Précédent Suivant

La questione della metafisica

p. 15-29


Texte intégral

1Ripercorrerò in queste pagine le tappe del mio lavoro filosofico, presentando altresì le questioni che restano da sviluppare e che mi impegnano attualmente. In un certo senso tali questioni non possono essere affrontate se non riconoscendo quelle che sono le tappe essenziali del mio percorso e che possono essere riassunte in tre grandi momenti: 1. la questione della metafisica; 2. la questione della fenomenologia vista in particolare sotto la figura della donazione; 3. la scoperta di quell’ambito molto particolare che è il fenomeno del dono. Come ben si sa, la vis filosofica è basata su degli eventi; più precisamente, la vis filosofica è un’associazione di eventi di pensiero. Si tratta infatti di comprendere, o meglio di sperimentare – almeno, così io penso la filosofia – degli eventi nel pensiero. L’evento del pensiero è un’evidenza, positiva o negativa, che si impone e che, precisamente perché si impone come evidenza, esige un lungo lavoro di autoesplicazione. Per me questo evento ha seguito tre tappe esplicative, ossia, come ho anticipato, la questione della metafisica, quella della donazione e quella del dono.

2Cominciamo dunque con la questione della metafisica. Propongo di concentrarsi su due momenti: dapprima, quando e come si pone la questione della metafisica; e poi, sul caso particolare che ho privilegiato nel cammino della metafisica, cioè il caso di Descartes.

3Come si è posta la questione della metafisica? Essa si è posta negli anni 1960-1970 in cui la situazione della metafisica era diversa dalla situazione attuale. È essenziale comprendere che in quel periodo la questione della fine della metafisica appariva, per così dire, snaturata: la filosofia universitaria culturalmente dominante restava cioè all’interno di una tematica della metafisica. C’erano la logica, la filosofia della conoscenza, la filosofia morale e la metafisica, ma la metafisica rimaneva una parte dell’orizzonte dogmatico delle figure della filosofia nell’insegnamento e nella cultura. In questo senso la questione della fine della filosofia era soggetta a opzione, era opzionale. Un certo numero di filosofi teneva conto della fine della metafisica come questione; certi altri sostenevano che la fine della metafisica era già compiuta; altri ritenevano che la filosofia era direttamente e imperfettamente legata alla metafisica e che la fine della metafisica avrebbe comportato anche la fine di ogni filosofia. In questa situazione, soprattutto in rapporto alla filosofia francese, si possono in un certo modo identificare due dottrine dominanti che vorrei sbozzare ora solo sommariamente: da un lato il marxismo, dall’altro lo strutturalismo, che da un certo punto di vista potremmo dire che giocava il ruolo oggi proprio delle scienze cognitive, cioè l’idea che la via della filosofia debba passare attraverso un’alleanza con la psicologia e le scienze umane, forse anche le scienze matematiche. Tra parentesi, un’annotazione: in ogni epoca della filosofia, si ha la pretesa di dire che il futuro della filosofia si trova al di fuori della filosofia stessa. Questa esigenza assume nomi diversi in tempi diversi: si può chiamare ad esempio psicologia sperimentale in Germania nel corso del xix secolo, oppure positivismo comtiano in Francia alla stessa epoca, o positivismo logico, o strutturalismo etc. È importante comprendere che si tratta di una parte essenziale della vita filosofica: una parte di questa vita è occupata da coloro che insegnano che la filosofia non deve essere insegnata! È veramente importante capire questo: c’è sempre una parte di filosofi che consacra i propri sforzi a dimostrare che la filosofia deve scomparire. In questo la filosofia non è una scienza come le altre, poiché la critica della filosofia, avente come scopo la dissoluzione della filosofia, è almeno parzialmente fatta dai filosofi stessi. Ciò non è sorprendente: si tratta – come ho detto – di una parte essenziale della definizione della filosofia. Questa è una parentesi ed è la parentesi di un uomo già maturo, che sa tante cose e che sa che il motivo della sparizione della filosofia è essenziale alla filosofia stessa e che non c’è vera ragione di esserne inquieti!

4Ritorniamo dunque al cammino della filosofia in rapporto alla questione della metafisica. A quell’epoca c’erano il marxismo e lo strutturalismo che in qualche modo avevano avvertito la questione della fine della metafisica senza avere le medesime convinzioni circa la definizione della metafisica. Marxisti e strutturalisti avevano colto che la metafisica non era più la forma propria della filosofia ma non avevano spiegato in che senso prendevano il termine metafisica. C’era d’altra parte una posizione conservatrice secondo la quale la metafisica faceva parte della filosofia e che quindi sosteneva che ogni attacco alla metafisica era portato anche alla filosofia stessa. È dunque importante vedere come in Francia la posizione principale non fosse essenzialmente una posizione filosoficamente e politicamente conservatrice. Nel caso delle correnti filosofiche che ho incontrato quand’ero studente, ho avuto la fortuna di confrontarmi solo con coloro che si ponevano seriamente il senso della decisione metafisica come luogo della messa in questione della filosofia: si trattava di storici della filosofia come Aubenque e di allievi di Heidegger, interrogativi che erano i soli a problematizzare la questione della metafisica legandola a due: quello della definizione della metafisica, che i conservatori trascuravano volendo difenderla a tutti costi, e quello della crisi della metafisica, che tutti quelli che ne annunciavano la fine, in modo egualmente superficiale, non si ponevano. Allora l’incontro con gli allievi di Heidegger, tra i quali Jean Beaufret, e con gli storici della filosofia come Pierre Aubenque e Fernand Alquié, è stato per me un punto di partenza.

