La narrazione nel mare dei media
p. 133-142
Texte intégral
1Se sottraiamo il concetto di racconto alla dimensione (peraltro piuttosto impolverata) di genere letterario e lo accompagniamo mentre viaggia nel mare della comunicazione mediatica, vedremo (anzi, quotidianamente verifichiamo) che esso viene sottoposto a numerose trasformazioni; spesso la catena è così lunga da far perdere di vista il racconto d’origine. Uno dei casi più frequenti è il racconto cinematografico che molto spesso è tratto da un romanzo. A questo proposito, Hitchcock, quando gli venne chiesto perché non avesse mai scelto per un suo film un’opera letteraria di un certo spessore, rispose che se n’era sempre ben guardato e precisò con disarmante franchezza: «Quello che serve per fare un buon film è un romanzo mediocre con una trama che stia in piedi». Il grande maestro, che per troppi anni è stato considerato solo un grande artigiano del cinema, con questa pragmatica affermazione evoca, sia pure implicitamente, alcune questioni riguardanti la scrittura – anzi, due scritture, quella letteraria e quella cinematografica che nelle fasi preliminari alla realizzazione di un film vanno a convergere sullo stesso terreno di gioco ma che non possono coesistere; è necessario che una delle due – nel caso specifico quella letteraria – si ritragga, lasciando di sé soltanto lo scheletro sul quale il regista-sceneggiatore potrà compiere la riscrittura filmica con la massima libertà; un conto infatti è lavorare su Psycho, il romanzo di Robert Bloch, mentre ben altra impresa sarebbe sceneggiare Santuario, di Faulkner. Per restare nella metafora, si può scomporre e ricomporre lo scheletro in combinazioni innumerevoli, così come comporta ogni riscrittura filmica che pretenda di non essere semplicemente l’illustrazione dinamica di una vicenda. La storia del cinema, tuttavia, è ricca di riscritture che hanno affrontato, e a volte con ottimi risultati, i capolavori della narrativa (dunque smentendo, in qualche modo, la regola di Hitchcock); un ottimo esempio è Tom Jones, dal romanzo di Fielding, film del 1963 per il quale il regista Tony Richardson affidò la sceneggiatura a un autore teatrale del livello di Joe Orton. Nonostante non avesse grande pratica di linguaggio cinematografico (o forse proprio per questa ragione), Orton lavorò sul romanzo originale senza troppe reverenze e senza preoccuparsi di come avrebbe potuto adattare un classico romanzo settecentesco al gusto di un pubblico del xx secolo; non si fece neppure scrupolo di ignorare, per esempio, la scansione in capitoli che aveva fatto di questo romanzo un modello, una pietra miliare della narrativa del xviii secolo; da uomo di teatro qual era, Orton lavorò prevalentemente sui caratteri calandoli in un dialogo asciutto che evidenzia paradossi e contraddizioni: il risultato fu quello di una galleria di personaggi appena appena grotteschi, compresa la protagonista femminile, la bella Sophie, impersonata da una Susanna York, parodistica creatura ricca di grazie e così perfetta nel suo perbenismo sentimentale che il pubblico si chiedeva se tutte le prove che il Destino imponeva a Tom per conquistarla valessero davvero tutta quella fatica. Quanto al protagonista maschile, Tom, appunto, Orton ne aveva fatto uno di quei ragazzotti cockney così frequenti nelle sue commedie, e non a caso fu scelto Albert Finney che aveva appena interpretato un ragazzo di borgata in un film di Karel Reisz sulle periferie londinesi, Sabato sera, domenica mattina. Dal canto suo, il regista Richardson aveva lavorato sulla sceneggiatura ricostruendo un Settecento essenziale, non compiaciuto e, per così dire, traslucido, in modo che si potesse facilmente leggere, dietro quei costumi storicamente impeccabili, la scrittura, che era di matrice palesemente contemporanea; anche il ritmo che Richardson aveva impresso alla narrazione richiamava il cinema degli anni Sessanta, comprese alcune eleganti soluzioni sperimentali (in