamo soltanto di ridurre la cosa al valore che ha per me, o per un collezionista; un valore, cioè, che è possibile sostituire alla cosa e che è quantizzato o quantizzabile in denaro. Questo valore è ottenuto tramite la medesima astrazione che rende possibile lo scambio. L’economia gioca, in questo caso, lo stesso ruolo giocato dalla mathesis universalis in Descartes, il quale definiva quest’ultima come scienza che trasforma le cose in oggetti prendendo in considerazione, di queste cose, soltanto dei parametri (in particolare l’ordine e la misura). Ora, il commercio, ossia la riduzione delle cose al loro valore, consiste nel sostituire delle astrazioni alle determinazioni infinite della cosa. Il valore è un modo di misurare la cosa; non di misurarla dal punto di vista spaziale, o di misurarne una caratteristica fisica, ma è un misurarla sulla base di un valore astratto che è il prezzo della cosa, un valore indipendente (del tutto o quasi) dalla cosa stessa. Questo tipo di astrazione è proprio della mathesis universalis e fa dell’economia una scienza. Ora, tutti sanno, invece, che l’economia non è una scienza, perché non può prevedere e predire. Se ci fosse una scienza economica, potrebbe esserci anche una politica economica basata sulle previsioni, cosa che non accade. Ciò detto, c’è un’accezione in cui l’economia può esser detta scienza, ossia in quanto può matematizzare i propri oggetti; è scienza in quanto astrazione.
9Vi sono autori che confermano questa nostra analisi, ad esempio Marx34, a detta del quale l’economia consiste nello stabilire lo scambio astratto. Proponendo la distinzione tra valore di scambio e valore d’uso, egli tocca un punto decisivo, perché in economia ciò che conta è il valore di scambio, ossia il valore più astratto. Il valore d’uso è, in qualche modo, messo tra parentesi. Potremmo dire che il valore d’uso è una determinazione della cosa, e il valore di scambio è una determinazione dell’oggetto. Il processo economico è dunque un processo di astrazione del dono e in francese (non so se esista un’espressione simile in italiano) si dice comunemente “i termini dello scambio”. I termini dello scambio: l’espressione è interessante perché dice che è lo scambio a determinare la natura dei termini; i termini dello scambio è l’astrazione e l’astrattezza che l’economia fa incombere sulla cosa donata o ricevuta. Se, dunque, riflettiamo su questo concetto di scambio, sui termini dello scambio, sul commercio e sul do ut des, comprendiamo meglio in che modo l’economia può rendere ragione, tramite lo scambio, di ciò che il dono ambiva a portare a manifestazione. Di fatto, per principio niente ha il diritto di sottrarsi alle esigenze dell’economia e ogni enunciato, evento, oggetto o ente può rispondere alla domanda che Leibniz poneva a proposito del principio di ragion sufficiente: «Perché?, cur?». Vedremo ora in modo più preciso in che modo tutto ciò che all’inizio dicevamo del dono può essere riletto alla luce dell’economia, come termini dello scambio.
10L’esempio più interessante ci viene da quella che solitamente è chiamata «economia della gratuità». Essa implica le tre dimensioni del dono, il donatore, il donatario e il dono stesso. Il donatore, lo abbiamo detto, non dona mai gratuitamente perché si rimborsa sempre, realmente o simbolicamente. Di fatto, il donatore dona sempre e soltanto per motivi economici. Intendo dire che se l’Unicef o un’altra associazione caritativa fa una campagna di informazione, essa lo fa utilizzando una retorica umanitaria, suscitando compassione, facendo appello ai sentimenti. In questo modo ottiene denaro. Ma lo può fare soltanto presso popolazioni che hanno denaro da dare e non può farlo nelle bidonvilles brasiliane. Noi, ricchi e benestanti, ridistribuiamo quindi una parte delle nostre ricchezze, fatto nel quale non c’è nessuna gratuità. I mezzi e i termini utilizzati dall’Unicef sono quelli della gratuità (l’appello al dono, alla compassione, ai sentimenti umanitari, ecc.), ma si tratta di una retorica che permette semplicemente di ridistribuire di nuovo le ricchezze e di smussare le differenze affinché una parte dell’eccesso di ricchezza sia ridistribuita presso quegli attori dell’economia che al momento non hanno sufficiente ricchezza per essere tali. In apparenza, dunque, di tratta di un dono, ma in realtà si tratta dell’equilibrio del sistema economico, dal momento che se ci sono divari troppo grandi il sistema economico non può funzionare. Dunque si riequilibra il sistema economico, e mentre crediamo di essere donatori, siamo in realtà soltanto normali agenti economici.
11E il donatario, colui che riceve, riceve forse gratuitamente e per carità cristiana? Di fatto, nel caso del donatario, restiamo ancora nell’ambito del ristabilirsi dell’eguaglianza, in particolare dell’eguaglianza economica che permette al sistema dello scambio di continuare. Occorre che i due attori dell’economia possano continuare a operare scambi e, dunque, che sia ristabilita una certa eguaglianza economica. Ma dal punto di vista del donatario, di colui che riceve, viene ristabilita un’eguaglianza giuridica, poiché la ragione per cui occorre donare a colui che non ha non sta nel fatto che colui che dona è gentile ma nel fatto che colui che non ha, ha il diritto di avere, in base ai diritti dell’uomo. Ma parlare di diritti dell’uomo non significa niente: per quale motivo i diritti dell’uomo possono avere una qualche efficacia o valore razionale? Perché colui che riceve esige di essere trattato come essere umano. Perché, tuttavia, dovremmo trattarlo come un essere umano? Perché se il donatore rifiuta di trattare il donatario come un essere umano, rifiutando di soddisfare i suoi bisogni elementari, mette in causa non soltanto l’umanità del donatario, di colui che riceve, ma in una società in cui si dichiara che alcuni uomini non hanno i diritti propri dell’uomo, compresi i diritti economici, c’è il rischio che anche chi in un certo momento ha tali diritti possa, in futuro, perderli. In una società, cioè, in cui una parte degli uomini dice che alcuni uomini non hanno i diritti che tutti gli uomini hanno, può accadere che anche coloro che in un determinato momento storico sono detti uomini, non siano poi tanto sicuri di continuare a esserlo. Con i diritti dell’uomo, dunque, viene risanato uno scarto, una disuguaglianza: se il mio prossimo, l’uomo che mi sta accanto, ora non è trattato come uomo, anch’io rischio a mia volta di non essere trattato come un uomo. Si ristabiliscono, perciò, le regole di un’eguaglianza politica. Nel caso del donatore, dunque, col dono si tratta di ristabilire la coerenza, la possibilità del mercato, ossia l’eguaglianza economica; nel caso del donatario si tratta di ristabilire la coerenza della società politica e civile ristabilendo l’eguaglianza dei diritti. In entrambi i casi, però, il dono dipende dal ristabilire l’eguaglianza, ossia dallo scambio. Cosa che diventa ancor più chiara quando prendiamo in esame l’oggetto donato.
