Quale romanzo?
p. 9-20
Texte intégral
1«Un roman est-il encore possible?», si chiedeva Philippe Forest in apertura del saggio dedicato ai rapporti tra il romanzo e il reale1. La risposta, ch’egli argomentava per l’intera durata di quel breve, densissimo testo – facendo suo per metterlo in discussione l’interdetto di Adorno relativo all’era del dopo-Storia – era positiva in quanto soggetta a condizione: «Oui, sans aucun doute», scriveva Forest. «Mais il faut ajouter aussitôt: le possible du roman ne se conçoit pas sans l’impossible du réel»2.
2Le Sette lezioni di teoria del romanzo qui raccolte, tenute dai relatori nell’arco di un anno accademico, il 2014-2015, per un ciclo da me organizzato nell’ambito dei lavori del gruppo di ricerca che coordino («Narrative autobiographical perspectives») in seno al Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Culture moderne dell’Università degli Studi di Torino e con il patrocinio di «Studi francesi», nascono dalla volontà di estendere il discorso a un prima che di un certo filone di narrativa vera si rivela necessaria premessa.
3«Le vrai roman, le roman vrai répond au réel. Mais il répond également du réel», scrive altrove lo stesso Forest3. «Laissant résonner dans l’espace du récit l’appel que ce réel adresse à chacun, le roman fait signe vers cet impossible par quoi l’individu envisage l’expérience exclusive d’une vérité répétée. En ce sens, pour le sujet qu’il suscite, le roman vrai ouvre bien la voie d’un retour vers ce réel où persiste et insiste tout le négatif de la condition humaine»4. In altri termini, il romanzo vero è, per Forest, il Romanzo dell’Io.
4Mi sono allora chiesta, nel varare il ciclo di lezioni ora qui raccolte, quali siano le caratteristiche del soggetto che parla in questo tipo di romanzo, e che cosa significhi in concreto per il suo autore rispondere all’appello impossibile del reale. Più a monte ancora, mi sono domandata che cosa si debba intendere per reale, e che rapporto ci sia tra questo reale, inevitabilmente caratterizzato in senso fenomenologico, e quello di cui si parlava un tempo, definendo realista il romanzo dell’Ottocento, quello – per intenderci – che si era soliti chiamare “alla Balzac”. Di questo filone di narrativa al cui proposito si torna a poter evocare un’istanza etica, ho sentito la necessità di andare a cercare le radici lontane, risalendo il sentiero a volte interrato del suo divenire.
5Ma poiché lo spunto iniziale delle mie riflessioni sta in quel piccolo saggio di Forest sopra citato – Le Roman, le réel – mi pare utile, prima di affrontare il percorso a ritroso che sondi la storia del genere, ragionare brevemente in merito a ciò che quel saggio contiene. Potremmo allora dire così: l’alternativa è tra una narrativa di consumo, mercato editoriale remunerativo e inoffensivo, e un romanzo del reale. Laddove reale non porta a realismo, inteso come quella scrittura ottocentesca che Breton fortemente odiava, ma al suo opposto. Se realismo è resoconto minuzioso della realtà, del suo possibile, romanzo del reale è infatti, al contrario, quello che mira a dire, del reale, l’impossibile. Ciò da cui si ha tendenza a distogliere lo sguardo, l’osceno – nel senso etimologico del termine: quello che si preferisce resti fuori dalla scena.
6La possibilità odierna di vita per un genere come quello del romanzo, infinitamente e reiteratamente dato per morto, risiede per Philippe Forest – ricordavo poco fa – nella sua capacità di rispondere all’appello del reale, o meglio dell’impossibile del reale. Nella sua capacità di farsi scrittura per l’esperienza estrema, quella cui è legata la nostra vera vita, emotiva e intellettuale, ma che il discorso sociale non integra per la sua scomodità. Sesso e morte, sintetizza per immagini Forest sulla scia di Georges Bataille.
