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7. Una reazione paranoica al cambiamento

p. 103-112


Texte intégral

1Come abbiamo visto, i populismi, le spinte xenofobe e i rinascenti nazionalismi si basano in larga parte sul ricorso paranoico all’immagine del complotto.

2Anche le retoriche sulla crisi maschile e sugli “uomini in crisi”, le rappresentazioni più estreme del revanscismo maschile, ripropongono la rappresentazione paranoica di uomini oggetto di un complotto minaccioso e persecutorio, di una strategia del femminismo per distruggere la dignità e l’identità maschile, della discriminazione dei padri separati, delle lobby lgbt, dell’establishment politicamente corretto contro la libera espressione individuale e la spontaneità dei comportamenti…

3Un atteggiamento che porta con sé quel vittimismo aggressivo che ribalta i ruoli di vittima e carnefice, discriminato e privilegiato, conformista e trasgressivo.

4Qual è l’origine di questa reazione, di questo modo di porsi rispetto al cambiamento? Cosa produce questo esito “paranoico”? Perché le reazioni maschili al cambiamento si condannano al vicolo cieco del rancore frustrato senza riuscire a mettere in gioco un desiderio di altro?

5L’ipotesi su cui voglio ragionare è che questa rappresentazione “paranoica” della realtà sia il sintomo del fatto che i propri riferimenti si rivelano inadeguati a dare risposta alla domanda di senso sulla propria vita e a fornire strumenti per ripensare il proprio posto nel mondo. Innanzitutto per elaborare l’esperienza della propria dipendenza e vulnerabilità. Come se riconoscere che le relazioni sono fondative della nostra esistenza, che non siamo autosufficienti, fosse uno scacco insopportabile e non una consapevolezza necessaria che arricchisce le nostre vite. Da qui, per esempio, l’incapacità a elaborare una separazione, a tollerare una donna che esprime una scelta differente, che porta molti uomini a uccidere e, non di rado a fare violenza su se stessi e sui figli in una pulsione distruttiva e autodistruttiva.

6Lea Melandri ha più volte mostrato come la rappresentazione complementare dei sessi, che rimuove il desiderio femminile e schiaccia le donne nel ruolo dell’accudimento, porti con sé il fantasma del potere femminile della cura e della seduzione, e come la violenza maschile sia una risposta patologica all’angoscia della dipendenza e della vulnerabilità che il mito virile ha rimosso.

7Una famosa definizione della nostra epoca è quella di essere “l’epoca delle passioni tristi”, in cui dominano i sentimenti del rancore, della frustrazione, dell’invidia e della recriminazione. Gli autori di questa definizione parlano anche loro di un atteggiamento paranoico e propongono che questa reazione nasca dalla contraddizione tra l’illusione di un individuo autosufficiente, padrone di sé e onnipotente, e una condizione di sempre maggiore impotenza, vulnerabilità e precarietà:

Sappiamo bene che le passioni tristi sono una costruzione, un modo di interpretare il reale e non il reale stesso. […] la speranza era quella di un sapere globale, capace di spiegare le leggi del reale e della natura per poterli dominare. Libero è colui che domina (la natura, il reale, il proprio corpo, il tempo): questo era il fondamento dello scientismo positivista. […] il xx secolo ha segnato la fine dell’ideale positivista gettando gli uomini nell’incertezza.1

Certo, la nostra epoca scopre le falle del progetto della modernità (rendere l’uomo capace di cambiare tutto secondo il suo volere), e resta paralizzata di fronte alla perdita dell’onnipotenza. È anche vero che il discorso sull’insicurezza, servito in tutte le salse, è diventato una sorta di “significante dominante” che vuol dire tutto perché, in fondo, non vuol dire niente […] bisogna però fare molta attenzione. Il discorso sulla sicurezza che giustifica la barbarie e l’egoismo, e che invita a rompere tutti i legami, assomiglia come una goccia d’acqua al discorso sullo “spazio vitale” tenuto nella Germania indebitata e disperata degli anni Trenta. Quando una società in crisi aderisce massicciamente e in modo irriflesso a un discorso di tipo paranoico in cui non si parla d’altro se non della necessità di proteggersi o di sopravvivere, arriva il momento in cui tale società si sente “libera” dai principi e dai divieti […] La barbarie bussa alla porta.2

8Abbiamo dunque bisogno di dare un senso alla condizione di insicurezza. Ma “l’uomo del progetto della modernità” che è entrato in crisi, è un’entità astratta riferibile in modo neutro al modello neoliberale, o ha una sua radice sessuata e un rapporto col modello di mascolinità? Non è proprio al centro della costruzione sociale del maschile la pressione a corrispondere a un modello mitico di autosufficienza, padronanza di sé e onnipotenza? Questo soggetto autosufficiente e artefice di se stesso, fondato sul disciplinamento del (proprio) corpo e sulla rimozione della propria radice relazionale, vulnerabile e parziale risulta una costruzione insostenibile che necessita continuamente di uno sforzo di approssimazione, che produce un dominio sull’altra ma anche una forma di alienazione.