particolare alcuni “scavalcamenti di campo”) che realizzavano una semiosi perfetta sull’asse presente/passato; l’equilibrio o, se vogliamo, il continuo squilibrio del film permetteva al pubblico di stabilire una “distanza continuamente variabile” fra il romanzo originale e il racconto cinematografico. A proposito delle riscritture di questo genere, si evoca con troppa disinvoltura lo “straniamento”; il termine, estrapolato dall’apparato teorico brechtiano e quindi usato in modo improprio, sopravvive ormai come luogo comune per indicare sommariamente tutti quegli spettacoli che non si attengano a un’angusta filologia della messa in scena; peraltro il termine, anche se usato in senso brechtiano, conserva una sua rigidità militante che non favorisce la lettura di uno spettacolo come oggetto semiotico che comunica attraverso una molteplicità di segni in continua mutazione (la parola e il corpo degli attori, la scena, le luci, lo spazio, il pubblico, ecc.). La ricerca della contemporaneità perseguita “a tutti i costi” ha avuto il suo acme, per quanto riguarda il nostro teatro, negli anni Settanta, propiziata anche da un saggio di Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo. Come spesso accade, le questioni che in un saggio teorico trovano un’adeguata articolazione nella scrittura vengono facilmente semplificate quando si tratta di metterle in pratica, soprattutto se si tratta di pratica scenica. Kott si poneva una domanda legittima e in qualche modo doverosa: è possibile accostarsi a Shakespeare come a un contemporaneo senza falsare quei valori storici dai quali tuttavia non può prescindere la lettura di un testo poetico? Non è solo possibile, risponde l’autore, ma è questo l’unico modo di comprendere il grande drammaturgo elisabettiano. Molti registi italiani videro in quel saggio una sorta di ombrello critico sotto il quale si potevano, forse si dovevano compiere le attualizzazioni più drastiche: così i Greci del Troilo e Cressida divennero dei marines in tenuta di guerra, i giovani rivoluzionari romantici de I Masnadieri furono raffigurati come i terroristi di sinistra della Revolutionäre Zellen che compivano azioni oscure ed efferate nella Germania Occidentale; per non parlare poi del ripudio del costume in favore di abiti moderni, molto diffuso in quegli anni Settanta, sul modello, improvvisamente riscoperto, della cultura teatrale inglese. Tuttavia, gli appassionati attualizzatori di quegli anni non tenevano presente che nel teatro anglosassone la tradizione dell’abito moderno si sviluppa con una continuità senza strappi, basti vedere le stampe che riproducono gli allestimenti shakespeariani del xviii e del xix secolo, molte delle quali raffigurano scene e costumi rigorosamente realizzati sulla moda del tempo; si tratta insomma di un aggiornamento continuo, di una tradizione che coltiva una cultura del contemporaneo continuamente rinnovantesi e che da secoli accomuna i registi e il pubblico in un unico processo nel quale il mittente (il regista) e il destinatario (il pubblico) sono egualmente necessari. Mi sembra dunque che lo stesso termine di attualizzazione implichi una certa idea di restyling che ricorda gli anni in cui si affidavano vestiti e mobili polverosi alle sarte e ai falegnami di buona volontà perché li rendessero un po’ meno démodé. Una riscrittura, nel nostro caso scenica, che si affidi a un’unica chiave interpretativa finisce per essere un’illusoria trasposizione dell’opera originaria o, se vogliamo, una parafrasi (magari ingegnosa) che poggia su un’invenzione iniziale senza entrare nel merito della scrittura.
2Per tornare al concetto di “distanza variabile” al quale avevo accennato, credo che possa definire almeno sommariamente il mio lavoro drammaturgico degli ultimi anni. Volendo rappresentare visivamente questo lavoro, lo si può pensare come disposto inizialmente su due tracce, una contiene il testo originario, l’altra è destinata a ospitare quello ancora da scrivere.