7Critico militante, Philippe Forest – nato a Parigi nel 1962, oggi professore di letterature comparate all’Università di Nantes – si è fatto le ossa studiando l’avanguardia letteraria degli anni Sessanta, l’opera del suo maggiore esponente, Philippe Sollers, e tutto il movimento nato intorno alla rivista «Tel Quel» da lui fondata. Non è forse inutile ricordare che quella rivista si aprì nel 1960 con un primo numero che conteneva una dichiarazione d’intenti un po’ vaga ed eclettica. «Ce qu’il faut dire aujourd’hui, c’est que l’écriture n’est plus concevable sans une claire prévision de ses pouvoirs, un sang-froid à la mesure du chaos où elle s’éveille, une détermination qui mettra la poésie à la plus haute place de l’esprit. Tout le reste ne sera pas littérature»5. In quel primo numero Philippe Sollers pubblicò Requiem, consacrato ai funerali militari di un amico morto in Algeria, e testi di Francis Ponge e Claude Simon. Nella prima parte della sua esistenza, «Tel Quel» appoggiò il nouveau roman, Alain Robbe-Grillet e gli altri autori pubblicati all’epoca dalle Éditions de Minuit, e contemporaneamente si consacrò alla difesa e alla diffusione delle opere di autori come Ponge appunto, Antonin Artaud e Georges Bataille. Nel comitato di redazione sedettero presto, tra gli altri, Marcelin Pleynet, Denis Roche, la semiologa bulgara Julia Kristeva, con la quale Sollers si sarebbe sposato nel 1967. Nel 1982, in concomitanza con il passaggio di Sollers dalle Éditions du Seuil a Gallimard, l’avventura di «Tel Quel» finì, mentre si avviava quella de «L’Infini», pubblicata prima da Denoël, poi da Gallimard. Tuttora esce regolarmente dallo stesso editore. Allora, i numerosi avversari videro nella nuova rivista una sopravvivenza della vecchia e predissero una sua rapida scomparsa, che a trentatre anni di distanza sembra lungi dall’avverarsi. «L’Infini» si segnalò anzi da subito come una delle principali e più dinamiche riviste letterarie esistenti. In un noto testo del 1978 dedicato a Sollers6, Roland Barthes aveva sollecitato a vedere in lui lo scrittore e non ciò che le scelte politiche detestate o condivise avevano suscitato (era l’epoca in cui, revocando la propria fiducia al partito comunista, Sollers era entrato nella fase «maoista» del suo personale percorso, così chiamata un po’ impropriamente in ragione di un interesse molto accentuato per la Cina culminato in un importante viaggio cui partecipò lo stesso Barthes).
8Da storico di quella stagione7, Philippe Forest aveva già avviato con precoce maturità nella prima metà degli anni Novanta un suo discorso teorico sulle possibilità della narrativa contemporanea molto in sintonia con il lavoro degli autori studiati.
9Ed ecco che un’esperienza estrema, di morte, quella dolorosissima della figlia Pauline, a quattro anni, determinò in lui la necessità di un’altra scrittura. Due romanzi furono la sua personale risposta all’appello impossibile del reale. L’enfant éternel8 e Toute la nuit9. Si modellava, quella risposta, sul discorso di Georges Bataille intorno al romanzo e all’impossibile. Il punto di vista interno, dell’autore, unito strettamente a quello esterno, del lettore di romanzi altrui, determinò il precisarsi del pensiero di Forest sulla scelta da operare come soluzione alla sempre annunciata estinzione del genere narrativo.