5Il punto di partenza consiste nell’ammettere che la filosofia non s’identifica con la metafisica. Questa è una tesi che mi ha impegnato parecchio e che ha impiegato molto tempo per diventare pubblica. È una tesi che ha piena validità solo se dapprima si fa la storia dello stesso termine «metafisica». Il termine metafisica nel senso stretto di metaphysica s’impone, in storia della filosofia, soltanto nel corso del xiii secolo. Prima del xiii secolo questo termine è indeterminato, nei fatti ignorato, non usato. Questo può essere chiarito mediante diverse osservazioni legate alla storia dei concetti filosofici. Anche il concetto di ontologia, legato abitualmente alla storia della metafisica, è decisamente tardivo, poiché è datato 1613. La nozione di analogia, in particolare di analogia entis, non compare affatto in Tommaso d’Aquino: analogia entis non è un concetto tomista. E la nozione di prova dell’esistenza di Dio – ed è una questione che resta aperta – è a partire da Kant che si chiarifica: ciò che si può dire è che prima di Tommaso non ci sono affatto prove dell’esistenza di Dio. E in Tommaso ci sono delle viae che non si possono definire con certezza prove dell’esistenza di Dio. Naturalmente la distinzione tra metaphysica specialis e metaphysica generalis, così come compare in Baumgarten, è anch’essa estremamente recente. Numerosi studiosi francesi e tedeschi sottolineano che il sistema della metafisica si costituisce nel corso della scolastica luterana tedesca. Risulta dunque fondamentale assumere il punto di vista dello storico della filosofia al fine di avere nozione della storicità della metafisica. Il paradosso è che l’ontologia fondata come philosophía perennis (1665) è in se stessa non universale.

6Dunque ci sono parecchi elementi che permettono di affermare che, storicamente parlando, la metafisica non ricopre che una parte della filosofia. La metafisica non è soltanto una parte nel senso della descrizione delle differenti materie o dimensioni della filosofia (logica, psicologia, etica, fisica, metafisica), ma è anche – e storicamente – solo un’epoca della filosofia. Allora il problema della fine della metafisica è un problema che bisogna porre a partire dal riconoscimento del carattere regionale della metafisica. E questo carattere regionale, che si può scoprire nella storia della filosofia, è segnato in certo modo da un nodo teorico: che consiste nella coniugazione della scoperta della marginalità storica della metafisica in rapporto alla storia della filosofia con la marginalità teorica della metafisica così come Heidegger permette di pensarla.

7Che cosa ha fondamentalmente posto Heidegger? Egli ha mostrato ciò che può essere chiamata l’originale contraddizione della metafisica. Questa contraddizione è che la metafisica è la scienza del τὸ ὄν ἧ ὄν (tò ón ê ón) e che la scienza del tò ón ê ón non è affatto per Aristotele la metafisica. La scienza del tò ón ê ón è soltanto una delle due scienze teoriche. Ma prendiamo l’accezione tradizionale: la metafisica è la scienza del tò ón ê ón, ens in quantum ens. Su questa base la filosofia ha posto il primato della metafisica, l’oggetto primo della filosofia, dicendo che il tò ón ê ón era una questione che non verteva su uno degli enti, come tutte le altre scienze che vertono sempre su un ente (étant) o su una regione dell’ente, ma che verteva sull’universalità dell’ente, sull’ente universalmente considerato, sull’ens in quantum universale. Ora, cosa descrive la scienza del tò ón ê ón? Essa non descrive tò ón come qualcosa di particolare, come ad esempio l’ente che pensa, l’ente in movimento, l’ente fisico etc. Qual è la natura dell’universalità di questa evidenza? Su questo punto diverse osservazioni sembrano imporsi. La prima è che la definizione tò ón ê ón approda sempre – ed è Aristotele a mostrarcelo – a una focalizzazione dell’universalità dell’ente considerato sotto l’aspetto di un ente particolare. Per mostrare ciò che è l’ente Aristotele finisce – è la celebre formula del libro Z 1 della Metafisica – per porre la domanda: che cos’è l’ente, ovvero cos’è l’οὐσία (ousía)? Dal punto di vista dello stesso Aristotele la risposta alla domanda sull’ente in generale, sull’insieme dell’ente, diventa una risposta che passa attraverso le categorie e attraverso la prima delle categorie, cioè l’ousía. E ciò pone immediatamente una nuova questione: anche le altre categorie sono categorie dell’ente propriamente detto, come l’ousía? E l’ente deve essere detto dalle categorie? Sta qui tutto il problema della plurivocità dei sensi dell’ente. In ogni caso la questione dell’ente in generale diviene la questione dell’ousía e diventa radicalmente problematica ogni possibilità di un ente che non sia ousía. È dunque possibile che vi siano enti che non sono ousía? Non solo è possibile ma addirittura è necessario: in effetti noi ne conosciamo almeno due, Dio e l’uomo. Questi non sono affatto ousía.