3La dimensione a mio parare più adatta per queste riscritture è quella che alcuni definiscono del radioteatro; si tratta di una definizione approssimativa ma per il momento non ne circolano di migliori. Questa forma (o formula) nasce dalla mia esperienza della radio che in questi anni si è articolata su due piani, quello di autore e quello di docente di Linguaggio radiofonico; mi pareva, come docente, che il mio corso fosse troppo sbilanciato sulla teoria e che i miei studenti dovessero, per così dire, mettere le mani nel vivo del processo radiofonico: in pratica, che avessero bisogno di “fare radio”, ciò che significa misurarsi con la scrittura di un programma, la sua registrazione e la sua postproduzione (il taglio dei materiali registrati e la loro sonorizzazione). In un paio d’anni, intorno a un laboratorio che ufficialmente era dedicato al montaggio radiofonico si formò un piccolo gruppo di sceneggiatori e montatori; giunsero anche degli attori, giovani appena diplomati nelle scuole di recitazione di Torino. Parve logico, a quel punto, collaudare questa minuscola macchina produttiva anche al di fuori delle aule universitarie; fu dunque elaborato uno spettacolo scritto collettivamente, Rapsodia al buio. Il titolo l’avevano trovato i giovani autori ancora freschi di studi teorici sul linguaggio radiofonico: il buio faceva riferimento alla teoria di Rudolph Arnheim sulla radio come mezzo cieco; quanto a “Rapsodia”, parve a tutti che questo genere musicale, strutturato su un solo movimento e di carattere molto libero e variegato, si adattasse a quello spettacolo composto da una sequenza di scene eterogenee che si succedevano in uno studio radiofonico, immerse in una sorta di backstage che mostrava il lavorio affannoso degli autori e degli attori durante la messa in onda dello spettacolo stesso. In sintesi, una rappresentazione metateatrale con al centro la radio.
4Mi sono dilungato sui primi passi di questo gruppo, che oggi si chiama Radiospazio Teatro, non per amore di cronaca ma perché può essere interessante ripercorrere quella strada che porta dalla radio al teatro o, per meglio dire, a quella zona di mezzo collocata fra radio e teatro ove al momento ci troviamo a operare. Il punto di partenza è quel buio cui accennavo parlando di “Rapsodia”; nelle tenebre dello studio radiofonico i corpi perdono consistenza e si trasformano in voci; si tratta, potremmo dire, di un buio fertile nel quale la parola, con il suo corteo di intonazioni e di risonanze, acquista un potere ben maggiore di quello che la parola dell’attore esercita sul pubblico; infatti nella convenzione che regola i rapporti fra la scena e la platea, il pubblico è chiamato a fingere insieme all’attore: deve fingere di vedere, per esempio, i ciliegi di un giardino o un fiordo norvegese là dove l’occhio non scorge altro che un filo da bucato con appesi dei fiori di carta, oppure una catasta di sedie: segni stilizzati che rinviano a realtà esterne al teatro o, se vogliamo, che ricreano elementi di realtà calandoli in un’iconografia scenica; gli atti ermeneutici cui è chiamato lo spettatore comprendono anche l’interpretazione di quel sistema di segni che è una scenografia, intesa già da molti anni come componente dinamica dello spettacolo teatrale e non come ambientazione.
5Nella messa in scena radiofonica, lo spettacolo, annullando la sua fisicità, si radicalizza, la convenzione con lo spettatore-ascoltatore si rafforza: l’azione, scaturita da quel “nessun luogo collocato chissà dove” che è lo studio radiofonico si realizza soltanto nella mente di chi ascolta. «Siamo sulla riva del mare», recita la voce: è un enunciato che non comporta riscontri e non ammette repliche, la parola coincide con la cosa (mentale) che l’ascoltatore è capace di produrre in rapporto alla sua esperienza, alla sua cultura, al suo immaginario – e a seconda dell’intonazione dell’attore, quel mare apparirà come flagellato dal vento dell’inverno oppure mosso da un tiepido zefiro.
6Il radioteatro che pratichiamo è una sorta di corto circuito pericoloso; sintetizzando, potremmo definirlo come una doppia rinuncia: alla fascinosa complessità del linguaggio teatrale e anche a quel potere assoluto della parola che nasce dal buio. Sul nostro palcoscenico si ricrea in modo essenziale lo studio radiofonico, con gli attori che reggono il copione davanti ai microfoni, e una piccola postazione alla quale siede il regista con accanto un tecnico incaricato di governare le musiche e gli effetti sonori. Il mistero del buio radiofonico è profanato dalla luce e intorno alle voci si sono materializzati i corpi, ciascuno nella sua finitezza; dall’Arcano al Terrestre, ma un Terrestre disadorno, senza scenografie; soltanto qualche effetto di luce scandisce le sequenze forse alludendo agli stacchi di un cinema povero, delle origini.