10La conoscenza approfondita dell’opera di Philippe Sollers – che Forest aveva scelto come argomento di studio per il suo Dottorato di Ricerca, ottenuto il quale aveva ricavato, da una tesi corposissima in tre volumi secondo la consuetudine francese, un volume monografico di grande rigore critico10 – si rivelava intanto sempre più determinante nell’indirizzare il lavoro teorico e critico di Forest. Molto chiara è in proposito la prefazione da lui firmata per Vision à New York in occasione della ripresa del libro per la pubblicazione nei tascabili «Folio» di Gallimard11. Testo del 1981, edito all’epoca da Grasset & Fasquelle, è l’intervista di David Hayman – universitario americano estraneo alla vita letteraria francese e capace di uno sguardo libero da pregiudizi nei confronti di un’opera tanto esaltata quanto osteggiata – a un Sollers che qualche critico diceva essersi lasciato alle spalle la fase più propriamente legata allo sperimentalismo e all’avanguardia, per entrare in quella di creazione più personale. Fase comunque non meno nuova e provocatoria, e che avrebbe trovato in Portrait du joueur12 la prima completa realizzazione. Vision à New York contiene riflessioni di Sollers estremamente chiare sull’evoluzione in atto, che afferma assolutamente non di rottura né di rinnegamento, e Forest nel riproporre il libro a quasi vent’anni di distanza, nel 1998, insiste sul concetto di letteratura che emerge da quelle pagine. Riferendosi ai due libri di cui Sollers parla – l’ultimo uscito all’epoca, Paradis13, e quello che stava scrivendo, Femmes14 – Forest commenta: «Les deux livres disent le moment tournant de l’histoire qu’ils habitent et qui est encore le nôtre, vintg ans après. Le constat social et sexuel qui sert de base aux deux ouvrages est identique: il prend acte de la radicale séparation des sexes, de la réalité de fond d’un pouvoir matriarcal indissociable des formes les plus primitives et les plus permanentes de la religiosité, de la vaste et invisible tyrannie nouvelle qui met les moyens de la technique moderne (notamment dans le champ de la communication et de la procréation) au service d’un contrôle de plus en plus inflexible des expériences personnelles non intégrables, non rentabilisables à l’intérieur du système global. Tel que le met en lumière Vision à New York, le geste commun de Femmes et de Paradis consiste, hors de toute dévotion poétique aveugle aux enjeux réels, à rendre possible, dans et par une parole définie en fonction de toute une mémioire agissante du langage, ce que Sollers nomme alors le “drame de l’individuation”»15. Si tratta, spiega Forest, di quell’«expérience solitaire de liberté que, pour certains, réalise (à moins qu’elle ne la retranscrive ou qu’elle ne l’accompagne) la littérature»16.
11Riprendo, allora. Da un lato ci sono gli autori che inventano le storie, la cui abilità consiste nel congegnarle bene, scriverle in buona lingua, dopo averle affidate a personaggi accattivanti e persuasivi, non senza aver dosato con sapienza i sentimenti. Sono gli scrittori che si specializzano nei romanzi per i quali potrebbe valere il famoso incipit «la marquise sortit à cinq heures». Sentimentali essenzialmente, ma anche storici o polizieschi, sono romanzi destinati a un pubblico che cerca l’evasione in storie inventate, pubblico vasto e forte lettore. Questi sono gli autori che scrivono i best seller, avendone individuata la formula, e il sistema per guadagnarci. Forest non nasconde di avere poco interesse per questa scrittura, ciò non toglie che le riconosca il suo spazio. Dall’altro ci sono gli autori che non scrivono storie ma vita e nel farlo scoprono che il romanzo, la finzione narrativa che nasce dal racconto di certe esperienze, è l’unico luogo in cui l’io esiste.
12In questa fase della sua riflessione critica, Forest si concentra sul testo che porta in sé il racconto del proprio insorgere. «Le mouvement pensé des mots sur la page est déjà perpétuel et la parole vient le redoubler»17. I brani che sottolinea, in Vision à New York, sono quelli che lo evocano: «[…] la recherche d’une coïncidence aussi serrée que possible entre l’acte d’écriture et le récit; l’acte dictant le récit., le récit racontant l’acte […], le monde s’inscrivant et se lisant, le livre devenant monde […]» (Sollers su Drame – Seuil, 1965 – in Vision à New York)18. «J’ai commencé à entendre la réécriture du texte que j’étais en train de faire, à l’entendre d’une façon absolument cahotique, c’est-à-dire à voir des voix sortir petit à petit de tout ce travail de construction géométrique, comme si se levaient du texte des personnages vocaux qui commençaient à exiger la parole» (Sollers su Lois – Seuil, 1972 – in Vision à New York)19. «Je revois très bien le moment où, avec H., j’ai commencé à pouvoir disposer d’une beaucoup plus grande légèreté dans la façon dont se développaient non pas seulement les associations, mais l’ensemble de la scène, le roulement continu, l’individuation ambivalente, l’inscription de la lecture dans la récitation, tout cela condensé dans une sorte de glissement où je pouvais, à chaque instant, faire intervenir des choses de la vie la plus courante, de la vie la plus quotidienne, la plus banale, prise dans une dimension qui rejoignait, à travers une mythologie personnelle, le niveau en expansion d’une mythologie générale, générée par le rythme même de ce que j’écrivais» (Sollers su H. – Seuil, 1973 – in Vision à New York)20. «La littérature?, – scrive Forest sintetizzando. – Une expérience a lieu dans le texte et en raison du réel». E aggiunge: «Vision à New York nous fait entendre la façon dont cette expérience peut être dite loin de la parole convenue et rassassé dont la société enveloppe ordinairement l’acte d’écrire pour en faire circuler d’acceptables et monnayables contrefaçons»21.