8Ma c’è una seconda difficoltà. La questione del tò ón ê ón non rivela la differenza, che tuttavia la metafisica pretende di pensare, tra essere e ente. E questo è chiaro se si considera il fatto che la questione dell’essere, in opposizione all’ente, non è la questione del tò ón ê ón. La questione del tò ón ê ón è: cos’è un ente in quanto ente? e non invece: cos’è l’essere dell’ente? Allora bisogna dire che è all’interno del tò ón che si gioca la differenza tra l’essere e l’ente: si può dire cioè che talvolta tò ón è sostantivo e talvolta è articolazione del verbo essere. Ed è per questo motivo che la questione del tò ón ê ón reca con sé la questione del doppio senso del tò ón. E la questione del doppio senso non è affatto trattata come tale da Aristotele. E perché tò ón deve suddividersi in ente e essere? Tale questione la metafisica non la esamina affatto. Una delle più radicali obiezioni che nascono dall’interno della metafisica stessa è la seguente: la metafisica non pensa ciò che dice di pensare. Non è un’obiezione che viene dal di fuori. È un fatto che la metafisica trascura la questione: cos’è l’essere?

9Dunque è la questione cos’è l’essere? a mettere in crisi la metafisica. Cos’è l’essere? è una questione che la metafisica non può affrontare. Quando pone questa domanda, la metafisica dà per presupposto il verbo essere. Se la mia interpretazione è corretta, supponendo che si possa porre la questione cos’è l’essere?, la risposta inevitabile della metafisica sarà una risposta sull’ente o che passa attraverso l’ente. Cos’è l’essere? L’essere è la definizione di Dio. Ma l’ontoteologia consiste nel rispondere alla domanda sull’essere mediante una risposta sull’ente. È un lavoro di definizione di ciò che significa «essere»: la risposta che passa attraverso il sostantivo e attraverso l’ente non verte sulla questione dell’è. Cos’è essere? La risposta contraddice ciò che la domanda si propone di raggiungere. C’è dunque un’impossibilità interna della questione dell’ens che è propria della metafisica. Bisogna insistere su questo punto. La crisi della metafisica non proviene da obiezioni esterne alla questione metafisica. Fa parte del dibattito abituale credere che si tratti invece di obiezioni esterne. In realtà le difficoltà della metafisica derivano dal progetto stesso della metafisica e questo, in fin dei conti, è Heidegger ad averlo mostrato. Il solo concetto operativo in metafisica è quello elaborato da Heidegger in Identità e differenza. Là soltanto si può disporre di un criterio discriminante: una griglia di lettura delle diverse figure storiche della metafisica. E con il concetto della costituzione ontoteologica della metafisica è possibile anche vedere perché la metafisica pone una domanda alla quale non risponde. E allora la vera formulazione filosofica è che la metafisica pone una domanda mal posta. È giusto: la questione dell’essere non può essere posta dicendo semplicemente τὶ τὸ ὄν (tì tò ón). Perché tì tò ón non conduce alla questione dell’essere, ma a quella dell’ente.

10Abbiamo dunque preso coscienza della metafisica come questione. E questa presa di coscienza non si presenta come un dibattito ideologico tra quelli che vogliono rimpiazzare la metafisica con un’altra filosofia e quelli che vogliono difendere le grandi questioni della metafisica. Questo non è un dibattito ideologico: è al contrario una questione interna alla filosofia stessa. Il domandare della metafisica è reso impossibile a causa di se stessa. Questa presa di coscienza mi ha portato a cercare di individuare un caso particolare di cui generalmente la storia della filosofia non s’interessava. Il caso di Descartes. Mi sono infatti interessato a Descartes perché non era considerato un punto interrogativo della metafisica. Nella storia della filosofia in Francia Descartes gioca un ruolo particolare: è presentato come l’autore che ha rotto con l’epoca scolastica e come colui che appunto non si pone la questione dell’esse dell’ens. In questo senso egli propone l’idea che la teoria della scienza si sostituisca alla teoria dell’ente. Ciò che mi interessava era di vedere se e come Descartes appartenesse al progetto della metafisica. E volevo anche stabilire un legame tra la metafisica nel senso moderno e la metafisica nel senso medievale. Se Descartes non è inserito nella storia della metafisica, allora Spinoza, Malebranche, Leibniz creano un concetto di metafisica completamente ambiguo. E allora bisognava vedere se in Descartes si potesse trovare una costituzione della metafisica permanente. Per far ciò ho proceduto in due tempi: da una parte ho studiato la forma dell’ente in generale in Descartes – ciò che ha messo capo al libro L’ontologie grise de Descartes – e poi la scienza dell’ente privilegiato cioè la teologia – ciò che ha prodotto La théologie blanche de Descartes. E infine ho posto la questione dei limiti della costruzione metafisica in Descartes in un libro che si è chiamato Le prisme métaphysique de Descartes. Ora, qualche breve considerazione su queste tre tappe.