12Dono del denaro alla Caritas internazionale. Che cosa fa la Caritas internazionale? Acquista prodotti (alimentari, vestiario, ecc.), cose che dona ai poveri e i poveri, così, sono più contenti. Quando, in questo processo, ci troviamo nell’economia e quando nel dono? Si tratta di dono nel momento in cui dò e perdo del denaro. Dunque, quando dò del denaro, esco dall’economia dello scambio. Ma che cosa ne è di questo denaro? Serve per dare gratuitamente cose che però debbono prima essere acquistate e le cose acquistate sono prodotte in ambito economico. Come ci si procura cose prodotte in ambito economico? Vi sono più modi. Possono essere acquistate al prezzo di mercato, oppure possono essere state donate da industrie e fabbriche che ne hanno in sovrappiù, oppure possono essere raccolte facendo collette presso i privati. Tutte queste cose provengono dal circuito economico, sono state prodotte in ambito economico, hanno un prezzo di produzione e vengono a essere, in un certo qual modo, tratte fuori dall’economia. Una volta che sono state tratte fuori dall’economia, divenendo doni, vengono donate ad altri che non possono acquistarle. In questo caso, che cosa diventano? Rientrano nuovamente nell’ambito dell’economia, rientrano nel circuito economico. La cosa è gratuita nel lasso di tempo che va dal momento in cui è acquistata dall’associazione al momento in cui è ridonata dall’associazione. È interessante, però, che il momento di gratuità (ammesso che vi sia un momento di gratuità che possa essere paragonato al dono), è un momento provvisorio, destinato a scomparire quasi subito. Lo scopo è re-introdurre le merci nel mercato, e coloro che ricevono merci, ricevono merci che hanno valore economico e di mercato, motivo per cui è possibile aiutarli. La cosa ricevuta non è affatto senza valore ma ha, anzi, un grande valore economico. Lo scopo dell’operazione, d’altra parte, è esattamente questo: gente esclusa dallo scambio economico, dal commercio, può e deve esservi nuovamente integrata. A tal fine occorre donare qualcosa che abbia valore economico. Lo scopo del processo di gratuità, di carità non è, dunque, quello di uscire dallo scambio economico ma di rientrarvi. Di rientrare, cioè, nell’economia umanitaria, momento in cui il dominio dell’economia giunge al suo punto culminante.
13L’economia della gratuità è il momento in cui la gratuità è al servizio dell’economia e non il contrario. Non si tratta di mettere in discussione le leggi dell’economia, dicendo che sono ingiuste, partendo da presupposti marxisti, umanitari, utopici, ecc.; vi sono differenti dottrine che hanno tentato di mettere in discussione l’economia e «l’economizzazione del mondo», la trasformazione del mondo in un insieme economico dove tutto è solo ed esclusivamente oggetto di scambio. Chi è animato da intenzioni umanitarie non mette affatto in discussione «l’economizzazione del mondo» : al contrario! Lo scopo è che tutti diventino agenti economici e in questo senso, dunque, ciò che è donato non è un dono. Il dono è definito come ciò che si oppone alle regole dello scambio, ma nel caso delle associazioni umanitarie, quando faccio un dono, in realtà contribuisco al processo nel quale l’economia è ristabilita, facendo sì che i poveri possano andare al supermercato ad acquistare delle cose. I poveri, dunque, diventano nuovi consumatori e anche se dal mio punto di vista soggettivo si tratta di un dono, in realtà non lo è: è un aiuto allo sviluppo dell’economia. Possiamo perciò concludere che il dono, dal punto di vista di queste tre dimensioni (donatore, donatario e cosa donata), si lascia ricondurre allo scambio non solamente perché lo scambio si impone come la verità di cui il dono è soltanto l’apparenza (se fossimo althusseriani diremmo che il dono è un’ideologia, lo scambio è la scienza), ma anche perché quanto chiamiamo dono è, in realtà, al servizio dell’economia e l’idea comune di dono che tutti abbiamo non è altro da un servizio offerto all’economia. Perché, tuttavia?
14Perché l’economia permette di rendere ragione del dono e quando proponiamo una descrizione sommaria e superficiale del dono, ciò che rende intelligibile il dono non è la logica del dono, che non esiste, ma la logica dell’economia. L’economia è ciò che rende ragione del dono, dove l’espressione «rendere ragione» rinvia al principio di «ragion sufficiente». Se vogliamo comprendere il dono, dobbiamo ricorrere all’economia che ne costituisce la ratio. Una volta individuata quest’aporia, dovremmo ritenere la questione del dono chiusa una volta per tutte? Vorrei insistere sul fatto che nella maggior parte dei dibattiti sull’economia non si esce mai dallo schema che ho appena indicato. Tutti i programmi di aiuto (internazionali o meno), nei quali si suppone che i paesi sviluppati donino una parte del loro budget per favorire lo sviluppo di paesi poveri, restano all’interno di quest’ipotesi perché è facendo appello al proprio interesse che agli stati ricchi è chiesto di donare denaro per gli stati poveri. È, cioè, nell’interesse dei paesi ricchi che i paesi poveri devono crescere e svilupparsi, affinché cessino, ad esempio, i flussi migratori. Tutti, perciò, sono d’accordo nel riconoscere che il dono è una pura e semplice figura dell’economia. Perché non rinunciare, allora, al concetto di dono e relegarlo nell’ambito di illusioni irrinunciabili quali le emozioni dell’innamoramento o i bisogni religiosi? Per uscire da questa aporia vorrei invece proporvi di procedere a una riduzione fenomenologica e fare, così, la riduzione del dono.