13Assolutamente chiara in questa prima fase di elaborazione del pensiero critico di Forest è la centralità dell’esperienza nuda della scrittura: «Regard surplombant posé sur la fastidieuse et asphyxiante mécanique sociale, perception hallucinée du trou de néant ouvert parmi les phénomènes, entrée dans ce trop du temps où chaque détail habité recèle en lui l’irréfutable»22.
14Qui s’inserisce Le Roman, le réel. Testo di una conferenza tenuta a Nantes il 17 novembre 1998, organizzata dalle edizioni Pleins Feux che l’avrebbero pubblicato23, è un denso percorso di individuazione del romanzo inteso in quel modo, esperienza della nuda scrittura. È un testo di autodefinizione in cui Forest, nel tentativo di esporre a un pubblico sicuramente qualificato ma vario le proprie acquisizioni critiche, le chiarisce ulteriormente a se stesso precisandole. Molto opportunamente autore ed editore hanno corredato la conferenza, che costituisce la prima parte del libro in quella prima edizione, con la trascrizione del dibattito che la seguì. La seconda parte del volume infatti, «Domande e risposte», è parte integrante del processo di autodefinizione.
15I riferimenti di Forest, in questa fase, sono per lo più francesi. Il discorso è insomma di teoria del romanzo, ancora privo necessariamente di applicazioni pratiche.
16Il libro ha poi un seguito, una sorta di completamento, nel gemello Le Roman, le je24, in cui Forest traspone il pensiero più strettamente teorico in una sua esplicitazione pratica. È un passo successivo in cui il discorso critico viene usato per interpretare una zona della narrativa contemporanea che accomuna letterature varie e lontane, dalla francese alla giapponese all’americana, per tentare una lettura comparata, per esempio, dei romanzi di Alain Robbe-Grillet, Philip Roth e Kenzaburō Ōe.
17È una seconda fase della riflessione di Forest, quella in cui il romanzo del reale trova una sua definizione più specifica come roman du je. La forma narrativa che rende possibile l’esistenza di un romanzo contemporaneo, al di là e separatamente da quello commerciale, è la scrittura dell’io, nel senso che a questa definizione dà un’idea molto poco romantica e autocelebrativa dell’autobiografia. Il «Qui suis-je» con cui si apre Nadja di André Breton (1928) ne rappresenta fisicamente e simbolicamente il punto di partenza. Non romanzo, se valutato con i criteri critici tradizionali, Nadja può essere infatti considerato il libro in cui il je, l’io, ritorna centrale avendo però superato un guado. Nadja è un’autobiografia ma passata al vaglio del sospetto, cioè attraverso la lucida interrogazione della coscienza critica.
18Chiunque racconti la propria vita, inevitabilmente, dandole forma di racconto, la trasforma in finzione. «La verité a structure de fiction» diceva Jacques Lacan25. Criticamente, il passaggio attraverso la consapevolezza del gesto di sdoppiamento che l’autore fa nel mettere se stesso al centro del racconto ha avuto una sua prima formalizzazione con la creazione del termine “autofiction” da parte di Serge Doubrovsky26. Forest, che non aveva letto Doubrovsky prima di scrivere i suoi primi romanzi, si è visto attribuire dai recensori quella categoria e ne ha dedotto la funzionalità. Il fatto, sia pure con la cautela che impone il rischio di eccessiva generalizzazione dato da un concetto largo come quello di “autofiction”, ha condotto Forest a vedere la naturale evoluzione del suo primo troncone di lavoro nello studio di una delle possibili specializzazioni dell’autofinzione, il romanzo dell’io per l’appunto. Poiché la verità ha struttura di finzione, la finzione deve raddoppiarsi, diventare finzione di se stessa, se vuole sperare di ricondurre autore e lettore verso il luogo eventuale della verità.