9Ma cosa intendiamo per approccio paranoico?

10Come ho scritto, l’uso indiscriminato di categorie e linguaggi psicoanalitici per interpretare le dinamiche sociali mostra oggi tutta la sua ambiguità. Ma, per rispondere a questa domanda, torna utile un testo di Laura Bazzicalupo, che utilizza le categorie della psicoanalisi lacaniana per affrontare la categoria della paranoia in politica. La riflessione è interessante e complessa: correrò il rischio di stravolgerla per semplificarla e cogliere quello che mi interessa per un ragionamento sul maschile.

Nel nostro caso, non si individua una comunità affetta da paranoia o un individuo paranoico, ma una particolare relazione tra i poli dell’Immaginario, del Simbolico e del Reale, che dà luogo al modo d’essere paranoico. I tre poli in questione sono rilevanti per definire lo stile dell’identità politica […] il simbolico è l’ordine sociale del linguaggio e dei ruoli, dunque le norme sociali, […] l’Immaginario è l’ideologia, fantasy che sostiene l’investimento in un’appartenenza piuttosto che un’altra […] Infine il Reale […] viene distinto dalla realtà, perché è esattamente il residuo non simbolizzabile che fa scarto rispetto all’ordine simbolico e all’immaginario. […] Lo stile paranoico è quello che, nella relazione triadica con l’immaginario (l’ideologia, la fantasia che sostiene il legame sociale) e con il simbolico (organizzazione sociale, discorso del Padrone, del potere dominante), esattamente e totalmente non riconosce il Reale. [Fa riferimento a un] immaginario prodotto ideologicamente e a un significante che linguisticamente preclude una differente esperienza del Reale (“Aderire alla ‘lettera’ del simbolico, credere nell’immaginario o fantasy che lo sostiene come se non ci fossero residui”).3

11Dunque il nodo è il rapporto col Reale e soprattutto la distanza tra l’esperienza e le rappresentazioni disponibili, il simbolico di riferimento, l’immaginario dominante.

12Piegando questa riflessione al nostro ragionamento sulla mascolinità, possiamo dire che ricercare la corrispondenza a una autorappresentazione basata su un mito insostenibile di autosufficienza e di potenza, da un lato nega la nostra libertà di discostarci da quel modello, e dall’altro produce una torsione paranoica e distruttiva.

Reale è il soggetto stesso in quanto non coincidente con la propria auto rappresentazione, reale è ciò che non è riconosciuto perché perturbante. Nella relazione triadica, la paranoia lo forclude, [lo rimuove]. […] Per lo stile paranoico, […] c’è perciò adesione ai segni del sociale e dell’ideologico, alla loro letteralità con un conformismo totale, senza residui: tutti i dubbi, le incrinature vengono estroflesse. Non c’è profondità di campo e ombre nella definizione del sapere. La negazione della propria ambivalenza può essere feroce: essa viene gettata fuori, oggettivata nell’altro, la mediazione non è possibile perché manca il passaggio chiave che la rende possibile, non c’è simbolizzazione.

13Nel discorso politico le dinamiche paranoiche dominanti mostrano la loro carica distruttiva: il riferimento a un mito di autosufficienza e onnipotenza produce impotenza e depressione.

Siamo in un universo bioeconomico che si autorappresenta come luogo di scambi e di consumi e che è sorretto dall’immaginario mitico dell’autorealizzazione. […] Questa miscela esplosiva di narcisismo, senso di onnipotenza illimitata e segreta impotenza e depressione apre la via a fughe psicotiche nel godimento immediato, privo di simbolizzazione e sublimazione costruttiva, delle droghe o dell’espressione di violenza cieca e immediata.