11Dapprima la questione dell’ente, ens in quantum ens, in Descartes. Per porre tale questione bisogna trovare un angolo d’entrata particolare nella filosofia di Descartes che non è l’angolo abituale. L’angolo abituale consiste nel privilegiare il Discorso sul metodo e, nel migliore dei casi, a congiungere al Discorso i trattati scientifici, l’Ottica, Le meteore, La geometria. Quando si intraprende questa via, si procede direttamente dalla dottrina della scienza alle sue applicazioni, senza porsi il problema di come e a partire da dove Descartes abbia costruito il suo sistema della scienza. Poiché determinante in Descartes non è di avere una pratica scientifica, né di conseguenza quello di definire che cos’è la scienza. Si tratta piuttosto di comprendere che la sua definizione di scienza non poteva essere raggiunta se non in opposizione alla filosofia di Aristotele. In questo senso sono fondamentali le Regulae ad di- rectionem ingenii, testo davvero sorprendente e strano. È strano perché in effetti Descartes non l’ha terminato, né rivisto, perché non è mai stato commentato e ciononostante è stato letto dai suoi contemporanei (si possono ricordare il circolo di Port Royal, Spinoza). Dunque bisogna rivalutare questo testo. E io sono debitore alla scuola filologica italiana, la migliore del mondo, per lo studio di quest’opera; ricordo soprattutto Giovanni Crapulli.

12Dunque ecco ciò che ho trovato di notevole spessore nelle Regulae ad directionem ingenii: ciò che Descartes definisce come l’oggetto del sapere – quell’oggetto che appare come l’esistente – non si comprende se non in opposizione a ciò che Aristotele chiama tò ón, l’ente, l’ousía, che Descartes intende – secondo la consuetudine medievale – come substantia. La mia tesi – che resiste tuttora – consiste nel dire che fin dall’inizio non c’è in Descartes una teoria della conoscenza, o della scienza, quanto piuttosto una teoria dell’oggetto della scienza e che l’oggetto della scienza è ottenuto per contrapposizione alla substantia. A ciò si giunge in più momenti: dapprima ci si interroga sulla tesi dell’unità della scienza in Descartes, principio che si oppone direttamente a quello aristotelico secondo il quale c’è una scienza per ogni genere; non c’è scienza universale in Aristotele perché ogni scienza è deputata a un luogo, a una regione dell’essere. Descartes unifica invece tutte le scienze dal punto di vista dell’intelletto. E questa unificazione mediante l’intelletto è resa possibile dal fatto che l’intelletto come origine della conoscenza – che funziona meglio di un sapere riferito alla molteplicità dei generi – rende possibile precisamente l’unità del campo scientifico. In altri termini, le differenze tra le scienze conosciute sono meno grandi dell’unità che deriva dal punto di vista dell’intelletto. Dunque era necessario che Descartes, per imporre l’unità dal punto di vista della conoscenza, dovesse passare attraverso una decostruzione e un indebolimento del punto di vista del genere. Egli decostruisce l’ousía. Due vie: la prima consiste nel prendere il modello dell’oggetto metafisico, dicendo che l’oggetto metafisico non ha affatto un contenuto metafisico. L’oggetto deve essere compreso sul modello dell’oggetto fisico, sopprimendo in esso la domanda di contenuto metafisico. È per questo che Descartes dirà che l’oggetto conosciuto, l’oggetto fisico, deve essere conosciuto senza le sue qualità sensibili – né colore, né sapore etc. – e lo deve essere unicamente attraverso ciò che egli chiama natura semplice – l’estensione, la forma – a partire dalla quale tutte le altre determinazioni dovranno essere trovate. E l’estensione, la forma e il movimento si giocano nello spazio e in effetti non hanno bisogno di percezione empirica, ma unicamente della percezione empirica dello spazio e del tempo. L’oggetto è dunque ridotto all’intuizione formale – come dirà Kant – dello spazio e del tempo. Descartes compie questo gesto fondamentale, di vedere l’oggetto dal punto di vista più astratto possibile. E questa è la dottrina della mathesis universalis, la scienza generale. Nella mathesis universalis si danno due criteri riguardanti le cose dell’esperienza: Descartes dice ordo mensura, l’ordine che può essere trascritto dicendone la misura, nel senso di dimensione. Ora – qui Decartes è davvero geniale – si può misurare ciò che è quantificabile nello spazio, direttamente misurabile, e soprattutto ciò che non è misurabile. L’oggetto tecnico che noi conosciamo è infatti misurato soprattutto in ciò che, per se stesso, non è misurabile. Certamente io posso considerare questa bottiglia dal punto di vista del peso, del colore, della forma; ma c’è soprattutto questo: la composizione chimica dell’acqua, cioè ossigeno, idrogeno, che sono tutte cose qui misurate (volume, densità etc.). Tutto questo è misurato. Ora, precisamente il magnesio, il potassio etc. non sono affatto come tali misurabili: sono misurati dal sapere della chimica. La chimica misura ciò che non è misurabile in se stesso. La bottiglia non è misurabile dal suo quid, ma è misurabile dal beneficio che ne riceverà chi la consuma: e ciò non è spaziale. Dunque Descartes ha scoperto che ciò che si poteva misurare non sono soltanto le tre dimensioni dello spazio, ma anche tutto ciò che non è misurabile. Si pensi, ad esempio, al movimento, alla velocità, all’accelerazione, alla pesantezza. Dunque l’oggetto è ciò che può essere misurato e quando si misura ciò che non è esteso, l’esteso diviene non solo ciò che misuriamo, ma anche il mezzo che ci consente di misurare. E il secondo criterio è quello dell’ordine, che in sé non è naturale. L’ordine consente di legare, secondo le esigenze del pensiero, della conoscenza, elementi che non sono di per sé legati in natura. La mathesis universalis consiste allora nel costruire l’oggetto mediante astrazioni. La scoperta geniale di Descartes è che l’oggetto è tanto più conoscibile quanto più diventa immateriale. L’oggetto è meno materiale della cosa. È meno materiale perché ha meno ὕλη (hylê): ed è conosciuto senza riferimento alla hylê ed è per questo che l’oggetto è certo, perché la hylê è sempre un fattore d’imprecisione, è un cambiamento, è ciò che varia, che non può permanere. Dunque l’astrazione dalla hylê, in cui si ha una dematerializzazione, è la condizione della prospettiva dell’oggetto. Questo primo punto è stato quanto meno messo in discussione, perché la metafisica – quella moderna, certamente soprattutto quella di Descartes – ha pensato l’essere dell’ente senza l’essere: si intende che l’oggetto è il nuovo volto dell’ente. Per comprendere l’oggetto bisogna pensare le cose così come sono in se stesse e le cose così come sono conosciute. In effetti c’è sostituzione delle cose tali quali sono conosciute con le cose tali quali sono in sé. Ciò significa che la dottrina dell’oggetto non è solo dottrina dell’essenza, ma una dottrina dell’ente. Se è così, allora il primo risultato è che nella metafisica moderna si manifesta lo spirito della tecnica moderna. L’interpretazione del mondo come oggetto tecnico, così com’è in Descartes, è un giudizio su ciò che è l’essere degli enti. La tecnica è il segno della metafisica. Questo lo si vede comprendendo che la teoria della scienza in Descartes è una dottrina ontologica.