15Che cosa significa fare la riduzione fenomenologica del dono? E, soprattutto, a partire da quali regole? Per mettere in atto questa riduzione, il filo conduttore mi è offerto dalla tesi che Jacques Derrida ha proposto in Donare il tempo, dove leggiamo che non è possibile parlare di dono perché quest’ultimo è sempre uno scambio. Ciò detto, il dono, se è reale, è impossibile, il che equivale a dire che, se c’è un dono, occorre che il donatore non riceva nulla in cambio, occorre che non vi sia più donatario né cosa donata. Ricapitolando: se il dono è autenticamente tale non è possibile o, se è possibile, non è veramente un dono. Ma può anche darsi il caso che le contraddizioni interne al dono individuate da Derrida, che d’altra parte sono le stesse che abbiamo individuato seguendo la logica dell’economia, dipendano dal fatto che si cerca di comprendere il dono a partire dall’economia. Si parte, ad esempio, col dire che il dono è uno scambio economico gratuito per scoprire, alla fine, che per definizione lo scambio gratuito non esiste. Lo scambio gratuito, cioè, non è possibile, non è uno scambio, e se lo scambio è possibile ed effettivo non è affatto gratuito. Perché, tuttavia, non dovrebbe darsi il caso di un dono che sia un caso particolare di scambio gratuito? Questa è la mia ipotesi. In che modo, tuttavia, verificarla? Facendo la riduzione del dono alla donazione, cercando di descrivere il dono senza mai fare appello allo scambio e ai suoi termini. Ora, quali sono i termini dello scambio? Li conosciamo già: sono il donatore, il donatario, il dono. Occorre che vi siano questi tre termini affinché vi sia un autentico scambio economico. La mia ipotesi è invece che è possibile descrivere il dono senza fare appello ai tre termini dello scambio, oppure facendo appello a due di essi e non al terzo, o ancora facendo appello soltanto a uno dei tre. Se nel corso di questa descrizione qualcosa resta, allora c’è il dono; un dono descrivibile senza ricorrere alle categorie dello scambio. Di che cosa, però, abbiamo bisogno per parlare del dono? Che cosa deve essere donato, gegeben, perché si possa parlare effettivamente di Gabe? Ciò che deve essere donato non sono i termini dello scambio, come vedremo subito.
16Consideriamo il caso di un dono senza donatore. Possiamo descrivere un dono facendo astrazione del primo termine dello scambio, ossia di colui che dona, che offre? La risposta è: certamente! Ci sono doni in cui il donatore rimane sconosciuto. Fare un dono in cui il donatore sia sconosciuto, anonimo, è un caso addirittura banale: quando faccio un dono a un’associazione resto evidentemente sconosciuto, pur trattandosi comunque di un dono, perché perdo ciò che dò. Ci sono poi casi in cui l’anonimato del donatore è addirittura necessario, perché implicano che egli sia morto, che non esista più, come nel caso dell’eredità. In questo caso, non soltanto è possibile, ma è addirittura necessario che non vi sia più il donatore, ed è talvolta possibile ereditare da qualcuno che non abbiamo mai conosciuto. Si tratta di un’ipotesi, evidentemente, che conferma però che un dono è perfettamente possibile anche in assenza del donatore o nel caso in cui questi sia sconosciuto. In questo caso, l’anonimato del donatore è un caso che non contraddice il dono, ma contraddice lo scambio perché non c’è scambio senza qualcuno che metta in vendita ciò che possiede, i suoi beni.
17Possiamo pensare un dono senza donatario, senza qualcuno che riceve? Per definizione sì, perché il dono può essere fatto a qualcuno che non conosco: ogni dono fatto a un’associazione umanitaria è un dono che è fatto allo sconosciuto. Prendiamo il termine «dono» nell’accezione più ampia possibile: in tal caso potrei dire che ogni volta che pianto un albero, che costruisco o produco un’opera, posso considerare tutto ciò come un dono perché lo lascio dietro di me ed è lecito dire che quando lasciamo qualcosa dietro di noi, si tratta di una cosa che possediamo e che perdiamo; dunque, si tratta di un dono. In tal caso, chi ne beneficia è del tutto anonimo. Il caso esemplare dell’anonimato del donatario si dà quando si scrive un libro: non si sa mai per chi si scrive. Non si sa mai se si scrive per qualcuno, né si sa mai chi saranno i lettori, se vi saranno lettori, che cosa penseranno e che cosa ne comprenderanno e trarranno. Un libro può non essere compreso, nessuno può disporre e decidere della comprensione che altri riservano a ciò che è stato scritto. Si può addirittura arrivare a dire che la nostra comprensione di ciò che abbiamo scritto dipende anche da quanto altri vi comprenderanno, perché quando scrivete, sapete che cosa volete dire, sapete come l’avete detto, ma non che cosa ciò volesse dire. Che cosa volesse veramente dire quello che avete scritto non lo sapete, saranno i vostri lettori a dirlo. Un dono è, dunque, possibile anche se il donatario resta anonimo e resta possibile anche nel caso in cui venga a mancare la cosa donata.