14Qui l’assonanza con alcune modalità delle risposte maschili, individuali e culturalmente diffuse salta agli occhi. Il nodo di questa tensione è proprio la tendenza a prendere alla lettera il simbolico, inseguire l’impossibile corrispondenza a un riferimento simbolico identitario. E così anche quella “miscela esplosiva di narcisismo, senso di onnipotenza illimitata e segreta impotenza e depressione”, che per Bazzicalupo è l’esito psicotico del riferimento a un immaginario ideologico e a un significante che preclude una differente esperienza del Reale, evoca in modo esplicito alcune risposte maschili al cambiamento, “credere nell’immaginario o fantasy che lo sostiene come se non ci fossero residui”.

15Bazzicalupo evidenzia “il carattere psicotico, non articolato simbolicamente del gesto volto a saturare l’angoscia paranoica priva di un ‘discorso’ alternativo e una mediazione critica”.

La negatività – insopportabile al paranoico – è interna a ogni identità ed è la forma stessa della libertà [in quanto] si rivela la non coincidenza del soggetto con la soggettivazione simbolica identitaria.4

16Bazzicalupo, seguendo l’approccio lacaniano, attribuisce questa torsione paranoica all’evaporazione di quella norma paterna che interdice l’accesso al godimento senza limiti. Resterebbe così solo il padre osceno del godimento che “lancia la sua ingiunzione superegoica a godere”.

17Ma è la caduta di quel riferimento normativo l’origine di questa modalità paranoica e della torsione violenta dei comportamenti maschili? Non dovremmo andare alla radice e mettere in discussione proprio la rimozione della propria ambivalenza e il riferimento alla “lettera” del simbolico, al modello ideologico del soggetto padrone di sé?

18La causa di questa torsione paranoica e violenta non mi pare esclusivamente la perdita della funzione regolativa di una legge paterna capace di mediare tra godimento e limite della norma, ma la stessa costituzione originaria del simbolico di riferimento della soggettivazione maschile. Il carattere ideologico dell’immaginario di riferimento e l’assenza di rappresentazioni alternative impediscono un’elaborazione dell’esperienza del cambiamento che sia in grado di dare conto dell’ambivalenza della propria soggettività e, soprattutto, di produrre una differente esperienza di relazione con l’alterità: non come minacciosa entità distruttiva il cui riconoscimento pregiudica la propria integrità.

19Anche le analisi che ho già citato sulla “crisi del maschile” fanno riferimento alle categorie lacaniane: nel suo saggio Lieblang definisce la crisi della mascolinità come un costrutto discorsivo a priori che nulla dice della realtà e propone di considerarlo un significante dominante, cioè un significante che produce un ordine simbolico dove l’esperienza umana e la possibilità di fare esperienza della realtà sono predeterminate e quindi anche precluse dal linguaggio. Il significante lacaniano non descrive una qualità del soggetto, ma lo “qualifica”, cioè gli ascrive qualcosa.

20Le categorie di significante e significato, e le relazioni tra queste, hanno come riferimento la linguistica di Saussure5, una teoria della lingua come sistema di segni e come produzione sociale. Mentre però Saussure analizza il rapporto significante-significato, Lacan incentra l’attenzione sulla sbarra e quindi sulla resistenza che sfasa il significante rispetto al significato. Per Lacan questa costruzione non è un atto volontario e consapevole, ma anzi un processo di alienazione, una condizione, non irreversibile, che impedisce l’accesso alla realtà.

Il linguaggio semplifica l’oggetto designato riducendolo a un’unica caratteristica, […] inserisce l’oggetto in un campo di significato che è sostanzialmente estraneo a esso. Lacan, col suo concetto di Significante Dominante, pone in evidenza la natura essenzialmente violenta del linguaggio. Nel suo «discorso del Padrone» come primo discorso il Significante Dominante viene imposto con prepotenza.6

21Il riferimento a un significante dominante predetermina e quindi in parte impedisce l’accesso al Reale, e il linguaggio semplifica l’oggetto inserendolo in un campo che gli è estraneo. Possiamo allora considerare come la ricorrenza della coppia mascolinità-crisi e operi come significante dominante che ordina e predetermina l’esperienza maschile del cambiamento. Non si tratterebbe più di una forma più o meno adeguata di descrizione del processo di cambiamento, o di una semplice retorica per contrastare il cambiamento, ma di una costruzione discorsiva che produce una sfasatura nell’esperienza della realtà predeterminandola linguisticamente.