19Se il neologismo di Doubrovsky era diacronicamente efficace, poteva cioè accogliere la scrittura di Dante e Rousseau – scrittura autobiografica che a differenza dell’autobiografia non respinge, al contrario fa sue le risorse del romanzesco – il romanzo del reale, o dell’io, inteso alla maniera di Forest, ha per inventori Breton, Aragon, Cendrars, Céline. In altri termini, sono loro gli inventori dell’io romanzesco moderno, affrancato da qualsiasi illusoria consolazione identitaria, e reso alla sua dimensione di miraggio.
20Di quale verità è investito allora il romanzo dell’io? Filosoficamente parlando, la verità risiede nell’accordo tra il linguaggio e il reale. Se il reale, come afferma Lacan con Bataille, si presenta come impossibile, cercare il vero – questo il romanzo per Forest dovrebbe fare – consiste nel cercare l’impossibile, l’insostenibile, il limite, il momento in cui il senso viene meno. È ciò che ha spinto Forest alla scrittura romanzesca. I suoi due romanzi, quelli pubblicati all’epoca, derivavano direttamente da un’esperienza da lui vissuta di quell’ordine. Solo il romanzo, ne era e ne resta convinto, può rispondere all’appello impossibile del reale, condurci verso l’indicibile di una verità da cui si preferisce di solito distogliere lo sguardo.
21Tenendo conto sempre, insiste peraltro Forest ogni volta che si esprime in merito, che l’io non ha mai interesse in sé, bensì in quanto supporto necessario di un’esperienza attraverso la quale il soggetto si trova restituito all’avventura sconvolgente del vivere e dell’amare. «Dans mes livres, je n’ai jamais parlé de moi», diceva anche Forest a proposito dei suoi due primi romanzi. «L’enfant éternel est un roman de l’amour paternel dont l’héroïne est une petite fille de quatre ans (atteinte d’une maladie mortelle). Toute la nuit est un roman de l’amour conjugal dont l’héroïne est une jeune femme (qui vient de perdre son enfant)». E spiegava, illuminando per noi la nozione di romanzo del reale, come può l’intimo diventare romanzo:
L’intime n’a rien de commun avec la contemplation satisfaisante de son moi. Pour qu’il ait un sens, il faut entendre le mot dans le sens radical que lui donnait, par exemple, Georges Bataille. L’intime est blessure au plus profond de soi et c’est par cette blessure que les êtres communiquent entre eux et se trouvent rendus à la beauté de la nuit […] Placer le roman du je sous le signe de l’hétérogène revient à le soustraire à une pensée de l’identité comme de l’altérité, à le dépsychologiser radicalement afin de ne plus voir en lui l’expression d’une personnalité mais l’expérience d’un impossible, d’un réel en fonction desquels doit être appréhendée la problématique catégorie du sujet27.
22Così, «si le roman français meurt – Forest prendeva allora a esempio la Francia, ma il discorso poteva e può riguardare le altre letterature – c’est d’avoir abusé de l’opium divertissant des histoires inoffensives. Mais il suffit d’une parole de vérité pour le réveiller, le rappeler à la vie dangereuse et merveilleuse du réel»28.
23Nelle sette lezioni ora raccolte, l’indagine teorica si riallaccia essenzialmente a questo discorso: la ricerca dell’individuazione di un ambito romanzesco. Il fulcro della riflessione sta nel cercare di cogliere quale sia la specificità, in quell’ambito, del rapporto con il reale.
24Per Céline, per Aragon, si vedrà, dato un reale inaccettabile, si delinea un rapporto di necessità (lezione di Philippe Forest). Per Balzac, reso evidente un reale molteplice, si evidenzia un rapporto non univoco (lezione di Mariolina Bertini). Risalendo alle origini della nozione di realismo, attribuendo a essa non già l’atteggiamento mimetico bensì quello traduttivo, si riesce a cogliere un abbozzarsi di distinzione tra questo e quello nel secolo xvii, laddove il genere narrativo breve pare differenziarsi dal romanzo per la sua maggiore adesione alla storia (lezione di Monica Pavesio). Mentre già, tramite la pratica di un precoce antiroman, si pongono le basi di quella che sarà la metanarrazione intesa come presa di coscienza del processo creativo (lezione di Laura Rescia). Il richiamo all’ordine lanciato da Cocteau e Radiguet illustrano poi un altro modo, diverso da quello a impianto surrealista, per coniugare l’immaginario e il reale (lezione di Pierangela Adinolfi). Così, il tuffo nel mare dei media consentirà di saggiare il test cui il romanzo viene sottoposto nel momento della sua trasposizione in altro linguaggio, l’effetto del suo fertile scontro con il reale di un adattamento sviscerante (lezione di Alberto Gozzi). E la violenza insita nel linguaggio che deve inventarsi per dire proprio – del romanzo – quel reale, riporterà l’obiettivo sul Viaggio al termine della notte, punto di partenza multiplo del nostro percorso (lezione di Roberta Sapino).