18Possiamo, cioè, non avere una cosa donata e avere comunque un dono. Siamo d’accordo sul fatto che nello scambio economico né l’oggetto né i termini dello scambio possono essere soppressi. Conveniamo tutti sul fatto che se uno dei termini dello scambio scompare, non c’è più scambio. Nel dono, invece, se uno dei termini del dono scompare, c’è ancora un dono: il dono, quindi, non è uno scambio, come mostra il fatto che mentre nello scambio deve evidentemente esserci un oggetto scambiato, nel dono tale oggetto può non esservi. Rigorosamente parlando, il dono non è un oggetto. Come possiamo dimostrarlo?
19Nello scambio economico, il valore dello scambio dipende dal valore dell’oggetto scambiato; ad esempio, il prezzo dell’automobile dipende dal fatto che l’auto sia grande o piccola, che vi siano tutti gli optional, ecc. Se acquisto una grossa Mercedes spenderò molto di più rispetto a quanto mi costerebbe una piccola Nissan. Il valore dello scambio dipende dall’oggetto dello scambio. Nel dono, il valore del dono non dipende dall’oggetto donato, ossia possiamo donare un oggetto che ha un grande valore economico senza che questo abbia un grande significato in termini di dono. Se un miliardario gangster russo mi offre una Mercedes, il valore del dono è molto povero: di fatto non c’è un dono ma c’è uno scambio nel quale vengo acquistato. Ma quando nel Vangelo si parla della vedova che dona la sua piccola moneta, si dice che dona molto più di colui che dona tanto al tesoro del tempio, perché il dono non dipende dall’oggetto donato. E ancora, se un uomo offre un gioiello a una donna che cosa può significare? Può non significare niente, ma può anche significare due cose: o che la lascia o che la sposa. Lo stesso regalo può svolgere due funzioni. Non si dona mai il valore del dono, dal momento che quest’ultimo è tutt’altro rispetto al valore della cosa che è donata. La cosa donata non coincide con l’oggetto donato. Ritroviamo qui la distinzione, abolita dall’economia, tra la cosa e l’oggetto. Di nuovo, l’oggetto donato è soltanto il segno della cosa donata ed è per questo motivo che quando si dona un gioiello ci chiediamo che cosa è donato. Quando si dona una fede, che cosa si dona? Non si dona una fede, ma si dona la propria parola, il proprio tempo, la propria vita. Si donano «cose» che non sono né saranno mai oggetti, si dona il meglio che l’altro può aspettarsi da parte mia, perché donare la propria vita o la propria parola è possibile soltanto nel tempo. Si dona del tempo e donare del tempo è donare denaro (il tempo è denaro) e, soprattutto, è donare il proprio essere. Io dono il mio essere che, evidentemente, non è un oggetto e, dunque, ciò che dono è soltanto il simbolo di ciò che è realmente donato.
20Giunti al termine di questa riduzione, mi sembra evidente che il dono sopravvive alla soppressione di uno o più termini dello scambio. E se il dono sopravvive alle condizioni di possibilità dello scambio, allora può non essere più definito nei termini dello scambio stesso. Questo ci permette di portare il dono fuori dalla sfera dell’economia e, al contempo, smentisce il paradosso di Derrida secondo il quale un dono autentico è impossibile e soltanto un dono impossibile è autentico. No: soltanto un dono ridotto è possibile e autentico, un dono che sia stato ridotto alla donazione contro la sua interpretazione alla luce dell’economia. Ciò detto, possiamo seriamente iniziare a parlare del dono.
21E, soprattutto, possiamo cominciare a parlare di liberazione del dono dallo scambio. Esiste, però, un caso simile, ossia un dono ridotto alla donazione? Un dono che, evidentemente, non sia uno scambio? Un dono, cioè, che non soltanto si riduce, ma che non può non essere ridotto, che sarebbe naturalmente ridotto e che sarebbe visibile soltanto a condizione di essere dono ridotto. Quale fenomeno potrebbe apparire soltanto in quanto sempre ridotto? Ne suggerisco uno, il fenomeno della paternità. Nessuno può dire di non aver visto tale fenomeno, perché il fenomeno della paternità non dipende – evidentemente – dalla differenza sessuale, dal momento che tutti hanno un padre, chiunque esso sia. Il fatto che il padre sia sconosciuto, anziché sminuire il fenomeno della paternità lo rafforza; e dire «non ho nessuna esperienza del fenomeno della paternità» è un discorso che si confuta da sé. La paternità è caratterizzata dal fatto di essere un fenomeno come gli altri e, dunque, di donarsi. Parto dal presupposto che tutti i fenomeni si donino, si mostrino, soltanto e nella misura in cui si danno. E anche se tutti i fenomeni si donano e appaiono soltanto nella misura in cui si danno, nel caso della paternità c’è un’ulteriore determinazione: questo fenomeno si dà soltanto in quanto dona. La paternità, cioè, si dà ma, anche, dona. In primo luogo, si tratta di un fenomeno che si d(on)a e che ha tutte le caratteristiche del fenomeno dato. Le riassumo rapidamente: la paternità è un fenomeno che si d(on)a in quanto ha il carattere di ciò che addi-viene; è un evento, non è prevedibile. La paternità non è prevedibile, non è riducibile all’intenzione di procreare né è riducibile all’intenzione di non procreare. In secondo luogo, la paternità è un fenomeno senza causa. Con ciò intendo dire che, al livello di scienza demografica, non è possibile prevedere l’evoluzione del tasso di fecondità perché le cause di questo fenomeno sono sconosciute, numerose, complesse e non spiegabili. Perché una società come la nostra entra in una logica di non-riproduzione? Nel caso della paternità nessuno lo sa; lo si può constatare, ma non se ne può spiegare la ragione. D’altronde, è terrificante il fatto che le società moderne, che possono prevedere tutto, la sola cosa che non possono prevedere e sulla quale non possono o vogliono agire è la loro riproduzione. E non si può non restare impressionati e colpiti dal fatto che le società europee (penso in particolare a paesi come l’Italia e la Germania, o anche i paesi dell’Europa centrale), nel corso degli ultimi cinquant’anni abbiano perso un terzo della loro popolazione. Imprevedibile, senza causa, la paternità dona e fa essere ciò che in sé costituisce un evento che fa accadere un nuovo possibile. E, di fatto, ciò che con la paternità accade è un nuovo possibile, non soltanto dunque è un evento ma un evento dell’evento. Ciò che è reso possibile è a sua volta una possibilità indefinita, indeterminata e imprevedibile. Si tratta, dunque, di un evento per eccellenza.