22Un elemento importante è che questa “sfasatura” tra Reale e Realtà, questo spazio di contraddizione tra Simbolico, inteso come ordine predeterminato linguisticamente, e Immaginario, produce una violenza sull’esperienza del soggetto, ma rappresenta anche uno spazio creativo e trasformativo per la produzione di differenti costruzioni linguistico-simboliche. La nostra esperienza, cioè, non è schiacciata sulla sua costruzione simbolica.

23Il tessuto simbolico è infatti movimentato, lacerato dal fatto che il soggetto, pur “determinato” simbolicamente e sostenuto in questa identificazione dall’immaginario, non coincide con questo processo di soggettivazione: è barrato. Come barrata, non rappresentabile in modo esaustivo è la società, mai coincidente con l’immagine che ha di stessa. È proprio questa non coincidenza, che si chiama Reale, che rende fallimentare ogni utopia di chiusura della società su se stessa e apre a uno spazio di conflitto e di cambiamento. Questa crepa strutturale nell’immagine della società impedisce che quest’ultima sia schiacciata sulla realtà empirica, aprendola invece ai contingenti tentativi della politica di ridefinirla sempre di nuovo, cercando di rappresentare ciò che vi era escluso7.

24Come è noto, il significante principale nel simbolico analizzato da Lacan è il Fallo. L’elemento organizzatore della sessualità umana non è l’organo genitale maschile, ma la rappresentazione costruita su questa parte anatomica del corpo dell’uomo.

25Scriveva Luisa Muraro:

Può esserci una forzatura in un ordine simbolico tale per cui di qualcosa in esso si rende conto imperfettamente e può esserci una forzatura nell’ordine sociale tale per cui alcuni si trovano mutilati per ciò di cui l’ordine simbolico non rende conto.8

26Ciò vale certamente per la soggettività femminile, ma potremmo considerare anche gli effetti di questa costruzione simbolica fallica sull’esperienza maschile. Osvaldo Pieroni mostra in che modo il simbolico fallico abbia un effetto alienante nell’esperienza maschile.

La mia impressione è che di fronte alla sessualità non soltanto le donne abbiano subito un millenario affronto e una continua offesa, ma che anche i maschi siano stati offesi, o meglio abbiano recato a se stessi offesa, da una mutilazione tremenda. Fatto oggetto del possesso virile il corpo femminile è stato sottomesso e violentato. Ma, fattosi possessore del corpo femminile, il maschio ha alienato da se stesso il proprio organo sessuale personificandolo in un alter astratto e incorporeo, che appare soltanto – come osserva Lacan– in uno specchio fuori dal corpo.
[È dunque necessario ritrovare] il corpo maschile oltre il simbolo che lo costruisce e lo ri-costruisce continuamente. Mettere in discussione il paradigma fallico. Proprio la separazione del corpo maschile dal simbolico di riferimento: la distinzione tra pene e Fallo. L’illusione fallica produce il maschio dominante come corpo generale, astratto disincarnato.9 [corsivo mio]

27Le espressioni distruttive, paranoiche delle reazioni maschili al cambiamento ci dicono dunque che cercare la corrispondenza a un simbolico nella sua letteralità incapace di evoluzione, si rivela un vicolo cieco e mostra la necessità di risignificare l’esperienza maschile.

28Non è la crisi del patriarcato a mettere in crisi gli uomini, ma è il tentativo di inseguirne i simboli a privare gli uomini di strumenti per ripensare se stessi e il proprio posto in un mondo in cambiamento. E non sarà la nostalgia della Legge paterna perduta a salvarci, ma, al contrario, la rottura con quell’ordine simbolico ormai inservibile.

Il limite: rinuncia frustrante o apertura di possibilità?

29Tra le ragioni del disorientamento maschile vengono richiamati due fatti apparentemente distinti. Il primo è la perdita da parte degli uomini della capacità virile di autocontrollo, di fare ordine, dominare le emozioni e affrontare le frustrazioni: una crisi di virilità.

30La seconda causa di smarrimento sarebbe invece l’emersione della libertà femminile, la necessità di confrontarsi con donne intraprendenti, libere, autonome, che competono con gli uomini su terreni tradizionali come il lavoro e, al tempo stesso, mettono in gioco il proprio desiderio e le proprie scelte nella sessualità e nelle relazioni. Il tramonto, insomma, di quel femminile oblativo, disponibile, che gli uomini conoscevano nelle relazioni affettive e nelle dinamiche della seduzione.