7Un attore al microfono è idealmente legato da un laccio che gli concede un’assai limitata libertà di movimento; basta un passo troppo lungo all’indietro o di lato e la sua voce si perde. Tuttavia, nonostante questo vincolo, l’attore al microfono non può recitare solo con la voce: è impossibile intonare una battuta senza che s’inneschi una corrispondente mimica facciale; non solo, ma anche tutto il corpo viene messo in azione, nel gesto e nella postura; accesa la luce, il teatro ritorna ma ridotto alle sue componenti essenziali, la parola e il gesto. Tornando al nostro punto di partenza, si potrebbe dire che questo sistema comunicativo opera una sorta di riscrittura del linguaggio teatrale in un ambiente che riproduce il vuoto dello studio radiofonico; dal canto suo, la radio, privata del buio – il mistero che la impreziosiva – continua a mettere a disposizione dello spettacolo i suoi doni, le musiche, gli effetti sonori e soprattutto quell’artificio ricco di possibilità espressive che è la voce trasfigurata dal microfono. I due linguaggi, riportati alla loro essenzialità e combinati insieme sul palcoscenico, danno vita a un ibrido che vive in un equilibrio instabile e che oscilla fra il polo del vedere e quello del sentire.
8È il momento di dire che il radioteatro non è nato come esperimento di laboratorio né per il piacere tutto teorico di mettere a punto un modello drammaturgico, ma come strumento funzionale a una ricerca sulle possibilità di “usare” scenicamente l’opera letteraria senza rinunciare alle ragioni e ai modi del teatro; utilizzo questa espressione leggermente brutale perché sulla scena tutto diventa terribilmente concreto, pragmatico e anche un poco sbrigativo; i più alati capolavori della drammaturgia sono costretti a fare i conti con una macchina quanto mai concreta nella quale confluiscono legni, corde, scene, fondali, riflettori che si bruciano con grande facilità, attori svogliati… Per non parlare della rude concretezza del denaro necessario a produrre uno spettacolo. “Usare” il testo di un romanzo su un palcoscenico cercando, per quanto possibile, di riproporre lo spessore della sua scrittura, significa scorporarlo dall’habitat della pagina e sottoporlo a trazioni innaturali, a una verifica forzosa (il passaggio dalla parola scritta alla parola detta) e, nel nostro caso, costringerlo a combinarsi con un tessuto musicale: una riscrittura, insomma, che persegue una nuova coerenza, scenica più che filologica. Riandando alla “regola di Hitchcock” dalla quale eravamo partiti («Quello che serve per fare un film è un romanzo mediocre con una buona trama»), il nostro lavoro si orienta nella direzione opposta poiché uno degli obiettivi della messa in scena è proprio la scrittura narrativa proposta nella sua densità, alternata a scene dialogate. Credo che questi nuclei di letteratura appaiano inevitabilmente al pubblico come presenze estranee, e non senza ragione: a parte i classici, che vengono ciclicamente rimessi in scena, le novità distribuite in molti circuiti teatrali presentano un linguaggio che tende a modellarsi sul parlato quotidiano e su una drammaturgia improntata alla naturalezza, all’immediatezza nonché a trasparenti richiami all’attualità; non stupisce, dunque, che nella percezione dello spettatore questi frammenti letterari, residui dell’opera originaria provenienti da un mondo altro, appaiano come dei menhir disseminati su un sentiero che senza la loro incombente presenza sarebbe più agevole. E tuttavia, questi nuclei di natura linguistica affatto diversa finiscono per diventare essi stessi materiali teatrali nel momento in cui vengono proposti attraverso l’attore; diventano, estremizzando, “battute”, frammenti di un discorso che pur essendo monologico implica un interlocutore, e poco importa il fatto che questi non risponderà. Il trasferimento di un’opera letteraria dalla pagina alla scena, oltre ai mutamenti di cui ho detto, ne comporta uno radicale che potremmo definire la sostituzione della voce: quella del romanzo si frammenta e si moltiplica per il numero degli attori che agiscono in scena.