22Se esaminiamo meglio queste caratteristiche che fanno della paternità un fenomeno per eccellenza, un fenomeno donato per eccellenza, vediamo che esse caratterizzano un fenomeno che, esso stesso, dona, che è dato soltanto nella misura in cui dona, che è, cioè, una donazione fenomenologica che si produce soltanto se c’è un dono o la possibilità di un dono. Una paternità che non donasse nulla non avrebbe alcun senso; non c’è paternità se, a sua volta, non dona. Siamo di fronte, perciò, a un fenomeno singolarmente privilegiato, e cercheremo ora di vedere in che modo esso mette in gioco il dono come tale, il dono ridotto. Cercheremo, cioè, di vedere in che modo la paternità può essere descritta senza donatore, senza donatario e senza la cosa donata.
23In primo luogo l’assenza del donatore. Non occorre essere stati alla scuola di Lacan per ammettere che è proprio del padre l’essere assente. Il padre manca, è colui che manca. La mancanza del padre è la sua caratteristica principale, in quanto egli è presente soltanto nel momento della procreazione e poi scompare, non avendo il rapporto di immanenza che il figlio ha con la madre e, dunque, non identificandosi con il figlio così come fa la madre. Il padre ha soltanto un rapporto simbolico con il figlio, un rapporto nel quale l’assenza gioca un ruolo determinante; di più, in un certo qual senso il padre deve essere assente perché, essendo colui che ritorna, per ritornare deve prima essere partito. Ritorna e il suo rapporto con il focolare domestico è rapporto di esteriorità e ritorno. Il padre, dunque, si eclissa e il suo mancare è la condizione della filiazione, perché il padre diviene tale quando riconosce il figlio e quando è riconosciuto dal figlio. In questo senso, dunque, il padre, per il suo ritrarsi iniziale, è il donatore assente, che parte e riparte di nuovo, e la paternità è caratterizzata da questa messa tra parentesi del donatore. E ancora una volta, la messa tra parentesi del donatore è esattamente la condizione affinché il donatore svolga il suo ruolo: un cattivo padre è colui che sta «sempre là», che è sempre presente, mentre un buon padre è colui che non è mai là pur se, tuttavia, ritorna. Chi sta «sempre là» è un tiranno, è qualcuno che ha fallito, che non dovrebbe «stare là». Il padre è colui che non deve essere là e che può tornare. Ha il diritto di ritornare, ma non di «stare sempre là». Questa è la condizione perché la filiazione diventi un dono. Se il padre non è colui che manca, la filiazione non è un dono ma un possesso.
24Secondo punto: nel caso della paternità è stupefacente vedere che colui che riceve, il donatario, non soltanto manca ma deve mancare. In che senso? Il donatario manca perché, per definizione, può soltanto essere in debito e non può rendere. Il figlio è incapace di rendere ciò che ha ricevuto ed è necessariamente ingrato. Può rendere soltanto dei servigi ai suoi genitori, aiutarli quando sono anziani; può essere un buon figlio, ma non può donare ai genitori ciò che loro gli hanno donato, ossia la vita. Nel migliore dei casi sarà colui che li vedrà perdere la vita, morire, ma proprio in quell’istante non potrà ridare loro ciò che da loro stessi ha ricevuto, la vita. Il che non vuol dire che il figlio non potrà donare vita; non potrà rendere la vita a chi gli ha dato la vita e se donerà la vita a qualcuno, potrà donarla a tutti tranne che ai suoi genitori. Donerà la vita a chiunque, a condizione che costoro non siano coloro che gli hanno donato la vita. E questo scarto, questa ingratitudine permanente, per così dire, questa non reciprocità, è condizione, nella paternità, del dono, è ciò che permette la storia. Io dono a mia volta la vita, ma non a colui che me l’ha donata. C’è quindi una ripetizione che rende possibile la storia e che fa di questa stessa una non-reciprocità essenziale.
25Quanto al fatto che non si dona niente, questo mi pare evidente: nella paternità si dona la vita, il nome, il tempo; nel senso più rigoroso del termine, non si dona niente. Non c’è bisogno che mi dilunghi sul fatto, evidente a tutti, che il dono della vita deve essere completato dal dono del nome e che la cosa fondamentale nel dono del nome è che si tratta di un dono puramente simbolico. Non doniamo mai il nome come doniamo un oggetto, il dono del nome è strano. Il dono è donato soltanto se è riconosciuto. Che cosa significa ricevere un nome? Innanzitutto ricevo dai miei genitori un cognome (nom, nom propre), cosa paradossale perché il mio cognome proprio (nom propre) non è il mio ma è quello della mia famiglia. Viene poi donato un secondo nome, il cosiddetto christian name, un nome che comunque non è il mio perché – salvo in epoche totalmente degenerate – è sempre il nome di un santo. Il nome di un santo mi è donato proprio perché non è il mio; mi è dato il nome di qualcuno che non sono io, perché io faccia tutto il possibile per essere come lui pur essendo impossibile che io divenga come lui. È dunque un nome che mi dice che io non sono ciò che sono, e il dono del nome mi è dato per dimostrarmi che io non sono questo nome. Che cosa significa riconoscere il proprio nome? Riconoscere il proprio nome significa volerlo, implica il «lasciarsi chiamare». Io mi lascio chiamare Jean-Luc Marion e sono Jean-Luc Marion soltanto perché mi lascio chiamare Jean-Luc Marion, perché riconosco questa funzione simbolica del nome. Inoltre, non sono io a chiamarmi Jean-Luc Marion, ma sono gli altri a chiamarmi così. Il nome proprio è ciò per cui, quando viene gridato il nostro nome, ci voltiamo pensando che ci si stia rivolgendo a noi. Il nome proprio è ciò che ci permette di rispondere all’appello. Il nome proprio è, dunque, la risposta all’appello, a un appello che non è il mio. Di fatto, quando si dona un nome, ciò che è donato è curiosamente una struttura di appello e risposta, non un oggetto: non è d(on)ato niente.