13Ma parlare di metafisica vuol dire anche toccare la questione di Dio. Ci si è accostati quindi anche a tale questione. Come si pone la questione di Dio in Descartes e perché si pone? Essa si pone in un modo che ci sembra completamente chiaro. Eppure, secondo me, c’è una stranezza. Da dove viene? La stranezza viene dal fatto che un ente finito – cioè l’ego – precede nell’ordine della certezza l’ente infinito. Descartes è colui che passa dall’ego a Dio e non l’inverso. È una situazione davvero strana, perché dopo Descartes, ad esempio, Spinoza comincerà con Dio, Malebranche anche, e persino Leibniz. Descartes invece comincia con l’io. Bisogna chiedersi a questo punto come ciò sia possibile. Non si tratta di sapere se sia bene o male, ma semplicemente come sia possibile. Ciò è possibile a causa di un gesto essenziale in Descartes che spesso non viene legato strutturalmente alla sua teologia: si tratta della dottrina della creazione delle verità eterne. Dottrina che Descartes ci consegna solo attraverso alcune lettere scritte a Mersenne. Al contrario di Galileo, di Keplero e della maggior parte degli scienziati dell’epoca egli postula che le verità matematiche, che per noi sono assolutamente certe – e che sono necessariamente certe anche secondo la sua dottrina della scienza –, non siano affatto infinite e assolute, ma create da Dio.

14Questa tesi che le verità matematiche siano create da Dio è stata accolta con un certo scandalo come una tesi scettica ed essa lo è a tutti gli effetti. Ma è essenziale perché permette a Descartes di controbattere al paradosso della sua dottrina della scienza e che consiste nel dire che ciò che noi sappiamo è assolutamente certo, ma tuttavia non assoluto. Che ciò che sappiamo sia certo ma anche non assoluto è il problema della metafisica. Ciò che noi sappiamo è certo, ma non sappiamo affatto se ciò che è certo riflette l’essenza delle cose. E la questione sopra menzionata della tecnica, l’interpretazione tecnica del mondo, si basa proprio su tale principio. La tecnica è infatti irrefutabile e perfettamente esatta, ma è anche assolutamente dubitabile perché non possiamo sapere se raggiunga davvero l’essenza delle cose. Si chiama ecologia la salvaguardia del mondo. Per l’ecologia – per la politica – si tratta di dire che tutto ciò che si fa è perfettamente razionale – sviluppo industriale, etc. – e tuttavia non bisogna farlo. E perché? Non bisogna farlo perché la tecnologia non è assolutamente vera. Essa è interamente certa, ma non vera. E Descartes suppone che la razionalità resti finita. Questa è la situazione. E a essere in questione nella metafisica generale di Descartes è precisamente questo carattere dubitabile, proprio dell’incertezza in sé, caratteristico della Prima Meditazione.