9Un esempio per tutti è Una buona nutrizione, di Gadda, che Radiospazio Teatro ha prodotto nel 2014. Il racconto è ambientato nel verde delle colline toscane, un angolo sperduto di mondo nel quale il brontolio della Seconda guerra mondiale imminente è appena percepibile. C’è una villa abitata da un terzetto madre-figlia-zia, e un pensionato femminile governato da una severa signora tedesca, madame Wedekind. Qui si snoda una esile trama: il mancato fidanzamento della giovane Lisa con Claudio, un ragazzone apparentemente inerte e malleabile che si rivelerà un abile doppiogiochista in amore. Nonostante l’ambiente aprico, il racconto viene circoscritto in uno spazio claustrofobico entro il quale si consuma il gioco sottile dei rapporti inespressi; la scenografia, che Gadda cura meticolosamente, è dominata dall’alloro che crea uno sprofondo di verde reso dinamico dall’uso frequente delle metafore:
Al di fuori, a frotte, i lauri si addensavano ad accerchiare la dimora degli uomini, a lambire i vetri verso cui tramontàno li sospinge, talvolta, e ne incurva la fronda.
E si direbbero cani assai belli, e un po’ inutili dopo spenta la caccia, che si raccolgano d’attorno al padrone, annusandogli a quando a quando le scarpe, e ne affisino la sicura identità1.
10Emergono personaggi tracciati da una penna a china ma dalla punta spessa che conferisce loro delle fisionomie espressionistiche – è questo uno dei tanti virtuosismi del repertorio gaddiano, esercitare una pressione leggerissima sulla pagina ma tracciando contorni ben marcati. Mentre dicevo personaggi, intendevo “teatrali”, dotati cioè di quella capacità di autorappresentarsi.
11Come il Baciccia, una sorta di schiavo-tuttofare della villa, risonante di reminiscenze della commedia cinquecentesca:
E il Baciccia a risciacquare un suo bigoncio, da dietro la grata della su’ prigione di sotterra pareva l’apostolo in vincoli: «Mammi-na!» Rifaceva il verso alla Lisa, prolungandolo smodatamente, poi, per quanto con roca voce e con genovesissima cantilena, alla mamma: «Dove sei? Dove sono le manine?» E le cameriere a sghignazzare, fra un tintinnio di forchette2.
12O il signor Claudio, silenzioso e metodico mangiatore, nonché pretendente alla mano della ragazza:
Si rifocillava, o, sì. Il medaglioncino, in un battibaleno, si era bell’e sottratto agli sguardi delle tre oblatrici: e tutte le patatine secolui. Saldamente tenuto da due diti, un pezzettin di pane faceva il giro del piatto; come diligente ramazza, nelle mani di uno spazzino, che recuperi insino all’ultimo frùstolo3.
13La galleria del personaggi è troppo lunga perché la si percorra fino in fondo; m’interessa piuttosto sottolineare il lavoro compiuto dagli attori sui personaggi, che è consistito nel rendere soggettiva la narrazione – dunque ripartendola in molti soggetti/personaggi. L’intento della mia regia era sostituire la lettura con la recitazione. L’impresa, resa piuttosto ardua dalle complesse articolazioni sintattiche della scrittura gaddiana, era tuttavia facilitata dai frequenti scarti linguistici e dalle improvvise mutazioni di registro che il testo propone continuamente. Il pastiche linguistico, che è il vero propellente di questa prosa, analizzato con l’attenzione che il musicista riserva allo spartito al quale si accosta per la prima volta, offre all’attore occasioni innumerevoli per un’esecuzione ricca di variazioni. Si potrebbe dire, con un paradosso registico forse un po’ cinico, che per recitare una prosa di Gadda non sono necessari attori fantasiosi ma semplicemente pronti ad assecondare le tante accensioni e l’avvicendarsi dei tanti scenari linguistici che il testo suggerisce.
14Dicevo, all’inizio, della “distanza continuamente variabile” che la regia di Richardson stabiliva nei confronti del romanzo originario di Fielding; questa soluzione può sembrare utile quando le due opere, quella che si sta costruendo e quella originale, sono lontane, separate dai secoli, dal contesto socioculturale, oltre che dalla sostanziale differenza dei linguaggi; io non la considero, tuttavia, una semplice (e abile) soluzione strategica, mi sembra piuttosto un’indicazione metodologica che permette di stabilire un dialogo continuo fra le due opere, che tende ad annullare la contrapposizione passato/presente per stabilire un flusso ricco di risonanze.
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