26Mi pare di poter dare per acquisito il fatto che la paternità sia il fenomeno (universale e incontestato) di un dono sempre ridotto alla donazione e che, qualora non sia inteso e visto come dono ridotto, scompare. Qual è, dunque, la prima caratteristica della paternità intesa come dono? La paternità così definita contraddice il principio di identità e di non-contraddizione. Contraddice il principio di identità perché è il luogo per eccellenza in cui l’identico diventa differente da se stesso. La paternità è l’ineguaglianza di A con A. Mentre, cioè, il principio di identità afferma che A = A, la paternità è esperienza del fatto che A non è uguale ad A, perché A è uguale a tutte le variazioni possibili di A per tutto il tempo che questo potrà darsi e durare. È il caso della disuguaglianza assoluta di un ente nei riguardi di se stesso. Perciò la migliore definizione della paternità sta nella promessa fatta ad Abramo: la tua discendenza sarà più numerosa dei granelli di sabbia. In questa definizione è affermata una fondamentale disuguaglianza con se stessi e, dunque, si tratta di un’eccezione rispetto al principio d’identità. Ma si tratta anche di un’eccezione al principio di non-contraddizione poiché afferma qualcosa di profondamente contrario rispetto allo scambio. La non-contraddizione è lo scambio; il principio dello scambio sta nell’affermare che ciò che guadagno, ricevendo, è pressoché identico a ciò che, donando, perdo. Lo scambio è sempre basato sull’eguaglianza e, dunque, sulla non-contraddizione. Lo scambio è là dove non c’è contraddizione. La paternità, invece, è là dove c’è disuguaglianza, è là dove c’è, in un certo qual modo, la contraddizione dello scambio; se c’è la contraddizione non c’è lo scambio, dal momento che posso esercitare la paternità soltanto donando senza ritorno. Una paternità con reciprocità non è possibile; la paternità è sempre senza reciprocità. La paternità, dunque, si contraddice da sé e di per sé. E stupisce che, mentre la contraddizione, in generale, svilisce e indebolisce ciò che si contraddice, nel caso della paternità la contraddizione si dona senza ritorno, in regime di non-reciprocità, ed è esattamente per questo motivo che permette alla paternità stessa di diventare infinitamente più di ciò che essa stessa è. La paternità è una contraddizione (empiricamente e universalmente verificabile) del principio di identità o di non-contraddizione, ossia del primo principio della metafisica.
27La metafisica, infatti, afferma che: «è tutto ciò che nel proprio concetto non si contraddice»; «è tutto ciò che è identico a sé»; è, o è possibile, tutto ciò che nell’istante «x» non è differente da se stesso, è uguale a se stesso. Detto altrimenti, è tutto ciò il cui concetto non si contraddice, non presenta contraddizione. Stando a questo principio, la paternità non sarebbe possibile perché, nel suo stesso concetto, si contraddice e in tale contraddizione sta la sua definizione. Ora, la paternità non soltanto è possibile ma è effettiva; non soltanto è effettiva ma è necessaria. Dunque il principio di non-contraddizione conosce un’eccezione, e un’eccezione non marginale, ma, nel caso della paternità, decisiva; paternità che, in un certo qual modo, è la condizione – almeno empirica – di ogni ente.
28Esaminiamo il paradosso, nel caso della paternità, della contraddizione dell’identità di sé a sé. Questa contraddizione non è soltanto contraddizione di sé a sé ma è la contraddizione tra ciò che sono e ciò che sarò o potrei essere. Di più, è una contraddizione che si temporalizza e questa contraddizione che si temporalizza può anche essere interpretata dicendo che nella paternità ci sono una causa e un effetto legati tra loro in un modo tale che non può esser reso intelligibile dal principio di ragion sufficiente. Intendo il principio di ragion sufficiente nella formulazione che ne dà Leibniz nella Monadologia: «Il principio di ragion sufficiente comporta che nulla si fa senza ragion sufficiente, ossia che nulla accade senza che sia possibile, a chi conosce sufficientemente le cose, indicare una ragione che basti a determinare perché è stato così e non altrimenti»35. Questo principio afferma che non vi sono fatti o effetti senza causa o ragione, sancendo in modo decisivo il legame tra causa e ragione.
29Ma quando applichiamo al fenomeno della paternità tale principio, vediamo che questa si caratterizza proprio per il fatto che oppone al principio di ragion sufficiente il principio di ragion insufficiente. Intendo dire, cioè, che la caratteristica principale della paternità sta nel fatto che essa provoca uno scarto tra l’effetto e la causa, scarto che non potrà mai essere tolto perché non c’è reciprocità. Questo scarto, dunque, può soltanto riprodursi, facendo sì che vi sia la storia. Ora, più lo scarto della non-reciprocità si riproduce, più aumenta la sproporzione tra causa ed effetto. Di conseguenza, pur volendo individuare nel principio di ragion sufficiente il principio che rende intelligibile la paternità, dobbiamo anche riconoscere che tra causa ed effetto c’è una sproporzione totale; l’applicazione del principio, dunque, conduce alla contraddizione del principio stesso. Contraddizione, questa, che dipende dal fatto che la ragione non può – per definizione – essere equivalente all’effetto, non essendo la paternità una causa che produce l’effettività di una possibilità. Sulla base del principio di ragion sufficiente qualcosa è possibile se il suo concetto non è contraddittorio e una nascita non è ancora effettiva. La causa efficiente – e qui si mostra la perfetta coerenza della causa efficiente e della ragion sufficiente – è sufficiente per rendere effettivo il possibile; a questo punto il possibile scompare e resta soltanto l’effettività. In una relazione di causalità garantita dalla ragion sufficiente, la ragione è sufficiente proprio perché trasforma la possibilità in effettività, perché può produrre effettività soltanto a partire dalla possibilità e, quando passa nell’effettività, la possibilità scompare facendosi soltanto effettività. Dunque, tanto maggiore è l’effettività quanto minore è la possibilità.