Buona lettura.
Torino, 30 giugno 2015
Notes de bas de page
1 Ph. Forest, Le Roman, le réel, in Le Roman, le réel et autres essais, Nantes, Éditions Cécile Defaut («Allaphbed» 3), 2007, pp. 19-107: 19.
2 Ibidem.
3 Id., Le Roman, le je, in Le Roman, le réel et autres essais cit., pp. 111-142: 142.
4 Ibidem.
5 «Tel Quel», 1, mars 1960, p. 3.
6 R. Barthes, Sollers écrivain, Paris, Seuil, 1978.
7 Ph. Forest, Histoire de «Tel Quel», Paris, Seuil («Fiction & Cie»), 1995.
8 Id., L’enfant éternel, Paris, Gallimard («L’Infini»), 1997. Da me tradotto in italiano con un titolo diverso: Tutti i bambini tranne uno, Padova, Alet, 2005. La scelta del ripristino di un titolo originale è stata concordata con l’autore e riprende parte di una citazione tratta da Peter Pan, testo di cui Forest utilizza brani vari, in esergo a ciascuno dei capitoli del libro. «Tutti i bambini tranne uno crescono», dice la frase intera, con cui inizia Peter Pan e che Forest cita all’inizio del suo romanzo. Era il primo titolo che aveva pensato per il libro, poi l’editore Gallimard aveva preferito L’enfant éternel, mallarmeano.
9 Id., Toute la nuit, Paris, Gallimard, 1999; trad. it. Per tutta la notte, a cura di D. Scarpa, Padova, Alet, 2006.
10 Id., Philippe Sollers, Paris, Seuil («Les Contemporains»), 1992.
11 Ph. Sollers, Vision à New York, Paris, Gallimard («Folio»), 1998.
12 Id., Portrait du joueur, Paris, Gallimard, 1985.
13 Id., Paradis, Paris, Seuil, 1981.
14 Id., Femmes, Paris, Gallimard, 1983.
15 Ph. Forest, Préface, in Ph. Sollers, Vision à New York cit., p. 11.
16 Ibidem.
17 Ivi, p. 13.
18 Ph. Sollers, Vision à New York cit., p. 103.
19 Ivi, p. 110.
20 Ivi, p. 153.
21 Ph. Forest, Préface cit., p. 14.
22 Ivi, p. 17.
23 Il testo esiste in italiano, da me tradotto a partire da quella prima edizione francese (Le Roman, le réel, Nantes, Éd. Pleins Feux, 1999): Ph. Forest, Il romanzo, il reale. Un romanzo è ancora possibile?, Milano, Rizzoli («Holden Maps»), 2003. La raccolta di saggi che oggi contiene il testo originario in una veste riveduta e ampliata, Le Roman, le réel et autres essais cit. è in corso di traduzione, a me affidata, per Nonostante Edizioni (Trento), e sarà pubblicata nel settembre 2016.
24 Anche questo edito originariamente da Pleins Feux (Le Roman, le je, Nantes, 2001) e da me tradotto in italiano: Il romanzo, l’io. Nella vertigine dell’identità, Milano, Rizzoli («Holden Maps») 2004. Ora confluito nella raccolta Le Roman, le réel et autres essais cit., ne costituisce la seconda sezione, con il titolo «Le Roman du Je», pp. 111-199.
25 J. Lacan, Lituraterre [1971], in Autres Écrits, Paris, Seuil, 2001, p. 11.
26 Lo usò per definire il proprio romanzo Fils (Paris, Galilée, 1977) nell’«Avant-propos» di un saggio intitolato Autobiographiques: de Corneille à Sartre, Paris, PUF, 1988.
27 Ph. Forest, Le Roman, le réel et autres essais cit. p. 139.
28 Intervista di Audrey Cluzel, marzo 2001, http://www.manuscrit.com.
Auteur

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