15Tutto molto strano: Descartes comincia col dubitare della conoscenza sensibile e arriva poi a porre in questione le verità matematiche. Come possiamo dubitare della matematica? Possiamo dubitarne solo assumendo il punto di vista della creazione delle verità eterne. Se le verità matematiche sono create, allora non sono infinite, dunque diventano dubitabili se non si prende il punto di vista dell’infinito stesso, cioè il punto di vista di Dio. E per questo infatti Descartes immagina un Dio assolutamente onnipotente, che sarà ancora più potente del Dio del genio maligno, e da questo punto di vista dice che le verità matematiche divengono dubitabili. Non dubitabili dal punto di vista della finitezza, ma dubitabili per una razionalità propria dell’infinito. Ma tutto ciò in Descartes è strano perché non deriva dall’irrazionalità dell’incertezza, ma dal certo e dal razionale stesso. Non è il dubbio a dichiarare che noi non conosciamo bene, che conosciamo in modo irrazionale, senza dimostrazione; si dice piuttosto che, quando conosciamo con qualche ragione, noi restiamo nell’intelletto finito e nell’incertezza. Dunque la questione posta da Descartes verte sulla razionalità stessa. Il problema è di sapere come trovare un fondamento meta-razionale alla razionalità. Ed è interessante vedere come questo fondamento meta-razionale alla razionalità in Descartes, cioè Dio, sia raggiunto attraverso l’idea d’infinito. L’idea d’infinito – che è precisamente l’idea di ciò che va al di là della razionalità finita – è al tempo stesso più certa e più incomprensibile di qualunque altra idea dell’intelletto. E questo è davvero strano! Descartes dice: Dio esiste perché io ho in me l’idea d’infinito; ora, non posso produrre in me l’idea d’infinito dato che sono finito; l’idea d’infinito deve essere posta da una causa realmente infinita; dunque è vero che Dio esiste. Questa è una prova strana non per la ragione abituale che pone come assurdo il fatto che avere l’idea d’infinito non conduca necessariamente ad avere una causa realmente infinita, ma perché dice questo: la prova che l’idea d’infinito esiste è che io non la conosco e che non posso comprenderla. La prova che Dio esiste, e che l’idea d’infinito rivela, è che io non la comprendo e che non posso porla. Dunque Descartes fonda l’accesso a Dio, cioè trova la fondazione della razionalità nell’inconoscibile e nell’incomprensibilità dell’infinito. Se si mettono in rapporto queste due figure dell’impresa cartesiana, ci si scopre in una situazione affatto particolare.

16L’onto-teo-logia – si pensi a Heidegger nel celebre testo sulla costituzione onto-teo-logica della metafisica – si caratterizza mediante due enunciazioni che stanno in un reciproco rapporto di fondazione. La prima: sull’ente in generale. La seconda: sull’ente per eccellenza. Importante è rilevare questo: che l’enunciazione sull’ente per eccellenza fonda quella sull’ente in generale, ovvero che l’ente supremo – Dio – si pone come causa efficiente di tutto l’essere. E c’è anche un rapporto di fondazione inversa: cioè che la definizione di tutti gli enti come tali si applica anche all’ente per eccellenza. Come si può applicare questo discorso a Descartes? Lo si può applicare a condizione di duplicare il modello. In effetti si può sostenere che in Descartes c’è una concorrenza di due enti primi. Non c’è solo uno, ma due enti privilegiati. Il primo ente privilegiato è certamente Dio: il Creatore, causa efficiente del mondo, che si pone come creatore di tutte le cose del mondo, di tutti gli enti; ma, d’altro lato, in Descartes c’è un altro candidato a ente primo: l’ego. L’ego ha una posizione particolare, è certo di se medesimo prima di essere certo dell’esistenza di Dio e, sul modello della conoscenza induttiva, è – possiamo dire – il fondamento di tutti gli oggetti del mondo. Questa specifica dualità metafisica caratterizza Descartes in opposizione a tutti gli altri pensatori. Il principio può infatti da un lato essere Dio (Spinoza), dall’altro l’io (Nietzsche, Heidegger). Ma in questi casi si ha un solo ente primo; in Descartes se ne hanno due. E come sono organizzati? Ci sono delle interpretazioni di Descartes che scelgono uno dei due e fanno dipendere l’uno dall’altro. C’è chi insiste sull’ego, Sartre ad esempio; oppure le interpretazioni cattoliche (Laberthonnière) o atee o logiciste (Gueroult) che privilegiano Dio. Malebranche è uno dei primi interpreti del cartesianesimo che sceglie Dio contro l’ego. Ma la migliore risposta si trova in Descartes stesso e consiste nel chiedersi se questi due principi non siano eventualmente compatibili. O, meglio, se ciascuno di questi due principi non sia indispensabile per la soluzione del problema dell’ente in generale. Ma qui bisogna fare molta attenzione. L’ego è primo principio nella misura in cui collega gli oggetti in modo chiaro e distinto (evidenza). È primo principio in quanto «cogita» tutte le cose. È primo principio di tutti quegli enti che si chiamano cogitata, gli oggetti di pensiero. Ma questi stessi enti si potrebbero considerare come effetti di una causa, se Dio è definito come causa. E, a ben vedere, Descartes è il primo a definire Dio proprio come causa sui. Dunque, in rapporto al Dio-causa sui, tutto è un effetto, un causatum. E questo stesso tutto è effetto delle verità razionali, anch’esse create da Dio. Ci sono allora due rapporti: o consideriamo le cose come pensate, cogitata, e in questo caso esse sono in quanto pensate, dato che l’ente per eccellenza è l’ego; oppure le consideriamo come causata, e in tal caso l’ente per eccellenza è Dio come causa sui. Ciò che d’interessante bisogna rilevare qui è che si ritrova la struttura onto-teo-logica, ma con una precisazione. Heidegger, infatti, in Identität und Differenz, definisce precisamente il dio della metafisica come causa sui. Ma è strano che Heidegger non si accorga che Descartes non fu affatto un filosofo dell’ontoteologia. Il Dio di Descartes non è iscrivibile nell’ontoteologia, non certo nell’ontoteologia della causa. Infatti c’è un’altra, una seconda ontoteologia, che è quella della cogitatio. Questa è il proprium di Descartes. Si può considerare l’ontoteologia dal punto di vista dell’ego come ente supremo, in cui tutti gli enti sono sottomessi a questo ente supremo in quanto da lui pensati. Ma si può considerare anche un’ontoteologia basata sulla causa sui, che comprende tutte le cose come gli effetti. Che rapporto c’è fra queste due ontoteologie? In Descartes la cosa è molto chiara. L’ego stesso è uno dei causata, è causatum, è creato. Dunque l’ontoteologia della causa comprende al proprio interno un ente – l’ego – che è creato e perciò un effetto dell’ontoteologia della causa. Ma quest’ego stesso sviluppa un’altra ontoteologia che è l’ontoteologia della cogitatio. Così in Descartes. Ciò vuol dire che ogni pensiero in quanto cogitatio e ogni pensiero in quanto cogitatum è essenzialmente un causatum. Ciò significa anche che ci sono alcuni elementi dell’ontoteologia della causa che non sono dei cogitata – è il caso proprio di Dio – e che non possono essere definiti in senso stretto degli oggetti. Il paradosso è che in Descartes ci sono delle verità incomprensibili. E si hanno due potenti conferme a riguardo di questa dualità ontoteologica.

