One-size-fits-all
p. 25-28
Texte intégral
1Parlare di amore e odio per l’Europa non mi pare sia molto diverso dal parlare di amore e odio per le scarpe che indossiamo. Possiamo definire le scarpe comode o scomode. Ma possiamo amarle o odiarle? Gli psicoanalisti, e non solo loro, subito diranno: certo che possiamo. È cosa ovvia. Ammetterete, tuttavia, che amare delle scarpe scomode sarebbe il segno di un problema da risolvere, non della soluzione a un problema. Dunque, la domanda da cui prendere le mosse è: l’Europa è una scarpa fatta bene o fatta male? Non resta che chiederlo al calzolaio – un economista in questo caso, più che uno psicoanalista. Siccome non voglio essere tacciato di populismo, citerò un calzolaio notoriamente avverso al populismo. Ecco alcune frasi che costui ha detto nella lingua che parla di solito quando si ritrova tra colleghi economisti, l’inglese, una lingua in cui può dire cose che non può dire quando fa politica da noi, in italiano. «Il maggior problema dell’Europa è l’Europa… I populisti segnalano i problemi giusti, non le soluzioni giuste, certo, ma i problemi giusti sì… Quanti votano per i populisti non sono i disonesti, sono perlopiù gli onesti, i nostri concittadini, che sono realmente preoccupati per il futuro dei loro figli, per il lavoro, per la sicurezza. Queste non sono preoccupazioni campate per aria, e in veste di politici dobbiamo prenderle molto sul serio… Come politici, dobbiamo offrire una visione, che per ora manca in Europa… Trump e la Brexit esprimono una sfida, una visione… In Europa, dispiace dirlo, non c’è una visione». Firmato: Pier Carlo Padoan1.
2Che gli assetti economico-monetari creati dai trattati europei fossero destinati a produrre gravi squilibri tra i paesi membri e sconquassi sociali altrettanto gravi in molti di questi paesi, era stato predetto da una sfilza di premi Nobel in economia, e continua a essere ribadito dalla maggior parte degli studiosi che si sono calati sul problema – anche se non dai luminari che ci intrattengono quotidianamente sulle pagine dei giornali e sugli schermi della televisione. Ma questo è un problema a parte. Che la si ami o la si odi, la scarpa Europa non è il massimo della comodità. Non a caso, l’unico paese in cui se ne parla con chiarezza è quello che ha fatto della comodità una massima di vita, la Germania. Da quando l’euro è entrato in vigore, la Germania si è trasformata da grande malato d’Europa che era vent’anni fa, nella locomotiva d’Europa che è oggi. Ha tratto enormi benefici dalla moneta comune e dal mercato unico. Ha poi reso ancor più competitiva la sua economia con le riforme Hartz del mercato del lavoro, realizzate dal governo Schröder. Ma ha finito, col tempo, per adagiarsi troppo in questa situazione di comodo. A detta dei più, infatti, per appianare gli attuali squilibri socio-economici e rendere sostenibile la moneta comune, sarebbe necessario mettere capo rapidamente a una politica fiscale centralizzata, a un governo economico dell’Europa, in grado di realizzare massicci (dico bene: massicci) trasferimenti di risorse dal paese locomotiva, la Germania, ai paesi al traino, tipo la Grecia, il Portogallo, o persino l’Italia. È a questo che Padoan fa riferimento quando parla dell’assenza di una “visione” in Europa: al ruolo della Germania. Ed è a questo che ha fatto ripetutamente riferimento Angela Merkel negli ultimi mesi, spronando i tedeschi ad assumersi maggiori responsabilità sulla scena europea e internazionale. Siccome, di nuovo, non voglio essere tacciato di populismo, citerò l’opinione di due noti intellettuali tedeschi a riguardo. Il primo è Dieter Grimm: «Quando fu creata l’unione monetaria nel 1992, tutti gli economisti sapevano che una unione monetaria tra paesi di diversa statura economica poteva funzionare solo se la politica economica veniva messa anch’essa in comune, o se i paesi più forti erano disposti a pagare i debiti dei paesi più deboli. I politici ignorarono l’avvertimento. La crisi finanziaria ha dimostrato che gli esperti di economia avevano ragione»2. Il secondo è il filosofo continentale che più ha spinto per l’integrazione europea, Jürgen Habermas: «Il problema è stato sicuramente che il governo federale della Germania non ha dimostrato né il talento né l’esperienza di una vera potenza egemonica. Se lo avesse fatto, avrebbe capito che non è possibile mantenere unita l’Europa senza tener conto degli interessi degli altri paesi. Negli ultimi vent’anni, la repubblica federale ha agito sempre più come una potenza nazionalista in materia di economia»3. Dalle parole di Habermas già si intuisce che si può essere nazionalisti anche senza essere populisti. Chi potrebbe accusare infatti Merkel di populismo, visto che è lei stessa ad avere introdotto nel dibattito europeo questa categoria, questa etichetta stigmatizzante (siamo ad agosto del 2012)?