30Nel caso della paternità, invece, la possibilità deriva dall’effettività, la quale, a sua volta, deriva dall’impossibilità. Mi spiego: dire che l’effettività deriva dall’impossibilità significa tornare al nostro punto di partenza e sostenere che la paternità contraddice il principio di identità perché, per principio, una cosa può produrre soltanto se stessa o ciò che le è simile, non può produrre più di se stessa. Per produrre, essere la causa di qualcosa che è più di sé – il lumen naturale ce lo insegna, come dice Descartes nella Terza Meditazione Metafisica – deve esserci altrettanto essere nella causa che nell’effetto. Si può produrre soltanto sulla base della misura di ciò che si è e non più di ciò di cui si dispone. La paternità consiste nel produrre un altro da sé che non sarà mai identico a me; essa consiste nel produrre la differenza a partire dal medesimo, nel produrre differenza piuttosto che identità. Dunque, la paternità consiste nel partire dall’impossibile. Ma quando l’impossibile è stato prodotto dalla paternità, che cosa diventa, a questo punto, efficiente? Non certo l’annullamento della possibilità, ma efficiente ed effettiva diventa la possibilità stessa; intendo dire che la paternità, rendendo possibile la riproduzione della paternità all’infinito, è perciò stesso la causa effettiva della possibilità. O meglio, la causa della possibilità indefinita della riproduzione. Dunque la paternità inizia con l’impossibilità e, avendo contraddetto, proprio perché inizia con l’impossibilità, il principio di non-contraddizione, contraddice poi il principio di ragion sufficiente, producendo una possibilità incomparabilmente incommensurabile rispetto alla propria effettività. Potrei aggiungere altri argomenti per arrivare sempre a questa conclusione che – ai miei occhi – è essenziale: il dono inteso come dono ridotto, che la paternità esemplifica, si manifesta contraddicendo i due più grandi principi della metafisica affermati da Leibniz.
31Passo ora a un ultimo punto, che ha direttamente a che fare con la ragion sufficiente. Quando dico che il dono contraddice i principi della metafisica – ma naturalmente questa è un’ipotesi che sottopongo alla vostra verifica e discussione – dovrei al contempo mostrare come tali principi si espongono a essere contraddetti dal dono. C’è un indizio a cui per tanti anni non avevo dato alcuna importanza e che ora vorrei portare alla vostra attenzione. Il principio di ragion sufficiente in latino è anche chiamato – dallo stesso Leibniz – principio della ratio reddenda, ragione che occorre rendere. Il principio della ragion sufficiente, cioè, è il principio della ragione che deve essere resa. Ciò è confermato da altre formulazioni dello stesso principio: Principium reddendae rationis quod scilicet propositio vera quae per se nota non est probationem retipit a priori sive quod omnis veritatis ratio reddi potest ut vulgo aiant quod nihil fit sine generatione. Niente è senza ragione significa che ogni proposizione vera, se non è conosciuta per sé, può essere conosciuta tramite una ragione altra da se stessa; e questa ragione reddi potest, può essere resa.
32Reddere rationem significa rendere alla cosa la propria ragione affinché abbia il diritto di esistere, affinché la ragione della sua esistenza sia giustificata. Ed è interessante vedere che reddere rationem, o più precisamente il verbo reddere, è utilizzato sempre quando si tratta di definire la giustizia. Non la giustizia in cui ciascuno ha la medesima parte ma la giustizia in cui a ciascuno è reso il proprio diritto; usando i termini di Aristotele, potremmo parlare di giustizia retributiva e non distributiva. Ora, in che modo si definisce la giustizia in cui a ciascuno è reso ciò che gli spetta, secondo la sua dignità? Nella Somma teologica, Tommaso d’Aquino scrive: Proprium actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est36. Bisogna dunque rendere all’esistenza di una cosa la propria ragione così come a ciascuno deve essere reso il proprio bene. È questione di giustizia. In tal senso vorrei ribadire che reddere implica rendere giustizia, e rendere giustizia alla cosa equivale a renderle la propria ragione; e ancora, rendere giustizia significa compiere un atto di giustizia per ristabilire l’eguaglianza. Con ciò intendo dire che Leibniz sostiene che ogni cosa deve essere uguale a se stessa, al suo «poter essere». Occorre dunque, per ristabilire l’eguaglianza, rendere alla cosa la propria ragione. A questo punto giustizia è fatta, l’eguaglianza è ristabilita, e l’esistenza della cosa è giustificata perché ha in sé la propria ragione. In un certo qual modo, perciò, rendere una ragione sufficiente all’esistenza di una cosa equivale a renderle giustizia, ristabilendo la modalità dello scambio. D’altronde, Leibniz ha sempre detto che il principio di ragion sufficiente è il mezzo per ristabilire il principio di identità nelle cose che non sono identiche a se stesse. Ci troviamo – e vi prego di concedermi quest’espressione – agli antipodi rispetto al dono: rendere giustizia significa abolire la non-reciprocità, la non-eguaglianza, la perdita, il non adeguamento del possibile e dell’effettivo; ci troviamo nella zona dello scambio, agli antipodi, appunto, del dono.