31Una parola chiave in questo passaggio può essere “limite”. Nell’ambivalenza di questa parola si gioca molto di questo passaggio degli uomini nel cambiamento e dell’esperienza che gli uomini ne fanno.

32C’è, come abbiamo visto, una rappresentazione che attribuisce la violenza, il disordine e il disorientamento maschile all’evaporazione di una capacità normativa del “principio maschile” che imponeva agli uomini un disciplinamento dei loro comportamenti, ma, più profondamente, delle proprie emozioni e dei propri desideri. Un’interdizione autoimposta che permette di andare oltre la pulsione, al soddisfacimento dei propri desideri in nome di un’ingiunzione etica al disciplinamento di sé.

33La capacità di accettare la frustrazione e la ferita sono proposte come “valori maschili” che i padri trasmettono ai figli ma anche, paternamente, alle donne.

34Questa lettura divide gli uomini in due: un desiderio bulimico, pulsionale, divorante, rappresentato come mera pulsione senza una storia e senza una forma socialmente costruita e, l’altra metà, l’esercizio di un controllo razionale sul proprio corpo e, dunque, sulla corporeità in generale. Ciò legittima un controllo e un dominio sulla corporeità femminile rappresentata come priva di questa attitudine al dominio di sé e priva di un desiderio autonomo e di una soggettività attiva.

35Questa costruzione, abbiamo visto, ha un prezzo: produce un’alienazione per gli uomini nel rapporto col proprio corpo, produce una sessualità schiacciata tra la paura dell’impotenza e l’immagine della violenza e del dominio, incapace della reciprocità di una relazione. Il gioco delle parti nella seduzione presuppone che non ci siano due desideri che si incontrano, ma l’esercizio del potere, della violenza, del denaro o dell’autorità per ottenere la disponibilità del corpo dell’altra.

36Uno scenario che disegna una grande miseria associata al potere e all’autorevolezza maschile.

37Ma questa costruzione ha anche un’altra implicazione che ha pesato profondamente nelle aspettative e nelle paure degli uomini. La rimozione sociale del desiderio e della soggettività femminile può essere riassunta nella madre e nella prostituta: due figure apparentemente opposte ma accumunate da un’idea di disponibilità femminile, di rimozione di un desiderio femminile autonomo e dall’attribuzione alle donne di una missione oblativa di accoglienza muta del nostro desiderio sessuale o del nostro bisogno di cura.

38Questa aspettativa è al tempo stesso rassicurante e minacciosa: la donna è lì dove ne hai bisogno e non andrà altrove portata dal suo desiderio. La madre fa sacrificio di sé per i figli, la prostituta prescinde dal proprio desiderio per essere disponibile alla nostra richiesta. Oltre la prostituta, la donna erotizzata propostaci dalla pubblicità è lì per rispondere al nostro desiderio, per sollecitarlo e soddisfarlo.

39Questo gioco delle parti è a fondamento del potere e del dominio maschile, ma richiama continuamente il fantasma di un potere femminile su di noi minaccioso e oscuro. Il potere della seduzione e il potere della cura. Un potere da cui emanciparsi, che nasconde, o un desiderio di fagocitarti e impedirti di essere autonomo, o la strumentalità di una donna che usa la seduzione per manipolarti, l’opportunismo femminile che fa leva sul tuo desiderio per ottenere quello che vuole. Queste rappresentazioni, come abbiamo visto, passano con declinazioni diverse dai saggi acculturati al luogo comune, alle rimostranze delle organizzazioni revansciste maschili fino alle interpretazioni autoassolutorie degli atti di violenza.

40Ma questo potere, questa minaccia, non nasce proprio dalla rimozione del desiderio femminile? Una madre che vive solo per prendersi cura e che fa di questo la propria ragione fino a negare l’autonomia del figlio. La donna che vive solo per sollecitare il desiderio maschile e che in questo desiderio trova conferma di sé, che non desidera te ma ciò che hai e rappresenti. Se pensi di dover usare il potere o il denaro per ottenere la disponibilità delle donne, le donne non desidereranno te, ma il tuo potere o il tuo denaro.