17La prima è la tensione permanente che sussiste tra i due primi principi e che si è storicamente affermata. Dal punto di vista storico è infatti interessante vedere come Malebranche e Spinoza, che si pongono la questione di Dio e della molteplicità, nutrono entambi l’ambizione di sottomettere l’ego cogito cartesiano alla verità prima di Dio, nel senso che l’ego non sia più all’origine dell’ontoteologia. È anche interessante vedere come Leibniz ad esempio tenti di ridurre lo stesso problema di Dio come primo principio – e lo fa in modo davvero originale – pensando che ogni monade è analogia dell’interiorità. Si potrebbe vedere anche come Locke e Hume siano un tentativo di sopprimere l’ontoteologia della causa per far posto a un’ontoteologia della cogitatio, ossia della funzione.

18Ma c’è una seconda considerazione che davvero sembra decisiva. La questione della metafisica. Si può dire che storicamente la metafisica si è compiuta quando la nozione di ontologia è stata definita. Ed è nel 1613 che ontologia, sotto la forma dell’aggettivo greco ὀντολογική (ontologiké), è stata definita da Goclenius nel Lexicon Philosophicum. Il termine ontologia era conosciuto certo anche in precedenza, ma ontologia considerata come scienza particolare apparve solo con Johannes Clauberg nell’ulteriore formulazione di ontosophia (1647). È capitale considerare che per la prima volta abbiamo qui la definizione dell’ontologia e che Clauberg – un cartesiano illuminato e discepolo fedele, un cartesiano di professione – nei primi sette paragrafi della sua opera attribuisce espressamente a Descartes il primo dei sensi dell’ens: il cogitabile. (È buffo pensare che una delle critiche più classiche a Descartes consista nel dire che egli è un idealista, che le cose non esistono in se stesse, che quindi non c’è in lui alcuna ontologia). È davvero da rimarcare il fatto che furono proprio i cartesiani a definire l’ontologia come scienza particolare. E dunque l’ontologia di Clauberg riprende la questione aristotelica tì tò ón. Che cos’è l’essere? E dà tre risposte possibili: 1) la prima risposta consiste nel dire substantia. La risposta di Aristotele: ousía. Ma questa risposta è insoddisfacente perché, se si dice ousía l’oggetto dell’ontologia, allora l’ontologia afferma che ogni ente è ousía e noi non possiamo più considerare come enti gli accidenti, dato che invece gli accidenti sono. Ma a questo punto si potrebbe dire, invece che ousía, 2) res in generale. Tutto ciò che è assimilabile a una cosa, è. Ma allora in tal caso non possiamo rendere ragione di ciò che non è. Ora, il nulla è. In effetti il nulla è poiché tutto ciò di cui possiamo dire qualcosa, è. Abbiamo bisogno di un termine più vasto di res. E qual è questo termine? 3) Cogitabile. Tutto ciò che è cogitabile, è. E questo significa: ciò che viene chiamato ontoteologia dell’ego cogito è in se stesso ontologia, fa parte della storia dell’ontologia. Si può chiamare ontologia in Descartes precisamente ciò che si caratterizza come ontologia della cogitatio.