33E tuttavia, che cosa significa reddere? Reddere vuol dire ri-dare. Su questo punto tutti i filologi sono d’accordo: reddere vuol dire re-dare, ossia dare e donare di nuovo. Rendre, in francese, ridare in italiano, vengono dal latino popolare rendere, formatosi sul modello di reddere. È stupefacente che, nel momento in cui la ragion sufficiente si annuncia come principio, e nel momento in cui il dono è abolito, essa si dice ancora e di nuovo in termini di dono. La ragion sufficiente, che si ritiene essere la ragione ultima delle cose, come Voltaire fa dire a Pangloss in Candido, è in realtà spiegata nei termini di dare, re-dare; dove a essere d(on)ata è, in questo caso, la ragione. C’è perciò qualcosa che precede la ragion sufficiente e sorveglia la ragion sufficiente, la controlla e vigila su di essa, che fa sì che essa sia d(on)ata o ri-d(on)ata. Dono, questo, che non sottostà alla ragion sufficiente perché la stessa ragion sufficiente ne pro-viene. Qual è la natura di questo dono, che riappare persino all’interno dell’enunciato della cosiddetta ragion sufficiente? Qual è la ragione del dono? La ragione del dono non può essere la ragion sufficiente perché il dono stesso diventa la ragione della ragion sufficiente.
34Si obietterà che questa precisazione filologica e linguistica è soltanto un dettaglio. Spesso, nelle discussioni tra filosofi, si dice: «Questo, però, è un dettaglio marginale». Ma quando un filosofo fa un’affermazione simile, si può essere certi che si tratta di una questione essenziale, sempre! Dire che la questione sopra detta è un dettaglio marginale è impossibile, perché non è un punto marginale il fatto che la formula del principio di ragion sufficiente ricorra al principio del d(on)are e rid(on)are, essendo lo scopo del principio di ragion sufficiente e del principio di identità quello di eliminare le disuguaglianze proprie del dono. Il dono è ciò che la ragion sufficiente, per principio, sopprime. Potremmo persino dire che per Leibniz non ci sono più dati, ci sono soltanto ragioni. I dati sono ciò che non hanno ancora ricevuto la propria ragione, nel senso in cui i dati di un problema, fino a che il problema non è stato risolto, «non hanno ragione». Possiamo inoltre dire che tutte le scienze cominciano con dati empirici, imposti, che sono soltanto e semplicemente dei fatti, per finire col sostituire a questi dati delle ragioni che sono vere anche senza i fatti e che possono produrre i fatti stessi. Là dove ci sono ragioni, non vi sono, dunque, dei dati. Se diciamo, allora, che la ragion sufficiente è resa, ossia ri-d(on)ata, dobbiamo anche dire che la ragion sufficiente è, per certi versi, connotata da un carattere d(on)ato.
35Questione che non ha niente di assurdo. Husserl dice in più luoghi che la totalità che costituisce il mondo è essa stessa un dato fattizio (diremo usando il linguaggio di Heidegger). Il mondo è un factum, ossia il mondo è d(on)ato in modo tale che potrebbe anche non essere d(on)ato, poiché il dato è caratterizzato dal fatto che potrebbe anche non essere d(on)ato. Husserl in Ideen I (passo che ho citato all’inizio di Dato che) dice che il mondo stesso è un factum. Kant sostiene che la ragione e la razionalità, nell’ambito della ragion pratica, sono facta ma non factum rationis, il quale è la legge morale, ossia un fatto che la ragione impone alla coscienza morale. La razionalità non è factum rationis e mai, che io sappia, nella Critica della ragion pura Kant dice che la Vernunft è un factum rationis. Ma non appena usciamo dalla ragion pura per considerare la stessa ragione dal punto di vista pratico, affinché la ragione questa volta diventi noumenicamente effettiva, a questo punto dice che è un factum rationis. Factum rationis vuol dire che la ragione non è più necessaria, ma è un fatto che s’impone e che avrebbe potuto non imporsi. Factum rationis vuol dire che la ragione che nell’ambito della ragion pura è la legge, l’ultima istanza (il tribunale della ragione), nell’ambito della ragione pratica non può più essere il tribunale (che in quest’ambito dovrebbe essere il giudice divino che stabilisce il bene e il male). E per razionalizzare la ragion pratica, Kant tenta di fondare la ragion pratica sulla ragion pura stessa. A questo punto la ragione esce dal campo teoretico per entrare nell’ambito pratico e la ragione non è più necessaria; come, però, continua a imporsi? S’impone come factum, ossia come datum. Il factum rationis è la ragion pura al di fuori del campo della ragione teoretica, nuovo campo in cui essa non è necessaria. Direi, per analogia, che reddere rationem è ammettere che la ratio non è fondamento di se stessa dal momento che è un datum o un factum, il che è lo stesso.
36Potremmo, dunque, suggerire che la logica del dono, e dunque del dato, non è sottomessa alla ragion sufficiente ma che, in modo sorprendente, la ragion sufficiente come fondamento ultimo non dice se stessa in termini di ragion sufficiente. Questa deve lasciarsi formulare in termini di reddere, ossia di dono, di donazione. E, dunque, il rapporto da cui siamo inizialmente partiti è, alla fine, rovesciato.
Notes de bas de page
28 M. Mauss, Essai sur le don, in Sociologie et anthropologie, Paris, Puf, 1950; trad. it. F. Zannino, Torino, Einaudi, 2002
29 Cfr. J. Derrida, Donner le temps. I. La fausse monnaie, Paris, Galilée, 1991; trad. it. G. Berto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996.
30 Nella prima parte della conferenza Marion ha riproposto le analisi sul dono presentate in Dato che (cfr. Etant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Paris, Puf, 1997; trad.it. R. Caldarone, Torino, Sei, 2001).
31 Cfr. R. Descartes, Les passions de l’âme, texte présenté par P. Mesnard, Paris, Boivin, 1937; trad. it. E. e M. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1994.
32 Cfr. A. R. J. Turgot, Réflexions sur la formation et la distributions des richesses, 1788; tr. it. G. Rebuffa, Roma, Editori Riuniti, 1975, cap. 31.
33 Cfr. A. Cournot, Recherches sur les principes mathématiques de la théorie des richesses, Paris, Rivière, 1938.
34 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, erster Band, Hamburg 1872; trad. it. R. Panzieri, Roma, ed. Rinascita, 1954; Libro I, capp. IV-VI.
35 G. W. Leibniz, Monadologia, ed. it. a cura di G. De Ruggero, Roma-Bari, Laterza, 1975, § 34.
36 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Teologiae, II, II, 58, articolo 11.
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