41E se le donne dispongono, tramite la cura o la seduzione, di un potere su di noi, entra in crisi un altro caposaldo della nostra identità: il miraggio dell’autosufficienza, la rimozione della vulnerabilità che ci fa credere di bastare a noi stessi e di essere noi il nostro unico fondamento. Se non ti allontani dalle gonne di tua madre, non diventerai mai un uomo, e se ti fai mettere il guinzaglio al collo da una donna perderai la tua libertà. Ma quando quella donna se ne va, scopri la tua vulnerabilità, e più in generale scopri che quell’immagine di soggetto padrone e artefice di se stesso è una finzione e una prigione che rimuove una parte irriducibile della tua vita e della tua esperienza, e ti ritrovi senza le risorse per vivere questo passaggio e senza le parole per esprimerlo, e senza la capacità di condividerlo fuori dai vincoli imposti dalla competizione-complicità maschile.

42Non si tratta, allora, della semplice “frustrazione” derivante dall’impossibilità di avere tutto e che ci viene proposto di gestire con i tradizionali dispositivi dell’autocontrollo maschile, dell’autoimposizione virile di un limite. È il crollo di un mondo, di un’idea di sé e di un’aspettativa sull’altra che ogni uomo ha condiviso.

43Ma allora, se ripercorriamo questa ricostruzione certamente un po’ schematica, quel secondo elemento che contribuirebbe allo smarrimento maschile non può rivelarsi una risorsa, un’opportunità? Mi riferisco all’emersione storica, e alla concreta espressione nelle nostre esperienze individuali, del desiderio e dell’autonomia femminile come opportunità di liberazione per gli uomini: il corpo maschile come scisso tra basso e alto, il sesso come controllo e dominio.

44Se il limite a cui riferirsi non fosse il divieto opposto dal Padre all’espressione del nostro bisogno compulsivo, ma invece l’assunzione di una parzialità, il riconoscimento dell’esistenza di un altro desiderio e un’altra soggettività, quella femminile?

45L’esperienza del limite sarebbe allora la scoperta di una soggettività altra, tradizionalmente rimossa: l’emersione nello spazio sociale e nelle relazioni di una soggettività femminile che rompe la complementarietà gerarchica tra i sessi.

46In questo caso il limite non è più un’esperienza frustrante, una rinuncia, ma un’esperienza che arricchisce le nostre vite.

47Non più costretti nel ruolo totalizzante di chi deve governare il mondo mostrando di essere capaci di governare se stessi, non schiacciati nel neutro, non nella solitudine di una sessualità autistica, non portati a dimenticarsi di sé per affermare la propria autorevolezza e per rispondere alle aspettative del mondo.

48Scoprire la propria parzialità vuol dire scoprire uno spazio di libertà e vivere una sessualità più ricca, scoprire uno sguardo di desiderio femminile su di noi che risignifica il corpo maschile. Scoprire un altro desiderio e scoprire che la cura non è solo una funzione femminile associata alla muta disponibilità, può aprire lo spazio a una diversa percezione e rappresentazione del corpo maschile, rompere con la miseria di una sessualità schiacciata sulla prestazione e sul possesso, con la miseria di una socialità schiacciata sulla competizione, il gregarismo conformista o il cameratismo anestetizzato. Può permetterci di pensare il corpo maschile come capace di cura e accoglienza. Riconoscere la propria non autosufficienza, la propria vulnerabilità non come “debolezza”, può produrre la scoperta della nostra radice relazionale, del nostro non nascere e morire separati, autonomi, ma del nascere da, vivere con ed essere fatti di tutte le relazioni che ci hanno attraversati.

49Il limite, insomma, che nasce dalla fine del dominio maschile, può rappresentare per gli uomini un’opportunità: una nuova esperienza di sé e del mondo.

Notes de bas de page

1 Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Milano, Feltrinelli, 2004, p. 21.

2 Ivi, p. 128.

3 Laura Bazzicalupo, Il cerchio della paranoia politica. Possibili linee di frattura, “Societamutamentopolitica”, vol. 3, n. 6, 2012, pp. 47-62.

4 Judith Butler, Ernesto Laclau, Slavoj Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza egemonia universalità, Roma Bari, Laterza, 2010, con un’introduzione all’edizione italiana di Laura Bazzicalupo.

5 Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale [1916], Bari, Laterza, 2009.

6 Slavoj Žižek, La violenza invisibile, Milano, Rizzoli, 2007.

7 Laura Bazzicalupo, Il cerchio della paranoia politica cit., p. 49.

8 Luisa Muraro, Maglia o uncinetto, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 39.

9 Osvaldo Pieroni, Pene d'amore. Alla ricerca del pene perduto cit., pp. 96, 117

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