3Ma cosa vuol dire essere nazionalisti alla resa dei conti? E chi è nazionalista: il governo federale della Germania, come Habermas afferma, oppure il popolo tedesco? La domanda è cruciale per il nostro destino, e un piccolo esperimento mentale può aiutare a orientarsi in questo pantano. Domando: imprestereste (non voglio esagerare dicendo come dovrei: regalereste) parte dei vostri soldi a un parente stretto, per esempio un genitore o un figlio? Di solito, la risposta è sì. Ora chiedo: imprestereste parte dei vostri soldi a un amico o conoscente? In questo caso, la risposta è “ni” (cioè forse). Infine chiedo: imprestereste parte dei vostri soldi a uno sconosciuto che non avete mai incontrato né, tantomeno, frequentato? Qui, la risposta è no. Non lo fareste nemmeno se un raffinato filosofo, diciamo Habermas, provasse a spiegarvi razionalmente che dopo tutto vi conviene. Non basterebbe, e non è bastato in Germania fino a ora. Ed ecco che il mistero del nazionalismo tedesco, e di tutti i nazionalismi che ne sono conseguiti a mo’ di reazione, comincia a essere, non dico risolto, ma meno impenetrabile. Le nazioni sono come le famiglie. In esse vigono vincoli di solidarietà che rendono possibile la condivisione di taluni beni. Tali vincoli sono vincoli storici, che definiscono e circoscrivono una certa comunità (Fichte, a inizio Ottocento, li chiamò innere Grenzen, “confini interni”). Non sono vincoli che possano essere cancellati di punto in bianco da un governo. Sono semmai vincoli che, essi sì, cancellano i governi, qualora questi ultimi si azzardino a metterli in discussione. Provai a spiegarlo, anni fa, a un leader politico italiano, che replicò: i tedeschi prima o poi capiranno. Sì, ma cosa?
4Se apriamo la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 23 dicembre 2018, vi troviamo un articolo rivelatore di ciò che un numero crescente di tedeschi sta capendo e vuole sentirsi dire. Titolo: L’Italia deve pensare a un’uscita dall’euro? Risposta dell’autore: sì. Ma non si tratta del cugino tedesco di Matteo Salvini. L’autore è il direttore del dipartimento di scienze sociali del Max Planck Institut di Berlino, una delle più prestigiose istituzioni scientifiche in Europa. Il suo nome è Lucio Baccaro, e il fatto che pochi italiani sappiano chi è questo nostro concittadino dimostra solo il livello del dibattito pubblico in questo paese. Baccaro è uno di coloro che si sono occupati seriamente del problema Europa. Sei mesi prima, nel corso di un’intervista rilasciata a un’altra testata tedesca, aveva già spiegato il suo punto di vista: «Bisognerebbe ammettere che le economie dell’area dell’euro sono troppo diverse per una pacifica convivenza. Ecco perché, infine, sarebbe necessario negoziare i termini per un divorzio consensuale. Quest’ultimo dovrebbe essere progettato in modo che in seguito i partner possano continuare a parlarsi». Al che l’intervistatore aveva replicato: «Se l’euro fallisce, allora l’Europa fallisce». E a Baccaro di concludere: «Penso di aver chiarito che quello che potrebbe crollare è l’euro e, si spera, non l’Europa. In effetti, siamo a un punto critico. Dobbiamo assolutamente separare l’idea dell’Europa dalla realtà concreta dell’euro. Il fallimento dell’euro, se dovesse arrivare, non deve portare al fallimento dell’Europa»4.
5Ce n’è abbastanza, mi pare, per intuire che il problema non è amare o odiare l’Europa. Il problema è che la scarpa è scomoda, e la dottrina one-size-fits-all, una taglia per tutte le economie o per tutti i piedi, non può funzionare – a meno di non credere nell’inverosimile, ossia che i tedeschi accettino di regalare scarpe nuove ai greci o agli italiani. Mettiamola così per terminare. Immaginate che mi metta a distribuire scarpe a una gran quantità di persone, tutte invariabilmente di taglia 38. Dopo di che immaginate che dica a queste persone: andiamo a farci una passeggiata. Immaginate infine che ai primi lamenti di qualcuno, io risponda: cammina, cammina, vedrai che il piede si abitua. Non mi stupirei se questo qualcuno cominciasse a innervosirsi e ad accusare, magari, un estraneo che gli sta accanto di avere preso le scarpe che toccavano a lui. Ma il suo nervosismo, ovviamente, non sarebbe la causa dei piedi gonfi. Crederlo sarebbe come credere che le nevrosi di guerra siano la causa della guerra. Non voglio essere frainteso, ci sono tanti compiti che gli psicoanalisti potrebbero svolgere in questo momento. Per fare un solo esempio, gli psicoanalisti potrebbero lanciare un monito ai politici, rivelando loro un segreto del mestiere: squalificare le espressioni di disagio, o cercare addirittura di soffocarlo, che lo si faccia a colpi di elettroshock in un ospedale o di manganello sulla pubblica piazza, non porta da nessuna parte. Produce solo ulteriori traumi, che dovranno essere elaborati in seguito.
Notes de bas de page
1 P.C. Padoan, Middle Class Crisis forms Populism, Davos, 2017.
2 D. Grimm, Europe in Hard Times. A conversation with Dieter Grimm and Michael Wilkinson, “Ordines”, 1, 2018.
3 J. Habermas, Por Dios, nada de gobernantes filósofos!, “El Paìs”, 25 aprile 2018.
4 L. Baccaro, Das Seil kann reißen, wenn man es zu straff spannt, “Die Zeit”, 13 giugno 2018.
Auteur
Professore associato di Filosofia Morale all’Università di Salerno. Tra i suoi libri: Introduzione a Lacan (2003), Giochi di potere (2007), La vita, un’invenzione recente (2010)

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