19Dunque c’è in Descartes una metafisica, dato che non vi si trova una ma due ontoteologie. E c’è una ontologia come metafisica perché questa ontologia è conquistata attraverso una meditazione sull’ente. Questa è una tesi di storia della filosofia. Descartes è un metafisico nel senso preciso del termine, nel senso storico. Ma in cosa la storia della filosofia può avere un significato teorico? La risposta a tale questione viene dalla constatazione che ciò che abbiamo trovato identificando una metafisica cartesiana, sotto le due figure dell’ontoteologia, dice che c’è metafisica quando c’è limitazione. Dapprima la metafisica si caratterizza indipendentemente dalla questione di sapere se è intesa come autentico pensiero dell’essere dell’ente. Ma la scoperta del carattere metafisico dell’impresa cartesiana mostra che la metafisica si definisce – nel doppio senso di de-finire. E la finitudine della metafisica in Descartes non è affatto trascurabile. Quando Heidegger parla del carattere finito del Dasein ha dietro di sé la storia della metafisica moderna, che in Descartes diventa esemplare. La finitudine della metafisica è esemplarmente verificata nel caso di Descartes. È verificata, ad esempio, proprio perché l’ontoteologia della cogitatio è finita: cioè essa è essenzialmente basata sul fatto che la razionalità può essere per noi assolutamente vera, ma che è assolutamente vera soltanto per noi. E dunque il punto di vista della razionalità per noi, non è assoluto. E ciò non indebolisce l’ontoteologia della cogitatio, ma è al contrario la condizione di possibilità dell’ontoteologia della cogitatio. Se la cogitatio fosse assoluta, perciò infinita, essa non sarebbe affato fondata in un ego. Ci sarebbe una coscienza assoluta, un sapere assoluto, ma ciò non sarebbe me, l’ego. In certo qual modo, non si può avere un’ontoteologia, cioè una metafisica della cogitatio, se non avendo un ego come fondamento.

20Dunque la metafisica è una delle forme della finitezza. Non ha senso dire metafisica infinita. E allora si potrebbe rilevare che in Descartes in realtà l’infinito entra nell’ontoteologia nella figura di Dio, Dio come causa e fondamento stesso dell’ontoteologia della cogitatio, ma anche in questo caso non si tratta comunque di una metafisica infinita. Che la metafisica sia finita è a mio modo di vedere una sorta di ‘regola’ della metafisica. Ma più precisamente questa metafisica resta finita in un altro senso, un senso più forte: resta finita nel senso che ciò ch’essa chiama Dio, come fondamento dell’ontoteologia, deve avere, per essere fondamento dell’ego cogito, un nome preciso. E se Dio non è un ego cogito, dal momento che l’ego cogito ha funzione di Dio in Descartes, Dio non è un infinito. Prendiamo il caso in cui l’ontoteologia della causa non sia sostituibile dall’ontoteologia della cogitatio, che vi sia solamente l’origine della causa. Produce questa un’ontoteologia infinita? Ciò potrebbe essere solo a una condizione: che causa sui possa valere come un altro nome di Dio. Infatti perché la causa sui sia assoluta, dunque sia Dio, è necessario che Dio si possa nominare, si possa ridurre, riassumere col solo nome: causa sui. E allora si pone qui in un altro modo la questione della finitudine della metafisica: come può Dio entrare in metafisica se non accettando causa sui come uno dei nomi divini di Dio? L’ontoteologia può fondarsi in Dio soltanto se Dio stesso diventa un fondamento. E Dio diventa fondamento – nella storia dei concetti – solo quando viene pensato come causa sui. La metafisica può dire: se Dio accetta di essere definito come causa sui, sarà il primo principio dell’ontoteologia; la metafisica può dire: se Dio si lascia dire, pensare, definire come causa sui, allora Dio sarà fondamento del mondo e si avrà una metafisica infinita. Ma la metafisica non può affatto decidere se Dio accetta o meno il nome di causa sui. Insisto: essa viene soltanto a dirci che accetta Dio come primo principio dell’ontoteologia, se Dio prende il nome di causa sui. Ed è tutto da vedere se egli può prendere il nome di causa sui. In certo modo Dio è tentato, come Gesù nel deserto: se tu prenderai il nome di causa sui, avrai…! Ma Dio può resistere alla tentazione. Questo è il secondo caso di finitezza. Il Dio della causa sui è un’impresa dell’ontoteologia e appare proprio come esempio di finitezza: Heidegger lo ricorda parlando della costituzione ontoteologica della metafisica, quando pone che davanti al Dio-causa sui non si può né cantare né danzare. C’è evidentemente un scarto tra due nomi di Dio: il Dio-causa-sui, fondamento, e il Dio che si può adorare, pregare etc.

21Nel nostro percorso questa divaricazione ha delle conseguenze. Si può infatti pensare a un Dio che non sia un Dio metafisico (è il caso di L’idolo e la distanza e di Dio senza essere); ma riflettere anche sul fatto che si dia un ente che non sia un oggetto, ciò che porterà a introdurre il concetto di cosa, un concetto più vasto. Dunque questo conduce – prima tappa – a riconoscere un Dio che non sia Dio dell’ontoteologia; poi, che il Dio dell’ontoteologia è morto; e in terzo luogo, che il Dio della metafisica non è Dio, perché la morte del Dio della metafisica apre un orizzonte non metafisico di Dio. Dio non è morto proprio perché Dio è morto, perché il Dio della metafisica è morto. E la seconda tappa consiste nel riconoscere che né la metafisica né la filosofia possono dire se Dio sia morto o non sia morto, dato che possono parlarne solo come ente, come essere. Ma se Dio è Dio, Dio è al di là dell’essere.

22Dunque la finitudine della metafisica implica una prima direzione di lavoro: sulla questione di Dio. E una seconda via: sulla questione della cosa. La cosa non è un oggetto, ma un ente, un ente particolare, qualcosa di dato (donné).

Précédent Suivant

Le texte seul est utilisable sous licence Licence OpenEdition Books. Les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés) sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.